20

Il giardino dell’attesa. Il luogo tranquillo e radioso davanti alle porte celesti. Un luogo da cui le anime ritornano saltuariamente, quando la morte le conduce lì, e si sentono dire che non è ancora il momento e che possono tornare a casa.

In lontananza, sotto il cielo scintillante color cobalto, vidi i morti recenti accolti dai morti più anziani. Un assembramento dopo l’altro. Vidi gli abbracci, sentii le esclamazioni. Con la coda dell’occhio vidi le mura del paradiso dall’altezza vertiginosa e le sue porte. Stavolta vidi gli angeli, meno solidi di tutto il resto, un coro dopo l’altro, attraversare i cieli, liberamente e calandosi a loro piacimento tra la ressa di mortali che attraversava il ponte. Passando dalla visibilità all’invisibilità e viceversa, gli angeli si spostavano, osservavano, salivano armoniosamente per svanire nell’azzurro infinito del cielo.

I suoni del paradiso, che giungevano da dietro le mura, erano fiochi eppure dolorosamente seducenti. Potevo chiudere gli oc­chi e vedere quasi i colori zaffirini! Tutti i canti avevano lo stesso ritornello: «Entrate, venite, entrate, unitevi a noi. Non è più il caos. Questo è il paradiso».

Io però mi trovavo lontano da tutto ciò, in una piccola vallata. Ero seduto tra i fiori selvatici, minuscoli fiori selvatici bianchi e gialli, sulla riva erbosa del ruscello che ogni anima attraversava per entrare in paradiso, solo che lì sembrava un ruscello qualun­que, magnifico e dalla corrente impetuosa. O, meglio, cantava un canto che — dopo fumo e guerra, fuliggine e sangue, tanfo e dolo­re — diceva: «Tutti i ruscelli sono splendidi come questo».

L’acqua cantava con una moltitudine di voci mentre scorreva sulle rocce e giù per minuscole gole, e saliva improvvisamente su rilievi del terreno, tanto che avrebbe potuto ricadere con una mescolanza di fuga e canone. E intanto l’erba chinava il capo per guardare.

Io ero appoggiato al tronco di un albero, quale potrebbe esse­re il pesco se restasse sempre in fiore, con fiori e frutti, così da non esser mai privo di nessuno dei due, e i rami si piegavano verso terra, non in segno di sottomissione bensì di ricchezza e fra­granza, in segno di offerta, a esprimere la fusione di due cicli in un’eterna abbondanza. Più in alto, tra i petali fluttuanti, la cui profusione sembrava inesauribile e mai allarmante, vidi il fugace movimento di minuscoli uccelli. E, dietro, angeli e angeli e ange­li, come se fossero fatti di aria, gli spiriti leggeri, luminosi e scin­tillanti così fiochi da svanire, di tanto in tanto, in un respiro bril­lante del cielo.

Il paradiso degli affreschi; il paradiso dei mosaici. Solo che nessuna forma d’arte può eguagliarlo. Interrogate coloro che so­no venuti e andati; coloro il cui cuore si è fermato su un tavolo operatorio, tanto che le loro anime sono volate in questo giardi­no e poi sono state ricondotte giù nella carne eloquente. Niente può emularlo.

L’aria fresca e dolce mi circondava, rimuovendo piano, uno strato dopo l’altro, la fuliggine e il sudiciume che avevano impre­gnato la mia giacca e la mia camicia. All’improvviso, come se tor­nassi alla vita destandomi da un incubo, infilai una mano sotto la giacca ed estrassi il velo. Lo spiegai e lo tenni sollevato, stringen­done due bordi.

Il viso impresso a fuoco su di esso, gli occhi scuri che mi fissa­vano, il sangue ancora di un rosso brillante, la pelle dalla sfuma­tura perfetta, la profondità quasi olografica, anche se l’intera espressione si muoveva leggermente mentre il velo si agitava nel­la brezza. Nulla era stato macchiato, lacerato o perso.

Mi sentii boccheggiare, e il mio cuore accelerò pericolosa­mente i battiti. Il calore m’inondò le guance.

Gli occhi castani guardavano fisso, come avevano fatto in quel momento, evitando di chiudersi per la soffice stoffa finemente intessuta. Avvicinai a me il velo, poi lo piegai di nuovo, quasi in preda al panico, e stavolta me lo premetti sulla pelle, sotto la ca­micia. Mi sforzai d’infilare tutti i bottoni nelle rispettive asole. La mia camicia era impeccabile, mentre la giacca era sudicia, ben­ché intatta, e tutti i bottoni erano scomparsi, persino quelli che avevano ornato le maniche, quelli che non svolgevano nessuna funzione pratica, ma erano soltanto decorativi. Mi guardai le scarpe: erano rotte e lacere, quasi a brandelli. Quanto sembravano strane, così diverse da qualunque cosa io avessi visto negli ul­timi tempi, fatte di pelle tanto elegante.

Alcuni petali mi caddero tra i capelli. Portai una mano alla te­sta e mi feci cadere sui pantaloni e sulle scarpe una piccola piog­gia di petali, rosa e bianchi.

«Memnoch!» esclamai all’improvviso. Mi guardai intorno. Dov’era? Ero rimasto solo? Molto più in là, la processione di anime felici attraversava il ponte. Le porte si aprivano e si chiu­devano oppure era soltanto un’illusione?

Guardai a sinistra, verso una macchia di ulivi, e là sotto vidi una figura in piedi che all’inizio non riconobbi; poi mi accorsi che era Memnoch, nelle sue sembianze di Uomo Comune. Sem­brava calmissimo, mi guardava, con espressione fissa e tetra; poi l’immagine cominciò a crescere e ad ampliarsi, spuntarono le sue enormi ali nere, le storte zampe caprine e gli zoccoli fessi, e il vi­so angelico scintillò come se fosse fatto di vivo marmo nero. Memnoch, il mio Memnoch, il Memnoch che conoscevo, abbi­gliato ancora una volta come il Demonio.

Non opposi resistenza, non mi coprii il viso; anzi, esaminai i dettagli del suo torace coperto, il modo in cui il tessuto scendeva sopra le orribili zampe pelose. Gli zoccoli affondavano nel terre­no sotto di lui, ma le mani e le braccia erano le sue bellissime ma­ni e braccia; i capelli erano la sua criniera fluente, corvina però. E in tutto il giardino lui rappresentava l’unica assenza totale di co­lore, era opaco, o almeno visibile per me, apparentemente solido.

«La discussione è davvero semplice», disse. «Hai qualche difficoltà a comprenderla, adesso?»

Le sue ali nere si accostarono al corpo, abbracciandolo, le estremità inferiori arcuate, accanto agli zoccoli, per non striscia­re sul terreno. Si avvicinò a me, con orribile incedere animalesco che trasportava torace e testa perfetti, un essere zoppicante, inse­rito a forza in una concezione umana del male.

«Hai ragione», ammise, sedendosi con lentezza, quasi dolo­rosamente, le ali che ancora una volta svanivano perché altri­menti non avrebbe potuto sedersi; e lì rimase, il dio con sem­bianze caprine che mi guardava in cagnesco, i capelli arruffati ma il viso sereno come sempre, non certo più severo, non più dolce, non più saggio o più crudele, perché era scolpito nel nero anziché nell’immagine scintillante della carne. Riprese a parlare: «Vedi, ecco cosa ha fatto Lui, in realtà. Ha continuato a ripeter­mi: ‘Memnoch, nell’universo tutto viene usato... utilizzato... ca­pisci?’ Ed è sceso sulla terra, ha sofferto, è morto ed è risorto per consacrare la sofferenza umana, per serbarla come un mezzo verso un fine; il fine era l’illuminazione, la superiorità dell’anima. Ma il mito del Dio sofferente e morente — che si parli del Tammuz sumero o del Dioniso greco o di qualsiasi altra divinità del mondo, la cui morte e smembramento precedettero la Creazione — fu un’idea umana! Un’idea concepita da umani che non riusci­vano a immaginare una Creazione dal nulla, una Creazione che non comportasse un sacrificio. Il Dio Morente che partorisce l’uomo fu un’idea precoce nelle menti di quelli troppo primitivi per poter concepire qualcosa di assoluto e perfetto. Così Lui — Dio Incarnato — s’innestò su miti umani che tentavano di spiega­re le cose come se avessero un significato, quando forse non è af­fatto così.»

«Sì.»

«Dove fu il suo sacrificio nel creare il mondo?» chiese Mem­noch. «Lui non è Tiamat assassinato da Marduk, non è Osiride fatto a pezzi! A cosa ha rinunciato Dio Onnipotente per creare l’universo materiale? Non ricordo che gli sia stato tolto niente. È vero, l’universo scaturì da Lui, ma non ricordo che Lui sia stato sminuito o menomato o reso inferiore dall’atto della creazione fi­sica! Dopo la creazione dei pianeti e delle stelle era lo stesso Dio! Semmai ne venne accresciuto, o almeno così sembrò agli angeli, mentre cantavano di nuovi e variegati aspetti della sua Creazio­ne. La sua vera natura come Creatore crebbe e si espanse nelle nostre percezioni, mentre l’evoluzione imboccava la strada di Dio. Ma quando Lui venne come Dio Incarnato emulò dei miti che gli uomini avevano inventato per cercare di santificare la sof­ferenza, per cercare di dire che la storia non è orrore ma ha un si­gnificato. S’immerse nella religione creata dall’uomo e portò la sua grazia divina, santificò la sofferenza con la sua morte, mentre non era stata santificata nella sua Creazione, capisci?»

«Fu una creazione senza sangue e senza sacrificio», considerai. La mia voce era soffocata, ma la mia mente non era mai stata più pronta. «Ecco cosa stai dicendo. Tuttavia Lui crede che la sofferenza sia sacrosanta o possa esserlo. Niente va sprecato. Tutto viene usato.»

«Sì. Però il mio punto di vista è che Lui prese l’orribile difetto nel suo cosmo — dolore umano, infelicità, la capacità di patire in­dicibili ingiustizie — e gli trovò un posto, sfruttando le peggiori superstizioni degli uomini.»

«Ma quando la gente muore cosa succede? Chi crede in Lui trova il tunnel, la luce e i suoi cari?»

«Nei luoghi in cui hanno vissuto in pace e prosperità, di soli­to sì. Salgono direttamente in paradiso senza odio né rancore. Così come alcuni che non credono affatto in Lui o nei suoi insegnamenti.»

«Perché anche loro sono illuminati.»

«Sì. E ciò lo gratifica ed espande il suo paradiso; il paradiso è di continuo accresciuto e arricchito da queste nuove anime pro­venienti da ogni parte del mondo.»

«Ma anche l’inferno è pieno di anime.»

«L’inferno supera talmente le dimensioni del paradiso da ri­sultare grottesco. Esiste forse una zona del pianeta da Lui gover­nata in cui non ci siano stati sacrificio di sé, ingiustizia, persecu­zione, tortura e guerra? I miei allievi confusi e amareggiati au­mentano di giorno in giorno. Ci sono epoche caratterizzate da tali privazioni e orrori che ben poche anime ascendono a Lui in pace.»

«E a Lui non importa.»

«Precisamente. Dice che la sofferenza di esseri senzienti è co­me la decomposizione: fertilizza la crescita delle loro anime! Dalla sua altezza imponente Lui osserva un massacro e vede la magnificenza. Vede uomini e donne che non amano mai così tan­to come quando perdono i loro cari, non amano mai così tanto come quando si sacrificano per gli altri in nome di un’astratta nozione di Dio, non amano mai così tanto come quando un eser­cito conquistatore scende a devastare il focolare, dividere il greg­ge e infilzare i corpi dei neonati sulla punta delle lance. La sua giustificazione? Fa parte della natura. È ciò che Lui ha creato. E se le anime colpite e amareggiate devono prima finire nelle mie mani e sottoporsi al mio insegnamento all’inferno, diventeranno ancora più grandi!»

«E il tuo incarico diventa sempre più gravoso.»

«Sì e no. Sto vincendo, ma devo vincere alle condizioni di Dio. L’inferno è un luogo di sofferenza. Esaminiamo però la que­stione attentamente. Guarda cosa ha fatto Lui. Quando ha spalancato le porte di Sheol ed è sceso nella tristezza di quel luogo come il dio Tammuz nell’inferno sumero, le anime sono corse da Lui e hanno visto la sua redenzione, le ferite sulle mani e sui pie­di, e hanno capito che doveva morire perché loro potessero dare un punto focale alla loro confusione, e naturalmente si sono ri­versate con Lui oltre le porte del paradiso... perché d’un tratto tutto quello che avevano sofferto sembrò avere un significato. Ma aveva davvero un significato? Puoi attribuire un significato sacro al ciclo della natura immergendovi semplicemente il tuo io divino? È sufficiente? E cosa dire delle anime che indietreggiano amareggiate, che non fioriscono mai, mentre i talloni dei guerrie­ri le calpestano; cosa dire delle anime deformate e contorte da un’indicibile ingiustizia che entrano nell’eternità imprecando, di un intero mondo moderno che è arrabbiato con Dio, abbastanza arrabbiato per maledire Gesù Cristo e Dio stesso come ha fatto Luterò, come ha fatto Dora, come hai fatto tu, come hanno fatto tutti? La popolazione del tardo XX secolo non ha mai smesso di credere in Lui, è solo che lo odia; prova rancore nei suoi con­fronti; è furibonda con Lui. Si sente... si sente...»

«Superiore a Lui», dichiarai in tono pacato, acutamente con­sapevole del fatto che lui stava dicendo alcune delle parole che io stesso avevo detto a Dora. Odiamo Dio. Lo odiamo.

«Sì», convenne lui. «Sì, ti senti superiore a Lui.»

«Anche tu

«Sì. All’inferno non posso mostrare loro le sue ferite. Questo non riuscirebbe a persuadere queste vittime, tutti coloro che, af­flitti e furibondi, soffrono pene che vanno al di là dell’immagina­zione di Dio. Non posso semplicemente dire loro che sono stati i padri domenicani a bruciarle vive in nome di Dio, considerando­le streghe. O che, quando le loro famiglie e clan e villaggi sono stati annientati dai soldati spagnoli, era tutto giustificato perché le mani e i piedi sanguinanti di Dio erano raffigurati sul vessillo che quegli uomini portavano nel Nuovo Mondo. Pensi che fa­rebbe uscire qualcuno dall’inferno, scoprire che Lui ha lasciato che succedesse? E che lascia ascendere altre anime senza che sof­frano una sola stilla di dolore? Se dovessi iniziare il loro ammae­stramento con quell’immagine — Cristo è morto per voi —, quanto credi che durerebbe l’educazione infernale di un’anima?»

«Non mi hai detto cos’è l’inferno o cosa vi insegni.»

«Lo governo a modo mio, te lo assicuro. Ho collocato il mio trono sopra il trono di Dio — come affermano i poeti e i compila­tori delle Sacre Scritture —, perché so che non fu mai necessaria la sofferenza affinchè le anime arrivassero al paradiso, so che la totale comprensione e ricettività nei confronti di Dio Aon richie­se mai un digiuno, una fustigazione, una crocifissione, una mor­te. So che l’anima umana trascendeva la natura, e per farlo le ba­stava saper apprezzare la bellezza! Giobbe era Giobbe anche prima di soffrire! Proprio come dopo averlo fatto! Cosa gli inse­gnò la sofferenza che lui già non sapesse?»

«Ma come fai a compensare tutto ciò all’inferno?»

«Non comincio certo dicendo loro che per Lui l’occhio uma­no esprime la perfezione della creazione sia quando osserva orripilato un corpo mutilato, sia quando contempla serenamente un giardino. E Lui insiste nel dire che è tutto là. Il tuo giardino sel­vaggio, Lestat, è la sua versione della perfezione. Tutto si è svi­luppato dallo stesso seme, e io, Memnoch il Diavolo, non riesco a capirlo. Ho la mente semplice di un angelo.»

«Allora come fai a combattere Dio all’inferno e a conquistare comunque il paradiso per i dannati? Come puoi riuscirci?»

«Cosa credi che sia l’inferno?» chiese. «A questo punto devi aver già formulato qualche ipotesi.»

«Prima di tutto, è ciò che noi chiamiamo purgatorio», rispo­si. «Nessuno è al di là della redenzione. L’ho capito dalla vostra discussione sul campo di battaglia. Quindi cosa devono patire le anime dell’inferno per risultare degne del paradiso?»

«Cosa dovrebbero patire, secondo te?»

«Non lo so. Ho paura. Stiamo per andare là, vero?»

«Sì, ma vorrei prima sapere cosa ti aspetti di vedere.»

«Non so cosa aspettarmi. So che le creature che hanno sot­tratto la vita ad altre — come ho fatto io — dovrebbero soffrire per questo.»

«Soffrire o pagare?»

«Quale sarebbe la differenza?»

«Be’,immagina di avere una chance di perdonare Magnus, il vampiro che ti ha creato; immagina che lui sia in piedi davanti a te e dica: ‘Lestat, perdonami per averti sottratto alla tua vita mortale, per averti collocato al di fuori della natura e averti co­stretto a bere sangue per sopravvivere. Fa’ di me ciò che vuoi, così da potermi perdonare’. Cosa faresti?»

«Hai scelto un esempio poco calzante», ribattei. «Non sono sicuro di non averlo perdonato. Credo che non sapesse ciò che faceva. Non m’importa di lui. Era pazzo. Era un mostro del Vec­chio Mondo. Mi ha messo sulla strada del Diavolo spinto da un distorto impulso personale. Non penso nemmeno più a lui. Non m’importa di lui. Se deve chiedere il perdono di qualcuno, che si rivolga ai mortali che ha ucciso durante la sua esistenza. Nella sua torre c’era un sotterraneo pieno di uomini assassinati: giova­ni che mi assomigliavano, uomini che aveva portato là per met­terli alla prova, e che poi aveva ucciso invece d’iniziarli. Me li ri­cordo ancora. Si trattava solo di una forma di massacro: cumuli di cadaveri di giovani, tutti biondi con gli occhi azzurri, giovani esseri privati della vita stessa. Il suo perdono dovrebbe giungere da tutti coloro cui ha sottratto la vita, lui dovrebbe ottenere il perdono di ciascuno di loro.» Stavo ricominciando a tremare. La mia rabbia mi era così familiare. E quanto mi ero arrabbiato in diverse occasioni, quando altri mi avevano accusato di attac­chi d’effetto contro uomini e donne mortali, e bambini. Bambini inermi.

«E tu? Cosa pensi che occorrerebbe perché tu possa accedere al paradiso?» mi chiese.

«Be’,a quanto pare, mi basterà lavorare per te», risposi in to­no di sfida. «O almeno credo, a giudicare da quanto mi hai det­to. Ma non mi hai ancora spiegato di preciso che cosa fai! Mi hai raccontato la storia della Creazione e della Passione, del tuo metodo e del Suo metodo, mi hai descritto come ti opponi a Lui sul­la terra, e posso immaginare le ramificazioni di quell’opposizio­ne: siamo entrambi degli edonisti, crediamo entrambi nella sag­gezza della carne.»

«Amen.»

«Tuttavia non sei ancora arrivato a spiegare in modo esau­riente quello che fai all’inferno. Inoltre, com’è possibile che tu stia vincendo? Ne stai mandando molti e rapidamente nelle braccia di Dio?»

«Rapidamente e con potente accettazione», rispose. «Ma adesso non ti sto parlando della proposta che ti ho fatto o della mia opposizione terrena a Dio; ti sto chiedendo questo: ìn base a tutto ciò che hai visto, come pensi che dovrebbe essere l’inferno"?»

«Ho paura di rispondere, perché quello è il mio posto.»

«Tu non hai mai davvero paura di niente. Avanti, prendi posi­zione. Come pensi che dovrebbe essere l’inferno, cosa dovrebbe essere costretta a sopportare un’anima per essere degna del para­diso? È sufficiente dire: ‘Credo in Dio’,’Gesù, credo nella tua sofferenza’? È sufficiente dire: ‘Mi pento di tutti i miei peccati perché ti hanno offeso, mio Dio’? Oppure: ‘Mi pento perché quando ero sulla terra non credevo realmente in te e adesso so che è vero, e uam, bang, una sola occhiata a questo luogo inferna­le e sono pronto! Non rifarei più niente nello stesso modo, e per favore accoglimi in paradiso’?»

Non risposi.

«Tutti dovrebbero andare in paradiso?» domandò. «Chiun­que, intendo dire.»

«No. Impossibile», dissi. «Non le creature come me, non le creature che ne hanno torturate e uccise altre, non persone che con le loro azioni hanno volutamente emulato punizioni severe come malattia, incendi o terremoti, cioè non persone responsa­bili di ingiustizie che hanno danneggiato altri tanto quanto le ca­lamità naturali, se non di più. Non può essere giusto che questi vadano in paradiso, non se non sanno, non capiscono o non han­no cominciato a comprendere ciò che hanno fatto! Il paradiso si trasformerebbe nell’inferno, se vi entrasse ogni anima crudele, egoista, malvagia. Non voglio incontrare in paradiso i mostri non riformati della terra! Se fosse così facile, allora la sofferenza del mondo sarebbe praticamente...»

«Praticamente cosa?»

«Imperdonabile», sussurrai.

«Cosa sarebbe imperdonabile, dal punto di vista di un’anima morta nel dolore e nella confusione? Di un’anima che sapeva che a Dio non importava?»

«Non lo so», ammisi. «Quando hai descritto gli eletti di Sheol, il primo milione di anime che hai condotto oltre le porte celesti, non hai parlato di mostri riformati; hai parlato di gente che aveva perdonato Dio per un mondo ingiusto, vero?»

«Esatto. È questo che ho trovato. È questo che ho portato con me, con assoluta certezza, fino alle porte del paradiso, sì.»

«Ma hai parlato proprio come se queste persone fossero state vittime dell’ingiustizia di Dio. Non ti sei occupato invece delle anime dei colpevoli? Di quelli come me: i trasgressori, coloro che hanno commesso ingiustizie?»

«Non pensi che abbiano una loro storia?»

«Alcuni potrebbero avere delle scusanti, radicate nella loro stupidità, ingenuità e paura dell’autorità. Non lo so. Ma molti, tanti malfattori potrebbero essere proprio come me. Sanno bene quanto sono malvagi e non se ne curano. Fanno ciò che fanno perché... perché a loro piace. A me piace creare vampiri. Mi pia­ce bere il sangue. Mi piace sottrarre la vita agli umani. Mi è sem­pre piaciuto.»

«È davvero per questo motivo che bevi sangue? Solo perché ti piace? Non è invece perché sei stato trasformato in un perfetto meccanismo sovrannaturale destinato a bramare il sangue in eterno, e a essere rinvigorito solo dal sangue... strappato dalla vi­ta e trasformato in uno scintillante Figlio delle Tenebre da un mondo ingiusto che non si preoccupava di te e del tuo destino più di quanto si preoccupasse per qualunque neonato che quella notte moriva di fame a Parigi?»

«Non voglio giustificare ciò che faccio o ciò che sono. Se sei di diverso avviso, se è per questo che vuoi che io governi l’infer­no con te o accusi Dio, allora hai scelto la persona sbagliata. Me­rito di pagare per ciò che ho sottratto alla gente. Dove sono le loro anime, quelle che ho ucciso? Erano pronte per il paradiso? Sono finite all’inferno? Si sono infiacchite nella loro identità e si trovano ancora nella tromba d’aria tra il paradiso e l’inferno? Lì ci sono delle anime, lo so, le ho viste, anime che devono ancora trovare entrambi quei luoghi.»

«Sì, è vero.»

«Forse ho mandato delle anime nella tromba d’aria. Sono l’incarnazione dell’avidità e della crudeltà. Ho divorato i mortali che ho ucciso come se fossero stati cibo e bevande. Non posso certo giustificarmi.»

«Credi che io voglia sentirtelo fare?» chiese Memnoch. «Quale atto di violenza ho giustificato finora? Cosa ti fa pensare che ti vorrei, se tu giustificassi o difendessi le tue azioni? Ho mai difeso qualcuno che abbia fatto soffrire qualcun altro?»

«Non credo.»

«Be’,allora?»

«Cos’è l’inferno e come riesci a governarlo? Non vuoi che la gente soffra. A quanto pare, non vuoi nemmeno che soffra io. Non puoi indicare Dio e dire che Egli rende tutto buono e ricco di significato! Non puoi. Rappresenti la sua opposizione. Quindi cos’è l’inferno?»

«Cosa credi che sia?» mi chiese di nuovo. «Di cosa ti accon­tenteresti moralmente... prima di respingermi? Prima di fuggire lontano da me? In che genere di inferno potresti credere e che genere di inferno creeresti, se fossi al posto mio?»

«Un luogo in cui la gente si renda conto di ciò che ha fatto agli altri; in cui ne affronti ogni dettaglio e ne comprenda ogni particella, tanto che non rifarebbe mai e poi mai la stessa cosa; un luogo in cui le anime vengano letteralmente riformate dalla co­noscenza di ciò che hanno fatto di sbagliato e di come avrebbero potuto evitarlo, e di cosa avrebbero dovuto fare. Quando capi­scono, come hai detto degli eletti di Sheol, quando riescono a perdonare non solo Dio per questo immane caos, ma anche se stesse per i loro fallimenti, le loro orrende reazioni furibonde, il loro disprezzo e la loro malvagità, quando amano tutti con un perdono totale, a quel punto sarebbero degne del paradiso. L’in­ferno dovrebbe essere il luogo in cui comprendere le conseguenze delle proprie azioni, ma con una totale e misericordiosa consapevo­lezza di quante poche cose si sapessero.»

«Esatto. Capire cosa ha ferito gli altri, rendersi conto di non averlo saputo, rendersi conto che nessuno ti aveva donato la co­noscenza, eppure ne avevi l’opportunità! E perdonare questo, perdonare le tue vittime, perdonare Dio e te stesso.»

«Sì. Questo sarebbe perfetto e metterebbe fine alla mia rab­bia, alla mia indignazione. Non potrei più agitare il pugno, se so­lo riuscissi a perdonare Dio, gli altri e me stesso.»

Lui non rispose. Sedeva con le braccia conserte, gli occhi sgranati, la sua scura fronte levigata, a malapena toccata dall’u­midità dell’aria.

«È questo che è, vero?» chiesi timidamente. «È... è un luogo in cui impari a capire cosa hai fatto a un altro essere... Dove arri­vi a renderti conto delle sofferenze che hai inflitto ad altri!»

«Sì, ed è terribile. L’ho creato e lo governo per rendere di nuovo integre le anime dei giusti e degli ingiusti, coloro che han­no sofferto e coloro che hanno compiuto atti crudeli. E l’unica lezione di quell’inferno è l’amore.»

Ero spaventato, spaventato come quando eravamo andati a Gerusalemme.

«Dio ama le mie anime quando vanno da Lui. E considera ognuna di loro una giustificazione del suo metodo!» spiegò Memnoch.

Sorrisi amaramente.

«Per Lui la guerra è splendida; ai suoi occhi la malattia è affa­scinante, e il sacrificio di sé gli sembra un’esaltazione personale della sua gloria! Come se l’avesse mai compiuto! Cerca di sopraffarmi coi numeri. Nel nome della croce sono state perpetrate più ingiustizie che per qualunque altra causa, simbolo, filosofia o credo esistenti sulla terra. E io svuoto l’inferno così rapidamente, un’anima dopo l’altra, raccontando la verità su ciò che gli umani soffrono e sanno e possono fare, che le mie anime si riversano a frotte dentro le sue porte. E chi pensi che arrivi all’inferno sen­tendosi maggiormente ingannato? Maggiormente furibondo e implacabile? Il bambino che morì in una camera a gas in un cam­po di sterminio? O un guerriero coperto di sangue fino ai gomiti cui venne detto che, se sterminava i nemici della sua nazione, avrebbe trovato un posto nel Valhalla, in paradiso o in cielo?»

Non risposi. Rimasi in silenzio, ascoltandolo, guardandolo.

Lui si piegò in avanti, con lo scopo di catturare tutta la mia at­tenzione, e mentre lo faceva cambiò, si trasformò davanti ai miei occhi: il Diavolo con zampe caprine e zoccoli, l’animale-uomo, divenne l’angelo Memnoch, Memnoch con la sua veste ampia, i suoi occhi chiari che mi fissavano radiosi da sotto le dorate so­pracciglia inarcate.

«L’inferno è il luogo in cui raddrizzo i torti commessi da Dio», spiegò. «È il luogo in cui reintroduco una forma mentis che avrebbe potuto esistere se la sofferenza non l’avesse distrut­ta! È il luogo in cui insegno a uomini e donne che possono essere migliori di Lui. Ma l’inferno rappresenta il mio castigo, per aver osato discutere con Lui, per aver sostenuto che dovevo andare là ad aiutare le anime a compiere il loro ciclo come Lui lo ha conce­pito, per aver sostenuto che dovevo vivere là con loro! E che, se non li aiuto, se non li istruisco, potrebbero restare là per sempre! L’inferno però non è il mio campo di battaglia, la terra lo è. Lestat, io combatto Dio non all’inferno ma sulla terra. Vago per il mondo cercando di demolire ogni edificio che Lui ha eretto per santificare l’abnegazione e la sofferenza, per santificare l’aggres­sione, la crudeltà e la distruzione. Faccio uscire uomini e donne da chiese e templi perché ballino, cantino, bevano, si abbraccino gli uni con le altre, con scostumatezza e amore. Faccio tutto il possibile per mettere a nudo la menzogna al centro delle sue reli­gioni! Cerco di eliminare le menzogne cui Lui ha permesso di crescere mentre l’universo si sviluppava. È l’unico che possa go­dersi impunemente la sofferenza ! E questo perché è Dio e non sa cosa significhi né mai l’ha saputo. Ha creato esseri più coscien­ziosi e amorevoli di Lui. E la vittoria finale su tutto il male uma­no giungerà solo quando Lui verrà detronizzato, una volta per tutte, demistificato, ignorato, ripudiato, accantonato, e quando uomini e donne aspireranno a ciò che è buono e giusto ed etico e amorevole in chiunque altro e per tutti.»

«Stanno cercando di farlo, Memnoch! Davvero!» esclamai. «È questo che intendono quando dicono di odiare Dio. È questo che intendeva Dora quando ha detto: ‘Chiedigli perché per­mette tutto questo!’ Quando ha stretto le mani a pugno.»

«Lo so. Ora, vuoi aiutarmi a combattere Lui e la sua croce, oppure no? Vuoi venire con me dalla terra al paradiso e a quel­l’osceno inferno di penosa ricerca della consapevolezza, reso osceno dalla sua ossessione per la sofferenza di Dio? Non mi fa­rai da assistente nell’uno o nell’altro luogo, ma in tutti e tre. E, come me, potresti arrivare ben presto a trovare il paradiso, nel suo apice, quasi altrettanto insopportabile dell’inferno. La sua beatitudine ti renderà ansioso di sanare il male che Lui ha fatto, bramerai l’inferno per lavorare sulle anime torturate e confuse, per aiutarle a uscire dal pantano ed entrare nella luce. Quando ti trovi nella luce non puoi dimenticarle! Ecco cosa significa servir­mi.» S’interruppe, poi chiese: «Hai il coraggio di vederlo?»

«Voglio vederlo.»

«Ti avviso, è l’inferno.»

«Sto giusto cominciando a immaginarlo...»

«Non esisterà in eterno, arriverà il giorno in cui il mondo stesso verrà demolito dagli adoratori umani di Dio oppure il giorno in cui tutti coloro che muoiono saranno illuminati e si ar­renderanno a Lui, e finiranno dritti tra le sue braccia. Un mondo perfetto o un mondo distrutto, l’uno o l’altro: un giorno giun­gerà la fine dell’inferno. E io tornerò in paradiso, pago di restare là per la prima volta in tutta la mia esistenza, da quando il tempo ha avuto inizio.»

«Portami con te all’inferno, ti prego. Voglio vederlo subito.»

Allungò una mano per accarezzarmi i capelli, poi mi strinse il viso tra le mani. Erano tiepide e amorevoli. Fui invaso da un sen­so di tranquillità.

«Così tante volte in passato ho quasi ottenuto la tua anima! La vedevo quasi staccarsi dal tuo corpo, e poi la forte carne so­vrannaturale, il cervello sovrannaturale, il coraggio dell’eroe, te­nevano insieme l’intero mostro, e l’anima tremolava e sfavillava all’interno, fuori della mia portata. E adesso, adesso, rischio di scagliarti là dentro prima che tu abbia bisogno di andarci, quan­do puoi scegliere di andare o venire; e nutro la speranza che tu riesca a sopportare ciò che vedrai e sentirai, per poi tornare e re­stare con me ad aiutarmi.»

«C’è mai stato un tempo in cui la mia anima sarebbe salita in paradiso, oltrepassando te, oltrepassando la tromba d’aria?»

«Cosa ne pensi?»

«Ricordo... una volta, quando ero vivo...»

«Sì?»

«Un momento magico, mentre stavo bevendo e chiacchieran­do col mio grande amico, Nicolas, e ci trovavamo in una locanda del mio villaggio in Francia. E arrivò questo momento magico, in cui tutto sembrò tollerabile e splendido, indipendentemente da qualunque orrore potesse essere commesso o fosse mai stato commesso. Solo un istante, un istante ebbro. Una volta l’ho de­scritto in un libro; ho cercato di rievocarlo. Fu un momento in cui avrei potuto perdonare tutto e dare tutto, e in cui forse non esistevo nemmeno; in cui tutto ciò che vedevo era al di là di me, al di fuori di me. Non lo so. Forse, se la morte fosse giunta in quel momento...»

«Invece giunse la paura, quando ti rendesti conto che, anche se fossi morto, forse non avresti capito tutto, che forse non c’era nulla...»

«... sì. E adesso ho paura di una cosa addirittura peggiore. Ho paura che ci sia qualcosa, certo, ma che questo qualcosa possa ri­velarsi peggiore del nulla.»

«Hai ragione di pensarlo. Non è necessario usare granché uno schiacchiapollici o i chiodi o il fuoco per indurre uomini e donne a desiderare l’oblio. Non granché, davvero. Immagina, desiderare di non essere mai vissuti.»

«Conosco il concetto. Temo di provara ancora quella sensa­zione.»

«Sei saggio a temerlo, ma non sei mai stato così pronto per ciò che devo rivelarti.»

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