A tutt’oggi le rivelazioni relative alle armi adoperate nella Battaglia di Pico sono scarsissime. È noto che i missili ebbero una parte di secondo piano: nello spazio non c’è niente che possa trasmettere l’energia di un’onda-urto. Una bomba atomica che esplodesse a poche centinaia di metri non provocherebbe danni, e perfino le sue radiazioni potrebbero far poco male a strutture ben protette.
La parte principale fu recitata da armi non materiali. La più semplici erano i raggi a ioni, prodotti direttamente dalla propulsione delle astronavi. Da quando furono inventate le prime valvole radiofoniche, circa tre secoli prima, gli uomini avevano imparato a produrre e a concentrare fasci di particelle elettroniche. Il culmine era stato raggiunto nella propulsione delle navi spaziali, con i cosiddetti “razzi a ioni”, che generavano la spinta mediante l’emissione di intensi raggi di particelle caricate elettricamente. Questi raggi avevano provocato numerose disgrazie nello spazio, anche se si evitava a bella posta di concentrarli allo scopo di limitarne la portata effettiva.
Naturalmente, c’era anche il modo di potersi difendere da tali armi. I campi elettrici e magnetici che li producevano potevano anche servire a disperderli, trasformandoli da raggi mortali in un’innocua spruzzata di energia volatile.
Più efficaci, ma anche più difficili da costruire, erano le armi che si servivano di radiazioni pure. Ma sia la Terra sia la Federazione erano riuscite a crearne anche di queste. Restava da vedere chi fosse stata più brava, se la scienza superiore della Federazione o la maggior capacità produttiva della Terra.
Il commodoro Brennan era perfettamente a conoscenza di questi fattori. Al pari di tutti i comandanti, si accingeva a entrare in azione con forze più esigue di quanto non avrebbe desiderato. A dire la verità, anzi, avrebbe addirittura preferito non dover entrare in azione.
L’apparecchio di linea “Eridano”, opportunamente trasformato, e quello da carico, “Lete”, quasi del tutto ricostruito, navigavano tra la Terra e la Luna seguendo le rispettive rotte tracciate con la massima cura. Il commodoro ignorava se poteva contare ancora o meno sull’elemento sorpresa. Ma anche se erano stati scoperti, la Terra era con tutta probabilità all’oscuro dell’esistenza del terzo e più grande apparecchio: l’“Acheronte”. Brennan si chiedeva quale spirito romantico, appassionato di mitologia, fosse responsabile di quei nomi. Probabilmente era stato il commissionario Churchill, che si faceva un punto d’onore d’imitare il suo famoso antenato in tutti i modi possibili e immaginabili. Tuttavia, bisognava convenire che i nomi erano ben trovati. I fiumi della Morte e dell’Oblio: sì, le astronavi che ne portavano i nomi avrebbero presto regalato l’una e l’altro a molti!
Il tenente Curtis, uno dei pochi membri dell’equipaggio che avesse passato quasi tutta la vita lavorativa nello spazio, alzò la testa dal banco delle comunicazioni.
— Ho appena ricevuto un messaggio dalla Luna. È indirizzato a noi.
Brennan provò un brutto colpo. Se erano stati scoperti, i loro antagonisti non avrebbero perso l’occasione di farglielo sapere! Diede una rapida occhiata al messaggio, poi tirò un sospiro di sollievo.
«Osservatorio a Federazione. Pregovi ricordare esistenza strumenti insostituibili Platone. Anche personale Osservatorio al completo. Maclaurin direttore.»
— Non farmi pigliare un altro spavento come questo, Curtis — disse il commodoro. — Credevo che il messaggio fosse diretto a me. Sarebbe terribile che ci avessero già scoperto.
— Scusatemi. È una trasmissione generale, sulla lunghezza d’onda dell’Osservatorio.
Brennan porse il messaggio al comandante delle operazioni, capitano Merton.
— Che cosa ne dite? Avete lavorato laggiù, vero?
Merton sorrise, leggendo.
— C’è tutto Maclaurin, qui. Prima gli strumenti, poi il personale. Non c’è da preoccuparsi. Farò il possibile per evitare di colpirlo. Dopo tutto, cento chilometri di distanza non sono un margine trascurabile, se ci pensate. A meno che non venga colpito da un proiettile vagante, non ha niente da preoccuparsi. Dal resto, l’Osservatorio è a una bella profondità nel sottosuolo, sapete.
La lancetta del cronometro decimava, implacabile, gli ultimi minuti. Sempre confidando che la sua astronave, chiusa nel bozzolo della notte, non fosse stata ancora individuata, il commodoro Brennan osservò le tre scie luminose della sua flotta scivolare lungo le rotte prestabilite. Non era quello il destino che aveva sempre sognato. No, non aveva mai supposto di poter essere arbitro del destino dei mondi.
Non pensava all’energia che emanava dai reattori, non si preoccupava del posto che gli sarebbe stato riservato nella storia, si chiedeva solo, come tutti alla vigilia della loro prima battaglia, dove sarebbe stato l’indomani alla stessa ora.
A meno di un milione di chilometri di distanza, Carl Steffanson sedeva davanti a un pannello di comandi e osservava l’immagine del Sole attraverso una delle innumeri telecamere che costituivano gli occhi del Progetto Thor. Il gruppetto di tecnici stanchi che gli stavano intorno avevano quasi del tutto messo a punto le apparecchiature prima del suo arrivo. Ora il gruppo discriminatore, che lui aveva portato dalla Terra con una fretta così disperata, era stato inserito nel circuito.
Steffanson girò una manopola, e il Sole scomparve. Accese uno dopo l’altro tutti gli apparecchi d’osservazione, ma non si vedeva più niente. Tutti gli occhi della fortezza erano ciechi. La protezione era completa.
Troppo stanco per potersi sentire soddisfatto, si appoggiò allo schienale e accennò ai comandi.
— Tocca a voi, adesso. Sistemate in modo che passi abbastanza luce per vederci ma che lassù gli ultravioletti la respingano. Abbiamo la certezza che nessuno dei loro raggi ha un’energia effettiva superiore a mille angstrom. Saranno molto sorpresi quando vedranno fallire i loro colpi. Vorrei solo poterglieli rimandare così come arrivano.
— Che aspetto ha la nostra installazione dall’esterno, quando lo schermo è in funzione? — domandò un ingegnere.
— Come uno specchio. E finché sarà capace di riflettere saremo al sicuro delle radiazioni pure. Questo ve lo posso promettere. — Steffanson guardò l’orologio. — Se il Central Intelligence non sbaglia, abbiamo ancora venti minuti. Però io non ci conterei.
— Per lo meno Maclaurin sa dove ci troviamo — disse Jamieson spegnendo la radio. — Ma non me la prenderò con lui se non manda nessuno a prenderci.
— E allora che cosa dobbiamo fare?
— Mangiare — rispose Jamieson avviandosi verso la minuscola dispensa. — Credo che ce lo siamo guadagnato, un buon pasto. Ci aspetta una lunga camminata.
Wheeler guardò nervosamente la pianura, sul cui fondo era nettamente visibile la cupola del Progetto Thor. Poi aprì la bocca e gli ci volle un po’ per capire che quello che vedeva non era un’illusione ottica.
— Sid! — chiamò. — Vieni un po’ qui a vedere.
Jamieson corse a raggiungerlo, e stettero tutti e due a guardare verso l’orizzonte. L’emisfero della cupola aveva completamente mutato aspetto. Invece di una piccola falce di luce, ora brillava una stella abbagliante, come se l’immagine del Sole fosse riflessa da uno specchio sferico.
Il binocolo confermò quell’impressione. La cupola non si vedeva più ed era stata sostituita da una fantastica apparizione d’argento, che a Wheeler pareva un’enorme bolla di mercurio.
— Mi piacerebbe sapere come ci sono riusciti — fu il commento pacato di Jamieson. — Credo che sia effetto di un’interferenza. Deve far parte del loro sistema difensivo.
— Meglio che ci muoviamo — fece Wheeler preoccupato. — Quella roba mi piace poco, è orribile starsene qui, così esposti.
Jamieson aveva intanto aperto uno scaffale dal quale tolse delle provviste: cioccolata e carne compressa. Lanciò a Wheeler la sua parte.
— Comincia a masticare un po’ di questa roba — disse. — Non abbiamo il tempo di fare un pasto vero e proprio. È meglio anche che tu beva, se hai sete.
Wheeler stava facendo qualche rapido calcolo mentale: si trovavano a un’ottantina di chilometri dalla base, e fra loro e l’Osservatorio c’era la muraglia di Platone. Sì, sarebbe stata una lunghissima passeggiata… e loro potevano essere al sicuro anche lì. Il trattore, che era già stato così utile, avrebbe potuto proteggerli ottimamente.
Jamieson si gingillò con quest’idea, poi la respinse.
— Ricordati di quello che ha detto Steffanson — rammentò a Wheeler. — Ci ha detto di infilarci sottoterra il più presto possibile. E doveva ben sapere quello che diceva.
Dietro un dirupo, a una cinquantina di metri dal trattore, trovarono un crepaccio profondo quel tanto che bastava perché, stando in piedi, potessero vedere quello che succedeva fuori, e il fondo era abbastanza levigato perché ci si potessero sdraiare. Dopo aver trovato quella specie di trincea, Jamieson si sentì più sollevato.
— L’unica cosa che mi preoccupa, adesso — osservò — è la durata dell’attesa. È anche possibile che non succeda niente. D’altra parte, se ci mettessimo in cammino, potremmo venire sorpresi all’aperto, lontano da un riparo.
Dopo averci discusso sopra a lungo giunsero a un compromesso. Avrebbero tenuto indosso le tute, ma sarebbero tornati a bordo di Ferdinando, dove, almeno, sarebbero stati comodi. Da lì alla trincea, non c’era che qualche secondo.
Non ci fu preavviso di sorta. D’un tratto i massi grigi e polverosi del Mare delle Piogge furono bruciati da una luce che mai avevano visto da che erano stati creati. La prima impressione di Wheeler fu che qualcuno avesse acceso un riflettore gigantesco volgendo la luce tutta su Ferdinando. Poi capì che l’esplosione che aveva eclissato il Sole era avvenuta a molti chilometri di distanza. Alto sull’orizzonte c’era un globo di fiamma viola, perfettamente sferico, che andava sbiadendo man mano che si espandeva. Dopo pochi secondi s’era attenuato in una gran nuvola di gas luminoso che calava verso il bordo della Luna, dietro cui tramontò come un fantastico Sole.
— Siamo stati dei pazzi — disse Jamieson gravemente. — Era un ordigno atomico… ormai siamo perduti.
— Non dire scemenze — ribatté Wheeler in tono però non molto sicuro. — Era distante una cinquantina di chilometri, e i raggi gamma saranno debolissimi quando arriveranno qui. Queste pareti di roccia servono abbastanza bene da protezione.
Jamieson non rispose. Si era già avviato verso la porta stagna. Wheeler stava per seguirlo, quando gli venne in mente che in cabina c’era un rivelatore di radiazioni e tornò a prenderlo. Poteva esserci qualcos’altro di possibilmente utile lì dentro? Spinto da un impulso improvviso strappò la sbarra di sostegno di una tenda, poi staccò lo specchio appeso sul lavabo.
Quando raggiunse Jamieson che lo aspettava impaziente nel compartimento stagno, gli porse il rivelatore, senza però accennargli alle altre cose che aveva preso. Solo quando furono nella trincea, che raggiunsero senza ulteriori incidenti, spiegò qual era il progetto.
— Se c’è una cosa che detesto — disse — è non poter vedere quello che succede! — E così dicendo si accinse a legare lo specchio alla sbarra, servendosi di fil di ferro trovato in una tasca della tuta. Dopo aver lavorato un paio di minuti, issò fuori dall’orlo della trincea il rozzo periscopio.
— Riesco a vedere la cupola — disse soddisfatto. — È immutata.
— Me l’aspettavo — ribatté Jamieson. — Devono essere riusciti a far esplodere la bomba quando ancora non l’aveva raggiunta.
— Forse si trattava di un colpo d’avvertimento.
— Non credo. Nessuno è disposto a sprecare plutonio per fare i fuochi d’artificio. Facevano sul serio. Quale sarà la prossima mossa?
Trascorsero altri cinque minuti prima che la sua curiosità fosse accontentata. Allora, quasi contemporaneamente, tre abbaglianti soli atomici brillarono nel cielo, seguendo traiettorie che li avrebbero portati sulla cupola se prima di averla raggiunta non si fossero trasformati in lievi nubi di polvere.
— La prima e la seconda mano, alla Terra — mormorò Wheeler. — Ma da dove verranno quei missili?
— Se ne esploderà uno direttamente sopra di noi, saremo spacciati — osservò Jamieson. — Non dimenticare che qui non c’è atmosfera capace di assorbire i gamma.
— Che cosa dice il rivelatore?
— Per ora non molto, ma sono preoccupato per il primo scoppio, quello avvenuto mentre eravamo ancora nel trattore.
Wheeler era troppo indaffarato a scrutare il cielo per rispondere. In un punto imprecisato fra le stelle, che gli era impossibile vedere poiché aveva il Sole negli occhi, dovevano esserci gli apparecchi della Federazione, pronti a un nuovo attacco. Sarebbe stato impossibile vederli, però poteva vederne le armi in azione.
Da un punto lontano, oltre Pico, sei lame di fiamma scattarono nel cielo a velocità incredibile. La cupola lanciava i suoi primi missili proprio contro il Sole. Il “Lete” e l’“Eridano” si servivano di un trucco vecchio quanto la guerra: stavano avvicinandosi dalla parte del Sole sfruttando l’accecamento dell’avversario. Anche il radar poteva restare ingannato dallo sfondo dell’interferenza solare, e il commodoro Brennan aveva scelto come alleate anche due grosse macchie solari.
In pochi secondi, i razzi si perdettero nel bagliore, e dopo qualche tempo la luminosità del Sole parve intensificarsi centinaia di volte. “Laggiù sulla Terra” pensò Wheeler aggiustando i filtri del suo visore “avranno un grande spettacolo, stasera. E l’atmosfera che dà tanto fastidio agli astronomi li proteggerà dalle radiazioni di questi ordigni.”
Era impossibile sapere se i missili avevano prodotto danni. L’enorme esplosione silenziosa poteva anche essersi innocuamente dissolta nello spazio. “Che strana battaglia” pensò Wheeler. Con tutta probabilità non sarebbe riuscito a vedere le astronavi della Federazione, che erano senza dubbio verniciate di nero come la notte, per rendere più difficile la loro individuazione.
Poi vide che stava succedendo qualcosa alla cupola. Non era più lo scintillante specchio sferico che rifletteva l’immagine del Sole. La luce s’irradiava da essa in tutte le direzioni, e la sua luminosità andava aumentando di secondo in secondo. Da un punto dello spazio si stava riversando energia nella fortezza. Questo significava una sola cosa: gli apparecchi della Federazione navigavano lassù fra le stelle dardeggiando milioni di kilowatt contro la Luna.
Ormai la cupola era talmente luminosa che non la si poteva fissare, e Wheeler dovette aggiustare ancora una volta i filtri. Stava domandandosi quando sarebbe cominciato il contrattacco, se mai era possibile contrattaccare con quel bombardamento, allorché vide che l’emisfero era circondato da una corona tremolante. Contemporaneamente, la voce di Jamieson gli risuonò all’orecchio.
— Guarda, Con… dritto lassù!
Wheeler staccò gli occhi dallo specchio per alzarli al cielo, e allora, per la prima volta, vide uno degli apparecchi della Federazione. Lui non lo sapeva, ma si trattava dell’“Acheronte”, costruito apposta per la guerra. Era distintamente visibile e notevolmente vicino. Fra esso e la fortezza fiammeggiava, come uno scudo impalpabile, un disco di luce che dal rosso passò all’azzurro, poi al viola vivido proprio delle stelle più calde. Lo scudo si muoveva avanti e indietro, come se fosse equilibrato da tremende energie opposte. Mentre Wheeler, incurante del perìcolo, guardava, notò che la nave era circondata da un tenue alone luminoso, incandescente nei punti in cui le armi della fortezza l’avevano colpita.
Passò qualche minuto prima che Wheeler si accorgesse che c’erano due altre astronavi, in cielo, anch’esse schermate da un nimbo di fiamma. Ora la battaglia cominciava a delinearsi: ciascun contendente aveva saggiato con cautela le proprie difese e le proprie armi, e soltanto ora comincia la vera prova di forza.
I due astronomi fissavano ammirati le astronavi, vere palle di fuoco. In esse c’era qualcosa di nuovo, qualcosa di molto ma molto più importante di una semplice arma. Quelle astronavi possedevano un mezzo di propulsione che rendeva i razzi un’anticaglia. Potevano stare sospese immobili, e poi partire velocissime in qualsiasi direzione. Tale velocità si rivelava molto utile, in quanto la fortezza, con tutte le sue installazioni fisse, era molto più potente di loro.
La battaglia stava raggiungendo il culmine nel silenzio mortale. Milioni d’anni prima, la roccia fusa si era solidificata per formare il Mare delle Piogge, e adesso le armi delle astronavi stavano ritrasformandola in lava. Dalla fortezza venivano lanciate contro il cielo nubi di vapore incandescente, mentre i raggi degli attaccanti sprecavano la loro furia contro le rocce indifese. Era impossibile dire quale delle due parti stesse producendo danni maggiori. Di tanto in tanto il bagliore dello scudo aumentava, e quando questo accadeva, una delle astronavi si allontanava a velocità incredibile, e ci volevano parecchi secondi prima che dalla fortezza riuscissero ancora a localizzarla.
Sia Wheeler sia Jamieson erano sorpresi che la lotta avvenisse a distanza così ravvicinata, inferiore a cento chilometri. Quando si combatte con armi che viaggiano alla velocità della luce, anzi, quando si combatte usando la luce come arma, una simile distanza è infatti irrisoria.
La spiegazione di questo fatto l’ebbero alla fine dello scontro. Tutti i raggi usati come armi hanno una limitazione; debbono obbedire alla legge dei quadrati inversi. Solo i missili esplosivi mantengono la medesima efficienza qualunque sia la distanza da cui vengono lanciati.
Ma raddoppiando la distanza di un’arma a radiazioni, se ne divide la potenza per quattro a causa dell’espandersi del raggio. Non c’era quindi da stupirsi se il commodoro dei Federati si avvicinasse così audacemente all’obbiettivo.
Ma il forte non poteva sottrarsi ai colpi dell’astronave. Dopo qualche minuto dallo scatenarsi dell’offensiva, era impossibile guardare a sud. Qua e là nuvole di polvere salivano al cielo dalle rocce frantumate, per ricadere come vapore luminoso. Poi, mentre manovrava il suo rozzo periscopio e il suo visore affumicato, Wheeler vide qualcosa di incredibile; intorno alla base della fortezza s’allargava un cerchio di lava che faceva fondere le ondulazioni del terreno, e perfino le collinette, come pezzi di cera.
Quella spaventevole vista gli diede in pieno la consapevolezza del tremendo potere delle anni che combattevano a qualche chilometro di distanza. Se anche una debolissima parte della loro energia fosse giunta fino a loro, sarebbero morti come falene alla fiamma.
Le tre astronavi si muovevano secondo un complicato schema prestabilito, in modo da colpire il più possibile la fortezza, ed evitare di essere colpite. Più d’una volta passarono sul punto dove si trovavano i due astronomi, e ogni volta Wheeler si ritrasse sul fondo della trincea nel tentativo di sfuggire a eventuali radiazioni. Jamieson, che aveva rinunciato a persuadere il suo collega a non esporsi, si era rintanato da tempo sul fondo del crepaccio, sotto una roccia sporgente che serviva da tetto. Non era molto lontano, però, e Wheeler continuava a tenerlo al corrente di quello che succedeva.
Pareva incredibile, ma la battaglia durava solo da dieci minuti. Mentre Wheeler sorvegliava cautamente quell’inferno, notò che la cupola del Progetto Thor non era più simmetrica. Dapprima pensò che fosse venuto meno uno dei generatori, provocando una falla nello schermo di protezione. Poi vide che il lago di lava era ormai largo un chilometro e pensò che le fondamenta del forte fossero andate ormai completamente distrutte. Forse i difensori non se ne erano neppure accorti. Le loro misure per isolarsi dovevano aver tenuto in considerazione temperature solari, e il modesto calore delle rocce in fusione non era sensibile.
E allora cominciò ad accadere una cosa strana. I raggi che i due contendenti usavano per combattersi non furono più invisibili, perché la fortezza non era più nel vuoto. La roccia ribollente che la circondava sprigionava enormi volumi di gas, attraverso i quali erano nettamente visibili i fasci di raggi, simili alla luce di un faro in una nebbiosa notte terrestre. E contemporaneamente Wheeler cominciò a percepire la fitta grandine di particelle tutt’intorno. Rimase per un attimo perplesso, poi capì che i vapori di roccia si condensavano dopo essersi innalzati al cielo. Gli parvero troppo leggere per poter essere pericolose e non ne parlò a Jamieson; tanto sarebbe servito solo a dargli un altro argomento di preoccupazione. Finché la pioggia di polvere non era troppo fitta, bastavano le tute a difenderli.
Per quanto fosse abituato al silenzio eterno della Luna, Wheeler provava ancora un senso d’irrealtà alla vista delle tremende energie che si scontravano senza generare alcun rumore. Di tanto in tanto arrivava fino a lui una lieve vibrazione, causata forse dall’onda d’urto della roccia, ma per lo più aveva la sensazione di osservare un programma televisivo privo di audio.
Più tardi doveva meravigliarsi di essere stato così pazzo da esporsi in quel modo ai pericoli della battaglia, ma in quel momento non provava alcuna paura. Senza rendersene conto, era stato travolto dal fascino mortale della guerra; qualunque cosa se ne possa dire, negli uomini c’è una tendenza fatale che fa battere forte il cuore allorché si vedono le bandiere garrire al vento e si sente la musica antiea dei tamburi.
Lo strano era che Wheeler non si sentiva portato per nessuna delle due parti. Gli pareva che tutto quello spiegamento di forze fosse fatto unicamente a suo esclusivo beneficio e provava qualcosa di molto simile al disprezzo per Jamieson, che perdeva quello spettacolo per l’ansia di mettersi al sicuro.
Forse lo stato d’animo del giovane dipendeva dal fatto che, appena scampato da un gravissimo pericolo, si trovava ancora nel particolare periodo di esaltazione, simile all’ebrezza, in cui il pensiero del pericolo personale sembra assurdo. Ce l’aveva fatta a uscire incolume dalla pozza di polvere… Quindi più niente poteva fargli del male.
Jamieson non aveva questa consolazione. Non vedeva quasi niente della battaglia, ma ne sentiva il terrore e la grandiosità ben più profondamente dell’amico. Era troppo tardi per i rimpianti, eppure non poteva fare a meno di tormentarsi. Ce l’aveva con il destino che l’aveva cacciato in una situazione per cui quello che aveva fatto era passibile di influenzare il futuro dei mondi. E poi ce l’aveva anche, allo stesso modo, con la Terra e con la Federazione perché avevano permesso che si arrivasse a questo. E, infine, era nauseato fin nel profondo del cuore al pensiero dell’avvenire verso cui la razza umana andava probabilmente incontro.
Wheeler non riuscì mai a capire perché la fortezza avesse aspettato tanto prima di usare la sua arma decisiva. Forse Steffanson, posto che il comandante fosse lui, aveva aspettato che l’attacco si affievolisse in modo da poter con meno rischio abbassare gli schermi di protezione della cupola per quel millesimo di secondo sufficiente a vibrare la sua pugnalata.
Wheeler la vide salire in alto a colpire, solida lama di luce che si avventava contro le stelle. Rammentò allora le voci che circolavano all’Osservatorio; quello dunque era il fascio di luce che avevano visto fiammeggiare di là dai monti. Non ebbe il tempo di riflettere sulla sbalorditiva violazione delle leggi ottiche che il fenomeno implicava, perché stava guardando la nave colpita, alta nel cielo. Il raggio aveva trapassato il “Lete”, come se non esistesse, l’aveva infilzato come l’entomologo infilza con uno spillo le farfalle. E lo schermo protettivo sparì come per incanto.
La seconda pugnalata del forte fracassò la struttura metallica e fece fondere uno dopo l’altro i vari strati della corazza. Allora, lentamente, l’astronave cominciò a scendere verso la Luna. Nessuno potrà mai sapere che cosa l’avesse fermata, forse un corto circuito nei comandi, poiché nessun membro dell’equipaggio poteva essere ancora vivo. Tuttavia, d’un tratto, la sua caduta s’arrestò, e improvvisamente il “Lete” virò verso est. Ormai quasi tutto lo scafo era fuso, e lo scheletro visibile. Lo schianto seguì dopo qualche minuto, quando il relitto era ormai fuori vista, oltre i Monti Teneriffe. Un’aurora bianco-azzurra brillò per un attimo sull’orizzonte, e Wheeler attese che l’onda d’urto giungesse fino a lui.
Poi, mentre teneva gli occhi fissi verso est, vide una cortina di polvere sollevarsi dalla pianura e muovere verso di lui, come sospinta da un forte vento. Quel muro silenzioso che avanzava veloce e inesorabile avrebbe terrorizzato chiunque non ne conoscesse la causa. Invece era innocuo: quando l’ondata frontale giunse addosso a Wheeler, fu come se l’avesse colpito una lieve scossa di terremoto. La cortina di polvere ridusse la visibilità a zero per qualche istante, poi si depositò con la stessa velocità con cui si era sollevata.
Quando Wheeler tornò a guardare in cerca delle astronavi superstiti, queste erano così lontane, che i luminosi schermi protettivi si erano ridotti a puntini di fuoco, verso lo zenith. In un primo momento, il giovane credette che battessero in ritirata, poi, di punto in bianco, tornarono a velocità sbalorditiva. Intorno alla fortezza, la lava, simile a una creatura viva torturata, si slanciava follemente contro il cielo mentre i razzi la dilaniavano.
L’“Acheronte” e l’“Eridano” si immobilizzarono bruscamente quando furono a un chilometro circa dalla fortezza. Rimasero ferme un istante, poi ripartirono insieme verso l’alto. Ma l’“Eridano” era stata colpita a morte.
A dieci chilometri di altezza lo schermo dell’astronave parve esplodere, e l’apparecchio restò indifeso, ottusa torpedine di metallo nero, quasi invisibile contro il cielo. E i razzi della fortezza colpirono ancora e ancora. L’enorme apparecchio assunse una tinta rosso ciliegia, poi diventò bianco e, inclinandosi con la poppa all’ingiù, si tuffò per l’ultima volta contro la Luna. Wheeler ebbe l’impressione che gli precipitasse addosso, poi lo vide cadere nella direzione del forte, obbedendo all’ultimo comando del suo capitano.
Fu un colpo centrato in pieno. L’astronave moribonda andò a fracassarsi nel lago di lava ed esplose all’istante avvolgendo il forte in un emisfero di fiamma. “Questa” pensò allora Wheeler, “è la fine!”. Aspettò che l’onda d’urto lo raggiungesse, e ancora una volta guardò la parete di polvere avventarsi precipitosa, questa volta in direzione nord. La concussione fu talmente violenta da farlo sobbalzare. Certo nessuno di quelli che si trovavano nell’interno del forte era sopravvissuto. Il giovane mise cautamente da parte lo specchio che gli era servito a seguire quasi tutte le fasi della battaglia e sporse la testa oltre l’orlo della trincea.
Pareva incredibile, ma la cupola era ancora là, anche se mutilata. Ma era inerte e senza vita: i ripari abbassati, le energie esaurite, la guarnigione certamente morta. Della superstite nave federata non si vedeva l’ombra. Stava infatti ritirandosi verso Marte, con le armi fuori combattimento e i motori in procinto di spegnersi. Non avrebbe mai più combattuto, eppure nelle brevi ore di vita che le restavano aveva ancora una parte da sostenere.
— È finito, Sid — chiamò Wheeler. — Puoi venir a vedere, non c’è più pericolo.
Jamieson si arrampicò oltre l’orlo della trincea, tenendo avanti a sé il rivelatore di radiazioni.
— Scotta ancora, qui in giro — lo udì borbottare Wheeler. — Sarà meglio darcela a gambe al più presto.
— Non sarebbe una buona idea tornare a bordo di Ferdinando e trasmettere… — cominciò Wheeler, ma non finì. Stava succedendo qualcosa.
Laggiù, a Progetto Thor, la terra si fendette con un’esplosione di vulcano che erutta, e un enorme soffione salì nel cielo, lanciando grandi ciottoli a chilometri di distanza, allargandosi rapidamente sulla pianura e portandosi appresso un turbine di fumo e di schiuma. Torreggiò per un attimo simile a un incredibie albero nato dalla sterile terra lunare poi, con la stessa rapidità con cui era esploso, ricadde in silenziosa rovina, e i suoi rabbiosi vapori si dispersero nello spazio.
Le migliaia di tonnellate di liquidi pesanti che tenevano aperto il più profondo pozzo mai scavato dall’uomo, erano giunte al punto d’ebollizione. La miniera era esplosa in modo spettacolare, come può fare un pozzo di petrolio sulla Terra, dando una volta di più la prova che si può sempre ottenere un’eccellente esplosione anche senza l’ausilio dell’energia atomica.