Sadler pensò che Central City era molto ingrandita da quando l’aveva vista trent’anni prima. Ognuna delle cupole attuali avrebbe potuto contenere tutte le sette cupole di una volta. Andando di quel passo, quanto tempo ci sarebbe voluto per ricoprire tutta la Luna? Sadler sperava di non vivere tanto da vederlo.
La stazione era grande come una delle vecchie cupole, e al posto dei cinque binari che lui ricordava, ce n’erano adesso trenta. Ma il modello delle vetture non era cambiato di molto, e anche la velocità pareva la stessa. Il veicolo che l’aveva portato dallo spazioporto sarebbe potuto essere lo stesso con cui aveva attraversato il Mare delle Piogge più di un quarto di secolo prima.
Per le strade i veicoli erano molto più numerosi di una volta; ormai Central City era troppo grande perché si potessero sbrigare i propri affari girando a piedi. Ma una cosa era rimasta immutata: il cielo, lassù, in alto, era azzurro e picchiettato di nuvole come quello della Terra, e Sadler pensò che sicuramente la pioggia continuava a cadere secondo orari prestabiliti.
Balzò su una monoauto e compose l’indirizzo sul quadrante, poi si appoggiò comodamente allo schienale, mentre la vettura lo portava attraverso il traffico delle strade. Il bagaglio era già stato inviato all’albergo, e lui non aveva alcuna fretta di seguirlo. Appena in albergo, infatti, sarebbe stato subito preso nel giro degli affari e non avrebbe più avuto il tempo di occuparsi della faccenda che gli stava a cuore.
Il veicolo, procedendo veloce sui cavi-guide nascosti, s’infilò in una galleria che doveva servire a mettere in comunicazione due cupole. Poiché l’illusione del cielo era perfetta, non era facile capire quando si usciva da una cupola e si entrava in un’altra, ma Sadler lo capì quando la piccola vettura oltrepassò le grandi porte di metallo nella parte più bassa della galleria. Sapeva che quelle porte potevano chiudersi ermeticamente in meno di due secondi qualora ci fosse stata una diminuzione di pressione dall’una o dall’altra parte dei battenti. La preoccupazione che accadesse un simile incidente procurava notti insonni agli abitanti di Central City? Sadler ne dubitava: una gran parte dell’umanità aveva vissuto e viveva all’ombra di vulcani, dighe e argini senza per questo soffrire di tensione nervosa.
Il veicolo uscì nel quartiere residenziale, e agli occhi di Sadler si presentò una scena completamente diversa. Qui non c’era una cupola che racchiudeva una piccola città, ma un’unica, gigantesca costruzione, con corridoi mobili che fungevano da strade. La vettura si fermò, e una voce educata lo informò che, se voleva, con uno e cinquanta di extra l’avrebbe aspettato per mezz’ora. Ma Sadler, convinto che gli ci sarebbe voluto molto tempo solo per trovare il posto che cercava, declinò l’offerta, e la monoauto si allontanò alla ricerca di altri clienti.
Pochi metri più in là c’era un grande ufficio d’informazioni su cui troneggiava una mappa tridimensionale dell’edificio. Sadler, a cui pareva di trovarsi in un alveare, pensava che, con un po’ d’abitudine, doveva essere facile girare per l’edificio, ma per il momento la confusione di Piani, Corridoi, Zone e Settori gli faceva girare la testa.
— Cercate qualcosa, signore? — disse una voce squillante alle sue spalle.
Sadler si volse e vide un bambino di sei o sette anni che lo guardava con gli occhi sgranati. Aveva pressappoco la stessa età del suo nipotino Jonathan Peter II. Santo cielo, era proprio passato tanto tempo da quando era stato sulla Luna l’altra volta.
— Qui non si vede spesso gente della Terra — disse il ragazzino. — Vi siete perso?
— Non ancora — rispose Sadler. — Ma ci manca poco.
Poi tirò fuori il taccuino e lesse lentamente il complicato indirizzo.
— Venite — si limitò a dire il piccolo, autoproclamandosi guida, e Sadler fu ben lieto di seguirlo.
La rampa terminava bruscamente in una strada ampia dal fondo mobile. Questa li portò lentamente per qualche metro, poi li scaricò su un tratto che procedeva a Velocità più elevata. Dopo aver sorpassato velocemente gli ingressi di innumerevoli corridoi, furono di nuovo scaricati su un tronco più lento e condotti a un enorme crocevia esagonale, affollato di gente che arrivava, o si avviava sulle varie strade, o si fermava a fare acquisti nei piccoli chioschi. Nel bel mezzo di quel centro fitto di andirivieni, s’innalzavano due rampe a spirale, mobili, una per la salita e una per la discesa. Sadler e il bambino andarono davanti alla spirale “Salita” e si lasciarono trasportare per l’altezza di sei piani. Affacciandosi al parapetto della rampa, Sadler ebbe modo di vedere che l’edificio si estendeva verso il basso fino a distanza vertiginosa. Molto al di sotto, gli parve di scorgere qualcosa di simile a una grande rete. Fece rapidamente qualche calcolo e convenne che doveva essere sufficiente ad attutire la caduta di chiunque fosse stato così pazzo da volersi buttare giù. Gli architetti delle costruzioni lunari dimostravano di prendere la gravità con una leggerezza che sulla Terra sarebbe stata disastrosa.
Il crocevia superiore era identico a quello precedente, ma meno affollato, e si capiva che, per quanto la Repubblica Lunare Indipendente si proclamasse democratica, c’erano in essa le sottili distinzioni di classe che si riscontrano in tutte le forme di civiltà umana. Qui non c’era l’aristocrazia di ricchezza o di nascita, ma l’aristocrazia creata dalla responsabilità sarebbe sempre esistita. In quel posto, non si poteva sbagliare, vivevano quelli che governavano la Luna. Possedevano qualche bene e molte preoccupazioni più dei loro concittadini dei piani sottostanti, e tra un livello e l’altro gli scambi erano continui.
La piccola guida si fermò davanti a una porta e disse: — Eccoci arrivati. — La semplicità della dichiarazione fu neutralizzata dal sorriso di autocompiacimento che illuminava la faccia del bambino. Sadler stava pensando se doveva o no dargli la mancia, quando questo piccolo dilemma sociale venne risolto dalla guida che dichiarò: — Più di dieci piani fanno quindici soldi.
“Ah, dunque c’è una tariffa” commentò Sadler fra sé, e tese al bambino una moneta di valore superiore. Con sua sorpresa, il piccolo gli diede il resto: Sadler non si era reso conto che le note virtù lunari di onestà, iniziativa e lealtà erano radicate negli individui fin dall’infanzia.
— Non andartene — disse al bimbo mentre suonava il campanello. — Se per caso non c’è nessuno, mi riaccompagni giù.
— Non avete telefonato prima? — domandò il piccolo, guardandolo incredulo.
Sadler pensò che era inutile dargli una spiegazione. Gli energici coloni lunari (e che Dio lo guardasse dal chiamarli così a voce alta) disprezzavano le stravaganze e l’imprecisione degli antiquati Terrestri.
Comunque, sarebbe stato inutile telefonare, perché la persona che desiderava vedere era in casa.
— Non so se vi ricordiate di me — disse Sadler. — Mi trovavo all’Osservatorio Platone durante la battaglia di Pico. Sono Bertrand Sadler.
— Avete detto Sadler?… Mi spiace, ma così su due piedi non mi ricordo di voi. Entrate, mi fa sempre piacere ritrovare un vecchio amico.
Sadler entrò nell’appartamento, guardandosi intorno pieno di curiosità. Era la prima volta che entrava in una casa privata, sulla Luna, e come si era aspettato non c’era nulla che la differenziasse nettamente da un’abitazione terrestre dello stesso genere. Il fatto che fosse una celletta di un immenso alveare non ne diminuiva il suo valore di casa: erano passati ormai quasi due secoli, da che, salvo per un’esigua minoranza, la gente non viveva più in edifici separati, isolati. La parola casa aveva cambiato significato, col passare del tempo.
Nella sala di soggiorno, però, c’era qualcosa che una comune famiglia terrestre avrebbe trovato troppo antiquato. Si trattava di una foto murale animata, che occupava mezza parete, di una specie che Sadler non vedeva più da anni. Raffigurava un pendio alpino, chiazzato di neve, che dominava un villaggio situato a un chilometro circa più in basso. Nonostante la distanza apparente, tutti i particolari erano nitidissimi: le casette e la chiesa-giocattolo avevano i contorni netti e ben definiti degli oggetti visti dalla parte sbagliata di un binocolo. Al di là del villaggio, il terreno tornava a innalzarsi, sempre più ripido fino a svettare nell’enorme montagna che si stagliava contro il cielo, ornata sulla cima da un pennacchio di neve perenne che il vento sollevava e agitava.
Si trattava, come pensò Sadler, di una scena registrata un paio di secoli prima. Tuttavia avrebbe potuto essere stata ripresa in epoca più recente: la Terra riserba ancora simili sorprese, negli angoli fuori mano.
Prese la sedia che l’altro gli offriva e, per la prima volta da che era entrato, guardò colui che aveva anteposto ai suoi importanti affari. — Non vi ricordate di me? — domandò.
— Temo di no… ma non sono fisionomista, e i nomi mi sfuggono.
— Adesso ho circa il doppio dell’età di allora, quindi non c’è da stupirsi. Però voi non siete cambiato, professor Molton. Ricordo benissimo che foste la prima persona dell’Osservatorio a cui rivolsi la parola. Eravamo sul treno monorotaia proveniente da Central City e ammirammo insieme lo spettacolo del Sole che illuminava gli Appennini. Era qualche giorno prima della Battaglia di Pico, e la prima volta che venivo sulla Luna.
Sadler capiva che Molton non riusciva proprio a ricordare. Dopo tutto erano passati trent’anni.
— Non importa — continuò. — Non mi aspettavo che mi ricordaste, tanto più che non ero un vostro collega. Fui all’Osservatorio solo in veste di visitatore, e per poco tempo. Sono un contabile, io, non un astronomo.
— Ah, sì? — disse Molton, ancora incerto.
— Tuttavia, nonostante ufficialmente fossi all’Osservatorio per esaminarne la contabilità, le mie mansioni erano assai diverse. Allora, ero un agente del controspionaggio, incaricato di indagare su come fossero trapelate certe informazioni.
Stava osservando intensamente l’espressione del vecchio e vi colse, senza possibilità di dubbio, un lampo di sorpresa. Dopo un breve silenzio, Molton riprese: — Mi sembra di ricordare. Però avevo dimenticato il nome. È passato tanto tempo!
— Certo — ammise Sadler. — Però sono sicuro che vi ricorderete di alcune cose. La mia è una visita privata; ora non sono che un contabile, e basta. Posso dire, con un po’ di orgoglio, di aver fatto una bella carriera. Faccio parte dello studio Carter, Heargraves e Tilloston, e sono venuto qui per partecipare a una conferenza delle corporazioni lunari. Se volete una conferma, informatevi alla Camera di Commercio.
— Non riesco a capire… — cominciò Molton.
— Che cosa c’entriate voi? Ecco, lasciate che vi risvegli la memoria. Dunque, fui inviato all’Osservatorio per una indagine. C’era qualcuno che forniva indicazioni alla Federazione, e non si sapeva chi fosse né come ci riuscisse. Uno dei nostri agenti riferì che la falla era all’Osservatorio, così io venni mandato a dare un’occhiata.
— Andate avanti — fece Molton. Con un breve sorriso, Sadler continuò: — Sono un bravo contabile, ma come agente del controspionaggio dimostrai di non saperci fare. Sospettavo un sacco di gente, e alla fine non scoprii nulla, tranne un truffatore.
— Jenkins — l’interruppe all’improvviso Molton.
— Esatto, vedo che la vostra memoria non è così cattiva, professore. Comunque, non riuscii a smascherare la spia. Anzi, non riuscii neppure a provare la sua esistenza, sebbene battessi tutte le piste possibili. Naturalmente l’incarico un bel giorno finì, e io fui lieto di tornare al mio lavoro abituale. Ma in tutti questi anni mi ha turbato una discrepanza nel libro mastro: si trattava di una perdita, capite, e a me piace essere sempre all’attivo. Ma ormai avevo rinunciato a sanarla, quando, una quindicina di giorni fa, lessi il libro del commodoro Brennan. Voi lo avete letto?
— No, sebbene ne abbia sentito molto parlare.
Sadler frugò nella cartella che aveva con sé, ne tolse un grosso volume e lo porse a Molton.
— Ne ho portato una copia per voi. Sono sicuro che v’interesserà moltissimo. È un libro sensazionale, come del resto potrete giudicare dal gran parlare che se ne fa in tutto il Sistema. Non ha peli sulla lingua, e capisco come molti, nella Federazione, si trovino a disagio. Ma non è questo che m’interessa. Quello che ho trovato affascinante è stato il resoconto degli eventi che hanno condotto alla Battaglia di Pico. Immaginate la mia sorpresa quando ho letto che la Federazione aveva ricevuto informazioni di capitale importanza dall’Osservatorio. Vi cito il passo: “Uno dei più grandi astronomi terrestri, con un brillante sotterfugio tecnico, ci tenne informati degli sviluppi della situazione nel corso della costruzione del Progetto Thor. Non sarebbe leale dirne il nome, ma egli vive, in onorato riposo, sulla Luna”.
Ci fu una lunga pausa, la faccia rugosa di Molton pareva una maschera di granito, e non lasciava trapelare alcun sentimento.
— Professor Molton — continuò Sadler con enfasi — spero che mi crederete se vi ripeto che sono venuto qui in visita privata, spinto solo dalla curiosità. Inoltre siete cittadino della Repubblica, quindi, anche se volessi, non potrei farvi niente. Ma so che eravate voi la spia. La descrizione calza, e ho eliminato tutte le altre possibilità. Inoltre, alcuni miei amici della Federazione hanno dato una occhiata, privatissima, s’intende, agli archivi. È inutile dunque che fingiate di non saperne niente. Se non volete parlare, me ne andrò. Ma se siete disposto a farlo, e non vedo perché non dovreste, ormai, ve ne sarei molto grato, perché ci terrei moltissimo a sapere come facevate.
Molton aveva aperto il libro del commodoro Brennan e ne sfogliava l’indice. Poi scosse la testa.
— Non avrebbe dovuto parlarne — osservò seccamente, come tra sé. Sadler si lasciò sfuggire un sospiro di soddisfazione mentre lo scienziato si volgeva bruscamente verso di lui per domandargli: — Se ve ne parlo, che uso farete delle mie informazioni?
— Nessun uso, ve lo giuro.
— Qualche mio collega potrebbe risentirsene, anche se è passato tanto tempo. Non fu facile, sapete, e neppure divertente. Ma la Terra doveva smetterla di comportarsi come faceva, e io sono convinto di aver agito per il meglio.
— Il professor Jamieson… è lui il direttore, adesso, no? era della stessa idea, però non la mise in pratica.
— Lo so. Una volta mancò un pelo che mi confidassi con lui, ma forse è stato meglio che le cose siano andate così.
Molton s’interruppe per riflettere, e la sua faccia si spianò in un sorriso.
— Adesso ricordo — disse. — Vi feci vedere il mio laboratorio… Sospettavo un po’ di voi, sapete, perché mi pareva strano che aveste scelto quel momento per venire. Vi mostrai proprio tutto, finché vidi che vi annoiavate e ne avevate abbastanza.
— Era una cosa che succedeva spesso — osservò Sadler. — C’erano tanti di quegli strumenti, all’Osservatorio.
— Alcuni dei miei, però, erano unici. Neppure un mio collega avrebbe potuto sapere a che cosa servivano. Credo che voi cercaste una radio trasmittente, o qualcosa del genere, no?
— Sì. Avevamo dei rivelatori, ma non trovammo mai niente.
Molton, era chiaro, cominciava a divertirsi. Forse anche lui era rimasto un po’ deluso in tutti quei trent’anni, pensava Sadler, non avendo mai potuto parlare con nessuno di come era riuscito a farsi beffe del Dipartimento Terrestre della Sicurezza.
— Il bello è che il mio trasmettitore era messo bene in vista — proseguì Molton, — Anzi, debbo dire che era uno degli oggetti più evidenti, all’Osservatorio. Sapete, si trattava del telescopio da dieci metri.
Sadler lo guardò, incredulo.
— Non vi capisco.
— Pensate bene — riprese Molton, con tono da professore universitario, qual era stato dopo aver lasciato l’Osservatorio — a quello che fa un telescopio. Raccoglie la luce da un’esigua porzione di cielo, e la mette accuratamente a fuoco su di una lastra fotografica o sulla fessura di uno spettroscopio. Ma… un telescopio può funzionare in due sensi.
— Comincio a intuire.
— Il mio programma di osservazione comprendeva l’uso del dieci metri per studiare le stelle deboli. Lavoravo nel remoto ultravioletto che, naturalmente, è invisibile all’occhio umano. Mi bastava sostituire i miei abituali strumenti con una lampada a raggi ultravioletti, e immediatamente il telescopio diventava un riflettore di grande potenza e precisione, che emetteva un raggio così corto da poter essere captato solo nell’esatta porzione di cielo in cui io lo dirigevo. Trasmettere il raggio a intervalli, a scopo di segnalazione, era, come potete capire, cosa da nulla. Non potevo trasmettere personalmente in Morse, però costruii un modulatore automatico che lo faceva per me.
Sadler assaporava lentamente la rivelazione. Una volta esposta, l’idea pareva ridicolmente semplice. Sì, qualunque telescopio, adesso che ci pensava, doveva essere in grado di funzionare nei due sensi: raccogliere la luce delle stelle e mandare un raggio quasi esattamente parallelo a esse, accendendo una luce dalla parte dell’oculare. Molton aveva semplicemente trasformato il riflettore da dieci metri nella più grande torcia elettrica che fosse mai stata costruita.
— Dove dirigevate le vostre segnalazioni? — domandò.
— La Federazione aveva inviato una piccola astronave a circa dieci milioni di chilometri. Era convenuto che l’astronave si trovasse sempre in linea fra me e una piccola stella del cielo settentrionale sempre visibile sul mio orizzonte. Quando dovevo inviare una segnalazione (loro naturalmente, sapevano quando avevo i miei turni al telescopio) non avevo che da puntare il telescopio, ed ero sicuro che mi ricevevano. Avevano un piccolo telescopio, a bordo, con un ricevitore ultravioletto. Si tenevano in normale contatto radio con Marte. Mi capitava spesso di pensare quanto dovessero annoiarsi lassù, con nient’altro da fare che aspettare le mie segnalazioni. Certe volte passavano giorni e giorni senza che trasmettessi niente.
— Un’altra cosa mi interesserebbe sapere — l’interruppe Sadler. — Come ottenevate le informazioni?
— Oh, c’erano due metodi. Ricevevamo copie di tutti i giornali astronomici ed eravamo d’accordo che nelle pagine di certi, fra cui, per esempio, “L’Osservatorio”, ci fossero scritte fluorescenti, che potevano essere rivelate dalla luce ultravioletta. Nessuno, leggendo nel modo normale, avrebbe visto niente.
— E il secondo metodo?
— Andavo tutte le settimane in palestra a Central City. Come sapete, si lasciavano i vestiti in armadietti chiusi a chiave, quando ci si spogliava. Ma la sorveglianza agli ingressi non era tale da impedire che qualcosa scivolasse dentro non vista. Talvolta mi trovavo in tasca una normale scheda perforata, del tutto innocua a prima vista, simile a quelle che si sarebbero potute trovare a migliaia all’Osservatorio, e non solo nel reparto Calcoli. Io badavo sempre a tenermene qualcuna in tasca, perché quella sospetta non desse nell’occhio. Al mio ritorno, la decifravo e trasmettevo poi la risposta… erano sempre cifrate. E non ho mai scoperto chi le infilasse nel mio armadietto.
Molton s’interruppe e guardò Sadler in modo strano.
— Nel complesso — concluse — non credo proprio che voi aveste molte probabilità di scoprirmi. L’unico pericolo di cui temevo era che smascheraste qualche mio collega e, attraverso lui, raggiungeste anche me. Tutti gli apparecchi di cui mi servivo avevano anche una funzione scientifica. Perfino il modulatore era inserito in uno spettroanalizzatore mal riuscito che non mi ero mai dato la pena di disfare. Le mie trasmissioni duravano solo pochi minuti, ma bastavano per dire un mucchio di cose, poi continuavo il mio lavoro regolare.
Sadler guardò il vecchio astronomo con ammirazione sincera. Cominciava già a sentirsi molto meglio: il complesso d’inferiorità che lo tormentava da tanti anni era scomparso. Non aveva niente da rimproverarsi: era certo che nessuno avrebbe mai potuto scoprire le attività del professor Molton finché erano rimaste circoscritte nell’ambito dell’Osservatorio. Colpevoli piuttosto erano stati gli agenti del controspionaggio dislocati a Central City e al Progetto Thor, che avrebbero dovuto scoprire la falla dalle origini.
C’era ancora una domanda che Sadler avrebbe voluto fare, ma non riusciva a parlare. Dopo tutto, non era affar suo. Il come, ormai non era più un mistero, per lui, ma il perché era ancora senza risposta.
E di risposte ne poteva trovare mille. Gli studi fatti in passato gli avevano spiegato che un uomo come Molton non poteva essere diventato una spia per denaro, per amore del potere, o per altri motivi banali. Un impulso emotivo aveva dovuto attirarlo sulla strada che poi aveva scelto, e le sue azioni erano state il frutto dell’intimo convincimento di essere dalla parte della ragione. Anche la logica gli aveva forse detto che bisognava sostenere la Federazione contro la Terra; tuttavia in un caso come quello, la logica non poteva essere stata sufficiente da sola.
Forse intuendo il pensiero di Sadler, Molton si diresse verso l’ampia libreria e fece scivolare uno dei pannelli che la chiudevano.
— Una volta — disse — lessi una citazione che mi consolò molto. Non so se chi la scrisse lo fece con lo scopo di essere cinico o no, so che per me è molto vera. La disse, mi pare, un uomo politico francese, che si chiamava Talleyrand, circa quattro secoli fa. Ecco la frase: “Che cos’è il tradimento? Una semplice questione di date”. Meditatela bene, signor Sadler.
Tornò dalla libreria portando una caraffa e due bicchieri.
— Una mia piccola mania — disse. — È l’ultima vendemmia di Espero. I Francesi mi prendono in giro, ma io dico che regge il confronto con il miglior vino del mondo.
Fecero tintinnare i bicchieri.
— Alla pace tra i pianeti — disse il professor Molton — e che nessuno, mai, debba sostenere la parte che fu assegnata a noi.
La spia e l’agente del controspionaggio brindarono davanti al paesaggio lontano quattrocentomila chilometri nello spazio e due secoli nel tempo. Entrambi erano avvolti nei ricordi, ma l’amarezza era svanita. Non c’era altro da aggiungere, ormai: per tutti e due la storia era finita.
Molton accompagnò Sadler nel corridoio, oltre le silenziose fontane che fiancheggiavano la sua abitazione, e fino al pavimento mobile che l’avrebbe portato all’incrocio principale.
Mentre tornava nella sua casa, aspirando il profumo del piccolo giardino, fu quasi travolto da un gruppo di bimbi vocianti che correvano verso il campo da gioco del Settore Nove. Il corridoio echeggiò per un momento delle loro voci acute; poi i bimbi scomparvero come una improvvisa folata di vento.
Il professor Molton sorrise guardandoli correre verso il loro luminoso, sicuro avvenire, quell’avvenire che lui aveva contribuito a creare. Aveva avuto molte consolazioni, e questa era una delle più grandi. L’umanità, per quanto la sua immaginazione potesse spingersi avanti nel tempo, non si sarebbe mai più divisa per rivoltarsi contro se stessa. Perché sopra di lui, oltre il tetto che ricopriva Central City, l’inesauribile ricchezza della Luna veniva distribuita nello spazio a tutti i pianeti di cui adesso l’uomo era padrone.