— Sono sempre del parere che si scatenerà il finimondo, quando il vecchio verrà a saperlo — disse Jamieson mentre il trattore si dirigeva verso la parete meridionale del Platone.
— E perché dovrebbe venirlo a sapere? — fece Wheeler di rimando. — Al suo ritorno avrà troppo da fare per occuparsi di noi. E poi, in fin dei conti, paghiamo il carburante che adoperiamo. Quindi, piantala di preoccuparti e goditela! È la nostra giornata di libertà, casomai te ne fossi scordato!
Jamieson non rispose, poiché era troppo occupato a guardare la strada che gli si stendeva davanti, posto che la si potesse chiamare strada. L’unico indizio che altri veicoli l’avevano percorsa era qualche solco nella polvere, e poiché quei segni sarebbero rimasti per l’eternità lì sulla Luna dove non soffiava il vento, non occorrevano altre indicazioni. Di tanto in tanto ci si imbatteva in cartelli che dicevano: “Pericolo-Fenditure “, o: “Rifornimento ossigeno a 10 Km”.
Sulla Luna esistono due soli tipi di mezzi da trasporto per le grandi distanze: il treno celerissimo monorotaia che collega le principali installazioni con servizio comodo e veloce a orario fisso, il cui uso però è molto limitato e destinato a restare tale a causa del costo, e i potenti trattori a turbina chiamati “caterpillar” o, più brevemente, “cat”. Su terreno liscio fanno anche i cento all’ora, ma normalmente possono considerarsi fortunati se riescono ad arrivare a cinquanta. Grazie alla diminuita forza di gravità e ai cingoli, questi veicoli sono capaci di inerpicarsi su incredibili pendenze e, in casi particolari, avendo incorporati dei paranchi, possono anche salire su dirupi verticali. Sui tipi di maggiori dimensioni si può vivere comodamente per qualche settimana, e infatti tutte le esplorazioni lunari sono state compiute a bordo di veicoli di questo genere.
Jamieson era un guidatore più che provetto e conosceva le strade a menadito. Ciononostante, per tutta la prima ora, Wheeler si sentì i capelli ritti in cima alla testa, convinto che gli sarebbero rimasti così per sempre. Ci voleva inevitabilmente un po’ di tempo perché i novellini si rendessero conto che le pendenze di 90° sulla Luna si potevano superare benissimo, se prese nel giusto modo. Forse però la paura di Wheeler non era dovuta al fatto di essere un novizio, ma alla tecnica di Jamieson, così poco ortodossa che anche un passeggero più esperto si sarebbe allarmato.
Il perché poi Jamieson fosse un conducente così estroso era un paradosso che aveva provocato tra i suoi colleghi più d’una discussione. Di solito era cauto e prudente e non agiva se prima non era sicuro delle conseguenze. Certi lo giudicavano pigro, ma sbagliavano. Era capace di passare settimane a lavorare su alcune osservazioni finché non era più che sicuro dei risultati, e allora li metteva da parte per due o tre mesi, per riprenderli in esame più tardi.
Eppure, quando era alla guida di un cat, quell’astronomo tranquillo e pacifico diventava un conducente temerario, detentore di tutti i records ufficiosi sulle piste da trattori dell’emisfero settentrionale. La causa era talmente recondita che lo stesso Jamieson non se ne rendeva conto: andava ricercata in un suo desiderio infantile di diventare spaziale, desiderio che il suo cuore difettoso aveva frustrato.
Dallo spazio, o anche osservandole da un telescopio terrestre, quando la luce del Sole le fa spiccare con maggior risalto, le pareti del Platone sembrano una barriera formidabile. Ma in realtà non arrivano ai mille metri d’altezza, e a saper scegliere la strada giusta fra i numerosi valichi, il tragitto dal cratere al Mare Imbrium non presenta soverchie difficoltà. Jamieson superò le montagne in meno di un’ora, anche se Wheeler avrebbe preferito che impiegasse un po’ più di tempo.
Si fermarono in cima a una scarpata che dominava la pianura. Dritta davanti a loro, stagliata contro l’orizzonte, si ergeva la guglia piramidale di Pico. Verso destra, digradanti a nordest, erano i più scoscesi picchi dei Monti Teneriffe, di cui solo pochi erano stati scalati per il semplice motivo che nessuno si era preso il disturbo di tentare l’impresa. La vivida luce della Terra, conferiva ai monti una fantastica tinta verdazzurra che contrastava molto col loro abituale aspetto nel corso del giorno lunare quando il sole abbagliante li colorava spietatamente di bianco e nero.
Mentre Jamieson si riposava gustando lo spettacolo, Wheeler si mise a studiare accanitamente il paesaggio con un potente binocolo. Dopo dieci minuti smise, visto che non aveva scoperto niente d’insolito. Ma non era deluso, in quanto la zona dove prendevano terra i razzi non preannunciati era molto al di sotto dell’orizzonte.
— Andiamo avanti — disse. — Potremo raggiungere Pico in un paio d’ore. Ci fermeremo là a mangiare.
— E poi? — fece Jamieson in tono rassegnato.
— Se non riusciremo a vedere niente, ce ne torneremo indietro come bravi bambini.
— Okay… Però d’ora in avanti non sarà un viaggio molto piacevole. Non credo che più d’una dozzina di trattori abbiano mai fatto questo percorso. Per tirarti su il morale aggiungerò che uno di essi è il nostro Ferdinando.
Fece avanzare il veicolo evitando abilmente un ampio declivio formato da frantumi di roccia accumulatasi nei millenni. Quelle collinette erano estremamente pericolose, perché bastava un nonnulla a mettere in moto irresistibili valanghe che travolgevano ogni cosa sul loro percorso. Malgrado la sua apparente noncuranza, Jamieson non amava correre rischi e stava sempre alla larga da simili trappole. Un conducente meno esperto avrebbe allegramente galoppato lungo la base della collina, senza pensarci su due volte… e in novantanove casi su cento ce l’avrebbe fatta. Ma Jamieson aveva visto che cosa accadeva nel centesimo caso. Quando l’ondata di polvere e di pietrisco avvolgeva un trattore, non c’era via di scampo, poiché tutti i tentativi per trarlo in salvo sarebbero unicamente serviti a provocare nuove slavine.
Wheeler cominciò a sentirsi nettamente a disagio quando iniziarono la discesa dei contrafforti esterni del Platone. Era strano, dal momento che erano meno scoscesi delle pareti interne, però non aveva tenuto conto del fatto che Jamieson avrebbe approfittato delle migliorate condizioni per accelerare, col risultato che Ferdinando procedeva con uno strano moto sussultorio.
Wheeler si ritirò nella parte posteriore del yeicolo, e per un po’ non lo si vide. Quando tornò accanto a lui, disse seccamente: — Nessuno mi aveva mai avvisato che si può soffrire di mal di mare sulla Luna!
Jamieson proseguì per quasi due ore, fin quando, alla fine, la triplice torre di Pico non dominò l’orizzonte antistante.
I viaggiatori si fermarono in quel punto per mangiare qualcosa e farsi un caffè. Uno dei piccoli disagi della vita sulla Luna è costituito dal fatto che non si possono bere bevande veramente calde, in quanto l’acqua bolle a circa 70° nell’atmosfera ricca di ossigeno e a bassa pressione. Dopo un poco, tuttavia, ci si abitua alle bevande tiepide.
Dopo che ebbero spazzato le briciole del pasto, Jamieson chiese al collega: — Sei sempre dell’idea di continuare?
— Sì, finché sarà possibile. Da qui, quelle pareti mi sembrano orribilmente ripide.
— Si potrà benissimo andare avanti, se farai quello che ti dirò. Volevo solo sapere come ti senti adesso. Non c’è niente di peggio che soffrire di nausea quando si indossa una tuta spaziale.
— Io sto benone — disse Wheeler con dignità.
Nel corso dei sei mesi passati sulla Luna, Wheeler aveva indossato la tuta spaziale non più di una dozzina di volte, e generalmente nel corso delle prove d’allarme. Le occasioni perché il personale dell’Osservatorio dovesse recarsi nel vuoto erano assai rare. Tuttavia Wheeler non si poteva dire proprio un novizio, anche se si trovava ancora in quello stadio improntato alla cautela, molto meno rischioso della sicurezza distratta.
Chiamarono la Base, via Terra, per riferire la loro posizione, poi si aiutarono a vicenda a indossare la tuta. Prima Jamieson, quindi Wheeler, ripeterono la cantilena: — A linee aeree, B batterie, C controlli, D antenna direzionale… — che pare così sciocca e puerile la prima volta che la si ascolta, ma che diventa tanto presto parte integrale della vita lunare e sulla quale nessuno si permette di scherzare. Quando furono sicuri che l’equipaggiamento era in condizioni perfette, aprirono le porte stagne e uscirono sulla pianura polverosa.
Come quasi tutte le montagne della Luna, anche Pico non era poi formidabile come pareva da lontano. C’erano alcune rocce verticali, ma si poteva evitarle e al massimo si dovevano superare asperità di quarantacinque gradi. Con la gravità ridotta a un sesto di quella terrestre, non era impresa ardua, anche indossando la tuta spaziale.
Ciononostante, mezz’ora dopo aver iniziato l’ascesa, Wheeler ansimava come un mantice, e la finestrella del suo casco era talmente offuscata dal vapore acqueo che il giovane doveva sbirciare dai lati per poter vedere. Sebbene fosse troppo cocciuto per proporre di rallentare l’andatura, fu tuttavia contento quando Jamieson disse di fermarsi.
Sovrastavano ormai di un buon chilometro la pianura, e la loro vista poteva spaziare per una cinquantina di chilometri in direzione nord.
Bastò loro un momento per trovare quello che cercavano. A metà strada verso l’orizzonte, due enormi astronavi da trasporto se ne stavano acquattate sui loro supporti come ragni giganteschi. Per quanto grandi fossero, parevano nani accanto alla singolare costruzione a forma di cupola che spuntava dal fondo della pianura. Non si trattava di una delle solite cupole a pressione, e pareva che tutte le sue proporzioni fossero sbagliate. Aveva l’aspetto di una sfera completa, immersa per una piccola parte nella sabbia, in modo che ne restavano visibili tre quarti. Col binocolo speciale grazie al quale si poteva vedere bene nonostante il casco, Wheeler riuscì a distinguere uomini e macchine in movimento intorno alla base della cupola. Di tanto in tanto nubi di polvere salivano al cielo per poi ricadere, come se laggiù stessero facendo esplodere qualcosa. “Ecco un’altra cosa strana sulla Luna” pensò il giovane. “Quasi tutti gli oggetti cadono troppo lentamente in questo campo gravitazionale, ma la polvere cade troppo in fretta, anche se poi la velocità è proporzionalmente la stessa, perché non c’è aria che ne ostacoli la discesa.”
— Ecco — commentò Jamieson dopo aver guardato anche lui a lungo col binocolo. — Qualcuno sta spendendo un sacco di quattrini, laggiù.
— Cosa credi che sia? Una miniera?
— Può darsi — rispose l’altro con la sua solita cautela. — Forse hanno deciso di esaminare i minerali giacenti in quel posto e l’impianto di estrazione si trova sotto la cupola. Ma è solo una ipotesi.
— Possiamo arrivare là in meno di un’ora. Di’, ci andiamo a dare un’occhiata più da vicino?
— Temevo proprio di sentirtelo dire. Non mi pare che sia una cosa saggia. Potrebbero non lasciarci più andar via.
— Hai letto troppi libri gialli. Si direbbe che siamo in guerra e noi due siamo una coppia di spie. Non ci possono trattenere. All’Osservatorio sanno dove siamo. Se non tornassimo il direttore farebbe fuoco e fiamme.
— Ho idea che farà fuoco e fiamme comunque, quando torneremo. Quindi, tanto vale rischiare. Vieni, la discesa è più facile.
— E chi ha detto che la salita fosse più difficile? — protestò Wheeler, senza eccessiva convinzione. Pochi istanti dopo, mentre seguiva Jamieson giù per il pendio, verso il punto dove avevano lasciato il trattore, lo colpì un pensiero inquietante.
— Non credi che quelli ci stiano ascoltando? Immagina che qualcuno abbia inserito una stazione di sorveglianza sulla nostra frequenza… e che qualcuno abbia sentito quello che abbiamo detto. In fin dei conti ci troviamo in linea retta rispetto a loro.
— Chi esagera, adesso? Nessuno, oltre all’Osservatorio, sta in ascolto su questa frequenza, e i nostri non ci possono sentire, con tutte le montagne di mezzo. A sentirti parlare così si direbbe che hai la coscienza sporca.
Era una velata allusione, questa, a uno spiacevole incidente accaduto poco dopo l’arrivo di Wheeler. Da allora, l’astronomo non aveva più dimenticato di stare attento a come parlava, perché se sulla Terra le conversazioni a tu per tu sono una faccenda privata, non lo sono altrettanto sulla Luna quando si indossa la tuta spaziale, perché in questo caso chiunque possa captare la trasmissione l’ascolterà fin nei minimi particolari.
Man mano che scendevano verso la pianura, l’orizzonte si restringeva davanti a loro, ma loro avevano già preso accurati rilievi e sapevano dove dirigersi, una volta tornati a bordo di Ferdinando. Quando ripartirono, Jamieson guidò con estrema cautela perché non aveva mai percorso quel tragitto. Ci vollero quasi due ore prima che l’enigmatica cupola cominciasse a stagliarsi contro il cielo, affiancata poco più innanzi dai cilindri appiattiti delle astronavi da trasporto.
Poi Wheeler tornò a dirigere l’antenna del trattore verso la Terra e chiamò l’Osservatorio per spiegare quello che avevano scoperto e quello che intendevano fare. Troncò la comunicazione prima che qualcuno avesse il tempo di dirgli di non farlo, riflettendo a quanto fosse pazzesco il fatto di dover mandare un messaggio a ottocentomila chilometri di distanza per poter parlare con qualcuno lontano solo cento.
Ma non c’era altro modo per ottenere una comunicazione a distanza sul livello del suolo: tutto ciò che si trovava oltre l’orizzonte veniva bloccato dalla Luna che funzionava come uno schermo. Talvolta, è vero, servendosi delle onde lunghe era possibile inviare segnalazioni a grande distanza, col sistema di rifletterle dalla tenue ionosfera della Luna, ma non ci si poteva fidare che questo metodo funzionasse sempre. Per ogni uso pratico, il contatto radio lunare doveva aver luogo sulla base della “linea visiva”.
Fu alquanto divertente notare il movimento provocato dal loro arrivo. A Wheeler pareva d’essere in un formicaio stuzzicato con un bastoncino. In pochi istanti si trovarono circondati da trattori, altri veicoli e uomini eccitati in tuta, che li attorniarono così da vicino da obbligare Ferdinando a fermarsi.
— Da un momento all’altro chiameranno le guardie — disse Wheeler.
— Non dovresti scherzare così — lo rimproverò Jamieson. — Potrebbe accadere sul serio, sai?
— Ecco il comitato di ricevimento. Leggi che cos’ha scritto sull’elmetto? S Due, no? Dev’essere “sezione”.
— Sì, ma potrebbe anche essere “sicurezza”…
In quella si udirono dei colpi perentori sulla parte esterna della porta stagna. Jamieson premette il pulsante che l’apriva, e un momento dopo il “comitato di ricevimento”, entrato in cabina, si toglieva l’elmetto. Era un uomo coi capelli brizzolati, i lineamenti duri, un’espressione preoccupata che sembrava intimamente connessa con il suo carattere. Non aveva affatto l’aria di essere lieto di vederli.
Guardò i due giovani pensosamente, mentre loro sfoderavano il sorriso più cordiale.
— Di solito non abbiamo visite da questi queste parti — disse. — Come mai siete capitati qui?
— È la nostra giornata di libertà — rispose Wheeler. — Lavoriamo all’Osservatorio. Questo è il signor Jamieson, io sono Wheeler. Tutti e due astrofisici. Sapevamo che vi trovavate da queste parti e abbiamo deciso di venire a dare un’occhiata.
— Come facevate a saperlo? — ribatté bruscamente l’altro. Non si era presentato, e se una cosa simile sulla Terra sarebbe parsa maleducata, sulla Luna era addirittura urtante.
— Come forse sapete — spiegò Wheeler conciliante — su all’Osservatorio abbiamo un paio di telescopi potentissimi, e voi ci avete dato un sacco di fastidio. Il bagliore provocato da un razzo, per esempio, mi ha rovinato due spettrogrammi. Vi sembra quindi tanto inspiegabile la nostra visita?
Un lieve sorriso addolcì per un attimo l’espressione dello sconosciuto e subito sparì. Però l’atmosfera sembrò un poco alleggerita.
— Forse è meglio che veniate in ufficio con me, mentre facciamo qualche controllo.
I due astronomi s’infilarono le tute e seguirono la loro guida fuori dalla porta stagna. Nonostante l’aggressività che gli derivava dal sentirsi innocente, Wheeler cominciava a essere un po’ preoccupato. Prevedeva già ogni sorta di spiacevoli conseguenze, e per tutta consolazione gli tornava alla mente tutto quello che aveva letto a proposito di spie, segregazione, muri di mattoni all’alba…
Furono condotti davanti a una porta nascosta nella curva dell’enorme cupola, e una volta entrati si ritrovarono davanti a un secondo muro sferico, concentrico al primo. I due involucri erano divisi da un complesso reticolato di materia plastica, di cui era formato anche il pavimento. Tutto questo parve molto strano a Wheeler, ma non ebbe il tempo di esaminare né pareti né pavimento: la loro guida silenziosa li precedeva di buon passo, come se volesse evitare di proposito che vedessero quello che li circondava. Entrarono nella cupola interna attraverso una seconda porta stagna e si tolsero le tute. Wheeler si chiese quando gli avrebbero dato il permesso di tornare a indossarle. La lunghezza del compartimento stagno stava a indicare che la cupola interna era di spessore enorme, e allorché la porta che immetteva nel suo interno si aprì, i due astronomi percepirono un odore noto: odore di ozono, che indicava non lontana la presenza di un impianto elettrico ad alto voltaggio. Questo particolare non aveva in sé niente di notevole, però era anch’esso da notare, in previsione di dover riferire quanto avevano visto.
Il compartimento stagno si apriva su di un piccolo corridoio fiancheggiato da porte su cui erano stampati dei numeri e spiccavano targhette recanti scritte come: Privato — Solo Personale Tecnico — Informazioni — Energia di Emergenza — Controllo Centrale. Né Wheeler né Jamieson erano in grado di trarre molte deduzioni da queste notizie, ma si guardarono pensosi quando si fermarono finalmente davanti a una porta su cui era scritto: Sicurezza.
L’espressione di Jamieson significava: «Te lo avevo detto!».
Dopo una breve pausa, un «Avanti!» luminoso brillò sul pannello e la porta si aprì automaticamente. Al di là c’era un comunissimo ufficio dominato da un uomo dal piglio deciso che sedeva davanti a una scrivania enorme, le cui dimensioni proclamavano ai quattro venti che lì non si badava a spese. Gli astronomi fecero un amaro confronto con l’arredamento dei loro uffici. Una telescrivente di tipo insolitamente complesso era posata su un tavolo in un angolo, mentre per il resto le pareti erano ricoperte da schedari.
— Allora? — disse il funzionario della Sicurezza. — Chi sono questi due?
— Due astronomi dell’Osservatorio di Platone. Sono capitati qui con un trattore e ho pensato che vi sarebbe piaciuto vederli.
— Certo! Come vi chiamate?
Seguì un noioso quarto d’ora durante il quale i loro dati vennero accuratamente trascritti e l’Osservato rio fu chiamato per radio. “Il che” pensò Wheeler “significa che la frittata è fatta.” I loro amici del reparto Segnalazioni che avevano tracciato tutto il tragitto in previsione di qualche incidente avrebbero dovuto fare un rapporto ufficiale sulla loro assenza.
Quando, alla fine, la loro identità fu stabilita, l’uomo seduto all’imponente scrivania li guardò perplesso. Poi il suo cipiglio si spianò, e lui disse: — Vi renderete certo conto che qui siete d’impiccio. Non ci aspettavamo visite, altrimenti avremmo messo dei cartelli per vietare l’accesso. Inutile dire che abbiamo i mezzi per scoprire qualunque tentativo clandestino d’ingresso, posto che ci sia qualcuno così poco intelligente da non venire qui apertamente come avete fatto voi. Comunque, siete qui e mi pare che non sia successo niente di male. Avrete già indovinato che questo è un progetto governativo, e per ora non vogliamo che se ne parli minimamente. Vi rimandiamo all’Osservatorio ma esigo due cose da voi.
— E cioè? — fece Jamieson, sospettoso.
— Voglio che mi promettiate di non parlare più del necessario di questa visita. I vostri amici sapranno dove vi siete recati, ragion per cui non potrete tenerlo segreto; però non dovrete starne a discutere con loro. Ecco tutto.
— D’accordo — convenne Jamieson. — E la seconda?
— Se qualcuno dovesse insistere a farvi domande e a mostrare un particolare interesse nei riguardi di questa avventura, riferitemelo subito. Questo è tutto. Spero che farete un buon viaggio.
Cinque minuti dopo, tornati sul trattore, Wheeler ribolliva ancora d’ira:
— Accidenti a lui e alle sue arie! Non ci ha neppure offerto da fumare.
— Io penso che siamo stati fortunati a cavarcela così facilmente — obiettò Jamieson in tono conciliante. — Deve trattarsi di un progetto di grande importanza…
— Non mi piacciono le storie di quel genere. Ti è parso che fosse una miniera, quella? E perché mai dovrebbero scavare una miniera in un cratere sterile?
— Io sono convinto che si tratti proprio di una miniera. Mentre stavamo arrivando ho visto qualcosa che somigliava molto a una perforatrice, al di là della cupola. Ma non riesco a conciliare tutto questo con quella cretineria di segreti e misteri.
— A meno che non abbiano scoperto qualcosa che vogliono tenere nascosto alla Federazione.
— In tal caso neppure noi riusciremo a scoprire di che si tratta, ragione per cui sarà meglio che la smettiamo di scervellarci. Ma per tornare ad argomenti d’ordine pratico, da qui dove andiamo?
— Continuiamo a seguire il nostro progetto originale. Potrebbe passare molto tempo prima che si abbia ancora l’occasione di servirci di Ferdinando, e quindi è meglio sfruttare il momento. Inoltre è sempre stato uno dei miei desideri vedere da vicino il Sinus Iridum.
— Ma si trova a trecento chilometri buoni a est di qui!
— Sì, però tu hai detto che il percorso è pianeggiante: se evitiamo le montagne, ce la potremo fare in cinque ore. Sono anch’io un buon conducente e potrò darti il cambio, se vorrai riposarti.
— No, finché saremo su un tratto mai percorso… sarebbe troppo rischioso. Ma possiamo scendere a un compromesso. Io guiderò fino al Promontorio Laplace, così potrai dare un’occhiata alla baia. Dopo guiderai tu fino a casa, seguendo la traccia segnata da me. E ricordati che dovrai seguirla con la massima precisione, mi raccomando.
Wheeler accettò volentieri. Aveva temuto che Jamieson volesse rinunciare alla gita per tornare direttamente all’Osservatorio, ma dovette ammettere di aver giudicato male il compagno.
Nelle tre ore che seguirono, zigzagarono lungo le pendici dei Monti Teneriffe, poi attraversarono la pianura fino a Straight Range, la solitaria catena montuosa che pareva una debole copia delle Alpi. Jamieson era attentissimo alla guida, ora che si trovava in una zona sconosciuta: non voleva correre rischi. Di tanto in tanto indicava all’amico dei punti famosi, che Wheeler controllava sulla carta topografica.
Si fermarono a mangiare a una decina di chilometri a est di Straight Range, esaminando il contenuto delle scatole fornite dalla cucina dell’Osservatorio. Un angolo del trattore era stipato di provviste, come una piccola dispensa, ma i due giovani non avevano intenzione di approfittarne troppo. Né Wheeler né Jamieson erano abbastanza bravi cuochi per divertirsi a organizzare un pranzo, e quel giorno, in fin dei conti, erano in vacanza.
— Sid — disse a un tratto Wheeler tra un boccone e l’altro — che ne pensi della Federazione? Ne hai conosciuti più membri di me…
— Sì, e mi hanno fatto un’ottima impressione. Peccato che tu sia arrivato dopo la partenza dell’ultimo gruppo. All’Osservatorio ce n’erano una dozzina venuti per il montaggio del telescopio. Hanno intenzione di montarne uno da un metro e quindici su una delle lune di Saturno.
— Ottimo progetto. Ho sempre detto che qui siamo troppo vicini al Sole. Lassù non avranno la luce zodiacale e tutte le altre specie di pulviscolo astrale che disturbano nei pianeti interni. Ma tornando al discorso di prima: ti è parso che avessero voglia di mettersi a litigare con la Terra?
— Difficile dirlo. Erano molto aperti e cordiali con noi, ma forse il fatto di trovarsi tutti fra scienziati contribuiva molto a questo. Se fossero stati politicanti o statali, le cose magari sarebbero andate diversamente.
— Ma anche noi siamo statali, in fondo! Quel tale… quel Sadler, me l’ha ricordato non più tardi dell’altro giorno.
— Siamo però almeno statali scientifici, il che è diverso. Ti assicuro che se ne infischiavano della Terra anche se erano troppo preoccupati per dirlo. Certo, sono seccati per via dell’assegnazione dei metalli, perché li ho sentiti lamentarsi più volte in proposito. Insistono soprattutto sul fatto che loro incontrano molte più difficoltà di noi nello stabilirsi sui pianeti esterni e che la Terra spreca metà delle materie che adopera.
— Secondo te, chi ha ragione?
— Non lo so: è difficile valutare tutti i fatti. Ma sulla Terra ci sono molti che temono la Federazione e non vogliono concederle maggior potere. I Federali lo sanno, e verrà magari il momento che prima allungheranno le mani a prendere quello che vogliono e poi discuteranno.
Jamieson appallottolò i sacchetti vuoti e li gettò nel cesto dei rifiuti. Diede un’occhiata al cronometro, poi tornò a infilarsi al posto di guida. — È ora di rimettersi in cammino — disse. — Siamo in ritardo sulla tabella di marcia.