Le cose si fanno più calme. I messaggi dall’interno di Gengis Mao indicano che la crisi medica è passata. Il Khan si sta riprendendo, gli affanni del mattino non avranno conseguenze gravi. A mezzogiorno, Mordecai si veste finalmente: vestiti da medico, di un grigio neutro. Si sente stravolto, disorientato; troppo sonno, dopo tutti quei mesi di insonnia: il sonnellino tra le braccia di Nikki e poi la lunga dormita nell’amaca, sia pure interrotta dall’emergenza, e adesso sente la mente annebbiata. Ma arriverà in qualche modo alla fine della giornata senza che la cosa si noti troppo.
Dirigendosi verso lo studio, attraversa come al solito il Vettore di Sorveglianza Uno, molto più tranquillo ora di quanto non fosse un quindici-venti minuti prima. Gli alti papaveri se ne sono andati, Gonchigdorge e Horthy e Labile e tutta quella folla, non rimane nessuno tranne tre sottoposti, un Citpol e due aiutanti di Avogadro; fissano seri il mosaico tremolante che fluttua attraverso le centinaia di schermi. Hanno gli occhi spenti. Sovraccarico d’informazione, di questo si tratta. Vedono così tanto che non sanno più quel che stanno vedendo.
Aggirando il Vettore di Comitato Uno, Shadrach, che non ha voglia di irrompere nel mezzo di una riunione di politicanti in quella mattinata tesa, segue la via più lunga per arrivare al proprio studio, passando per lo studio vuoto di Gengis Mao e per la maestosa sala da pranzo del Khan. Come sempre, è rassicurante per lui ritrovarsi circondato dalla familiarità dei suoi talismani, i suoi libri, la sua collezione di strumenti medici. Vaga da una bacheca all’altra, sentendosi già meglio. Prende in mano il suo divaricatore, un sinistro forcipe a gomiti divergenti usato per curiosare nelle ferite aperte. Pensa a Mangu, spiaccicato contro la pavimentazione dello spiazzo; scaccia il pensiero. Esamina la sega a denti sottili che qualche chirurgo del diciottesimo secolo usava per portare a termine operazioni. Pensa a Gengis Mao, livido, gli occhi vitrei, intento a ordinare arresti di massa. Decapitateli tutti! Potrebbe essere quello il prossimo passo; perché no? Mordecai raccoglie una bambola anatomica proveniente dalla Bologna del quindicesimo secolo, un elegante homunculus femmina in avorio… Qual è il femminile di homunculus, si chiede? Homuncula? Foeminacula? La pancia e il seno si sollevano alla pressione di un polpastrello, rivelando cuore, polmoni, organi addominali, perfino un feto, accoccolato nell’utero come un canguro nel marsupio. E i libri, oh, sì, i preziosi libri polverosi, precedentemente posseduti da grandi medici di Vienna, Montreal, Savannah, New Orleans. Il Philonium Pharmaceuticum et Cheirurgicum di Valesco de Taranta, 1599! La Gynaecologia Historico-Medica di Martin Schurig, 1730, ricca di dettagli di deflorazione, lussuria, penis captivus e altre cose mirabolanti! E questo è il vecchio Die Cellularpathologie di Rudolf Virchow, del 1852, che proclama come ogni organismo vivente sia “uno Stato di cellule in cui ogni cellula è un cittadino”, come una malattia sia “un conflitto tra i cittadini di questo Stato, originato dall’azione di forze esterne”. Aux armes, citoyens! Cos’avrebbe detto Virchow di fegati trapiantati, polmoni presi a prestito? Li avrebbe chiamati mercenari assoldati, non c’è dubbio: i soldati di ventura della metafora medica. Almeno si combatte lealmente, nelle guerre cellulari: senza defenestrazioni furtive, senza cecchini sul cavalcavia. E questo libro enorme: Grootdoorn, Iconographia Medicalis, seducenti incisioni antiche. Ecco, qui, San Cosma e San Damiano in questo ritratto del sedicesimo secolo, rappresentati nell’atto di attaccare la gamba del moro ucciso al moncherino della vittima di un tumore. Profetico. Chirurgia del trapianto versione ’500 dopo Cristo, eseguita postuma, niente di meno, dai sacri chirurghi. Se mai troverò l’originale di quella stampa, pensa Shadrach, lo regalerò a Warhaftig per Hanukkà.
Passa più di un’ora ad aggiornare la scheda medica di Gengis Mao: dettando un rapporto sull’operazione al fegato, aggiunge una postilla relativa al breve episodio di allarme del mattino. Un giorno il dossier su Gengis Mao sarà un classico della medicina, a fianco del Papiro di Smith e della Fabrica, e lui ci lavora su con impegno e coscienza, preparandosi il posto nella storia della propria arte. Ha appena terminato il resoconto, quando arriva una telefonata di Katya Lindman.
— Puoi scendere al laboratorio del Talos? — gli chiede. — Mi farebbe piacere mostrarti la nostra ultima simulazione.
— Lo posso immaginare. Hai sentito di Mangu?
— Naturalmente.
— Non sembri troppo preoccupata.
— Che cos’era Mangu? Mangu era un’assenza. Ora l’assenza è assente. La sua morte è stata un evento di portata maggiore di tutta la sua esistenza.
— Dubito che lui vedesse la cosa allo stesso modo.
— Sei così sensibile, Shadrach — dice lei nella voce piatta che, lui lo sa, Katya riserva alle espressioni di sarcasmo. — Vorrei provare anch’io l’amore che provi tu per il genere umano.
— Sarò lì tra un quarto d’ora, Katya.
Il laboratorio è al nono piano della Grande Torre, un posto decorato da un coacervo di cavi, connettori, circuiti stampati, coassiali, casse intere di chip a bolla, abbastanza materiale elettronico da strangolare un brontosauro. Nel mezzo di questo labirinto di equipaggiamento si materializza Lindman, che viene verso di lui con la sua andatura abituale: passi lunghi, affrettati. È tutta attività, l’immagine classica della scienziata iperefficiente. Indossa una camicetta bianca, una giacca da laboratorio color lavanda, sbottonata in alto, una gonna corta di tweed bruno. L’effetto è austero, deciso, severo; non lo mitigano le cosce scoperte, né la gonna piuttosto attillata o il solco visibile che divide i seni. Lindman non è donna che si dia cura di proiettare sex-appeal. E neppure ne ha bisogno, con Shadrach; esercita su di lui un’inquietante autorità fisica, di cui al medico sfugge l’origine. Quando è con lei, sente sempre di dover stare in guardia; contro cosa, non è sicuro.
— Guarda — dice lei trionfante, spazzando la stanza con un gesto ampio.
Lui segue con lo sguardo il braccio puntato fino a incontrare, nel mezzo del laboratorio, nell’unico spazio sgombro, una specie di rialzo; su un trono lì posato, sotto la luce abbagliante di un faretto, siede l’ultimo modello operativo dell’automa di Gengis Mao. Un solo robusto cavo giallo e rosso lo collega a un’unità di alimentazione. L’automa è una volta e mezzo le dimensioni naturali, un’imponente imitazione del Presidente, pelle plastica sopra un’armatura di metallo; il volto è una replica del tutto convincente, le spalle e il petto sono plausibilmente umani, ma al di sotto del diaframma il robot Gengis Mao è una massa incompleta di giunti e fili e circuiti scoperti, privo di pelle ma anche della stessa muscolatura meccanica interna che riempie la metà superiore. Sotto gli occhi di Shadrach, lo pseudopresidente protende il braccio destro verso di lui e, con un piccolo scatto impaziente della mano, un gesto dall’aria assolutamente umana, lo invita ad avvicinarsi.
— Non avere paura — dice Katya Lindman.
Shadrach avanza. Quando è a tre o quattro metri di distanza si ferma e aspetta. La testa del robot si volta lentamente a guardarlo. Le labbra scoprono i denti in una smorfia crudele… no, un ghigno, un ghigno inconfondibile, il ghigno freddo e terribile di Gengis Mao, quell’espressione soddisfatta di sé, si forma agli angoli delle guance corrugate: un ghigno regale, un mostruoso ghigno onnipotente. Impercettibilmente i lineamenti si ricompongono, senza transizione evidente; l’espressione del robot ora si fa minacciosa, e l’ira di Gengis Mao oscura la stanza. Decapitateli tutti, sì, è così. E poi un sorriso. Un sorriso freddo, perché sul volto di Gengis Mao non se ne vedranno altri, ma è pur sempre un sorriso che mette a proprio agio, per quanto artico sia; e il sorriso è una singolare replica del sorriso di Gengis Mao. Per ultima, poi, la strizzata d’occhio, la famosa strizzatina d’occhio del Khan, quel tuffarsi malizioso e disarmante della palpebra che cancella ogni esibizione di ferocia, che tutto compensa e riscatta comunicando un senso di prospettiva, di coscienza dei propri difetti: non prendermi troppo sul serio, amico mio, forse non sono quel megalomane che tu credi. E in quel momento, non appena la strizzata d’occhio ha ottenuto il suo effetto e il terrore che Gengis Mao sa generare con uno sguardo si è dissolto, il volto ritorna all’espressione originaria, gelata, remota, estraniata da tutto.
— Allora? — chiede Lindman dopo qualche istante.
— Non parla?
— Non ancora. Il sistema audio è un lavoretto banale. In questo momento non ce ne occupiamo.
— Allora questo è lo show completo?
— Sì. Sembri deluso.
— In qualche modo mi aspettavo qualcosa di più. Il sorriso l’avevo già visto.
— Ma non la strizzatina d’occhio. Quella è nuova.
— Lo stesso. Katya… State aggiungendo una piuma qua e una là, ma non avete ancora un’aquila.
— Cosa credevi che ti mostrassi? Un Gengis Mao che parla e cammina? Il simulacro completo, pronto nel giro di una notte? — La delusione di Shadrach l’ha fatta adirare, è chiaro: i movimenti della bocca sono tesi, le labbra scoprono ripetutamente le gengive, mettendo a nudo quegli incisivi appuntiti da carnivora. — Siamo ancora alle fasi preliminari, qui. Ma credevo che l’occhiolino ti sarebbe piaciuto. A me l’occhiolino piace parecchio, Shadrach. — La voce le si fa più leggera, i lineamenti si rilassano; Shadrach riesce quasi a sentire le marce che cambiano dentro di lei. — Mi spiace di averti fatto perdere tempo. Ero soddisfatta della strizzata d’occhio. Volevo condividerla con te.
— È una strizzata d’occhio fantastica, Katya.
— E poi, lo sai, il Progetto Talos diventerà molto più importante dopo la morte di Mangu. Tutto ciò che ha fatto finora la dottoressa Crowfoot era mirato a integrare la personalità del Presidente con le risposte neurali dalla mente e del corpo vivente di Mangu, e con questo ora hanno chiuso, tutto quell’approccio va scartato.
Shadrach ha del lavoro di Nikki una conoscenza abbastanza ravvicinata da sapere che non è letteralmente così; a quanto pare Mangu era effettivamente il modello di riferimento rispetto al quale il programma di codifica della personalità veniva elaborato, ma non c’era niente di inevitabile nell’uso di Mangu; con le modifiche del caso si può velocemente riadattare il progetto al corpo di qualche altro donatore. Ma non c’è bisogno di dire questo a Lindman, se lei vuole pensare che il proprio progetto, marginale fino a ora, è diventato improvvisamente la speranza di sopravvivenza fondamentale di Gengis Mao. Negli ultimi due minuti si è sforzata visibilmente di essere meno intimidatoria, meno tagliente, e lui la preferisce così; non farà niente che possa rimetterla sulla difensiva, incoraggiare nuova tensione.
A dire il vero, l’umore le è tanto migliorato che Lindman pare quasi civettare. Chiacchierando con voce acuta, da ragazza, in un modo che proprio non è da Katya, lo guida in un giro frenetico e gratuito del laboratorio, mostrandogli diagrammi di circuiti, scatole di chip di memoria, prototipi per il bacino e la colonna vertebrale del prossimo modello di Gengis Mao, e altri pezzi del Progetto Talos che in questo momento non rivestono alcuna importanza immaginabile; e Shadrach si rende conto, dopo un po’, che il suo unico motivo per fare tutto questo è trattenerlo, avere la sua compagnia ancora per qualche minuto. È perplesso. Il comportamento normale di Lindman è aggressivo e perentorio, ma ora è dolce, flirta, si avvicina a lui in maniera poco sottile, si respirano vicini e si guardano molto negli occhi, apertamente, lei anzi gli appoggia il seno contro il gomito mentre sono in piedi davanti a un tavolo, vicini, e frugano tra un ammasso di tabelle e schemi. Forse Lindman pensa che roba del genere lo spingerà a sbuffare, sudare, scalpitare strisciando gli zoccoli contro il terreno, che lo spingerà a lanciarsi contro il corpo fremente di lei? Shadrach non ha idea di cosa lei stia pensando. Ben raramente ne ha un’idea. E non lo scoprirà ora, perché qualunque cosa sia che lei sta organizzando, viene troncata bruscamente da un cigolante bip del telefono portatile di Shadrach, che l’ha localizzato attraverso l’edificio. Shadrach lo attiva. È Avogadro che lo sta cercando.
— Può venire al Vettore di Sicurezza Uno, dottore?
— Subito?
— Se non le spiace.
— Cosa succede?
— Stiamo interrogando Buckmaster. È saltato fuori il suo nome.
— Ah. Ah. Sono indiziato anch’io, ora?
— Non direi proprio. È un testimone, forse. Ce la fa a essere qui in cinque minuti?
Shadrach guarda Katya, che è rossa in volto, eccitata.
— Devo andare, ora — dice. — Avogadro. Qualcosa che ha a che fare con l’indagine su Mangu. Sembra urgente.
La faccia di lei si incupisce. Stringe le labbra. Ma gli dice solo che spera di rivederlo presto, e, nascondendo la delusione dietro una maschera di distacco, lo lascia andare. Uscendo dal laboratorio Shadrach sente l’intero corpo espandersi, come se fosse rimasto sottoposto a una grande pressione mentre erano insieme.
Il Vettore di Sicurezza Uno è al sessantaquattresimo piano. Mordecai non ha mai avuto occasione di visitarlo, e non ha idea di cosa aspettarsi, tranne che gli ammennicoli standard da polizia: lenti d’ingrandimento e tamponi per impronte digitali in ogni angolo, senza dubbio, foto di noti sovversivi affisse a pannelli messi insieme alla bell’e meglio, pile di dossier e bobine trascritte, file intere di terminali e dispositivi in fibra ottica… tutto quel che degli investigatori usano, probabilmente, per proteggere le persone fisiche di Gengis Mao e dei membri del CRP. Forse cose del genere ci sono davvero, ma Shadrach non ne vede traccia. Un giovane felino, dalla voce suadente, orientale ma troppo mellifluo per essere un mongolo, probabilmente un cinese, lo accoglie all’ingresso e lo guida per un labirinto di corridoi dalle pareti spoglie, al di là di una congerie di uffici angusti in cui burocrati dall’aria stanca sono seduti alle loro scrivanie coperte di carte. Questo posto potrebbe essere la sede centrale di una società di assicurazioni, di una banca, di un’agenzia di brokers. Solo una volta entrato nella cella riservata agli interrogatori, dove Avogadro e Buckmaster lo aspettano, sente con chiarezza di trovarsi nella tana dei tutori dell’ordine.
La stanza è volutamente claustrofobica, rettangolare e priva di finestre, pareti verdi e sporche e un soffitto basso, opprimente, dal quale pendono faretti a stelo corto fissati alle estremità di giunture metalliche mobili. I faretti sono puntati sulla fronte di Roger Buckmaster, accovacciato su una sedia tozza e scomoda dotata di braccioli di alluminio e schienale alto. Del nastro adesivo tiene degli elettrodi fissati alle tempie e ai polsi di Buckmaster; i cavetti che li collegano svaniscono nei recessi dello schienale. Buckmaster è pallido in maniera innaturale, suda, il volto terreo; gli occhi sono vitrei; le labbra prive di vita. È chiaro che Avogadro lo ha lavorato per un po’ di tempo.
Avogadro, in piedi di fianco a Buckmaster quando Shadrach arriva, non ha un aspetto molto migliore: accigliato, preoccupato, sfatto. — È un manicomio — farfuglia. — Cinquanta arresti nei primi sessanta minuti. Tutte le celle di interrogatorio sono piene, e continuano ad arrivarne. Pazzi, mendicanti, ladri, tutta la popolazione dei bassifondi di Ulan Bator. Più gli estremisti, naturalmente. Sto andando di cella in cella. E per che cosa? Per che cosa? — Una risata triste. — Ci sarà carne in abbondanza per i vivai di organi, prima che questa storia si sia conclusa. — Lento, muovendo la pesante corporatura come se una gravità doppia del normale la schiacciasse a terra, si volge verso l’uomo seduto sulla sedia. — Allora, Buckmaster? C’è qualcuno che è venuto a trovarla. Lo riconosce?
Buckmaster tiene gli occhi puntati sul pavimento. — Sa benissimo che lo riconosco.
— Mi dica come si chiama.
— Mi lasci in pace.
— Mi dica come si chiama — insiste Avogadro con una intonazione stanca ma carica di minaccia.
— Mordecai. Il dannato Shadrach Mordecai. Dottore.
— Grazie, Buckmaster. Ora mi dica dove aveva visto il dottor Mordecai l’ultima volta.
— La notte scorsa — dice Buckmaster, la voce ormai un suono debole, sempre più debole, appena percettibile.
— Più forte, per favore.
— La notte scorsa.
— Dove?
— Sa benissimo dove, Avogadro!
— Voglio che me lo dica lei.
— L’ho già fatto.
— Di nuovo. Davanti al dottor Mordecai. Sentiamo.
— Perché non mi sventrate direttamente e la facciamo finita?
— Si sta rendendo le cose difficili da solo, Buckmaster. Le sta rendendo difficili anche per me.
— Mi sta spezzando il cuore.
— Non è una scelta che ho fatto io, tutto questo — dice Avogadro.
Sollevando il capo, Buckmaster riesce a prodursi in uno sguardo freddo, furioso, carico d’odio. — È una scelta mia forse? È mia? Oh, conosco il gioco. Mi interrogherete per un po’, mi dichiarerete colpevole di complotto, mi condannerete a morte, e io me ne andrò al vivaio di organi, giusto? Giusto? E aspetterò lì, un cadavere che non è morto, in modo che quando Gengis Mao avrà bisogno di un polmone, un rene, un cuore, qualcuno potrà venire a prendere il mio, giusto? Mentre io me ne sto sdraiato lì, morto, caldo, respirando e vegetando, parte delle riserve di organi.
— Buckmaster…
Buckmaster ridacchia. — Gengis Mao pensa che le riserve si stanno abbassando, e non può usare gli sventurati là fuori, con i loro organi marci, così ricorre a noi, manda ai vivai qualche decina di persone scelte tra noi, giusto? La sua stessa gente. Benissimo, portatemi via. Fatemi diventare cibo per cannibali! Ma piantiamo lì questa farsa, va bene? La smetta di farmi domande idiote.
Avogadro sospira. — Riprendiamo da dov’eravamo rimasti. Lei ha incontrato il dottor Mordecai a…
— A Timbuctù.
Avogadro solleva la mano sinistra. Un sottoposto, seduto a un tavolo all’altro estremo della stanza, interviene sul pannello di comando che ha davanti a sé; Buckmaster fa uno scatto e si contorce, il lato sinistro della faccia si contrae in un breve spasmo repellente.
— L’ha incontrato dóve?
— A Piccadilly Circus.
Di nuovo la mano sinistra, più in alto. Di nuovo il tocco sui comandi; di nuovo lo spasmo sul volto dell’uomo, molto peggiore questa volta. Shadrach Mordecai sposta il peso del corpo da un piede all’altro, a disagio. A voce bassa dice: — Forse non è necessario che…
— È necessario, sì — gli dice Avogadro. — Dobbiamo rispettare la forma. — A Buckmaster dice: — Sono pronto ad andare avanti così tutto il giorno. Mi annoia, ma è il mio lavoro, e se devo farla soffrire, la farò soffrire; e se lei mi costringe a renderla paralitico per il resto della sua vita, lo farò, perché non ho scelta. Lo capisce? Non ho scelta. Allora. Lei ha incontrato il dottor Mordecai a…
— Karakorum.
— A Karakorum dove?
— Davanti alla tenda dei transtemporalisti.
— Verso che ora?
— Non lo so. Tardi, ma non era ancora mezzanotte.
— Dottor Mordecai, è corretto questo? Le sue risposte saranno registrate.
— È tutto corretto, fin qui — dice Shadrach.
— Bene. Prosegua, Buckmaster. Mi dica quel che mi ha detto prima. Si è imbattuto nel dottor Mordecai e gli ha detto che cosa?
— Ho detto un ammasso di stupidaggini.
— Che tipo di stupidaggini, Buckmaster?
— Ho fatto dei discorsi senza senso. I transtemporalisti mi avevano stravolto la mente con le loro droghe.
— Cos’ha detto esattamente al dottore?
Buckmaster, muto, fissa il pavimento.
La mano destra di Avogadro si alza fino quasi alla spalla. I comandi vengono regolati in una nuova posizione. Buckmaster fa un balzo sulla sua sedia, come se una lancia l’avesse trafitto. Il braccio destro si agita freneticamente per conto suo, come un serpente infuriato.
— Me lo dica, Buckmaster. Per favore.
— L’ho accusato di fare del male.
— Vada avanti.
— L’ho chiamato Giuda.
— E nero bastardo — dice Shadrach.
Avogadro dà una debole gomitata nel fianco di Shadrach, per fargli sapere che il suo incoraggiamento non è richiesto.
— Specificatamente, Buckmaster, di che cosa ha accusato Mordecai?
— Di fare il suo lavoro.
— E questo significa?
— Il suo lavoro è tenere in vita il Presidente. Io ho detto che era responsabile del fatto che Gengis Mao non fosse morto da cinque anni.
Avogadro dice: — È corretto questo, Mordecai?
Shadrach esita. Non ha un particolare desiderio di contribuire a mandare Buckmaster al vivaio di organi. Ma ora sarebbe follia cercare di proteggere l’ometto. La verità riguardo all’incidente dell’altra notte a Karakorum è già stata recuperata e registrata, Shadrach lo sa. Buckmaster è già condannato, grazie alla sua stessa bocca. Nessuna menzogna può salvarlo ora, può solo inguaiare il mentitore.
— È così — dice.
— Dunque. Buckmaster, a lei spiace che Gengis Mao non sia morto cinque anni fa?
— Mi lasci in pace, Avogadro.
— È così? Lei vorrebbe veramente che il Presidente fosse morto? È questo che pensa?
— Avevo la testa piena di droga!
— Non è necessario che lei abbia la testa piena di droga anche ora, Buckmaster. Cosa pensa di Gengis Mao in questo momento?
— Non lo so. Non lo so, semplicemente.
— Prova ostilità?
— Forse. Guardi, Avogadro, non mi sprema oltre. Mi avete in pugno, mi darete in pasto ai cannibali stanotte, non le basta questo?
— Potremo smettere velocemente, se solo lei collaborasse.
— Molto bene — dice Buckmaster. Si drizza sulla sedia, raccogliendo gli ultimi residui di orgoglio. — Non amo il regime di Gengis Mao. Non sono d’accordo con la politica del CRP. Mi spiace di avere dedicato tanto tempo al suo servizio. Ieri notte ero molto nervoso e ho coperto il dottor Mordecai di insulti di cui ora mi vergogno. Però. Però, Avogadro: io non ho fatto niente di sleale. E non so assolutamente niente della morte di Mangu. Giuro che non c’entro niente.
Avogadro annuisce. — Dottor Mordecai, il prigioniero ha menzionato Mangu la notte scorsa?
— Credo di no.
— Non può essere più preciso?
Shadrach riflette per qualche secondo. — No — dice infine. — A quanto ricordo, non direi di averlo sentito parlare di Mangu.
— Il prigioniero ha formulato minacce all’indirizzo della persona di Gengis Mao?
— A quanto ricordo, no.
— Ci pensi bene, dottore.
Shadrach scuote la testa. — Lei deve capire, ero appena uscito anch’io dalla tenda dei transtemporalisti. Durante la tirata di Buckmaster, la mia mente era ancora altrove. Ha criticato il governo, sì, e in maniera piuttosto violenta; ma non credo che ci siano state minacce esplicite. No.
— Le dovrò rinfrescare la memoria, allora — dice Avogadro, facendo un cenno all’assistente nell’angolo. Shadrach sente un sibilo, poi, da un altoparlante invisibile, il suono di una voce, stranamente familiare ma curiosamente estranea. La sua.
«È suicida, quello che stai facendo. Domattina ci sarà un rapporto su tutto questo sulla scrivania del Presidente, Roger, con ogni probabilità. Ti stai distruggendo con le tue mani.»
«Distruggerò lui. Quella sanguisuga. Ci tiene tutti in ostaggio, i nostri corpi, le nostre anime…»
— Di nuovo — dice Avogadro. — Quel pezzettino alla fine.
— «Distruggerò lui. Quella sanguisuga. Ci tiene tutti…»
— Riconosce queste voci, dottore?
— La mia. Quella di Buckmaster.
— La ringrazio. L’identificazione è importante. Chi è stato a dire “distruggerò lui”?
— Buckmaster.
— Sì. Grazie. Buckmaster, era la sua voce quella?
— Lo sa benissimo. Sì.
— Stava minacciando Gengis Mao di morte.
— Ero molto nervoso. Stavo solo caricando le parole. Retorica.
— È così — dice Shadrach Mordecai. — È quel che è parso anche a me. Ho insistito perché smettesse di dire sciocchezze. Non mi pare proprio che stesse formulando una minaccia seria. Avete un nastro con tutta la conversazione?
— Tutta intera — dice Avogadro. — Lei sa che molte conversazioni vengono registrate. E analizzate automaticamente, alla ricerca di frasi a contenuto sovversivo. Stamattina i computer ci hanno segnalato questa. Le impronte vocali ci dicono che si tratta di lei e Buckmaster, ma naturalmente la sua conferma diretta è utile…
— Come se stessimo preparando un processo, giuria, avvocati — dice amaro Buckmaster. — Come se io non fossi già destinato a essere carne da macello prima del tramonto!
— Non mi ha detto niente a proposito di Mangu ieri notte, vero? — chiede Shadrach.
— No. Sul nastro non c’è niente.
— Come pensavo. Perché tenerlo prigioniero, allora?
— Perché difenderlo, dottore? Secondo la registrazione, l’ha insultata e offesa.
— Non me lo sono dimenticato. Ma non gli serbo rancore per questo. Ieri notte mi ha infastidito pesantemente, ma questo non è un motivo sufficiente perché io desideri di vederlo spedire al vivaio di organi.
— Diglielo ancora! — implora Buckmaster. — Oh, Dio santo, diglielo!
— Per favore — dice Avogadro. Lo sfogo di Buckmaster pare causargli dolore. Fa un segnale al suo uomo e Buckmaster viene slegato, liberato dagli elettrodi, viene aiutato ad alzarsi in piedi e condotto via dalla stanza. Sulla soglia Buckmaster si arresta e si volge indietro, la faccia distrutta, distorta dalla paura. Gli tremano le labbra: è sul punto di scoppiare in singhiozzi. — Non sono stato io! — grida disperato, e i sottoposti di Avogadro lo portano via.
— Non è stato lui — dice Shadrach. — Ne sono sicuro. Era fuori di sé l’altra notte, urlava e strepitava, ma non è un assassino. Insoddisfatto del governo, forse. Ma non un assassino.
Avogadro, lasciandosi cadere sulla sedia da interrogatorio, gioca con gli elettrodi, arrotolandosi i cavi serpeggianti attorno alle dita. — Questo lo so — dice.
— Che ne sarà di lui?
— Il vivaio di organi. Prima di domani mattina, probabilmente.
— Ma perché?
— Gengis Mao ha ascoltato la registrazione. Considera Buckmaster pericoloso.
— Ma Cristo!
— Vada a discutere con Gengis Mao.
— Lei non pare molto turbato — dice Shadrach.
— La cosa non mi riguarda più, dottore.
— Non possiamo lasciarlo uccidere così!
— Non possiamo?
— Io non posso.
— Se vuole cercare di salvarlo, faccia pure. Le auguro buona fortuna.
— Però potrei tentare. Un semplice tentativo.
— Quell’uomo l’ha chiamata nero bastardo — dice Avogadro. — E Giuda.
— E dovrei lasciare che lo vivisezionino per questo?
— Lei non sta lasciando che nessuno faccia niente. È semplicemente una cosa che succede. È un problema di Buckmaster. Non mio, non suo.
— Nessun uomo è un’isola, Avogadro.
— Dove ho già sentito questa frase?
Shadrach ha lo sguardo fisso. — Non le importa proprio? Non gliene frega niente della giustizia?
— La giustizia è roba da avvocati. Gli avvocati sono una specie estinta. Io sono solo un ufficiale di sicurezza.
— Non ci crede neanche lei, Avogadro.
— Ah, no?
— Cristo. Cristo. Non se ne venga fuori con quella storia, “sono solo uno sbirro”. È troppo intelligente per pensarlo seriamente. E io sono troppo intelligente per prenderla in parola.
Avogadro si mette a sedere più compostamente. Ha avvolto due dei cavetti attorno alla gola, a spirale, in una bizzarra maniera clownesca. La testa è reclinata da un lato, come quella di un impiccato. — Vuole che le faccia sentire il nastro di Buckmaster? C’è un momento in cui lei gli dice che non è colpa nostra se il mondo è quello che è, che accettiamo il nostro karma, che serviamo tutti Gengis Mao perché non c’è molta altra scelta. L’alternativa è la decomposizione organica, n’est-ce pas? Quindi balliamo tutti al ritmo della musica che decide il Khan, e non ci facciamo domande sulla moralità, e neppure ci rivoltiamo troppo l’anima attorno a problemi di colpa e responsabilità.
— Io…
— Un momento. L’ha detto lei. È nella registrazione, Herr Doktor. Ora lo dico io a lei. Ho rinunciato al lusso di avere sentimenti personali sulla moralità di mandare Bucky al vivaio di organi. Entrando al servizio del Khan, ho rinunciato al privilegio di fare il difficile.
— Ha mai visto un vivaio d’organi?
— No — dice Avogadro. — Ma ho sentito…
— Io ne ho visto uno. Una grande stanza silenziosa, tipo un reparto d’ospedale, ma molto silenziosa. Tranne che per il borbottio dei macchinali di sostegno vitale. Una doppia fila di vasche, separate da un corridoio ampio. Un corpo in ogni vasca, sospeso in un liquido tiepido verde-bluastro, un bagno nutriente. Tubi da fleboclisi sparsi per il pavimento, come spaghetti di color rosa. Apparecchi per la dialisi a metà strada tra ciascuna coppia di vasche. Prima di mettere un corpo nella sua vasca, uccidono il cervello: lo trafiggono là, vicino al grande foro occipitale, zap; ma il resto rimane in vita, Avogadro. Un vegetale in forma animale. Dio sa che cosa percepisce, ma vive, ha bisogno di essere nutrito, digerisce e defeca, i capelli crescono, le unghie, gli infermieri rasano e ripuliscono per bene i corpi ogni tot settimane, e loro se ne stanno lì; bene ordinati secondo il gruppo sanguigno e il tipo di tessuti, disponibili, gradualmente spogliati di arti e organi, un rene questa settimana, un polmone la prossima, in pochi semplici passi li affettano fino a ridurli a moncherini, gli occhi, le dita, i genitali, alla fine il cuore, il fegato…
— E allora? Dove vuole arrivare, dottore? Il vivaio di organi non è un posto allegro? Questo lo sapevo. Ma è un modo efficiente di mantenere in vita gli organi in attesa di essere trapiantati. Non è meglio riciclare organi piuttosto che sprecarli?
— E trasformare un uomo innocente in uno zombie? Una creatura il cui unico scopo è quello di essere un magazzino vivente per organi di ricambio?
— Buckmaster non è innocente.
— E di cosa sarebbe colpevole?
— È colpevole di aver mal giudicato. È colpevole di essere stato sfortunato. È uscito il suo numero, dottore. — Avogadro, alzandosi, posa la mano con delicatezza sul braccio di Shadrach. — Lei è un uomo coscienzioso, non è vero, Herr Doktor? Buckmaster la riteneva un demone cinico, un servo senz’anima dell’Anticristo, e invece no, no, lei è una brava persona, capitata in un momento storico poco piacevole, e fa del suo meglio. Bene, dottore, io sono la stessa cosa. Cito le sue parole della notte scorsa: il senso di colpa è un lusso che non ci possiamo permettere. Amen! Ora vada. La smetta di preoccuparsi di Buckmaster. Buckmaster si è fregato da solo. Se lei sente la campana suonare, se lo ricordi, la campana sta suonando per lui, e questo non svilisce né lei né me in alcun modo, perché ci siamo già sviliti per quanto ci è stato possibile. — Il sorriso di Avogadro è caldo, quasi compassionevole. — Vada, dottore. Vada e si rilassi un po’. Io ho del lavoro da fare. Ho un’altra decina di sospetti da interrogare prima di cena.
— E il vero assassino di Mangu…
— Era Mangu stesso, nove a uno. Ma questo che importa? Continuerò a trovare il suo assassino e a interrogarlo e a consegnarlo al vivaio di organi, finché non mi verrà detto di fermarmi. Vada, adesso. Vada. Vada.