Sembra uno scherzo. E non è uno scherzo particolarmente divertente. Shadrach non riesce assolutamente a prenderlo sul serio, nonostante la nota stridente della convinzione nella voce di Katya, quella nota acuta, quasi disperata, di certezza, che Shadrach ha sentito anche nella voce di Roger Buckmaster quando quello sventurato cercava di negare il proprio coinvolgimento nella morte di Mangu; quel tono che dice: “Non mi crederai neanche se giuro su quel che ho di più caro, ma quel che sto dicendo è vero, è vero, è vero, è vero!”. Ma se lui è stato davvero scelto come nuovo donatore, si spiegherebbe perché Nikki lo sta evitando, perché è così distante e così nervosa quando parlano, perché i suoi occhi non vogliono incontrare quelli di Shadrach…
— No — dice. — Non ti credo.
— Benissimo. Non credermi.
— È assurdo, Katya.
— Non c’è dubbio che sia assurdo. E sarà ancora più assurdo il giorno che verranno a prenderti e ti metteranno in testa gli elettrodi e cancelleranno qualunque traccia di Shadrach Mordecai e riverseranno l’anima di Gengis Mao nel tuo bel corpo scuro.
— Il mio bel corpo scuro — dice Shadrach — è pieno di congegni medici complessi e insostituibili che registrano ogni minima alterazione nel metabolismo di Gengis Mao. Roger Buckmaster ci ha messo un paio d’anni a progettare e costruire quel sistema, Warhaftig ha impiegato settimane a installarlo nel mio corpo, io ho speso un anno a imparare a usarlo. Usandolo, posso proteggere la salute di Gengis Mao in un modo che non ha precedenti in tutta la storia della medicina. Con tutti i cadaveri ancora caldi tra cui Avatar si trova a dover scegliere, credi che Gengis Mao li lascerebbe scegliere il solo corpo che è indispensabile alla sua…
— Rifletti, Shadrach, rifletti! Avatar non verrà attivato finché il corpo attuale di Gengis Mao non sarà sulla soglia della morte. Non avrà bisogno di tutti quei bellissimi impianti una volta che avrà traslocato nel tuo corpo. Non avrà bisogno di te come medico; anzi, non avrà proprio bisogno di un medico a tempo pieno, per molti anni almeno. E può trovare un altro medico. Può trovare un altro Buckmaster che gli costruisca un altro impianto quando arriverà il momento. Probabilmente ha già un sostituto per te che sta studiando da qualche parte in Bulgaria o in Afganistan. Ti ricordi cosa dice sempre a proposito della ridondanza, Shadrach? La via alla sopravvivenza. Gengis Mao di sopravvivenza se ne intende. Più di te, ho paura.
La bocca di Shadrach Mordecai si apre. Non dice niente. Si richiude.
— Se Avatar viene attivato — dice Katya — tu sei finito. Giuro che è così.
— Quando è stato deciso?
— Più di una settimana fa. Io l’ho saputo poche ore prima che partissimo per Karakorum.
Che è esattamente quando Nikki Crowfoot ha cominciato a cercare scuse per non vederlo, riflette Shadrach. Si ricorda di quando si è svegliato in questa stessa stanza, la stanza di Katya, la notte dell’escursione al sogno di morte, e l’ha trovata in lacrime al suo fianco, a letto; lei aveva detto di avere paura per lui, senza spiegarsi più chiaramente. Già. E si ricorda le farneticazioni di Gengis Mao che lo voleva nominare papa, re d’Inghilterra… Cosa significava tutto ciò? Una versione mascherata e fuorviante della nomina vera? Si ricorda anche, e il ricordo lo raggela, di quando è accorso senza camicia alla camera da letto di Gengis Mao non appena si era diffusa la notizia della morte di Mangu; si ricorda di aver visto il Khan studiargli il torso nudo con interesse, con ammirazione. Gengis Mao aveva detto: “Lei gode di un’ottima salute, Shadrach, a quanto pare”. Sì. Stava già dandosi da fare per trovare un corpo nuovo, pochi minuti dopo aver appreso della morte di Mangu?
Pensa a Buckmaster, alle parole che strillava: “Finirai nella fornace, Shadrach, nella fornace, nella dannata fornace!”.
No. No. No.
— Non riesco a crederci — dice.
— Comincia a imparare come farlo.
— Non ha senso. Non riesco letteralmente ad afferrare il significato di tutto questo.
— Hai paura, Shadrach?
— No. Per niente. — Stende le mani. Immobili. Immobili come quelle di Warhaftig. — Vedi? Sono assolutamente tranquillo. Non ho emozioni. Tutto questo non mi tocca. È irreale.
— Non lo è, Shadrach.
— Nikki lo sa?
— Naturalmente sì.
— Non è stata lei a scegliermi, vero?
— Ti ha scelto Gengis Mao.
— Sì. Questo mi torna. Già. — Ride. — Hai notato che sto cominciando a parlare come se ci credessi? Come se lo accettassi, a qualche livello?
— Cosa intendi fare, Shadrach?
— Fare? Fare? Cosa dovrei fare? Dovrei fare come Mangu?
— Tu non sei Mangu.
— No — replica lui. — Se anche fossi certo, se anche venissero da me con un papiro firmato da Gengis Mao che mi nomina donatore per Avatar, non sceglierei la soluzione di Mangu. Non ho tendenze suicide, al contrario. Forse verrà più tardi, Katya. Prima devo provare qualche emozione. Per ora non provo niente. Non mi sento tradito, non mi sento in pericolo, credo di non sentirmi nemmeno sorpreso.
— È possibile che l’idea di diventare il donatore per Avatar ti tenti?
— Io voglio essere il dottor Shadrach Mordecai. Voglio continuare a essere lui per molto tempo ancora.
— Allora preoccupati solo che Gengis Mao resti in buona salute. Finché il suo corpo funziona, non avrà bisogno del tuo. Nel frattempo, spetterà a me far sì che Avatar diventi semplicemente superfluo, portando Talos alla perfezione in tempi brevi. Sai, dopotutto Gengis Mao potrebbe anche preferire l’idea di Talos. Credo che si adatti bene al suo tipo particolare di paranoia l’idea di essere riversato in una macchina, una macchina perfetta ed eterna. In fondo, perfino il tuo bellissimo corpo è destinato a deperire e a corrompersi. Lui questo lo sa. Sa che dentro di te potrebbe avere venti o trent’anni da vivere bene, e poi si ritroverà al punto di prima, trapianti d’organi, farmaci, sequenze di operazioni, mentre il simulacro di Talos gli risparmierebbe tutto questo. Per cui Avatar per lui è soltanto un piano provvisorio, ridondanza, qualcosa che spera di non essere costretto a utilizzare. È per questo che può scegliere come donatori persone a cui attribuisce grande valore… Mangu, te; una specie di onore, in qualche modo, la benedizione del Khan, tutt’altro che il rischio che potrebbe sembrare. Ho cercato di dire questo anche a Mangu, di dirgli che Avatar non sarebbe stato necessariamente attivato, ma lui…
— Perché me ne hai parlato, Katya?
— Per lo stesso motivo per cui ne ho parlato a Mangu.
— Per contribuire a distruggere Avatar?
Gli occhi le lampeggiano, il vecchio fuoco di Lindman. — Non fare il bastardo. Credi che voglia vederti saltare da una finestra come lui?
— A cosa serviva parlarmene?
— Voglio che tu stia in guardia, Shadrach. Voglio che tu sappia in che pericolo ti trovi. Finché rimarrà anche solo una minima possibilità che si debba ricorrere ad Avatar, tu…
— Ma che importanza ha tutto questo per te? Problemi di coscienza? Non ti piace frequentare uomini che sono segretamente destinati all’eliminazione?
— Anche questo conta — dice Katya con calma. — Odio vivere nella menzogna.
— E poi?
— Ti amo.
Shadrach la fissa con occhi vitrei. — Che cosa?
— Non ne sono capace? Sono solo buona a costruire automi, è così? Non ho emozioni?
— Non volevo dire questo. Ma… sembravi così fredda, tutto il tempo, così professionale, così concreta… Anche quando… — Fa una pausa, poi decide di terminare la frase. — Anche quando facevamo del sesso. Non ho mai sentito del calore emotivo da parte tua; solo… be’… passione fisica.
— Tu eri di Nikki. Se mi legavo troppo a te, avrei solo sofferto. Tu non mi volevi, se non per un salto a Karakorum ogni tanto, per una scopata senza impegno.
— E adesso?
— Ami ancora Nikki? Anche lei ti ha tradito, questo lo sai. È andata da Gengis Mao, ha sentito che lui ti aveva selezionato per Avatar, probabilmente ha cercato di convincerlo a cambiare idea… questo probabilmente dobbiamo concederglielo; non c’è riuscita, e allora ha accettato quell’ordine. La sua carriera viene prima della tua vita. Avrebbe potuto venire da te, avrebbe potuto dirti: “Queste sono le intenzioni di Gengis Mao, ma io non posso farlo, mi rifiuto, andiamocene via da questo posto spaventoso tutti e due”. Però non l’ha fatto, giusto? Ha semplicemente cominciato a evitarti. Per il senso di colpa che provava, giusto? Non per amore, ma per senso di colpa, perché si vergognava.
Shadrach scuote la testa, come intontito.
— Tutto questo è irreale, Katya.
— Quello che ti ho detto oggi è tutto vero.
— Ma Nikki…
— Ha paura di Gengis Mao. Come ne ho paura io, come ne hai paura tu, come tutti in questa città, tutti al mondo. È questa la misura del suo amore per te: la paura nei confronti di quel vecchio pazzo è più forte. Se mi fossi trovata nella sua situazione, può darsi che avrei fatto la stessa scelta. Ma non si tratta del mio progetto. Io non mi trovo di fronte alla scelta se tradire te oppure sfidare il Khan. Sono libera di agire dietro le sue spalle, di avvertirti, di fare in modo che tu possa prendere le tue decisioni da solo. Però è strano, no? Nikki, bella, alta, affettuosa, innamorata, accetta di tradirti. E Katya, aspra, vendicativa, tozza e brutta, rischia la vita per metterti in guardia.
— Tu non sei brutta — mormora Shadrach.
Katya scoppia a ridere. — Vieni qui — dice. Seduta sul bordo del letto, lo avvicina a sé, gli prende la testa e la fa sprofondare tra i suoi seni. — Riposati. Pensaci su. Pensa cosa fare, Shadrach. Se non lo fai sei perduto. — Gli accarezza la fronte dolorante.
Stanno seduti così, silenziosi, per molto tempo. Poi Shadrach si alza, incerto, si libera dei vestiti; dopo un suo gesto, anche lei comincia a spogliarsi. Shadrach dovrà operare il Khan domani, ma per una volta non se ne preoccupa. Si protende verso di lei. Copre il corpo stranamente sottomesso di Katya con il proprio, afferrandole le spalle ampie e carnose con le lunghe braccia magre, scure, premendo il petto ossuto contro i seni, morbidi cuscini, e le gambe le si spalancano e lui si tuffa in profondità dentro di lei, e rimane così, immobile, raccoglie le forze, raccoglie i pezzi di se stesso e li rimette insieme, fino a quando non è pronto a muoversi.
Il giorno seguente è il giorno dell’innesto sull’aorta di Gengis Mao. Dopo il solito breve sonno ristoratore Shadrach si sveglia, fa ginnastica, fa colazione, si veste, affronta il passaggio di Interfaccia Tre, fa una sosta per ispezionare gli ultimi sviluppi nel Reparto Traumatologia con un’occhiata al Vettore di Sorveglianza Uno: la routine standard di tutte le mattine. La danza degli obiettivi delle videocamere gli mostra i due miliardi di abitanti del pianeta, un quinto di loro probabilmente vittima della decomposizione organica, i morti deambulanti, che girano pieni di perforazioni e lesioni, gli organi putrefatti; e quasi tutti gli altri che sono rimasti integri, rimasti a vivere nell’ombra di quel male universale, ad affrontare la parodia di una vita normale con un coraggio privo di allegria, ad aspettare di sputare sangue e sentire il fuoco nelle viscere, a guardare i semidei di Ulan Bator con occhi invidiosi e perplessi. Mentre lui, l’agile Shadrach Mordecai, il bel dottore del Khan, non ha nessuna preoccupazione più grave dell’essere sfrattato dal suo stesso corpo slanciato, del ricevere un calcione sul culo nero, così che un usurpatore mongolo possa traslocare nel suo cranio. A parte questo, Shadrach, va tutto bene, no? Certo. ’Gnorsì, boss.
Andando a prendere Gengis Mao per il viaggio tradizionale, familiare, sul lettino che lo porterà dalla camera da letto alla Sala di Chirurgia, Shadrach si domanda come reagirà quando si troverà faccia a faccia con il Khan. Sicuramente la sua espressione tradirà la consapevolezza da poco acquisita; sicuramente Gengis Mao, con i suoi quasi novant’anni di astuzia, capirà al volo che la sua vittima designata ha mangiato la foglia. Ma Shadrach scopre che la sua misteriosa tranquillità di spirito non lo abbandona neanche quando si trova a guardare il Khan negli occhi. Non prova niente, né paura né rabbia né risentimento: il Presidente è il paziente, lui è il medico, i sensori pulsano e scattano, lo caricano di informazioni, e questo è tutto, nel loro rapporto niente è mutato. Guarda Gengis Mao e pensa: “Tu stai complottando per rubarmi il corpo”, e non succede niente, nessun effetto. Tutto rimane irreale per lui.
— E allora, come sto questa mattina, Shadrach? — chiede Gengis Mao, gioviale.
— Splendidamente, signore. Mai stato meglio.
— Mi tagliate via il cuore, allora?
— Solo l’aorta, per questa volta — dice Shadrach. Fa un cenno agli attendenti, che conducono via il Presidente.
Ed eccoli lì, ancora una volta, tutti riuniti nella Sala di Chirurgia: il Presidente, il medico, il chirurgo capo, l’anestesista, gli infermieri e altri assistenti medici vari, tutti ben disinfettati, in camice e mascherina, nel bagliore dell’impianto di illuminazione, le bolle asettiche sono state sigillate, i filtri e le pompe pompano e filtrano, i computer emettono lucine rosse, verdi, gialle come in un’allegra scenografia teatrale, la nuova sezione di aorta (era di Buckmaster?) se ne sta in attesa nel suo contenitore, fresca e sana, pronta a essere installata nell’addome di Gengis Mao.
Warhaftig, sicuro di sé, sereno, si prepara ad aprire ancora una volta il corpo minuto, sottile di Gengis Mao.
— Pressione? — domanda.
— Normale — dice Shadrach.
— Respirazione?
— Normale.
— Piastrine?
— Normali. Normali. Tutto normale.
Shadrach sa bene che se Gengis Mao dovesse morire sotto i ferri, non ci sarebbe nessun Progetto Avatar a minacciarlo: nessuno dei tre progetti è ancora pronto per essere utilizzato, e se il Khan non sopravvive al trapianto, questa sarà la sua fine, senza speranza di reincarnazione; forse anche la fine del Comitato Rivoluzionario Permanente, tutta la fragile società della depolarizzazione centripeta si polarizzerebbe e si centrifugherebbe verso il caos nell’istante in cui la figura leggendaria di Gengis Mao sparisse dalla scena. Non sarebbe difficile riuscirci. Urtando il gomito di Warhaftig, magari, proprio mentre lui sta manovrando il laser chirurgico nelle viscere del Presidente; scusandosi umilmente subito dopo, ma ormai il danno sarebbe fatto. Oppure, in maniera più sottile, potrebbe fuorviare l’équipe operatoria con informazioni sbagliate, falsando le sue rilevazioni dall’interno di Gengis Mao: loro si fidano del dottor Mordecai, seguiranno i suoi dati senza preoccuparsi di confrontarli con le cifre sulle sonde e sui misuratori, e probabilmente lui riuscirebbe a causare un danno irreversibile al Presidente, una carenza fatale di ossigeno, roba del genere, prima che Warhaftig fosse in grado di rendersene conto. E poi le scuse, non riesco proprio a capire come i segnali potessero essere così distorti. Non deve certo preoccuparsi della possibilità di finire sotto accusa per imperizia: se salta il Khan, tutto l’edificio crolla su se stesso, a quel punto è ciascuno per sé. Ma Shadrach non lo farà. Shadrach non farà niente a Gengis Mao quest’oggi, non lo farebbe neanche se sapesse che il Khan intende attivare il Progetto Avatar prima di martedì prossimo. Il dottor Mordecai, in pericolo di vita o meno, rimane un medico, un medico dedito alla propria missione, ancora abbastanza giovane e ingenuo da prendere sul serio il giuramento di Ippocrate. Ha giurato di tenere sante e pure la sua vita e la sua arte. Ha fatto voto di aiutare i malati e di astenersi da ogni torto e da ogni danno intenzionale. Così sarà. Shadrach Mordecai, Dottore in Medicina, Harvard ’01, non tradirà la sacra fede. Gengis Mao è il suo paziente; Gengis Mao non morirà per mano di Shadrach Mordecai, oggi. Forse questa è semplice stupidità, ma in essa c’è pure una certa grazia.
L’operazione procede sul velluto. Un taglietto, ed ecco che se ne esce la sezione malandata dell’aorta di Gengis Mao. Due cuciture, e si innesta il pezzo di ricambio. Macchine cuore-polmone mantengono la circolazione al ritmo giusto. Il Khan osserva tutto, cosciente, con gli occhietti vivaci, annuendo tra sé e sé di quando in quando nei momenti in cui Warhaftig esegue delle veroniche, degli entrechat, delle infilate particolarmente ammirevoli. Pare sapere precisamente cosa sta succedendo; ha passato più tempo di me a osservare chirurghi al lavoro, riflette Shadrach, e probabilmente sarebbe capace di operarsi da solo con una certa abilità, ormai. Le dita eleganti di Warhaftig chiudono elegantemente l’incisione. I tessuti sono freschi e arrossati, essendo stati aperti per il trapianto del fegato meno di due settimane fa, e per questo sono necessarie alcune misure speciali di profilassi: ma il chirurgo esegue tutto a perfezione con l’abituale disinvoltura. La bocca di Gengis Mao è contratta in un sorriso di approvazione quando l’operazione è terminata. — Un bello spettacolo — dice a Warhaftig. — Due orecchie e la coda!
Shadrach se ne va con il tratto di aorta che è stato tolto al Khan. Dice a Warhaftig, non che a Warhaftig importi qualcosa, che intende sottoporlo a degli esperimenti; ma cosa potrebbero dirgli degli esperimenti fatti su questo pezzo sbrindellato di tessuto, su questo tubicino disfatto, che lui non sappia già? Lo vuole perché è un pezzo autentico del corpo di Gengis II Mao IV Khan, e Shadrach ha lo spirito del collezionista: questo diventerà un fiore all’occhiello del suo piccolo museo di curiosità mediche. Una reliquia di uno dei pazienti più famosi della storia. Shadrach conosce un aneddoto, probabilmente apocrifo, che racconta come il medico che eseguì l’autopsia sul corpo di Napoleone avesse rimosso il pene imperiale e l’avesse tenuto come souvenir dell’Imperatore, lasciandolo in eredità a un collega che infine lo vendette a un prezzo altissimo, e così via, passando da una collezione medica all’altra, finché non sparì del tutto nel trambusto di qualche guerra del ventesimo secolo. Storie del genere, Shadrach lo sa, sono state raccontate a proposito di pezzi vari del corpo di Hitler, Stalin, George Washington, Caterina di Russia. A Shadrach dispiace di aver raggiunto la sua posizione troppo tardi per raccogliere qualcuno degli organi davvero significativi di Gengis Mao: un rene, per esempio, o un polmone, il fegato, il pancreas; ma erano tutti spariti già molto prima che Shadrach arrivasse sulla scena, gli organi naturali del corpo del Khan, rimossi e sostituiti, in certi casi più di una volta, con organi trapiantati. Shadrach non trova che abbia molto senso conservare nella sua collezione il quarto fegato di Gengis Mao, o l’ottava milza, o il tredicesimo rene; sebbene riconosca che questi inquilini temporanei del Khan sono oggetti personali di Gengis Mao più intimi delle sue pantofole, per esempio, o del suo orologio da polso. Ma preferisce il somatoplasma genuino, e un pezzo di aorta autentica è il meglio che possa trovare in questo momento.
C’è l’aneurisma, grosso e maturo, pronto a scoppiare. Ancora qualche giorno e avrebbe potuto cedere, puf!, e niente più Gengis Mao. Il Presidente e Mangu, ora di sabato, avrebbero potuto condividere lo stesso funerale, se Shadrach non avesse avvertito degli strani ticchettii nei sensori del sistema circolatorio, o non ne avesse correttamente decifrato l’importanza. Dunque ho salvato la vita al Khan, non per la prima volta, ed eccolo una volta ancora riportato a una salute perfetta. Benissimo. Benissimo. Che possa vivere cinquecento anni, e che io resti per sempre il suo medico personale!