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Da giorni, ormai, dice che non fuggirà. L’ha detto a Ficifolia, a Horthy, a Nikki, a Katya, a tutti gli amici premurosi che vogliono che si salvi. Ma infine decide di andarsene da Ulan Bator, dopo tutto.

Non è precisamente un tentativo di fuga, perché Shadrach non ha smesso di credere che alla lunga sia impossibile sfuggire agli occhi-spia di Gengis Mao. Non cercherà di muoversi clandestinamente: intende avvertire della propria partenza anche lo stesso Presidente. No, si tratta più che altro di un viaggio di piacere, una vacanza. Shadrach partirà per quel commento che gli ha fatto Horthy, “c’è chi riesce a pensare meglio mentre sta fuggendo”; e perché Nikki, ritirando fuori l’idea che lui e Gengis Mao costituiscono un sistema unico, gli ha dato qualche idea. Non è sicuro di quanto possano essere utili queste idee, e ha bisogno di pensarci su con molta calma. Forse riuscirà davvero a pensare meglio mentre fugge. In un modo o nell’altro, partirà. Pensa al viaggio con piacere. Sarà una piacevole distrazione, e forse risulterà anche istruttivo. Si sente allegro e ottimista. Il Glorioso Shadrach, che solca elegante i continenti in quella che potrebbe benissimo essere l’ultima grande avventura della sua vita.

Scesa la sera, va a trovare Gengis Mao. Il Khan si sta riprendendo con l’abituale rapidità dall’ultimo intervento chirurgico. Ha un aspetto lievemente febbrile, il volto appena avvampato, i piccoli occhi attenti mostrano una lucentezza innaturale, ma in generale si mostra arzillo, vigoroso, vivace. Ha passato gran parte della giornata sui progetti per i funerali di stato di Mangu, che saranno spettacolari; erano stati rimandati a causa del trapianto dell’aorta, e ora sono previsti per dieci giorni più in là. Mentre Shadrach esegue rapidamente le procedure diagnostiche abituali, la palpazione e l’auscultazione e tutto il resto, Gengis Mao fruga tra i documenti e ignora completamente il lavoro del suo medico, parlando del grande evento con l’entusiasmo scoppiettante di un ragazzino.

— Cinquantamila uomini di truppa ammassati nella grande piazza, Shadrach! Razzi che solcano il cielo, avanti e indietro, aerei militari in volo, mille bandiere, le sfilate di sei diverse bande musicali. Luci, colori, eccitazione. L’intero Comitato sul palco, sotto la luce stupenda di un faretto viola e oro. Tredici giumente selvatiche a trascinare il catafalco. Plotoni di arcieri scaglieranno frecce infuocate. Una pira immensa nel punto preciso in cui è morto Mangu. Squadre di ginnasti che…

— Il Khan si ferma. — Non è che mi troverà ancora qualcosa da tagliar via, vero? Non voglio altri interventi in questo momento. Il funerale non dev’essere rimandato un’altra volta.

— Non vedo alcun motivo per cui questo dovrebbe succedere, signore.

— Bene. Bene. Sarà un evento che ricorderanno nei secoli. Ogni volta che un grande morirà, parleranno della necessità di fargli un funerale “glorioso come quello di Mangu”. Lei sederà al mio fianco sul palco, Shadrach. Alla mia destra. Un segno speciale del mio favore, e tutti lo sapranno.

Shadrach trae un respiro profondo. Potrebbe non essere facile.

— Col suo permesso, signore, sarebbe mia intenzione essere via da Ulan Bator quando avranno luogo i funerali.

Le sopracciglia imperiali si inarcano in segno di sorpresa, ma per un momento soltanto.

— Oh? — dice finalmente Gengis Mao.

— Vorrei andare via per un po’ — gli dice Shadrach. — Sono stato molto sotto tensione, ultimamente.

— In effetti ha l’aria pallida — dice asciutto il Khan.

— Sono molto teso. Molto stanco.

— Già. Povero Shadrach. Come si dà da fare.

— Dopo il trapianto di fegato lei è diventato molto più forte, signore. Nelle prossime settimane non avrà bisogno di me su una base quotidiana. E naturalmente io potrei tornare a Ulan Bator di corsa, se ci dovesse essere un’emergenza.

Gli occhietti di Gengis Mao lo studiano con grande calma. Il Khan, stranamente, sembra non preoccuparsi minimamente per l’annuncio di Shadrach. In questo c’è qualcosa di lievemente inquietante. Shadrach non vuole essere indispensabile, con tutti gli oneri che un caso del genere comporterebbe, ma d’altro canto vorrebbe che il Khan lo ritenesse indispensabile. Essere indispensabile, in questo momento, è la sua unica via di salvezza.

— Dove andrà? — chiede Gengis Mao.

— Non l’ho ancora deciso.

— Neanche vagamente?

— Neanche vagamente. Via di qui, è tutto quello che so.

— Capisco. E per quanto tempo?

— Qualche settimana. Un mese al massimo.

— Sarà strano non averla vicino.

— Quindi ho il permesso di partire, signore?

— Ha il mio permesso. Naturalmente. — Il Khan sorride sereno, come se fosse molto soddisfatto della propria liberalità. E poi, un cambiamento d’umore improvviso: il volto si fa più cupo, la fronte si aggrotta, negli occhi compare un denso riflesso di irritazione. Un ripensamento? Sì. — Ma se mi ammalassi? Supponiamo che mi venga un attacco. Il cuore. Lo stomaco.

— Signore, potrei tornare immediatamente se…

— Mi spaventa, Shadrach. Non averla qui con me. — La voce del Khan è roca adesso, spezzata, quasi atterrita. — Se comincia un rigetto degli organi. Se c’è un’ostruzione intestinale. Se i reni non funzionano più bene. Lei si accorge così velocemente quando ci sono dei guai, reagisce così prontamente. Se… — Il Khan ride. L’umore, a quanto pare, ha una nuova svolta; i timori di un attimo fa svaniscono improvvisamente, e uno strano sorriso inespressivo gli attraversa la faccia. Parla con una voce nuova, dolce, e sembra quasi che canti una canzone, lenta e struggente: — A volte sento delle voci, Shadrach, lo sapeva? Come i santi, come i profeti. Dei consiglieri invisibili vengono a trovarmi. Sussurrano. Sussurrano. Sono sempre venuti, quando ce n’era bisogno. A mettermi in guardia, a guidarmi.

— Delle voci, signore?

Gengis Mao sbatte gli occhi. — Ha detto qualcosa?

Voci, dicevo. Mi stava dicendo che a volte sente delle voci.

— L’ho detto io? Io non ho parlato di nessuna voce. Che voci? Di cosa sta parlando, Shadrach? — Gengis Mao ride nuovamente, una risata cupa, dura, inquietante. — Voci! Che follia! Be’, non stiamo a preoccuparci di sciocchezze del genere. — Allunga il collo e fissa Shadrach dritto negli occhi. — Allora presto si farà una vacanza, via dal vecchio e dai suoi capricci, eh?

Shadrach sta sudando. Shadrach è terrorizzato. È stata una specie di crisi psicotica, o semplicemente uno dei soliti giochini di Gengis Mao?

— Una piccola vacanza, signore, sì — dice in tono incerto.

Il Presidente assume un’aria preoccupata per un istante. — Già. Perdersi i funerali, però… è proprio un peccato…

— Mi dispiace, infatti — dice Shadrach. — Ma ho proprio bisogno di andare via.

— Certo. Certo. Assolutamente. Si faccia il suo viaggio, Shadrach. Se ha proprio bisogno di andare via. Se ne ha proprio bisogno. Di andare via.

Ecco. Fatto. Shadrach tira un sospiro. Uno o due momenti difficili, ma ha la sua autorizzazione a partire. Strano. Non è stato proprio difficile.


29 maggio 2012

Che faccia lunga aveva Shadrach, quando se n’è uscito con questa storia della vacanza. Terrorizzato. Aveva paura che rifiutassi, immagino. Cos’avrebbe fatto se gli avessi detto di no? Sarebbe partito lo stesso? Forse. Sembra disperato. Aveva quella luce negli occhi, un uomo intrappolato che lotta con le spalle al muro. Bisogna sempre stare attenti a persone del genere. Controlla il tuo avversario, sì, ma non metterlo con le spalle al muro. Lasciagli spazio in abbondanza. Così, lasci spazio in abbondanza anche a te stesso.

Mi chiedo perché parta.

Stanco, ha detto. Teso. Bene, forse è vero. Ma c’è dell’altro. Dev’essere qualcosa che ha a che fare con Avatar. Starà pensando di sparire? È troppo intelligente per farlo. Deve ben sapere che non può sparire. E allora di cosa si tratta? Spirito di ribellione? Vuole solo scoprire cosa succede se va a trovare il vecchio e gli dice che se ne sta andando per un mese, destinazione sconosciuta? Ovvio che non rifiuterei. Molto più interessante lasciarlo andare, e vedere cosa combina.

Il primo bagliore di indipendenza che abbia mai mostrato il povero Shadrach. Era anche ora.

E se mi ammalo gravemente mentre è via?

Cuore. Fegato. Polmoni. Reni. Emorragia cerebrale. Pleurite. Pericardite acuta. Uremia tossica. È così fragile, così volubile, così vulnerabile questo corpo, nient’altro che dei brandelli di carne legati insieme. Capace di disfarsi da un giorno all’altro.

Non mi devo preoccupare di cose del genere. Sto benissimo. Sto benissimo. Sto benissimo. Ho una salute straordinaria.

Non dipendo da Shadrach Mordecai.

Non dipendo da Shadrach Mordecai.

E se conoscesse qualche modo per sparire davvero? Immagino che ce ne sia almeno una possibilità sottilissima. Cosa succederebbe ad Avatar in quel caso? Si trova un altro donatore? Ma io voglio lui. Ogni volta che lo vedo, penso a com’è perfetto quel corpo, com’è agile, com’è elegante. Intendo indossare quel corpo un giorno, oh, sì!

E allora, dovrei permettergli di sparire di vista?

Ma nessuno può sparire di vista. Non alla mia vista.

E poi, conosco Shadrach. Non mi preoccupa questo suo viaggio. Partirà, si godrà la sua vacanza, e poi se ne tornerà da me. Di sua spontanea volontà. Tornerà qui, eccome. Sì. Di sua spontanea volontà.


È ora di pensare alla scelta delle destinazioni. Shadrach può andare in qualunque angolo del mondo, senza preoccuparsi del costo; non è forse un membro dell’élite del potere? Con la benedizione dell’Antidoto, è un aristocratico in un mondo di plebei condannati a marcire. Ma dove andare?

Si dirige verso il Vettore di Sorveglianza Uno per soppesare le possibilità.

Si è spesso soffermato davanti agli schermi del Vettore di Sorveglianza Uno per un tuffo casuale nelle attività del mondo esterno, che chiama il Reparto Traumatologia: questa, però, è la prima volta che si siede sul trono imperiale dal quale si controlla il grande apparato degli occhi-spia. Lo fronteggiano decine, forse centinaia di tasti colorati: una fila di bottoni rossi, un cuneo di verdi, altri gialli, blu, violetti, arancioni. Le sue mani scorrono sopra di essi come quelle di un organista inesperto che per la prima volta si avvicina a una tastiera completa. Non ci sono etichette. C’è una logica? In ogni angolo della stanza ci sono immagini che turbinano e lampeggiano sulla miriade di schermi, comparendo e scomparendo con ritmi variabili e imprevedibili. Shadrach preme un tasto verde. È successo qualcosa? I monitor sembrano sempre funzionare in modo casuale. Copre decine di tasti verdi stendendo i palmi delle due mani. Ah. Ora pare che la reazione segua una sorta di schema riconoscibile. Una parte degli schermi, in alto in alto, verso destra, mostra delle città che sono inequivocabilmente europee: Parigi, Londra, Praga forse, Vienna, Stoccolma. Può darsi che i colori siano collegati ai continenti, dunque.

Lasciando premuti i tasti verdi, Shadrach interviene su un gruppo di quelli arancioni. Una ricerca sistematica nel turbine folle di monitor lampeggianti gli rivela, alla fine, un blocco di paesaggio nordamericano all’estremità sinistra: dei passaggi rapidissimi di una città che è sicuramente Los Angeles, e poi New York, e Chicago, Boston, Pittsburgh. Ecco. Sì.

Una mezz’ora di lavoro paziente, intenso, ed ecco che è padrone dei principi del funzionamento del pannello: è un tipo che impara velocemente. Il violetto è l’Africa, il giallo l’Asia, il rosso l’America Latina, e così via. Scopre anche che ci sono certi tasti generali: il rosso dei rossi, per così dire, il blu dei blu; con ciascuno di questi, scelto un continente è possibile cancellare dagli schermi tutti i dati relativi agli altri continenti, e non è più necessario districarsi nella folle sovrabbondanza di informazioni che il Vettore di Sorveglianza Uno nel suo complesso è in grado di fornire. Shadrach impara anche come richiamare le immagini di città specifiche: i tasti di ciascun gruppo cromatico sono disposti in analogia con la posizione geografica reale delle città, e attivando uno schermo che gli si trova di fianco, sulla sinistra, Shadrach può richiedere delle mappe suddivise in griglie che gli mostrano che tasti premere. A questo punto, esamina sistematicamente il Reparto Traumatologia per vedere dove vuole andare.

Le città famose, già. Le antiche capitali del mondo. Roma? Naturalmente. Batte qualche tasto. Appare il Colosseo, poi il Foro, la scalinata di Piazza di Spagna. Sì. E Gerusalemme, sì, basta uno sguardo rapidissimo. Prende in considerazione l’Egitto, e con i tasti richiama le immagini del Cairo, ma lascia perdere quando vede i mendicanti che si affollano alla base della Grande Piramide, gli occhi ormai privi della vista coperti di mosche ronzanti. Ha sentito delle voci sull’Egitto, e pare che siano fondate: la decomposizione organica non lo spaventa, ma non ha antidoti per quel tracoma spaventoso, per la bilharzia endemica, per quell’altro migliaio di piaghe cairote che i monitor gli stanno mostrando. La sua anima di persona che vive per curare gli altri lo porterebbe volentieri in Egitto a imporre le mani su quegli sventurati, a far girare un po’ di medicine, ma questa dovrebbe essere una vacanza: non sta per andare all’estero in quanto medico, è precisamente il contrario, e rifugge da questa sfida. Niente Egitto. Sceglie invece Istanbul, dopo un’occhiata alle moschee che sorgono solide dalle colline; sceglie Londra; passa oltre Filadelfia, la sua città natale, e, con un tremito, fa lo stesso con New York; si decide per San Francisco; e infine Pechino. Il grand tour. La grande avventura.

Dorme da solo quella notte, e per una volta dorme bene, come se la prospettiva di un viaggio attorno al mondo gli avesse calmato, in qualche modo perverso, lo spirito inquieto. Prima dell’alba si sveglia, fa un po’ di ginnastica senza troppo interesse, e tranquillamente prepara i bagagli, portando con sé poche cose. Il volto dello schermo informatico verde gli dice che è

VENERDÌ
1 GIUGNO
2012

Non perde tempo in addii. Non appena il sole è spuntato all’orizzonte, fa venire un’automobile e si fa portare all’aeroporto.


1 giugno 2012

Gli ho parlato delle voci, alla fine. Nonostante quel che avevo deciso finora. Ho fatto male? Ma non mi ha preso sul serio. E io, mi prendo sul serio? Forse sono i sintomi di qualche disturbo mentale grave. Ma allora anche i santi erano pazzi? Le voci mi parlano, mi sussurrano. È da sempre che vengono, nei momenti di crisi. Durante la Guerra Virale le sentivo con la massima chiarezza. Una voce aveva detto: “Io sono Temucin Gengis Khan, e tu sei mio figlio, e sarai Gengis II”. Una voce di tuono, sebbene lui stesse solo sussurrando. “E io sono Mao “, aveva detto un’altra voce, liscia come la seta. “Tu sei mio figlio”, aveva detto Mao, “e sarai Mao II”. Ma avevamo già avuto un Mao II, un piccolo codardo fastidioso che aveva completamente distrutto il suo paese con le sue idiozie, e c’era stato anche un Mao IH, per un breve tempo, nei giorni subito prima dello scoppio della Guerra Virale, così ho risposto a Mao, gli ho detto che non era aggiornato, che era tardi perché io fossi Mao 11, dovevo diventare Mao IV. Lui ha capito. Quindi mi hanno benedetto e incoronato. Sono diventato Gengis II Mao IV. È così che le voci mi hanno dato un nome e mi hanno ordinato imperatore e mi hanno incoronato. E mi hanno guidato. È segno di un disturbo schizoide sentire delle voci che vengono dal nulla? Potrebbe essere. Sono schizoide, dunque? Benissimo, sono schizoide. Ma sono anche Gengis II Mao IV, e sono il padrone del mondo.

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