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Da solo nello studio, a rimuginare sui suoi tesori medici, i suoi libri e gli antichi strumenti e ora questo pezzettino di aorta sotto vetro, Shadrach si sente al sicuro; questa è una comoda trincea. Quel problemino con Avatar si risolverà da solo. Il Khan, dopo tutto, ha uno spirito conservatore: si terrà ben stretto il suo corpo mongolo, la beneamata, solida carcassa rattoppata, finché potrà, nonostante le tentazioni di saltare nella struttura forte, giovane, vitale di Shadrach. Dunque non ci saranno uscite di scena precipitose per Shadrach, e nei mesi, forse anni, che si trova davanti, lui potrà cercare di distogliere completamente le fantasie del Khan dal Progetto Avatar, a favore del Progetto Talos. Questo significherà la fine delle ricerche di Nikki Crowfoot, ma Shadrach, tutto considerato, non si può sentire troppo in colpa per questo.

Concede all’aorta un posto d’onore sugli scaffali. Tra qualche secolo potrebbe essere un oggetto sacro, accolto in un reliquiario d’avorio e platino, e la folla di fedeli canterà grazie al santo Shadrach Mordecai, che salvò per la posterità questo brandello di carne divina. Chi può dirlo? Circola una storia apocrifa: molti degli organi originari di Gengis Mao sarebbero conservati in cunicoli labirintici e segreti, immagazzinati sotto freddo intenso o forse in vivo, per essere utilizzati eventualmente per clonare il Khan. Shadrach ne dubita. Se Gengis Mao avesse un vero interesse nella possibilità di essere clonato, si starebbero dedicando immense porzioni del bilancio scientifico alla ricerca sulla coltura dei tessuti, mentre, per quanto ne sa Shadrach, quell’area non sta ricevendo granché in termini di risorse. Ancora più probabilmente, ci sarebbe già un battaglione di duplicati geneticamente perfetti di Gengis Mao in attesa nelle vasche di sospensione di cinque o sei continenti, pronti a essere richiamati in vita.

Mordecai ha pensato spesso di scrivere una monografia scientifica sul suo paziente, una biografia medica di Gengis Mao, una cronaca esauriente delle migliaia di trapianti e innesti, delle infinite manovre chirurgiche che sono responsabili della longevità del Khan e forse della sua terrificante vitalità. Niente nella letteratura specializzata potrebbe reggere il confronto, neppure Beaumont sul tratto digestivo di Alexis St. Martin, neppure Lord Moran su Churchill: c’è mai stato un progetto medico tanto concentrato e di così lunga durata, che si estendesse durante tanti decenni, dedicato a mantenere un solo essere umano in vita e in salute? L’operazione ha già fin qui del miracoloso, ma i veri miracoli devono ancora realizzarsi, quando Gengis Mao, senza più età, eternamente rinnovato, continuerà a vivere oltre i cent’anni, i centodieci, i centoventi…

C’è un’altra tentazione, ancora più grande: scrivere non solo un testo scientifico, ma un resoconto completo della vita di Gengis Mao. Non esistono biografie del Presidente, a parte i libriccini propagandistici e ben depurati che si limitano a snocciolare i suoi successi politici e altri eventi esterni, evitando qualunque dettaglio relativo alla vita privata. È come se il Khan avesse un timore superstizioso di farsi catturare l’anima dalla carta stampata. Di qui il sogno a cui Shadrach non riesce a sfuggire: inchiodare il Khan con la parola scritta, imprigionarlo con uno juju letterario. È un mezzo possibile per ottenere potere sull’uomo più potente del mondo, in modo metaforico se non altro.

Il problema è che non ci sono fonti disponibili per il materiale. Le banche dati di Ulan Bator straripano di dati intimi relativi a qualunque essere umano vivente: tranne Gengis Mao. Sapendo quale bottone premere, ecco marciare avanti plotoni interi di fatti e cifre: ma nessuno riguarda Gengis Mao. I fatti della sua vita sono sconosciuti e forse inconoscibili, eccettuate le più elementari pietre miliari della sua vita pubblica, la proclamazione della filosofia della depolarizzazione centripeta, la fondazione del CRP, l’elezione alla Presidenza. Tutto il resto è stato soppresso, annichilito. Quando è nato? In quale oscuro villaggio? Che infanzia ha avuto, che ambizioni aveva da ragazzo? Come si chiamava originariamente, nei vecchi tempi della Repubblica Popolare, prima che si autoproclamasse Gengis Mao? Che passi ha seguito la sua carriera? Che istruzione ha ricevuto? Era mai stato all’estero? Si è mai sposato? Figli? Ecco, questa è una buona domanda: ci sono, in qualche angolo della Mongolia, degli uomini e delle donne di mezza età che sono effettivamente i figli di Gengis Mao, e in tal caso, conoscono l’identità del loro padre? Nessuno è in grado di dare risposta a queste domande. Nessuno può dare risposta a nessuna domanda che riguardi Gengis Mao, se non col sentito dire, con aneddoti apocrifi, con il mito. Ha coperto le sue tracce con grande cura, con una cura tale che il successo assoluto del tentativo di occultamento totale suggerisce una sorta di follia.

Ma è possibile che qualcuno, anche lo stesso Gengis Mao, desideri davvero eliminare dalla faccia della terra qualunque traccia della sua identità precedente? Si dice che i criminali si sentano attirati con forza a ritornare sulla scena del delitto; forse coloro che cercano di avvolgersi nel mistero tendono, allo stesso modo, a contrastare le loro stesse mistificazioni seppellendo, per la Storia, un resoconto esauriente di ciò che avevano cercato di nascondere. Non ci sarà un nascondiglio a cui Gengis Mao ha affidato tutti i segreti sottratti alla conoscenza dei suoi sudditi? Un diario, diciamo, un diario intimo e rivelatore, un ripostiglio per l’essenza dell’anima mascherata di Gengis Mao. Shadrach immagina un incontro fortuito con un documento simile, nel mezzo degli effetti personali del Khan: potrebbe capitargli di imbattersi in un singolo chip a bolla da un miliardo di bit, più piccolo di un polpastrello, contenente tutto ciò che ha costituito la vita di Gengis Mao, le sue confessioni, la versione non edulcorata delle sue memorie; e grazie a tutto questo, il fedele dottor Shadrach Mordecai sarebbe in grado di mettere insieme la prima e unica biografia di quell’uomo strano e sinistro che giunse a dominare la civiltà morente degli inizi del ventunesimo secolo.

Naturalmente, non esiste un diario del genere. Dei ladri qualunque, dei criminali da mezza tacca, possono mettere a rischio la loro sicurezza per un impulso insopprimibile, ma Shadrach conosce Gengis Mao abbastanza bene da rendersi conto che, se vuole vivere nel mistero, non lascerà in giro memorie nascoste che qualcuno potrebbe rinvenire. Il Gengis Mao privato ha un’attenzione alla segretezza pari solo a quella del Gengis Mao pubblico: apri una scatola vuota e dentro ce n’è un’altra, più vuota ancora. Non importa. Nel suo ruolo fantastico di biografo di Gengis Mao, Shadrach fantasticherà anche sulle memorie del Khan, inventerà il materiale e le fonti che Gengis Mao ha trascurato di fornire. Shadrach chiude gli occhi. Lascia l’immaginazione libera di vagare. Crea il diario del Khan nel crogiolo del proprio cervello pulsante.


11 novembre 2010

È il mio compleanno. Gengis Mao compie ottantacinque anni quest’oggi. No. No. Gengis Mao ha… quanti anni? Venti? Qualcosa del genere. È Dashiyin Choijamste che compie ottantacinque anni oggi. Dashiyin Choijamste, che porto dentro di me come un gemello interiore. Chi se lo ricorda, quel neonato grassoccio tra le braccia del padre orgoglioso? Tanto tempo fa, nel villaggio di Dalan-Dzadagad in una notte nevosa del 1925. È nella provincia del Gobi Meridionale, Dalan-Dzadagad. Non ci vado da quindici anni. È il posto dove sono nato, ma nessuno lo sa. Nessuno sa niente. Io lo so, Dashiyin Choijamste compie ottantacinque anni oggi. Quanti ce n’è in giro ancora vivi, di quelli che erano nati l’undici novembre del 1925? Non molti, no. E quelli che restano sono delle rovine ambulanti. Mentre io sono ancora al mio meglio, io, Dashiyin Choijamste di Dalan-Dzadagad, figlio di Yumzhagiyin Choijamste, direttore dell’allevamento di cammelli di Bogdo-Goom. Io, Gengis Mao. Mi sento in forma oggi, oh, sì, ottantacinque anni e una gran forza. E non solo grazie ai trapianti. È una cosa ereditaria. Il buon vecchio sangue tataro. Non dimenticartelo, avevi quasi settant’anni quando è scoppiata la Guerra Virale, eppure eri tutt’altro che vecchio, un vigore impressionante, tutti i denti sani, capelli nerissimi, passeggiate di venti chilometri tutte le settimane; non avevi ancora avuto trapianti. Eri ancora Dashiyin Choijamste, allora. Un suono strano, scorre male sulla lingua adesso, anche se è stato il tuo nome per più di sei decenni. E sono sopravvissuto alla Guerra Virale, senza alcun segno della decomposizione. La gente attorno a me cadeva a pezzi. Uno spettacolo da far torcere le budella. Non sono ricorso ai trapianti fino a che la vecchiaia naturale non ha dato i primi segnali, più tardi, molto più tardi: l’ho fatto, alla fine, ma non prima che il potere fosse nelle mie mani. Il potere. Ho conquistato il potere supremo. E ora medici esperti aiutano il mio naturale vigore tataro. Potrei vivere altri cinquant’anni.

Potrei vivere ancora di più, molto di più.

Cosa ricordo della mia infanzia? Quanta neve si accumula in ottantacinque anni! Mi sembra di vedere la faccia di mio padre, magra come la mia, le sopracciglia marcate, gli zigomi forti. Yumzhaghiyin Choijamste dell’allevamento di cammelli di Bogdo-Goom, successivamente Eroe dell’Ordine di Lenin. Ferito nella battaglia di Khalkhin Gol nel 1939, poi terzo segretario dell’Agenzia Agricola… vedi, Padre, mi ricordo, mi ricordo! Il padre di Gengis Mao, morto nel 1948 in un incidente aereo tra Mosca e Ulan Bator, di ritorno da una conferenza sul grano. Quei miseri jet russi, che venivano sempre giù. Era poi un jet? È così tanto tempo fa… ma i jet c’erano già, allora, no? Gli Ilyushin, i Tupolev. Potrei andare a controllare. Sei morto da sessantadue anni, Yumzhagiyin Choijamste. I bambini nati il giorno della caduta del tuo aereo sono dei vecchi ormai. E io sono ancora qui, Padre. Io sono Gengis Mao. Mi ricordo di te, all’allevamento di cammelli. Sono in piedi sulla neve appena caduta, e mio padre tira un cammello per la cavezza. Il cammello torreggia sopra di me, come una montagna; muso lungo e brutto, labbra gommose, occhi dolci e inespressivi, con appena una traccia di disprezzo sottile. Il cammello mi si avvicina e la sua lingua enorme mi percorre le guance, le labbra. Un bacio! Quell’alito acre. La risata di mio padre. Mi prende tra le sue braccia, mi stringe forte. Com’è grande! È più grande del cammello, per me. Ho tre anni, quattro forse.

E mia madre? Mia madre? Non l’ho mai conosciuta. Calpestata dagli yak durante una tempesta di neve spaventosa, quando non sapevo ancora parlare. Ho dimenticato perfino il tuo nome, Madre. Potrei andare a vedere. Ma dove…? Dove…?


Shadrach fa una pausa, riflette, ci ripensa. È plausibile? Coerente? Il tono è quello giusto, ma i “fatti”? Li verificherà. Forse dovrebbe modificare qualche dettaglio importante? Cambierebbe qualcosa? Vediamo…


17 ottobre 2012

È il mio compleanno. Oggi Gengis Mao compie novantadue anni, anche se ufficialmente si dice che ne abbia solo ottantasette. D’altra parte, c’è chi ritiene che io abbia da tempo passato i cento. Questo vorrebbe dire che sono nato attorno al 1905. Come possono crederlo? 1920… non è già brutto abbastanza? Wilson, Clemenceau, Henry Ford, il generale Pershing, Lloyd George, Lenin, Trotzkij, Sukhe Bator… uomini dei miei tempi. E io sono ancora qui, nel 2012 dell’era cristiana, io, già Namsan Gombojab, nato a Sain-Shanda, ultimogenito del pastore di yak Khorloghiyin Gombojab, che…


No. Cambiare i dettagli è futile. Il suo nome originario potrebbe essere Choijamste, Gombojab, Ochirbal, uno qualunque va bene; e potrebbe essere nato nel 1925, nel 1920, nel 1915, perfino nel 1910; potrebbe aver fatto carriera nel ministero della Difesa, nell’Agenzia per la Redistribuzione Agraria, nel commissariato alle Telecomunicazioni; mettici tutti i dettagli che vuoi, a mo’ di decorazione: non farà la minima differenza. I lineamenti essenziali dell’animo di Gengis Mao sono in profondità, sono marcati, e sono loro il tuo argomento, Shadrach, le sue impressioni, la sua visione del mondo. Non i dettagli insignificanti del quando e del dove.


14 maggio 2012

Il trapianto di fegato si è concluso solo due ore fa, ed ecco qua Gengis Mao, vecchio e rugoso, ma ancora vivo, eccome; è ben sveglio, pieno d’energia, attento. Sono orgoglioso di lui. La sua irrefrenabile vitalità. La sua insopportabile capacità di assorbire tutto. Onore a te, Gengis Mao! Ah! Sento un dolore all’addome, ma non è niente di cui lamentarsi. Il dolore è il segno che siamo vivi, che proviamo sensazioni, che reagiamo agli stimoli. La pesantezza che mi aveva colto quando il vecchio fegato aveva cominciato a funzionare male se ne sta già andando. Sento che il mio sistema si sta ripulendo. È come se fluttuassi per aria, due metri sopra questo letto. Galleggio sopra tutto il bellissimo macchinario che pompa liquidi benefici nel mio guscio mortale. Com’è bello il dolore! Quella pulsazione insistente, in basso, sul fianco… bom, bom, bom, una campana che suona all’interno del vecchio Gengis Mao, lo incita a vivere una lunga vita. Diecimila anni all’Imperatore! I miei abilissimi medici trionfano ancora una volta. Warhaftig, Mordecai.

I miei medici. Warhaftig non è che una macchina. Mi annoia, ma è perfetto. Adoro guardare le sue mani sparire dentro al buco nella mia pancia. Riemergere tenendo stretto un grumo rosso e inerte, gonfio di malattia: gettarlo da parte, ricucire al suo posto un organo nuovo. Warhaftig non sbaglia mai. È brutto però, con quel naso piatto, quelle labbra girate all’ingiù. Pelle bianca malata, morta. Un genio, ma brutto e noioso, nient’altro che una macchina. È mai stato giovane, Warhaftig? Si è mai accovacciato dietro a un cespuglio, a spiare donne nude fare il bagno in un torrente? Non lui. Oh, no, non lui. Ridere, rotolarsi nell’erba? Warhaftig? Mai.

Shadrach è più interessante. Elegante, arguto, un bel corpo forte, una mente fresca, sveglia. È bello guardarlo. La pelle nera. Non ho mai visto un nero prima dei quarant’anni, quando una delegazione della Guinea ha fatto visita al mio dipartimento. Quelle facce lucide, quasi violacee, quei capelli densi e intrecciati, quelle vesti tribali. Occhi di un bianco abbagliante, le palme delle mani bianche, come dei gorilla, voci profonde; strani, strani. Parlavano francese. Shadrach non è come quegli africani, se non per quell’intelligenza attenta, seria, che hanno in comune. È bruno, non nero; molto alto, molto americano, non fa proprio pensare alla giungla. A volte con me si produce in lezioni, come se fossi un ragazzino, un bambino birichino. Si preoccupa sempre della mia salute. Coscienzioso, ecco cos’è, laborioso, con la dedizione tipica di certi giovani. È troppo sano di mente per stare qui tra noi. Gli manca… che cosa? La cupezza, posso dire una cosa del genere a proposito di lui? Sì. È la cupezza interiore che gli fa difetto: in lui non ci sono demoni. O lo sto sottovalutando? Ci devono essere demoni dentro chiunque, perfino dentro a quell’automa di Warhaftig, perfino dentro al tranquillo, spensierato Shadrach Mordecai. È molto giovane. Questo mi piace. Ha almeno cinquant’anni meno di me, eppure siamo dei contemporanei, siamo tutti e due uomini del presente; tutti e due sconosciuti fino a non molto tempo fa, anche se io ho atteso così a lungo per diventare quello che sono, e lui è diventato se stesso così giovane. Sa sorridere bene. In lui non c’è ancora traccia di cinismo. Ha vissuto la Guerra Virale e tutte le brutture che l’hanno seguita, ma è tranquillo, ha fiducia nel futuro, pensa solo a curare i suoi simili. Curerebbe perfino quelli che hanno messo in schiavitù i suoi antenati. Mentre io mi vendicherei mille volte con i miei oppressori; ma d’altronde, io sono di sangue tataro, e noi siamo fieri, feroci, siamo dei lupi del Gobi, mentre lui è figlio di placidi coltivatori della giungla. Tutte le mattine si reca al Vettore di Sorveglianza Uno, e osserva la gente che marcisce di qua e di là per il mondo. Crede che non lo sappia. Mentre osserva, io osservo lui. Il suo volto magro e morbido, i suoi occhi tristi e intelligenti. È così addolorato per quelli che stanno marcendo dentro. Un uomo compassionevole. Come un bambino. Non è un santo, ma ha la stoffa del martire.


23 gennaio 2012

Il Comitato in sessione plenaria. Horthy, Labile, Ionigylakis, Eyuboglu, Lapostolle, Farinosa, Parlator, Blount. Tutti i burocrati migliori. Ronzano senza sosta, bzzz, bzzz, bzzz, e io lì ad ascoltare tutto, senza ascoltare. Sono delle macchine. Il Comitato stesso è una macchina che ho costruito io, un meccanismo delicato quanto inutile, come un orologio senza lancette. Quando morirò io, si sfalderà da solo, se quando morirò sarò davvero morto. Ho concesso a Mangu di presiedere le riunioni. Passo dopo passo, lo incoraggio a convincersi della propria responsabilità, gli dono l’ombra dell’autorità. È affascinato da quella massa di burocrati spaventosi, quegli apparatchik, così come un ragazzo è affascinato dal ronzio delle mosche sul letame, e non parliamo del letame stesso. Era questo che avevo in mente quando ho preso in mano le redini del mondo, pensavo di affidarlo a questo Comitato Rivoluzionario Permanente di mosche da letame, tutte figlie mie? Rivoluzionari! Lapostolle dorme; Farinosa sogna Karakorum e se ne sta seduto a tormentarsi il nasone; la pancia di Ionigylakis brontola. Avrei dovuto mettere più mongoli nel Comitato; questi stranieri bianchi sono spenti. Ma ho bisogno dei miei mongoli altrove. Non posso permettere che diventino degli insetti ronzanti. Non posso lasciare che passino il tempo a russare. Sta nevicando di nuovo, oggi.

Potrei sgattaiolare via dalla stanza del Comitato, via dal palazzo, scappare segretamente nella neve, sdraiarmici sopra, rotolarmici, prenderla a manciate e lanciarla per aria. Chiamare un cavallo e galoppare tutta la notte, senza sella, gli zoccoli silenziosi sul bianco del suolo, uomo e bestia attraverso la steppa, senza sosta, delle croste di pane per me, un otre di pelle di capra pieno di airag da tracannare lungo la strada… sì, sono ancora un ragazzo, io che sono così anziano, e loro sono dei vecchi! Ma naturalmente Shadrach me lo proibirebbe. Io regno sul mondo, lui regna su di me. E se insistessi? Perché devo sopportare il ronzio di queste mosche, quando il Cobi è coperto di neve fresca? Sei in grado di sostituire un rene, se si sta disfacendo, gli dirò; sicuramente sarai in grado di curare il naso congelato di un vecchio. Sì. Sì. Me ne uscirò. Lo farò. Devo fuggire da questa noia.

Avevo questo in mente quando ho preso in mano le redini?

Cos’avevo in mente? Avevo in mente qualcosa, a parte che tutto stava cadendo a pezzi, e che era mio dovere tenerlo insieme? Credo che fosse solo questo. Il mondo stava sprofondando nel caos. Come aborro il disordine! Una tale agitazione, una tale confusione: la gente che muore, le nazioni morte, orde di selvaggi che spazzano la Terra, niente di semplice, tutta la semplicità sparita dalla faccia del pianeta. Io amo la semplicità, una struttura ben organizzata, armoniosa e soddisfacente; una sola nazione, un solo governo, un solo codice di leggi, tutto unico, e avanti verso l’orizzonte. Avevo settantatré anni, e una gran forza. Il mondo aveva milioni di anni, ed era debole. Non potevo sopportare il caos. Credo che tutti coloro che hanno governato il mondo fossero motivati fondamentalmente dall’odio per il caos, piuttosto che dal semplice amore per il potere. Napoleone, Attila, Alessandro, il grande Gengis, perfino quel povero pazzo di Hitler, ciascuno di loro voleva che le cose fossero bene ordinate, semplici, avevano un sogno d’ordine, insomma, e per realizzarlo non vedevano altro modo che importo essi stessi al mondo. Come ho fatto io. Naturalmente, la maggior parte di loro hanno finito per generare più caos di quanto non ne stessero eliminando, e hanno dovuto essere eliminati. Hitler, per esempio. Io quell’errore non l’ho fatto. Fino all’ultimo, combatto l’entropia, offro me stesso, Gengis II Mao IV, come simbolo di unità, centro focale dell’energia planetaria, cristallo di semplicità. Ma… oh, padre Gengis, queste sessioni plenarie, questo ronzio, queste mosche! Padre Gengis, tu avevi forse un Horthy con le sue declamazioni? Te ne stavi ozioso, a sognare un cavallo veloce e un vento ghiacciato, ad ascoltare un Parlator e un Blount? Oh! Oh! È per questo che ho dichiarato guerra al caos del mondo corrotto e disperato?


Shadrach si alza. Non può continuare a starsene lì a fantasticare; ha delle responsabilità, degli obblighi, dei rapporti da compilare, dei progetti da supervisionare. Per cominciare, deve aggiornare il dossier su Gengis Mao con un resoconto conciso del trapianto di aorta di oggi, e questo significa confrontare una gran pila di stampati e selezionare da quella massa di dati grezzi e frammentari le basi significative di un profilo medico utilizzabile. Benissimo. Shadrach batte sui tasti, richiama i risultati dell’operazione del mattino. Ma mentre lavora, scopre che di quando in quando la sua mente è invasa dalla voce fittizia di Gengis Mao, che gli detta frammenti sparsi di memorie immaginarie.


27 maggio 1998

La Repubblica Popolare si è ritrovata priva del suo leader stamattina, e penso che il governo cadrà prima di mezzogiorno. Shirendyb, il quinto Primo ministro nelle ultime sei settimane, è stato sconfitto dalla decomposizione organica nel corso della notte. Non rimane nessuno del Politburo; il Presidium è stato decimato; le strade di Ulan Bator sono affollate dai profughi, una corrente lenta e regolare di carretti e di camion distrutti che se ne vanno… ma dove? Dappertutto è la stessa cosa. La vecchia società sta morendo. Solò dieci anni fa, pensavo che un cambiamento radicale fosse impossibile; poi è venuto il vulcano, il terrore, le insurrezioni, la Guerra Virale, la decomposizione organica, e tre miliardi di esseri umani sono morti e le istituzioni crollano come vecchi edifici colpiti da un terremoto. Io non abbandonerò Ulan Bator. Credo che il mio momento sia finalmente arrivato. Ma il governo che proclamerò non si chiamerà Repubblica Popolare.


16 novembre 2008

Per celebrare il mio decimo anno di regno sono andato fino a Karakorum e ho inaugurato il nuovo centro di divertimenti. Mi hanno invitato a sperimentare le attrazioni che chiamano “sogno di morte” e “transtemporalismo”. Ho scelto il sogno di morte. Il fascino irresistibile di ciò che è morboso. Specialmente l’illusione di ciò che è morboso. Si svolge in una tenda piena di motivi pseudoegizi. I brutti dei-mostri antichi incombono come grondoni di una chiesa, da ogni angolo; si può praticamente sentire l’odore acre del fango del Nilo, il ronzio delle mosche. Attendenti che indossano maschere. Luci molto forti. Tutti molto cerimoniosi con me. Naturalmente ero l’unico a sperimentare l’attrazione in quel momento. Mi sono lasciato ipnotizzare, dietro una falange di guardie di sicurezza scelte appositamente. Una sensazione come di morte, molto convincente, direi. (Ma chi mai sa qualcosa di com’è realmente?). E poi, un sogno. Ma nel mio sogno il mondo era esattamente com’è quando sono sveglio. Mi avevano promesso illusioni scatenate e fantasie surreali. Niente. Mi hanno imbrogliato? Non hanno il coraggio di lasciar sperimentare a Gengis Mao la versione genuina di un’esperienza del genere?


4 giugno 2010

Oggi è entrato in servizio il nuovo medico. Un nome strano, Shadrach Mordecai. Americano, intelligente, un bravo ragazzo. Ha una paura folle di me, ma questo non è grave. È così rigido quando è con me! È specialista gerontologo e da diversi anni fa parte della squadra che lavora al Progetto Fenice. Stamattina gli ho detto: “Facciamo un patto, noi due. Tu stai attento a che io resti in buona salute, e io faccio lo stesso con te. Okay?”. Ha sorrìso, ma dietro a quel sorriso era chiaramente stravolto. Devo aver avuto la mano un po’ pesante.


In un modo o nell’altro Shadrach termina di dettare il suo profilo e procede al compito successivo, che è studiare un rapporto di Irayne Sarafrazi. Non c’è molto di nuovo: il suo progetto continua a scontrarsi con il problema del deterioramento neuronaie e, come Shadrach si aspettava, non sta andando da nessuna parte. Shadrach deve leggersi comunque tutto il rapporto, e trovare qualche commento incoraggiante da fare. La voce insidiosa gli risuona ancora in testa, distraendolo con esplosioni di fantasticherie. Continua a lavorare con ostinazione, cercando di ignorare il rumore di fondo nella sua mente.


15 maggio 2012

Una notizia terribile! Mangu è stato assassinato. Arriva Horthy, che bela isterico di corpi volati dalla finestra. Come può essere successo? Nella camera di Mangu, silenziosi, lo prendono, lo trascinano alla finestra, fuori! Oh, rabbia. Oh, dolore. Che farò adesso? I miei progetti su Mangu sono stati sabotati. Shadrach mi dice che il Progetto Fenice si è arenato, probabilmente non in modo temporaneo, su certi problemi biologici. Il Progetto Talos va avanti lento, e Talos non mi è mai piaciuto davvero. Così resta Avatar, e Avatar senza Mangu è…

Ah. Userò Shadrach. Un corpo magnifico… mi ci troverò bene. E nero. Un’idea divertente. È una buona cosa che io sperimenti tutte le varietà umane. Magari quando il corpo di Shadrach sarà vecchio potrei spostarmi nel corpo di un bianco. O anche nel corpo di una donna. Magari in quello di un gigante un giorno, o di un nano… sono tutte possibilità…

Shadrach è stato un buon medico, e la sua compagnia mi piace. Ma ci sono altri medici, e la compagnia è sempre meno importante per me. Mi sentirò in colpa per averlo fatto fuori? Per un po’, per un giorno o due magari. Ma devo superare sentimenti del genere.


16 maggio 2012

Qualche altra considerazione sulla scelta di Shadrach come sostituto di Mangu. Naturalmente avverto ancora un vago senso di colpa. Ma perché? Non mi sto proponendo di assassinarlo, bensì di nobilitarlo trasformando il suo corpo nel veicolo fisico di un potere smisurato. Certo, lui potrebbe obiettare che quello che gli propongo è, se non un assassinio puro e semplice, una forma di schiavitù nel migliore dei casi, e la sua gente ha sopportato la schiavitù già abbastanza a lungo. Ma non è così; Shadrach non è la stessa cosa dei suoi antenati, e tutti i vecchi debiti sono stati cancellati dalla Guerra Virale, che ha distrutto indiscriminatamente schiavi e padroni, ha colpito allo stesso modo generali e neonati, e ha lasciato quelli che si sono salvati nella condizione di superstiti puri e semplici: privi di un passato, liberati e affidati alle nuove regole di un mondo in cui la storia nasce vergine e pura ogni giorno. Vogliono forse dire qualcosa per qualcuno i peccati degli schiavisti, oggi? La società, la rete di rapporti, che si è evoluta sotto lo stimolo della schiavitù e delle sue conseguenze, e anche sotto lo stimolo dell’emancipazione e delle sue conseguenze, è definitivamente sparita. E io sono Gengis Mao, e ho bisogno del suo corpo. Non mi devo accollare colpe altrui. Non sono tedesco: potrei mandare degli ebrei a morire nei forni se fosse necessario, senza dovermi giustificare per dei peccati del passato. Non sono un bianco: quindi sono libero di rendere un nero mio schiavo. Il passato è morto. La storia è una serie di pagine bianche, adesso. E poi, se degli imperativi storici esistono davvero ancora, io sono un mongolo: i miei padri hanno tratto in schiavitù mezzo mondo. Posso essere da meno? Avrò il corpo di Shadrach.


27 maggio 2012

Sto controllando i nastri delle conversazioni di questa settimana e ho scoperto che Katya Lindman ha detto la verità a Shadrach: gli ha detto che sarà lui il prossimo donatore per Avatar. Katya parla troppo. Non era mia intenzione che Shadrach lo venisse a sapere, ma così sia. Lo sorveglierò con attenzione, ora che sa. Le sofferenze dell’umanità mi istruiscono nell’arte del governo. O, per metterla più crudamente, mi piace guardarli mentre si agitano così. Non è crudele? Ma mi sono guadagnato il diritto di concedermi qualche passatempo crudele, io che ho sopportato il fardello del potere per quattordici anni. Non sono stato un Hitler, no? Non sono stato un Caligola. Ma il potere dà diritto a un certo tipo di divertimenti. A titolo di compensazione per il fardello mostruoso, per la spaventosa responsabilità. La cosa strana è che Shadrach non si sta agitando, non ancora. È stranamente calmo. Immagino che non si sia ancora convinto del tutto che quel che gli ha detto Katya è vero. Dentro di sé non ci crede. Ci crederà. Basta aspettare. Basta solo aspettare. Prima o poi si sveglierà.


Improvvisamente, Shadrach smette di trovare divertente questo gioco. Non c’è più divertimento in questi esercizi di identificazione ironica, in questi esperimenti di prospettiva psicologica. La distanza tra lui e quel che si è trastullato a inventare si è bruscamente ridotta, e all’improvviso tutto è molto doloroso, è un’incisione troppo vicina al nervo, fa male, fa male con un’intensità agghiacciante. Negli ultimi dieci minuti è riuscito a far scoppiare quel suo involucro di equanimità impassibile, e ora non si sta semplicemente agitando, sta sanguinando. Lo assalgono il dolore, la paura, la rabbia. Sente che tutti hanno preso parte alla congiura per tradirlo. Lui, Shadrach Mordecai, simpatico, cortese, bello, umano, laborioso, non è che l’ennesimo negro sacrificabile, a quanto pare. Se quel che gli ha detto Katya è vero. Se. Se. Shadrach è in preda all’angoscia. Questa, qui, ora, è la fornace, e lui c’è dentro di sicuro. L’ombra pesante di Gengis Mao grava su di lui. Un giorno verranno a prenderlo, gli attaccheranno gli elettrodi, gli spazzeranno via l’anima, unica e insostituibile, e subito dopo gli inietteranno nel cranio quel vecchio mongolo astuto. Sarà davvero così? Sì, sostiene Katya. E lui, può credere a una cosa del genere? Dovrebbe crederci? Trema. Il terrore lo percorre, lo frusta come una ventata gelida. Vorrebbe tanto un po’ di tranquillità: potrebbe prendere una dose del calmante di Gengis Mao, una dose abbondante di 9-pardenon o magari qualcosa di più forte ancora. Ma Shadrach non ama drogarsi nei momenti di crisi. In questo momento ha bisogno di tutto il suo ingegno.

Che fare?

Il primo passo è quello che, lo sa bene, avrebbe dovuto fare già ieri. Andrà di nuovo a trovare Nikki Crowfoot. E le farà alcune domande.

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