22

A Istanbul, pochi giorni dopo, non ha una guida. Vaga per i tanti livelli di quella città intricata da solo, vinto dalla difficoltà degli spostamenti da un luogo all’altro, e gli piacerebbe che un Meshach Yakov lo scoprisse qui, o un Bhishma Das. Ma non incontra nessuno. La piantina che gli hanno dato all’albergo non è d’aiuto alcuno, perché le targhe con i nomi delle vie sono rare, e ogni volta che Shadrach svolta da un viale principale si perde immediatamente in un labirinto di vicoletti senza nome. Dei taxi ci sono, ma i tassisti parlano a quanto pare solo turco: il turismo è morto con la Guerra Virale. Riescono a seguire le indicazioni che non richiedono una spiegazione, “Aghia Sofia”, “Topkapi”; ma quando Shadrach vuole recarsi agli antichi bastioni bizantini all’estremità della città, non riesce a spiegarsi con nessuno dei tassisti, e deve infine accontentarsi di essere condotto alla moschea Kariya, in periferia, da dove raggiungerà il muro non distante a piedi, tirando a indovinare la direzione.

Istanbul è polverosa, sudicia, arcaica, esotica, e irritante. Shadrach è affascinato dalla miscela di stili architettonici, gli opulenti palazzi ottomani e le gloriose moschee dai tanti minareti, le case in legno settecentesche e gli ampi vialoni del ventesimo secolo e i frammenti sbrecciati della vecchia Costantinopoli, che spuntano dalla terra come denti spezzati, pezzetti di acquedotti, cisterne, basiliche, stadi. Ma la città è troppo caotica per lui. Lo deprime e lo repelle nonostante il fascino potente delle sua storia ricca ed elaborata. Anche adesso, vive qui più di un milione di persone, e Shadrach trova difficile affrontare una simile densità di umanità. In mostra per le strade ci sono le solite agghiaccianti tragedie della decomposizione organica, e un numero straordinario di bambini inselvatichiti, alcuni di non più di tre o quattro anni, appaiono a gruppi a ogni angolo come dei vagabondi disperati. E per ogni dove ci sono Citpol, che si spostano a coppie con circospezione. Stanno sorvegliando lui, sospetta Shadrach. Semplice paranoia? Crede di no. Pensa che Gengis Mao, pentito di aver permesso al suo medico di vagare per il mondo, lo stia tenendo sotto sorveglianza: così che al primo capriccio del Khan sarà possibile riportarlo a casa. Shadrach non si aspettava di scoprirsi in grado di svanire del tutto: anzi, il ritorno a Ulan Bator è un punto sicuramente centrale del piano di azione che comincia a prendergli forma nella testa, anche se ancora non sa quando verrà il momento giusto per tornare a casa; ma non gli piace l’idea di essere spiato. Dopo due giorni a Istanbul, un giro un po’ striminzito delle attrazioni turistiche standard, prende un volo per Roma all’improvviso. Passa lì una settimana, stabilendo il proprio quartier generale in un vecchio hotel, accogliente e lussuoso, a pochi isolati dalle Terme di Diocleziano. Anche Roma ha una popolazione densa, e il ritmo urbano è frenetico, ma per una ragione o per l’altra qui rimangono meno cicatrici della Guerra Virale e di quel dopoguerra da incubo, e Shadrach comincia a rilassarsi, a trovarsi a suo agio in un tranquillo ritmo di vita mediterraneo: passeggia per le vie splendide, si gode l’aperitivo nei bar con i tavolini all’aperto, si ingozza di pasta innaffiata con vino bianco novello nelle trattorie più nascoste, e tutti i traumi del Reparto Traumatologia diventano insignificanti. Questa è davvero la Città Eterna, capace di assorbire tutti gli attacchi più aspri da parte del tempo senza perdere niente della sua elasticità. Shadrach si reca naturalmente a vedere i monumenti imperiali, l’Arco di Tito che commemora il saccheggio di Gerusalemme da parte dei Romani, i templi e i palazzi del Campidoglio e del Palatino, il magnifico disordine del Foro, le rovine del Colosseo infestate da un passato sanguinoso. Visita San Pietro e, guardandosi intorno in Vaticano, ripensa all’offerta derisoria, corrosiva che Gengis Mao gli aveva fatto proponendogli di diventare papa. Visita la Cappella Sistina, la collezione etrusca a Villa Giulia, la galleria Borghese, e una decina delle più belle chiese barocche. Nell’inseguimento delle infinite antichità di Roma le energie paiono crescergli anziché esaurirsi. Stranamente, scopre di provare le sensazioni più forti non dinanzi ai famosi monumenti classici, ma ai vecchi casamenti grigi, alti e sottili, di Trastevere e della zona del ghetto ebraico. Sono gli stessi edifici dei tempi di Cesare, un tempo abitazioni di lusso, ora catapecchie? È possibile che siano ancora abitati, dopo duemila anni? E perché no? Gli antichi Romani sapevano costruire case di sei piani, o anche di più, e costruivano in solida pietra. E non sarebbe stato difficile, nonostante i saccheggi e gli incendi e le rivoluzioni, mantenere intatti questi palazzi, ricostruire, ripassare l’intonaco, rappezzare il vecchio e farlo ridiventare nuovo, riattare e restaurare costantemente. Queste torri grigie, dunque, potrebbero avere ospitato un tempo i sudditi di Tiberio e di Caligola, e a Shadrach deriva un piccolo brivido piacevole dal pensiero che siano stati occupati costantemente attraverso i secoli. Ma a ripensarci, probabilmente non è andata così; niente, conclude, può durare così a lungo se viene usato quotidianamente. Questi sono più probabilmente edifici del dodicesimo secolo, del quattordicesimo, perfino del diciassettesimo. Piuttosto vecchi, ma non veramente antichi. Se non nel senso che qualunque cosa preceda l’ascesa di Gengis Mao, qualunque cosa sia sopravvissuta al crollo del mondo precedente, a quell’epoca antidiluviana, è antica.

Vorrebbe potersi trattenere a Roma per sempre. È un peccato, pensa, che Gengis Mao non parlasse seriamente quando accennava al pontificato. Ma dopo una settimana Shadrach decide di proseguire. È troppo piacevole qui, troppo comodo; e poi, mentre sta mandando giù uno Strega al suo bar preferito, una sera calda e umida, nota due Citpol al tavolino di un bar all’angolo di fronte. Non bevono, non parlano, si limitano a osservarlo. Si stanno avvicinando, stringono la rete? Lo accosteranno domani, o dopodomani, e gli diranno che deve tornare dal suo padrone a Ulan Bator? Compra un biglietto per Londra, lo cancella all’ultimo momento, e prende un aereo che sta per balzare al di là del polo, diretto in California.

E improvvisamente è a San Francisco. Una città giocattolo, bianca e preziosa, che si distende su colline formidabili, cinta da una baia risplendente. Non ci è mai stato prima d’ora. È strano come si aspetti che le città famose siano gigantesche: questa, come Gerusalemme, è sorprendentemente piccola. A lasciarla scivolare dentro a Roma, a Nairobi, in quel folle agglomerato che è Istanbul, svanirebbe completamente. E fa anche un freddo sorprendente. La California per lui è sempre stata un posto di piscine e piante di palma, di partite di football americano giocate nel sole caldo e luminoso di meravigliosi pomeriggi di gennaio, ma quella California della mente dev’essere da qualche altra parte, probabilmente giù verso Los Angeles; San Francisco in giugno ha un’aria un po’ tetra da inverno inoltrato, con un vento tagliente e insistente e una nebbia grigia, tenace. Perfino quando la nebbia si dissolve nel pomeriggio, e la città luccica di luce brillante sotto un cielo intenso privo di nuvole, l’aria continua a trasportare il gelo delle brezze oceaniche, e Shadrach si raggomitola nell’insufficienza del suo giubbottino estivo.

Qui non ci sono antichi palazzi da visitare, non ci sono gazzelle e struzzi che corrono liberi, bastioni medievali o chiese barocche. Ma ci sono eleganti strade di case vittoriane, dalle abitazioni grandi e lussuose ai bungalow di legno, tutte delicatamente adornate di cartigli, cornicioni, fregi, timpani, guglie, perfino delle finestre di vetro colorato; la maggior parte degli edifici è in buono stato, dopo essere sopravvissuti a incendi, terremoti, insurrezioni, guerra biochimica, e al collasso puro e semplice degli Stati Uniti d’America. Dappertutto ci sono alberi e cespugli, molti sono in fiore; questa città, per fredda che sia, è fiorita quasi quanto Nairobi, e Shadrach osserva deliziato alberi che sono grandi masse fiammeggianti di fiori rossi, felci gigantesche e cipressi contorti scolpiti dal vento, declivi di colline resi scuri dai grovigli di eucalipto fragrante. Passa una lunga giornata a passeggiare attraverso la città, dalla baia fino all’oceano, spuntando fuori da un parco lussureggiante da sogno per ergersi in riva al Pacifico, e lì fissa la Mongolia. Da qualche parte, migliaia di chilometri a nordovest, Gengis Mao si sta svegliando e comincia la ginnastica mattutina. Shadrach si chiede come stiano andando le funzioni renali di Gengis Mao, le sue pulsazioni, i livelli di fosfato di calcio, gli equilibri endocrini, tutta la miriade di pezzettini ticchettanti di informazioni che era così abituato a ricevere. Si rende conto di aver cominciato a sentire la mancanza dei segnali che il corpo di Gengis Mao gli trasmetteva. Gli manca la sfida quotidiana dell’affrontare i meccanismi interni del Presidente, indomiti ma sempre più vulnerabili. Forse gli manca Gengis Mao stesso. Ah, è così strano, oscuro, misterioso! Ah, questi condizionamenti ippocratici!

Come sta il Khan? Ancora vivo e vegeto, a giudicare dal giornale che Shadrach ha acquistato, il primo che si è dato cura di guardare in tutte le settimane da quando è iniziato il suo viaggio: è cosparso di fotografie del funerale di Mangu, che è stato celebrato settimana scorsa con pompa e fasto faraonico. Ecco Gengis Mao in persona, addobbato a lutto, a cavallo nell’immensa processione. Eccolo ancora, intento a concedere la sua benevola benedizione ai milioni di persone che si affollano in piazza Sukhe Bator… (milioni? Be’, qui dice così. Migliaia, più realisticamente). E ancora, ancora, il Khan che fa questo, il Khan che fa quello, il Khan che come un direttore d’orchestra organizza le ultime energie rimaste a questo pianeta malridotto in uno sfogo di dolore collettivo. Ulan Bator, scopre Shadrach, sarà ribattezzata Altan Mangu, “Aureo Mangu”. Questo a Shadrach pare un eccesso comico, ma immagina che si abituerà col tempo al nuovo nome; quello vecchio, che significa “Eroe Rosso”, era comunque già obsoleto dai tempi della caduta della Repubblica Popolare nel 1995, e Gengis Mao stava pensando da anni di cambiarlo in qualcosa di più appropriato. Bene, Altan Mangu può anche andare, conclude Shadrach. Un rumore che sostituisce un altro rumore.

Pagine e pagine dedicate ai funerali! Neanche un presidente degli Stati Uniti avrebbe ricevuto tanto spazio. E il funerale è stato settimana scorsa; hanno pubblicato fogli interi di fotografie come queste per ogni giorno da allora? Probabile. Probabile. Il funerale è la storia del mese, ancora più importante della notizia della morte di Mangu, che è successa troppo velocemente, che non ha avuto quell’estensione lineare nel tempo che rende una notizia davvero grande. E che altre notizie ci sono, poi? Che la gente sta morendo di decomposizione organica? Che il Comitato si sta nobilmente sforzando di assicurare un aumento ingente nella disponibilità di Antidoto (questione di pochissimo tempo, ormai)? Che il medico personale del Presidente vaga libero per il mondo, senza meta, studiando in un cantuccio del suo cranio confuso il modo migliore di affondare i piani presidenziali di impadronirsi del suo corpo? Le foto del funerale sono molto più interessanti di roba del genere.

Tanto interesse, in un giornale americano, per un funerale in Mongolia. Shadrach si sorprende a pensare all’ultimo presidente degli Stati Uniti; un tipo chiamato Williams, gli sembra, o forse Richards, in ogni caso un cognome che suonava come un nome di battesimo… Che tipo di funerale aveva avuto lui? Sette persone a compiangerlo e una tomba fangosa in un giorno di pioggia, con ogni probabilità. (Roberts? Edwards? Il nome gli è scivolato via dalla memoria, non c’è speranza di ricuperarlo). Quando Shadrach era ragazzo c’erano ancora presidenti degli Stati Uniti, c’erano perfino uno o due ex presidenti tuttora in vita. Shadrach cerca di ricordarsi chi fosse presidente quando è nato lui. Un uomo di nome Ford, giusto? Sì, Ford. La maggior parte della gente amava Ford, ricorda Shadrach. Prima di lui c’era stato uno di nome Nixon, che la gente non amava, e uno di nome Kennedy, a cui avevano sparato, e Truman, Eisenhower, Johnson, Roosevelt… nomi risonanti, nomi solidi, dal suono americano. Le nostre guide, i nostri grandi uomini. Qual è il nome di chi ci guida ora? Gengis II Mao IV Khan. Chi avrebbe creduto a una cosa del genere, nei vecchi Stati Uniti di prima della Guerra Virale? George Washington ci avrebbe creduto? E Lincoln? L’anno finale, prima che il CRP prendesse il potere, c’erano stati sette presidenti, alcuni nello stesso momento. Una volta ci volevano trent’anni, quaranta, perché alla guida del paese si avvicendassero sette presidenti, ma ce n’erano stati sette tutti in un anno, nel 1995. C’erano anche imperatori a Roma, una volta, e Augusto e Adriano sarebbero stati sorpresi dalla qualità e dell’origine razziale di alcuni di loro verso la fine dell’età imperiale; quelli che erano dei Goti e quelli che erano dei ragazzini, quelli che erano pazzi e quelli che avevano regnato per sei giorni prima di morire strangolati dalle loro stesse guardie di palazzo, disgustate. Certo Lincoln sarebbe stato sorpreso di scoprire che gli americani accettavano un uomo di nome Gengis II Mao IV Khan come loro capo. O forse no. Lincoln avrebbe forse ritenuto che la gente aveva ottenuto il governo che si meritava, e che ci eravamo dovuti meritare Gengis Mao. A Lincoln quel vecchio mostro appariscente sarebbe addirittura potuto piacere, chissà.

San Francisco è una città ideale per passeggiare. La scala del posto è modesta e a misura d’essere umano, ci si può spostare dunque da una quartiere all’altro, dalle ville di Pacific Heights al soleggiato ambiente finto-mediterraneo della Marina, da Russian Hill al Wharf, dalla Mission alla Haight, in un solo breve balzo, sullo sfondo di un tessuto urbano in costante cambiamento ma sempre gradevole. Né il vento, né la nebbia, né le colline troppo ripide sono un ostacolo serio in un ambiente così piacevole. E la città è viva. Ci sono negozi, ristoranti, caffè; le zone vicine al mare offrono una mezza dozzina di grandi cappelle di carpenteria, gestite da diverse sette in competizione tra loro, un tempio del sogno di morte, un ritrovo di transtemporalisti; la gente per le strade offre uno spettacolo di buona salute e buon umore, e anche se Shadrach sa che si deve trattare di un’illusione, è un’illusione convincente. L’unica cosa che non va a San Francisco è l’abbondanza di Citpol.

Ci sono più poliziotti di quanti Shadrach non abbia mai visto tutti in una volta, ce n’è più che nella stessa Ulan Bator. È come se a San Francisco un abitante su nove si fosse arruolato nella Brigata Civica di Pace. Forse è solo un’illusione della sua mente turbata, o forse la vitalità inconsueta di questa città esige una dose analogamente inconsueta di controllo poliziesco: in un modo o nell’altro, ci sono uniformi grigie e blu dappertutto, dappertutto, di solito a coppie ma non troppo raramente a gruppetti di tre, quattro, cinque. I più hanno quell’aspetto meccanico, insettoide, che pare caratteristico di quelli come loro, che fa sospettare a Shadrach che i Citpol non siano esseri nati, cresciuti e addestrati, ma piuttosto prodotti con uno stampo in qualche fabbrica mostruosa nel profondo Caucaso. E lo sorvegliano tutti. Sorvegliano, sorvegliano, sorvegliano… non può essere semplice paranoia. È possibile? Questi occhi spenti, grigi, che vigilano, duri, stupidi, impegnati a studiare da tutte le angolature Shadrach che cammina per la città? Perché lo guardano con tanta attenzione? Cosa vogliono sapere?

Mi arresteranno tra poco, si dice Shadrach.

È sicuro di essere stato sotto sorveglianza fin dalla sua partenza. Non ha dubbi che Avogadro stia ricevendo informazioni sui suoi movimenti e stia compilando rapporti giornalieri per Gengis Mao; e poi (è la sua stessa tensione sempre più forte che gli fa pensare così, o è la tensione di Gengis Mao?) l’intensità della sorveglianza pare essere aumentata, da Nairobi a Gerusalemme, da Gerusalemme a Istanbul, da Istanbul a Roma, prima uno o due Citpol di passaggio che gli gettano un’occhiata distratta, poi un’attenzione più esplicita, poi squadre intere che lo seguono di qua e di là, occhieggiano, fissano, confabulano, studiano i suoi movimenti; fino a che, forse a San Francisco, forse non prima di quando avrà raggiunto Pechino, riceveranno gli ordini dalla capitale ed entreranno in azione, decine di poliziotti sui tetti, sulle soglie delle case, agli angoli delle strade: «Va bene, Mordecai, vieni qui senza fare storie e nessuno si farà del male…».

E poi, quando è arrivato all’incrocio della Broadway con la Grant, pronto a scendere verso il brulichio di Chinatown, preso da pensieri foschi che riguardano i tre Citpol raggruppati davanti a un fruttivendolo orientale di là dalla strada, qualcuno gli lancia un grido dall’altra parte della Broadway: — Mordecai? Ehi, Shadrach Mordecai!

Al suono del proprio nome Shadrach si immobilizza, impalato nel mezzo del suo fantasticare, conscio che il gioco si è concluso, che il momento temuto è quasi giunto.

Ma l’uomo che lo sta avvicinando, muovendosi attraverso il traffico in modo goffo e strascicato, barcollando, non è un Citpol. È un uomo corpulento, dai capelli radi, con una faccia stanca e segnata e una barba trascurata venata di grigio; indossa una salopette verde consunta, una camicia pesante a disegno scozzese, un mantello rosso sbiadito. Raggiunto Shadrach, gli mette la mano sull’avambraccio in un modo che sembra richiedere sostegno fisico oltre che attenzione, e spinge la faccia vicino a quella di Shadrach, arrogandosi intimità in modo così sfacciato che Shadrach non oppone resistenza al gesto. Gli occhi dell’uomo sono acquosi e gonfi: uno dei sintomi della decomposizione organica. Ma è ancora in grado di sorridere. — Dottore — dice. La sua voce è calda, vellutata, insinuante. — Ehi, dottore, come va?

Un ubriaco. Probabilmente innocuo, nonostante trasmetta un vago senso di minaccia.

— Non sapevo di essere una tale celebrità da queste parti.

— Celebrità. Celebrità. Mmm, cazzo se sei famoso! Almeno per me, sei famoso. Ti ho notato fin da laggiù, attraverso tutta la Broadway. Non che tu sia cambiato tanto. — Quest’uomo è sicuramente ubriaco. Ha quell’affettuosità pesante, eccessivamente accattivante; è praticamente aggrappato al braccio di Shadrach. — Non mi riconosci, eh?

— Dovrei?

— Dipende. Ci conoscevamo piuttosto bene, una volta.

Shadrach perlustra quel volto gozzuto e butterato. Vagamente familiare, ma non gli viene alla mente nessun nome. — Harvard — tira a indovinare. — Dev’essere stato a Harvard. Giusto?

— Due punti. Va’ avanti.

— Scuola di Medicina?

— Prova con l’università.

— Questo è più difficile. È più di quindici anni fa.

— Toglimeli, quindici anni. E una ventina di chili. E la barba. Cazzo, tu non sei cambiato per niente. Certo, fai una vita facile. So come ti sei sistemato. — L’uomo volteggia sui piedi e, senza lasciare la presa sul braccio di Shadrach, gli dà le spalle, tossisce, si raschia la gola, sputa. Catarro e sangue. Stringe i denti in un sorriso. — Un bel pezzo del mio fegato, lì, eh? Ne perdo un po’ ogni giorno. E tu non mi riconosci davvero. Che Cristo, noi ragazzi bianchi sembriamo tutti uguali.

— Qualche altro indizio?

— Uno grande. Eravamo nella squadra di atletica insieme.

— Getto del peso — dice Shadrach all’istante, sentendo il dato venirgli fuori da dio sa quale recesso del suo cervello, sicuro di non sbagliarsi.

— Due punti. Adesso il nome.

— Non ancora. Mi sto sforzando. — Shadrach trasforma questo relitto in un giovane, glabro, muscoloso là dove oggi è grasso, in maglietta e calzoncini sportivi; lo vede sollevare il globo di acciaio lucido, avvitarsi nella piccola, bizzarra danza del lanciatore del peso, fare il suo lancio…

— Il torneo dell’NCAA, Boston, millenovecentonovantacinque. Il nostro secondo anno. Tu hai vinto lo sprint sui sessanta metri. Sei secondi netti. Bravissimo. E io ho fatto ventun metri nel getto del peso. C’erano le nostre foto in tutti i giornali. Ti ricordi? Il primo grande torneo di atletica dopo la Guerra Virale, un segno che le cose stavano ritornando alla normalità. Ha! Normalità. Tu eri un corridore mostruoso, Shadrach. Scommetto che lo sei ancora. Cazzo, io non riuscirei neanche a sollevare il peso adesso. Come mi chiamo?

— Ehrenreich — dice immediatamente Shadrach. — Jim Ehrenreich.

— Sei punti! E tu sei il medico del capo adesso. Dicevi che avresti fatto qualcosa per l’umanità, che non entravi in medicina solo per far soldi, eh? E così hai fatto. Servire l’umanità, tenere in vita il nostro glorioso leader. Perché sei così sorpreso? Credi che nessuno conosca il nome del medico personale del Presidente?

— Cerco di evitare la pubblicità.

— Certo. Ma qui, qualcosina di quel che succede a Ulan Bator la sappiamo. Io ero nel Comitato, sai. Fino all’anno scorso. Dove stavi andando? Chinatown? Ti accompagno. Starmene in piedi fermo così mi fa male alle gambe. Vene varicose. Ero nel Comitato; il terzo più importante in California Settentrionale, avevo anche una tessera di accesso ai vettori. E naturalmente mi hanno fatto saltare. Ma non preoccuparti: non ti caccerai nei guai solo perché mi parli. Anche se ci sono quei Citpol che se ne stanno lì a guardare. Non sono un paria del cazzo, sai? Sono solo un ex membro del Comitato. Ho il diritto di parlare con la gente.

— Cos’è successo?

— Sono stato stupido. Avevo quest’amica, anche lei nel Comitato, grado molto basso, e suo fratello è stato colpito dalla decomposizione. Lei mi ha chiesto: “Puoi manipolare il computer, farti dare una dose più alta di Antidoto, salvare mio fratello?”. “Certo” le ho detto, “Posso farlo, lo farò, solo per te, bambina”. Conoscevo questo tipo ai computer. Sapeva come trafficare coi numeri. Così gli ho chiesto di farlo, e lui l’ha fatto, o almeno io credevo che lo stesse facendo, ma era solo una trappola, mi stava fregando, mi ha incastrato: sono intervenuti i Citpol, mi hanno chiesto di giustificare la dose extra di Antidoto che avevo richiesto… — Ehrenreich sbatte gli occhi, con fare allegro. — Lei è finita ai vivai d’organi. Suo fratello è morto. A me, mi hanno semplicemente cacciato, senza altre punizioni. Una fortuna fottuta. Per via degli anni di fedele servizio alla causa della Rivoluzione Permanente. Mi danno perfino una piccola pensione, abbastanza per non farmi mancare la vodka. Ma è stato uno spreco, Shadrach, uno spreco stupido. Avrebbero dovuto mandare ai vivai anche me, quando ero ancora tutto intero. Perché ora sto morendo. Lo sai questo, vero?

— Sì.

— Dicono che se hai preso l’Antidoto regolarmente, e poi smetti, in genere la decomposizione comincia subito. È come se la forza della malattia, trattenuta per un po’, si scatenasse e ti conquistasse tutto in un colpo.

— Sì, me l’hanno detto — dice Shadrach.

— Quanto mi resta? Tu sei in grado di dirlo, no?

— Non senza una visita. E forse non basterebbe neanche. Non sono precisamente un esperto di decomposizione organica.

— No. No, non mi aspettavo che lo fossi. Non a Ulan Bator. Non ne incontri abbastanza casi, lì. Io ce l’ho da sei mesi. La mia barba era nera quando è cominciata. E avevo tutti i capelli. Sto per morire, Shadrach.

— Moriremo tutti. Tranne forse Gengis Mao.

— Sai quel che intendo dire. Non ho neanche trentasette anni e sto per morire. Mi decomporrò e morirò. Perché sono stato stupido, perché ho cercato di aiutare il fratello di un’amica. Ero a posto, ero sistemato. Le iniezioni di Antidoto ogni sei mesi…

— Sei stato sciocco davvero — gli dice Shadrach. — Perché non saresti mai riuscito ad aiutare il fratello della tua amica, qualunque cosa avessi fatto.

— Eh?

— L’Antidoto non cura. Immunizza. Una volta che la fase letale è cominciata, i giochi sono chiusi. Non si può invertire il decorso della malattia. Non lo sapevi? Pensavo che lo sapessero tutti.

— No. No.

— Ti sei distrutto la carriera per niente. Hai buttato via la tua vita per niente.

— No — dice Ehrenreich. Sembra sotto shock. — Non può essere vero. Non ci credo.

— Va’ a controllare. Informati.

— No. Voglio che tu mi salvi, Shadrach. Voglio che tu mi prescriva l’Antidoto.

— Ti ho appena detto…

— Sapevi quel che ti stavo per chiedere. Stavi cercando di prevenirmi.

— Jim, ti prego…

— Ma potresti procurarmi quella roba. Probabilmente ti porti dietro un centinaio di fiale, nel tuo borsello nero. Cazzo, amico, sei il medico personale di Gengis Mao! Puoi fare quello che vuoi. Non è come essere il terzo in un ufficio regionale. Senti, eravamo in squadra insieme, abbiamo vinto delle coppe insieme, c’erano le nostre foto nel giornale…

— Non funzionerebbe, Jim.

— Hai paura ad aiutarmi.

— Farei anche bene, dopo quel che mi hai appena detto. Ti hanno fatto saltare per utilizzo illegale dell’Antidoto, mi dici, e poi mi vieni a chiedere di fare la stessa cosa.

— È diverso. Tu sei il medico di…

— Lo stesso. Non serve a niente darti l’Antidoto, per i motivi che ti ho appena spiegato. Ma anche se servisse, non potrei procurartene. Mi beccherebbero sicuramente.

— Non vuoi rischiare il culo. Neanche per un vecchio amico.

— No, non voglio. E non voglio neanche che mi si faccia sentire in colpa perché mi rifiuto di fare una cosa priva di senso. — Non c’è traccia di dolcezza nella voce di Shadrach. — L’Antidoto è inutile per te a questo punto. Assolutamente, completamente inutile. Fattelo entrare in testa una volta per tutte.

— Non saresti neanche disposto a provarne un po’ su di me? Come esperimento?

— È inutile. Inutile.

Dopo una lunga pausa, Ehrenreich dice: — Sai cosa mi piacerebbe, vecchio? Che tu ti trovassi nei casini seri un giorno, che ti trovassi sull’orlo del precipizio, aggrappato con le unghie. E arriva un tuo vecchio amico, e tu gli gridi: “Salvami, salvami, i bastardi mi stanno facendo fuori!”. E lui ti cammina sulla mano e prosegue oltre. Questo mi piacerebbe che succedesse. Così capiresti come ci si sente. Questo mi piacerebbe.

Shadrach alza le spalle. Non riesce a provare ira contro un uomo che sta morendo. Ed evita di parlargli dei propri problemi. Dice semplicemente: — Se potessi curarti, lo farei. Ma non posso.

— Non vuoi neanche provarci.

— Non c’è niente che possa fare. Ci credi o no?

— Ero sicuro che tu fossi la persona giusta. Se c’era qualcuno, eri tu. Non ti ricordavi neanche di me. Non vuoi alzare un dito.

Shadrach dice: — Hai mai fatto della carpenteria, Jim?

— Vuoi dire nei templi? Non mi è mai interessata.

— Potrebbe aiutarti. Non risolverà il tuo problema, ma potrebbe renderti più facile viverci insieme. La carpenteria ti mostra un’armonia che non arrivi necessariamente a vedere da solo. Ti aiuta a distinguere quel che è veramente concreto e importante da quel che non conta molto.

— Praticamente sei un fanatico di carpenteria?

— Ci vado ogni tanto. Quando le cose si fanno troppo difficili. Ci sono delle cappelle giù verso il Fisherman’s Wharf. Io ci andrei volentieri, in questo momento. Perché non mi accompagni? Ti farà bene.

— C’è un bar sulla Washington, all’altezza della Stockton, dove vado spesso. Perché non andiamo lì invece? Perché non mi offri qualcosa da bere con la tua carta del CRP? Mi farebbe ancora più bene.

— Prima il bar, poi la cappella?

— Vedremo — dice Ehrenreich.

Il bar è buio, ammuffito, un posto dall’aria trascurata. Il barista è un automatico: la carta nella fessura, il pollice sulla piastrina di identificazione, i tasti per scegliere da bere. Prendono dei martini. La truculenza di Ehrenreich svanisce dopo il secondo bicchiere; diventa sempre più cupo e piagnucoloso, ma pare meno amareggiato. — Mi spiace per quello che ho detto prima, tipo — mormora.

— Lascia perdere.

— Pensavo davvero che tu fossi la persona giusta.

— Vorrei esserlo.

— Non ti auguro nessun casino.

— Ne ho già di casini — dice Shadrach. — Sono aggrappato con le unghie. — Ride. La macchina serve altri due bicchieri di cocktail. Shadrach alza il suo. — Lasciamo stare. Cin cin, vecchio.

— Cin cin, tipo.

— Dopo questo andiamo alla cappella, okay?

Ehrenreich scuote la testa. — Io no. Non fa per me, capisci? Non adesso. Non proprio in questo momento. Vacci senza di me. Non insistere, vacci da solo e basta.

— Va bene — dice Shadrach.

Finisce il cocktail, sfiora il braccio di Ehrenreich per dargli l’addio — l’uomo ha gli occhi vitrei, è assente — e trova un taxi che lo porti al Wharf. Ma la cappella non riesce a calmare Shadrach oggi. Le dita gli tremano, gli occhi non vanno a fuoco, non riesce a entrare nello stato meditativo. Dopo mezz’ora se ne va. Vede una macchina piena di Citpol in un parcheggio all’altro angolo dell’isolato. Lo stanno ancora sorvegliando. Nell’auto c’è anche un uomo in borghese, con la barba. Ehrenreich? Possibile? A questa distanza non riesce a distinguere le facce, ma le spalle pesanti sembrano proprio quelle, i capelli radi sono familiari. Shadrach aggrotta le sopracciglia. Chiama un taxi, torna all’hotel, fa i bagagli, si dirige all’aeroporto. Tre ore dopo, è in volo per Pechino.

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