CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Le masse nebulose che si ergevano come un muro al centro della galassia si profilavano nere e torreggianti come cumulonembi. La Leonora Christine ne stava già attraversando il limite esterno. Davanti all’astronave non si scorgevano più soli; altrove, a ogni ora che passava, diventavano sempre più rari e la loro luce si faceva sempre più debole.

In questa concentrazione di materia stellare, l’astronave si muoveva secondo una sorta di misteriosa aerodinamica. Il valore inverso di tau era adesso così enorme che la densità dello spazio non le poneva alcuna preoccupazione. Piuttosto, inghiottiva materia con una ingordigia ancora più accentuata e non si limitava più soltanto agli atomi d’idrogeno. I suoi selettori rimessi in funzione tramutavano tutto ciò che incontravano, fosse gas o pulviscolo o meteoriti, in carburante e massa di reazione. L’energia cinetica e il differenziale di tempo crescevano a un ritmo vertiginoso. L’astronave volava come sospinta da un vento che soffiasse tra gli ammassi di soli.

Nonostante quella situazione, Reymont trascinò Nilsson nella stanza dei colloqui.

Ingrid Lindgren prese posto dietro la sua scrivania, indossando l’uniforme. Era dimagrita e gli occhi erano leggermente incavati e stanchi. Nella cabina risuonava il monotono pulsare dei motori, ma in modo stranamente forte, e ogni tanto dal ponte e dalle paratie giungevano colpi. L’astronave avvertiva delle irregolarità negli ammassi nebulosi sotto forma di vuoti, correnti, vortici di una creazione di mondi non ancora compiuta.

— Non possiamo rimandare tutto a dopo che avremo compiuto il nostro giro d’ispezione, commissario? — chiese la donna, in preda alla rabbia e alla stanchezza insieme.

— Non lo ritengo possibile, signora — replicò Reymont. — Se dovesse verificarsi uno stato d’emergenza, abbiamo bisogno che la nostra gente sia convinta che valga la pena di lottare.

— Lei accusa il professor Nilsson di contagioso atteggiamento disfattista. Gli articoli del regolamento contemplano la libertà di parola.

La sedia su cui era seduto l’astronomo scricchiolò sotto il suo peso, mentre l’uomo cambiava posizione. — Io sono uno scienziato — dichiarò in tono bisbetico. — Ho non soltanto il diritto ma anche l’obbligo di dichiarare il vero.

Lindgren l’osservò con disapprovazione. L’uomo aveva la barba lunga, non doveva essersi lavato da parecchio tempo e indossava un abito sudicio.

— Lei non ha però il diritto di diffondere in giro storie orripilanti — esclamò Reymont. — Non si è reso conto di ciò che stava facendo ad alcune donne, in modo particolare, quando a mensa ha parlato come ha fatto? Proprio questo mi ha convinto a intervenire; ma lei, Nilsson, sta rimestando nel torbido già da un pezzo.

— Ho semplicemente esposto senza mezzi termini ciò che tutti sanno bene fin dall’inizio — replicò il grasso astronomo. — Non hanno mai avuto il coraggio di discuterne in dettaglio. Io invece sì.

— Non hanno avuto la cattiveria di parlarne. Lei invece sì.

— Nessun commento malevolo, per favore — lo interruppe Lindgren. — Nilsson, mi esponga quanto è accaduto. — Negli ultimi tempi consumava i pasti in cabina da sola, adducendo la scusa d’essere troppo impegnata, e quando era fuori servizio si faceva vedere poco in giro.

— Come lei saprà — cominciò Nilsson, — quando se n’è presentata l’occasione abbiamo affrontato l’argomento.

— Quale argomento? — chiese Lindgren. — Abbiamo discusso di molte cose.

— Discusso, sì, come persone ragionevoli — scattò Reymont. — Non arringato una tavolata di compagni di viaggio, il cui morale era già abbastanza basso.

— Per favore, commissario. Professor Nilsson, continui.

L’astronomo assunse un’aria superba. — Una cosa elementare. Non riesco a capire perché tutti voialtri siate stati tanto idioti da non prenderla in seria considerazione. Voi date tranquillamente per scontato che noi riusciremo a fermarci nella galassia della Vergine e a trovarvi un pianeta abitabile. Ma ditemi come. Pensate alle nostre esigenze. Massa, temperatura, radiazioni, atmosfera, idrosfera, biosfera… una stima ottimale è che l’un per cento delle stelle possa avere pianeti che si avvicinano approssimativamente alla Terra.

— Quanto a questo — disse Lindgren, — be’ certamente…

Nilsson non voleva essere privato del suo podio. Forse non si preoccupò di ascoltarla. Enumerò i vari punti del discorso sulle dita. — Se solo l’un per cento delle stelle offre qualcosa di conveniente, vi rendete conto di quante ne dovremmo esaminare per poter avere una probabilità pari di trovare ciò che stiamo cercando? Cinquanta! Pensavo che chiunque a bordo fosse capace di fare un calcolo così semplice. Certo, è immaginabile che la fortuna ci assista e che noi si piombi proprio sulla nostra Nuova Terra alla prima stella che troviamo. Ma le probabilità contrarie sono novantanove a uno. Senza dubbio dovremo fare numerosi tentativi. Ora, l’esame di ogni stella presuppone almeno un anno di decelerazione. Ripartirne, per andare a cercare altrove, richiede un altro anno di accelerazione. Anni misurati secondo il tempo dell’astronave, ricordate, perché quasi l’intero periodo viene trascorso a velocità che sono ben piccole se paragonate a quella della luce e ciò presuppone un fattore tau il cui valore si avvicinerebbe a uno: il che, tra l’altro, impedisce che noi superiamo la gravità uno.

«Perciò dobbiamo preventivare un minimo di due anni per ogni stella. La probabilità di cui ho parlato — e, badate bene, è soltanto pari: il pronostico dice che abbiamo le stesse probabilità di trovare o non trovare la Nuova Terra nelle prime cinquanta stelle — richiede cento anni di ricerche. In realtà ne richiede di più, perché dovremo fermarci di tanto in tanto per rifornire faticosamente la massa di reazione per la propulsione a ioni. Antisenescenza o meno, non vivremo tanto a lungo.

«Perciò tutto il nostro sforzo, i rischi che corriamo in questo fantastico tuffo verso lo spazio intergalattico, sono soltanto futili esercitazioni. Quod erat demonstrandum.

— Tra le sue molte caratteristiche nauseanti e disgustose, Nilsson — esclamò Reymont, — c’è la sua abitudine di biascicare le cose ovvie attraverso il naso.

— Signora! — urlò l’astronomo. — Protesto! Presenterò querela per abuso personale!

— Ritirate le accuse — ordinò Lindgren, — tutti e due. Devo ammettere che il suo atteggiamento, professor Nilsson, sfiora la provocazione. D’altra parte, commissario, le ricordo che nella sua professione il professor Nilsson è uno degli uomini più insigni che ha la Terra… che aveva la Terra. Merita rispetto.

— Non per il modo in cui si comporta — replicò Reymont. — O per come puzza.

— Cerchi di mantenersi nei limiti della cortesia, commissario, o l’incriminerò io stessa. — Lindgren respirò profondamente. — Lei non sembra tenere nel giusto conto la natura umana. Ci troviamo alla deriva nello spazio e nel tempo; il mondo che conoscevamo è da centinaia di migliaia di anni nella sua tomba; stiamo piombando quasi alla cieca nella zona più affollata della galassia; ogni minuto, possiamo urtare contro qualcosa che potrebbe distruggerci; nella migliore delle ipotesi, possiamo aspettarci anni e anni da trascorrere in un ambiente ristretto e sterile. Non crede che le persone possano reagire a tutto questo?

— Sì, signora, lo credo — disse Reymont, — ma non credo che debbano comportarsi in modo da rendere questa situazione ancora peggiore.

— C’è del vero in quanto dice — ammise Lindgren.

Nilsson si dimenò e assunse un’aria scontrosa. — Stavo soltanto cercando di risparmiare loro una delusione alla fine di questo viaggio — borbottò.

— Lei è assolutamente certo di non aver lasciato via libera al suo Io? — Lindgren sospirò. — Non importa. Il suo punto di vista è giustificato.

— No, non lo è — la contraddisse Reymont. — Egli ha dedotto il suo un per cento contando ogni stella. Ma ovviamente noi non prenderemo neanche in considerazione le stelle nane rosse — le stragrande maggioranza — o le giganti azzurre o altre al di fuori di quelle comprese in un campo spettrale abbastanza ristretto. Il che riduce di molto il campo di ricerca.

— Consideriamo il coefficiente dieci — disse Nilsson. — Io realmente non ci credo, ma postuliamo di avere un dieci per cento di probabilità di trovare la Nuova Terra per ognuna delle stelle tipo Sole che esamineremo. Ciò comunque richiederebbe sempre che se ne studino almeno cinque per avere una probabilità pari. Dieci anni? Più di venti, considerato tutto. Il più giovane di noi avrà superato di parecchio la sua giovinezza. La perdita di tante possibilità riproduttive significa una corrispondente perdita di eredità; e il nostro pool genetico è già minimo all’inizio. Se aspettiamo numerose decadi prima di procreare figli, non potremo procreare a sufficienza. Pochi saranno cresciuti al punto di essere autosufficienti allorché i loro genitori cominceranno a diventare indifesi per l’età avanzata. E, in ogni caso, la razza umana finirebbe per estinguersi in tre o quattro generazioni. So qualcosa di genetica, come potete capire.

Assunse un’aria tronfia. — Non volevo urtare i sentimenti altrui — disse. — Il mio desiderio era di aiutare, dimostrando che il vostro concetto di una coraggiosa comunità pionieristica, che avrebbe diffuso da capo il genere umano in una nuova galassia… non è altro che una fantasia infantile.

— Lei può proporre qualcosa di alternativo? — chiese Lindgren.

Il volto di Nilsson fu scosso da un tic. — Nulla se non il realismo — disse. — Accettazione del fatto che non lasceremo mai più quest’astronave. Adattare il nostro comportamento a questo fatto.

— Per questa ragione ha marcato visita sul lavoro? — chiese Reymont.

— Il termine che lei ha usato non mi piace, signore, ma è vero che non c’è ragione di costruire apparecchi che servono a una navigazione a lungo raggio. La nostra destinazione, quale che sia, ha un’importanza insignificante. Non riesco neppure a entusiasmarmi per le proposte di Fedoroff e Pereira a proposito dei sistemi di supporto vitale.

— Lei capirà, penso — disse Reymont — che per almeno la metà della gente che si trova a bordo la cosa più logica da fare, una volta che si saranno lasciati convincere della giustezza delle sue asserzioni, sarà suicidarsi.

— È possibile. — Nilsson si strinse nelle spalle.

— Dunque lei stesso odia tanto la vita? — chiese Lindgren.

Nilsson fece per alzarsi dalla sedia, ma ricadde giù pesantemente. Deglutì rumorosamente. Reymont sorprese entrambi i suoi interlocutori passando di colpo alle maniere gentili:

— Io non l’ho fatta venire qui soltanto per costringerla a rinunciare alle sue prediche demoralizzanti. Credo di sapere perché non si sta più impegnando a migliorare le nostre possibilità di sopravvivenza.

— E quali potrebbero essere?

— Proprio questo voglio sapere da lei. Lei è l’esperto di osservazioni spaziali. Se ricordo bene, già sulla Terra lei si occupava di alcuni esperimenti grazie ai quali aveva localizzato una cinquantina di sistemi planetari. Lei personalmente aveva identificato alcuni pianeti individuali e li aveva schedati per tipo, nonostante fossero distanti molti anni-luce. Perché non può fare lo stesso per noi?

Nilsson fece un balzo sulla sedia. — Ridicolo! Vedo che dovrò spiegare la questione usando termini che vengono capiti anche dai bambini dell’asilo. Può avere un attimo di pazienza, primo ufficiale? Faccia attenzione, commissario.

«Certamente, un apparecchio estremamente grande situato nello spazio può captare un oggetto della grandezza di Giove a una distanza di molti parsec. Sempre però nella luce del suo sole. Certamente, per mezzo di un’analisi matematica dei dati relativi alle perturbazioni raccolti in un periodo di alcuni anni, possiamo avere un’idea di pianeti simili alla Terra che siano troppo piccoli da poter essere fotografati. Alcune ambiguità nelle equazioni possono, fino a un certo grado, essere risolte per mezzo di un attento studio interferometrico dei fenomeni di tipo luminoso che si verificano sulla stella; i pianeti esercitano un’influenza minore su questi cicli.

«Ma… — e puntò il dito in direzione del torace di Reymont — … lei non si rende conto di quanto siano incerti i risultati. I giornalisti si sono divertiti a strombazzare in giro che un altro mondo simile alla Terra era stato scoperto. Ma il fatto è sempre stato che questa è soltanto una delle possibili interpretazioni dei nostri dati. Soltanto una tra le numerose possibili distribuzioni di grandezza e orbita. E questo, badi bene, con gli strumenti più grandi e più perfezionati che possono essere costruiti. Strumenti di cui qui non possiamo disporre e che, anche se potessimo in qualche modo costruirli, non sapremmo dove mettere.

«No, anche sulla Terra l’unico modo per ottenere informazioni dettagliate sui pianeti extrasolari era mandare una sonda spaziale e, più tardi, una spedizione umana. Nel nostro caso, l’unico modo è decelerare per una verifica da vicino. E poi, ne sono convinto, proseguire. Perché lei deve rendersi conto che un pianeta che da ogni altro punto di vista sembra ideale può essere sterile o avere una biochimica nativa per noi inutilizzabile o addirittura mortale.

«La prego, commissario, impari un po’ di scienza, un po’ di logica e appena un pizzico di realismo. Eh? — Nilsson finì la sua esposizione con un sorrisetto di trionfo.

— Professore… — cercò di intervenire Lindgren.

Reymont sorrise storto. — Non si preoccupi, signora — esclamò. — Non verremo alle mani per così poco. Le sue parole non mi sminuiscono certo.

Fissò poi l’altro uomo. — Che lo creda o meno — proseguì, — io sapevo già ciò che lei ci ha detto. Sapevo anche che lei è, o era, un individuo molto capace. Lei ha fatto innovazioni, disegnato strumenti, che sono responsabili di molte scoperte. Lei stava facendo un buon lavoro per noi finché non ha ceduto le armi. Perché non mette al lavoro il suo cervello per risolvere i problemi che abbiamo?

— Vuol essere così gentile da accondiscendere a suggerirmi un metodo? — replicò Nilsson in tono di scherno.

— Non sono uno scienziato e neppure un tecnico — disse Reymont. — Eppure, alcune cose mi sembrano ovvie. Supponiamo di essere entrati nella galassia che ci proponiamo di raggiungere. Abbiamo lasciato cadere il tau ultraridotto di cui avevamo bisogno per arrivare fin là, ma abbiamo ancora un… oh, ciò che più ci convince. Dieci alla meno tre, forse? Bene, ciò ci permetterebbe di fare le nostre osservazioni in un periodo di tempo cosmico terribilmente lungo. Nel corso di settimane o mesi, misuriamo secondo il tempo dell’astronave, si potrebbero raccogliere su una data stella più informazioni di quante se ne potrebbero avere sui dintorni del Sole. Avrei supposto che lei potesse escogitare un modo di utilizzare gli effetti della relatività per ottenere informazioni che sulla Terra non sarebbero state disponibili. E, naturalmente, lei potrebbe osservare simultaneamente un gran numero di stelle dello stesso tipo del Sole. Così sarebbe certo riuscito a trovarne alcune di cui potrebbe provare — provare con figurazioni esatte che non lascino alcun ragionevole dubbio — che hanno pianeti con massa e orbita abbastanza simili a quelle della Terra.

— Anche ammettendo una cosa del genere, il problema dell’atmosfera e della biosfera rimarrebbe. Abbiamo bisogno di una visione a corto raggio.

— Sì, sì. Ma non possiamo fermarci per vedere da vicino? Supponga, invece, che si tracci una traiettoria che ci porti molto in prossimità dei soli più promettenti, uno dopo l’altro, mentre continuiamo a viaggiare a una velocità vicina a quella della luce. Calcolando secondo il tempo cosmico, avremmo ore o giorni per esaminare qualsiasi pianeta ci interessi. Esami spettroscopici, termoscopici, fotografici, magnetici, scriva pure la sua lista di richieste. Possiamo farci un’idea molto esatta delle condizioni che troveremo sulla superficie di un dato pianeta. Anche delle condizioni biologiche. Potremmo cercare elementi come il disequilibrio termodinamico da parte di riflessione clorofilliana, la polarizzazione da parte della popolazione microbica basata sugli L-amminoacidi… sì, immaginiamo che potremmo ottenere dati formidabili sulla abitabilità o meno di un pianeta. A un basso valore di tau, potremmo esaminare un numero qualsiasi di pianeti in una piccola frazione del nostro tempo. Dovremmo utilizzare strumenti automatici ed elettronici, in effetti: noi stessi non potremmo lavorare tanto in fretta. Poi, una volta identificato il mondo che fa per noi, potremmo tornarci. Ci vorrebbero un paio d’anni, sono d’accordo con lei, ma sarebbero anni sopportabili. Sapremmo, con un alto grado di probabilità, di avere una casa che ci aspetta.

I lineamenti di Lindgren si erano lievemente coloriti e i suoi occhi avevano perso un po’ della loro opacità. — Buon Dio — esclamò, — perché non hai mai parlato prima di questa possibilità?

— Ho altri problemi per la mente — rispose Reymont, — ma perché non l’ha fatto lei, professor Nilsson?

— Perché tutta questa storia è assurda — sbuffò l’astronomo. — Lei presuppone un grado di strumentazione che noi non abbiamo.

— Non possiamo costruire tali strumenti? Abbiamo il materiale, un equipaggiamento di precisione, mezzi di costruzione, operatori qualificati. La sua squadra ha già fatto alcuni passi avanti.

— Lei chiede velocità e sensibilità aumentate di interi ordini di grandezza su tutto ciò che sia mai esistito.

— E allora? — chiese Reymont.

Nilsson e Lindgren lo fissarono. L’astronave tremava.

— Be’, perché non dovremmo sviluppare ciò di cui abbiamo bisogno? — chiese Reymont con voce perplessa. — Disponiamo di alcuni degli uomini più dotati di talento e meglio addestrati, le menti più aperte che la nostra civiltà abbia mai prodotto. Conoscono ogni branca della scienza; ciò che non conoscono, possono trovarlo nei micronastri; sono abituati a lavorare anche al di fuori della loro materia specifica.

«Ammettiamo, per esempio, che Emma Glassgold e Norbert Williams lavorino insieme per trovare gli elementi necessari a costruire un congegno per scoprire e analizzare la vita a distanza. Consulterebbero altri nel caso ne avessero bisogno. Alla fine si servirebbero di fisici, esperti in elettronica e altri ancora per la reale costruzione e messa in opera del congegno. Nel frattempo, professor Nilsson, lei avrebbe potuto dirigere un’équipe che preparasse gli strumenti per una planetografia da lontano. In effetti, lei è l’uomo adatto a dirigere l’intero programma.

La sua durezza parve abbandonarlo, e Reymont esclamò, pieno d’entusiasmo come un bambino: — Certo, questo è esattamente ciò di cui avremmo bisogno! Un tipo di lavoro affascinante e vitale che chiede tutto ciò che chiunque sia in grado di dare. E quanto alle persone specializzate in materie non strettamente pertinenti, anch’esse parteciperebbero… assistenti, disegnatori, lavoratori manuali… Suppongo che dovremmo sistemare diversamente uno dei ponti della stiva perché possa contenere gli strumenti… Ingrid, è un modo di salvare non soltanto le nostre vite ma anche le nostre menti!

Balzò in piedi. La donna lo imitò. Le loro mani si strinsero convulsamente.

Di colpo si ricordarono di Nilsson. L’astronomo era rimasto seduto e sembrava come rimpicciolito, incurvato, tremante, crollato.

Lindgren gli si avvicinò, allarmata. — Che cosa c’è che non va?

L’uomo non sollevò la testa. — Impossibile — mormorò, — impossibile.

— Certamente no — lo incalzò Ingrid. — Voglio dire, lei non dovrebbe scoprire nuove leggi naturali, non è così? I princìpi basilari sono noti.

— Dovrebbero essere applicati in modi mai sperimentati prima. — Nilsson affondò il viso nelle mani. — Dio lo sa meglio di me, io non sono più in possesso delle mie facoltà mentali.

Lindgren e Reymont si scambiarono un’occhiata al di sopra delle sue spalle ingobbite. La donna formulò silenziosamente con la bocca alcune parole. Una volta Reymont le aveva insegnato il sistema di leggere le labbra utilizzato dal Corpo di Salvataggio quando le radio incorporate nelle tute spaziali non funzionavano più. L’avevano anche messo in pratica tra loro due come un modo per diventare più intimi e più una sola cosa. — Possiamo farcela senza di lui?

Ne dubito. È il miglior capo che si possa trovare per un progetto del genere. Se non altro, venendo a mancare lui, avremmo poche probabilità di riuscita.

Lindgren si accovacciò accanto a Nilsson. Gli posò un braccio attorno alle spalle. — Qual è il guaio? — gli chiese con voce estremamente dolce.

— Non ho più speranze — rispose Nilsson tirando su col naso. — Nulla per cui vivere.

— Ce l’hai!

— Sai che Jane… mi ha abbandonato… alcuni mesi fa. Nessun’altra donna vorrà… Perché dovrei preoccuparmi? Che cosa mi resta?

Le labbra di Reymont formarono le parole: — Così dietro a tutto c’era soltanto autocommiserazione. - Lindgren si accigliò e scosse la testa.

— No, ti sbagli, Elof — mormorò. — Noi ci preoccupiamo per te. Chiederemmo il tuo aiuto se non ti stimassimo?

— La mia mente. — Si rimise a sedere in una posizione eretta e fissò la donna con gli occhi acquosi. — Voi volete la mia intelligenza, certo. I miei consigli. Le mie nozioni e il mio talento. Per salvare voi stessi. Ma volete me? Pensate a me come… come a un essere umano? No! Sporco vecchio Nilsson. Lo si tratta con niente di più di una formale cortesia. Quando comincia a parlare, si trova la prima scusa possibile per potersene andare. Non lo si invita alle feste nella cabina di qualcuno. Tutt’al più, alla disperata, gli si chiede di fare il quarto a bridge o di impegnarsi in uno sforzo per mettere a punto qualche strumento scientifico. Che cosa vi aspettate che egli faccia? Che vi ringrazi?

— Questo non è vero!

— Oh, non sono infantile come qualcun altro — esclamò l’astronomo. — Vi aiuterei se ne fossi capace. Ma la mia mente è vuota, ve l’ho detto. Sono settimane che non mi viene un’idea originale. Chiamatelo timore della morte, che mi paralizza. Chiamatelo una specie di impotenza. Non mi importa come lo chiamate. Perché neanche a voi importa. Nessuno mi ha offerto amicizia, compagnia, nulla. Sono stato lasciato solo nell’oscurità e nel freddo. Vi meravigliate se la mia mente si è congelata?

Lindgren distolse lo sguardo, celando i sentimenti che si agitavano in lei. Quando si rivolse di nuovo a Nilsson, aveva un’espressione calma.

— Non posso dirti quanto io sia dispiaciuta, Elof — gli disse. — Ma anche tu sei in parte da rimproverare. Ti comportavi in modo così, come dire, autosufficiente che abbiamo pensato che tu non volessi essere seccato. Come Olga Sobieski, per esempio, che non voleva essere disturbata e perciò è venuta a dividere la mia cabina. Quando tu sei andato a stare con Hussein Sadek…

— Tiene il pannello sempre abbassato a dividere le nostre metà — strillò Nilsson. — Non lo alza mai. Ma non è abbastanza a prova di suono e io lo sento e sento le sue ragazze, lì dietro.

— Ora abbiamo capito. — Lindgren sorrise. — Per essere proprio onesta, Elof, mi sono stufata della mia attuale esistenza.

Nilsson emise un suono strozzato.

— Credo che noi abbiamo qualche questione personale da discutere — disse Lindgren. — Le… le dispiace, commissario?

— No — esclamò Reymont. — Naturalmente no. — E uscì dalla stanza.

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