CAPITOLO QUINTO

Quando la Leonora Christine raggiunse una velocità pari a una sostanziale frazione di quella della luce, gli effetti ottici che ne derivavano apparvero chiari a una vista priva di qualsiasi accorgimento correttivo. La velocità dell’astronave, infatti, e quella dei raggi provenienti da una stella si sommavano vettorialmente: il risultato era un’aberrazione ottica. Fatta eccezione per tutto ciò che giaceva inerte davanti o dietro l’astronave, la posizione apparente cambiava. Le costellazioni apparivano sempre più sbilanciate, fino ad assumere aspetti grotteschi, e si confondevano tra loro, mentre gli astri che le componevano vagavano disordinatamente nell’oscurità del cosmo. Le stelle si rarefacevano sempre più dietro al vascello spaziale e sempre più gli si affollavano davanti.

L’effetto Doppler agiva simultaneamente. Poiché la Leonora Christine fuggiva le onde di luce che la colpivano da dietro, rispetto ad essa la loro lunghezza risultava accresciuta e la frequenza diminuita. Parimenti, le onde in cui essa immergeva la prua sembravano più corte e più frequenti. Così, i soli a poppa apparivano sempre più rossi, quelli a prua sempre più azzurri.

Sul ponte di cornando si trovava uno schermo visivo ad azione compensatrice: era l’unico a bordo, essendo un apparecchio particolarmente complesso ed elaborato. Un computer calcolava continuamente come avrebbe dovuto apparire lo spazio cosmico se ci si fosse trovati immobili in quel punto del cielo e ne proiettava un’immagine sullo schermo. Tale accorgimento non doveva avere una funzione di divertimento e di conforto, ma era un valido aiuto per la navigazione.

Chiaramente, però, il computer aveva bisogno di dati sulla reale posizione dell’astronave e sulla velocità alla quale viaggiava in rapporto agli oggetti dello spazio. Non era un’impresa semplice ottenere tali dati. La velocità — l’esatta accelerazione e la direzione — variava con le variazioni del mezzo interstellare e con la reazione necessariamente imperfetta ai controlli Bussard, oltre che con il tempo in condizioni di accelerazione. Le deviazioni dal suo cammino prefissato erano comparativamente insignificanti; ma, a distanze astronomiche, qualsiasi imprecisione poteva via via sommarsi alle altre fino a dare un risultato fatale. Dovevano perciò essere eliminate man mano che si presentavano.

Per questa ragione un uomo ordinato, dal corpo massiccio, la barba nera, l’ufficiale di navigazione Augusto Boudreau, apparteneva alla ristretta schiera di coloro che, in viaggio, avevano un incarico a tempo pieno: doveva infatti occuparsi dei dati relativi alla navigazione. Il suo lavoro non lo costringeva però a muoversi in un circolo logico vizioso: trovare la posizione e la velocità così da poter correggere i fenomeni ottici così da poter verificare posizione e velocità. Le lontane galassie erano i suoi fari più importanti; l’analisi statistica delle osservazioni fatte sulle più vicine stelle individuali gli forniva ulteriori dati, ed egli si serviva del calcolo delle approssimazioni successive.

Ciò lo rendeva un prezioso collaboratore del capitano Telander, che calcolava grazie al computer e ordinava i necessari mutamenti di direzione, e dell’ingegnere capo Fedoroff, che faceva eseguire tali ordini. Il compito veniva portato a termine con disinvoltura. Nessuno avvertiva simili correzioni di rotta, tranne che per un occasionale e temporaneo, ma brevissimo, aumento dell’impercettibile fremito dell’astronave, un cambiamento altrettanto trascurabile e transitorio nel vettore-accelerazione, che dava l’impressione che i ponti si fossero inclinati di alcuni gradi.

Inoltre, Boudreau e Fedoroff cercavano di mantenersi in contatto con la Terra. La Leonora Christine era ancora rintracciabile da parte degli strumenti installati nel Sistema Solare. Nonostante le difficoltà create dai campi di forza dell’astronave, il raggio maser lunare poteva ancora raggiungere la Leonora Christine e trasmetterle domande, intrattenimenti, notizie e saluti personali. L’astronave poteva ancora rispondere con il proprio trasmettitore. In effetti, tali dialoghi a botta e risposta avrebbero dovuto diventare regolari, secondo le previsioni degli scienziati, non appena la Leonora Christine si fosse sistemata a dovere su Beta Virginis. L’astronave priva di equipaggio umano che l’aveva preceduta non aveva avuto problemi per quanto riguardava l’invio di informazioni. E lo stava ancora facendo in quello stesso momento, anche se la nuova astronave non era in grado di ricevere le sue trasmissioni e l’equipaggio aspettava di raggiungere la meta fissata per poterne leggere i nastri registrati.

Il problema attuale era questo: i soli e i pianeti sono oggetti grandi, dal movimento costante. Si muovono infatti nello spazio a velocità ragionevoli, raramente superiori ai cinquanta chilometri al secondo. E non procedono a zigzag, anche se impercettibilmente. È facile prevedere dove si troveranno tra centinaia d’anni da ora e inviare loro di conseguenza un raggio apportatore di un messaggio. Ma un’astronave è qualcosa di ben diverso. Gli uomini non durano a lungo; devono affrettarsi. Anche l’aberrazione ottica e l’effetto Doppler agiscono sulle trasmissioni radio. Alla fine le comunicazioni dalla Luna potevano stabilirsi su frequenze che nulla, a bordo del vascello, avrebbe potuto captare. E poi, ben prima di così, per qualche imprevedibile fattore, che può sempre verificarsi quando il periodo di tempo che intercorre tra l’emissione del raggio maser e la sua ricezione da parte dell’astronave copre alcuni mesi, il raggio non aveva più la certezza di riuscire a raggiungere l’obiettivo previsto.

Fedoroff, che era anche l’ufficiale addetto alle comunicazioni, trafficava con rivelatori e amplificatori. Rafforzava i segnali che inviava verso il Sole, sperando che dessero informazioni sufficienti per stabilire la loro futura posizione. Sebbene talvolta passassero giorni e giorni senza che il silenzio venisse rotto, egli perseverava. Veniva ogni volta ricompensato da un successo. Ma la qualità della ricezione diventava sempre peggiore, il periodo di durata più corto, l’intervallo tra una e la successiva sempre più lungo, man mano che la Leonora Christine si addentrava nel Profondo Oceano.


Ingrid Lindgren premette il pulsante del campanello. Le cabine erano sufficientemente a prova di suono cosicché bussare si sarebbe rivelato insufficiente. Non ci fu risposta. La donna insistette, ma anche questo tentativo andò a vuoto. Allora esitò, con un’espressione accigliata, bilanciandosi ora su un piede ora sull’altro. Alla fine posò la mano sulla maniglia. La porta non era chiusa a chiave. L’aprì appena e, senza guardar dentro, chiamò a bassa voce: — Boris, va tutto bene?

Udì alcuni rumori, un cigolio, un fruscio, un lento e pesante muover di passi. Poi Boris spalancò la porta. — Oh — esclamò. — Salve.

Ingrid lo guardò. Era un uomo robusto, di statura media, con un viso largo e gli zigomi alti, capelli castani striati di grigio sebbene la sua età biologica si aggirasse sui quarantadue anni. Non si era rasato da alcuni giorni e indossava soltanto una vestaglia, evidentemente infilata un attimo prima. — Posso entrare? — chiese la donna.

— Se vuoi. — Fedoroff le fece cenno di passare avanti, poi chiuse la porta. La sua metà della stanza era divisa dalla parete mobile dall’altra metà occupata momentaneamente da Pereira, capo dei Biosistemi. Un letto sfatto occupava gran parte dello spazio. Sul cassettone c’era una bottiglia di vodka.

— Scusa il disordine — disse Fedoroff in tono indifferente. Poi, dirigendosi pesantemente verso il centro della stanza, chiese alla donna: — Vuoi bere un goccetto? Non ho bicchieri, ma non hai nulla da temere. Nessuno ha malattie contagiose. — Ridacchiò o, meglio, rantolò. — Da dove verrebbero fuori i germi, qui?

Lindgren si sedette sulla sponda del letto. — No, grazie — rispose. — Sono in servizio.

— E anch’io dovrei esserlo. Sì. — Fedoroff si fermò, barcollando, accanto a lei. — Ho informato il comandante che mi sentivo indisposto e preferivo prendermi un po’ di riposo.

— Ti sei fatto visitare dal dottor Latvala?

— E perché? Fisicamente sto bene. — Fedoroff fece una pausa. — Sei venuta per accertare il mio stato di salute.

— Fa parte dei mio lavoro. Rispetterò la tua intimità, ma sei un uomo-chiave per noi.

Fedoroff sorrise. Era un sorriso forzato, come il rumore che aveva fatto prima. — Non ti preoccupare — disse. — Non sono neppure sull’orlo di una crisi psicologica. — Allungò il braccio fino a raggiungere la bottiglia, poi lo tirò indietro. — Non sto neppure cercando di mettermi in stato d’incoscienza. Non è nulla tranne… come lo chiamano gli americani?… una piccola sbornia.

— Le sbornie sono migliori in compagnia — esclamò Lindgren. Dopo un po’ aggiunse: — Credo che ora accetterò quel goccetto.

Fedoroff le porse la bottiglia e si sedette a sua volta sulla sponda del letto. Ingrid alzò la bottiglia verso di lui. — Skål. - Una piccola sorsata di liquore le scese nella gola. Gli restituì la bottiglia ed egli brindò a sua volta esclamando — Zdoroviye. - Rimasero seduti in silenzio, Fedoroff con lo sguardo puntato verso la parete, finché l’uomo sembrò riscuotersi e disse:

— Molto bene. Visto che lo devi sapere. Non lo direi a nessun altro, e men che meno ad una donna. Ma sono riuscito a capire qualcosa di te. Ingrid… Sei la figlia di Gunnar, è vero?

— Sì, Boris Ilyitch.

L’uomo le lanciò un’occhiata seguita da un sorriso molto più spontaneo. Ingrid se ne stava seduta rilassata, con le curve del corpo che venivano messe in rilievo dall’abito, e tutt’intorno a lei si poteva percepire un certo calore umano e un odore di donna. — Io credo… — parlava con la lingua impastata — … io spero che tu capisca e non vada in giro a raccontare quanto sto per dirti.

— Ti giuro di mantenere il silenzio. Quanto a capire, ci proverò.

Fedoroff appoggiò i gomiti sulle ginocchia, serrando convulsamente le mani. — È qualcosa di personale, capisci — cominciò lentamente e con alti e bassi di voce. — Non che sia nulla d’importante. Mi passerà subito. È semplicemente… quell’ultima trasmissione che abbiamo captato… mi ha sconvolto.

— La musica?

— Sì, la musica. Un rapporto segnale-rumore troppo basso per la televisione. Quasi troppo basso per essere suono. L’ultimo che avremo ricevuto, Ingrid figlia di Gunnar, prima di arrivare al nostro obiettivo e ricominciare a ricevere messaggi, vecchi di una generazione. Sono sicuro che è stato l’ultimo. Quei pochi minuti di musica, vacillante, che a tratti spariva, che si riusciva a udire a malapena nel crepitio delle stelle e dei raggi cosmici… quando abbiamo perso quella musica, ho capito che non ne avremmo ricevuta altra.

A Fedoroff mancò la voce. Lindgren attese.

L’uomo si riscosse. — Per caso era una ninna-nanna russa — disse. — Mia madre me la cantava per addormentarmi.

La donna gli appoggiò una mano sulla spalla e la lasciò li, leggera come una piuma.

— Non credere che voglia abbandonarmi a un eccesso di autocommiserazione — aggiunse Fedoroff frettolosamente. — Per un attimo mi sono ricordato dei miei morti in modo fin troppo vivo. Mi passerà.

— Forse capisco — mormorò Ingrid.

Fedoroff era al suo secondo viaggio interstellare. Era andato su Delta del Pavone. I dati forniti dalle sonde inviate in esplorazione davano quasi per certa l’esistenza di un pianeta simile alla Terra e la spedizione era perciò partita animata da molte speranze. La realtà si era rivelata così terrorizzante, così simile a un incubo che i sopravvissuti avevano dato prova di un eroismo eccezionale rimanendo a studiare il pianeta per il minimo tempo previsto. Al loro ritorno, erano trascorsi per loro dodici anni; ma la Terra era invecchiata di quarantatré.

— Dubito che tu ci riesca, davvero — e Fedoroff si girò a guardarla. — Ci aspettavamo che la gente fosse morta al nostro ritorno. Ci aspettavamo un cambiamento. Se non altro, fui travolto dalla gioia al primo momento perché potevo riconoscere alcuni quartieri della mia città: la luce della luna sui canali del fiume, le cupole e le torri della cattedrale Kazan, Alessandro e il Bucefalo che si innalzavano sul ponte che porta al Nevsky Prospect, i tesori dell’Hermitage… — Distolse lo sguardo e scosse stancamente la testa. — Ma la vita in sé… Questa era troppo diversa. L’impatto con questo nuovo tipo di esistenza fu come… come vedere una donna che si era amata ridotta a fare la prostituta. — Rise sguaiatamente. — Esattamente così! Ho lavorato nello spazio per cinque anni, per quanto ero capace, ricerche e nuovi miglioramenti da apportare al motore Bussard, come puoi ricordare. Il mio scopo principale era guadagnarmi il posto che ora occupo. Possiamo sperare in un nuovo inizio su Beta Tre.

Le sue parole divennero un borbottio quasi incomprensibile: — Poi la cantilena di mia madre mi ha raggiunto. Per l’ultima volta. — Si portò la bottiglia alle labbra.

Lindgren lasciò passare un paio di minuti prima di parlare:

— Adesso posso capire, Boris, almeno in parte, perché sei rimasto tanto sconvolto. Ho studiato un po’ di socio-storia. Quando tu eri un ragazzo, la gente era meno… be’, meno rilassata. Avevano riparato i danni prodotti dalla guerra in molti paesi e avevano favorito l’incremento demografico e posto sotto controllo il disordine civile. Ormai si stavano preparando a nuove imprese, progetti fantastici, sulla Terra come nello spazio. Nulla sembrava impossibile. Al centro di questo élan c’era uno spirito di duro lavoro, patriottismo, dedizione. Suppongo che tu avessi due divinità che servivi con tutto il tuo cuore, Padre Tecnica e Madre Russia. — La mano della donna scivolò dalla spalla di Fedoroff fino alla sua mano, dove si fermò. — Sei tornato — continuò, — e a nessuno sembrava importare.

L’uomo annuì. Con i denti si tormentò il labbro inferiore.

— Per questo oggi disprezzi le donne? — chiese Ingrid. Egli sobbalzò. — No! Mai!

— Allora, perché mai nessuna delle tue relazioni è durata più di una settimana o due… e nella maggioranza dei casi si è trattato ogni volta di un semplice passatempo? — replicò la donna in tono di sfida. — Perché ti trovi a tuo agio e diventi allegro soltanto in mezzo agli uomini? Credo che a te non interessi conoscere la nostra metà della razza umana se non come corpi. Non ritieni che ci sia qualcos’altro che valga la pena di conoscere in noi. E ciò che hai detto un momento fa, a proposito delle prostitute…

— Quando sono tornato dal Delta del Pavone desideravo trovarmi una vera moglie — rispose Fedoroff con voce strozzata.

Lindgren sospirò. — Boris, i costumi cambiano. Dal mio punto di vista, tu sei cresciuto in un periodo di irragionevole puritanesimo. Ma era soltanto una reazione a un precedente modo di essere che si era spinto forse un po’ troppo oltre; e ancora prima… Non importa. — Scelse le parole con cura. — Il fatto è che l’uomo non è mai rimasto fedele a un solo ideale. L’entusiasmo di massa di quando tu eri giovane ha lasciato il posto a un classicismo freddo e raziocinante. Oggi questo è stato sommerso a sua volta da una specie di neoromanticismo. Dio sa dove andremo a finire. Io personalmente non sarò capace di approvare i possibili sviluppi. Ma, noncuranti, le giovani generazioni crescono. Noi non abbiamo diritto di costringerle nei nostri vecchi schemi. L’universo è troppo vasto.

Fedoroff rimase immobile e silenzioso per tanto tempo che la donna fece per alzarsi e andarsene. Ma allora, di colpo, egli si girò, la prese per un polso e la spinse di nuovo a sedere accanto a lui. Poi, faticosamente, parlò: — Vorrei conoscerti, Ingrid, come essere umano.

— Ne sono felice.

La piega della bocca dell’uomo si fece dura. — Ora però è meglio che tu vada — continuò. — Stai con Reymont e non voglio creare guai.

— Anch’io voglio che tu mi sia amico, Boris — disse la donna. — Ti ho ammirato dal primo momento in cui ci siamo conosciuti. Coraggio, competenza, gentilezza… cos’altro c’è da ammirare in un uomo? Vorrei che tu riuscissi a mostrare queste tue virtù ai tuoi compagni di viaggio di sesso femminile.

Egli allentò la stretta. — Ti invito ad andartene.

Ingrid lo guardò. — Se lo faccio — chiese, — e ci ritroviamo a parlare insieme un’altra volta, ti troverai a tuo agio con me?

— Non so — rispose Fedoroff. — Lo spero, ma non lo so.

Ingrid ci pensò un attimo. — Cerchiamo di assicurarcene — suggerì alla fine, gentilmente. — Non ho il dovere di trovarmi da qualche altra parte per il resto del mio periodo di servizio.

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