CAPITOLO DECIMO

Si fermò di colpo e lo fissò, in preda al più completo sbalordimento. L’uomo era pallido, con la pelle tesa sulle ossa del volto; aveva l’aria, dopo esser stato seguito per nove giorni dagli spettri di Hel, di non esser riuscito a dormire molto. Lei ansimò: — Tu! — Si volse a Farr, che stava percorrendo con occhi guardinghi e scrutatori ogni trave e angolo del salone. Duac aveva intanto ritrovato un po’ della sua presenza di spirito, e con una certa cautela si stava facendo strada fra il gruppo dei Re nella sua direzione. Essi non dicevano parola e si guardavano attorno con aria d’attesa, reggendo i loro scudi su cui animali senza nome incisi in metalli preziosi riflettevano la vivida luce che entrava dalle finestre. Il cuore della ragazza balzò in un tambureggiare di pulsazioni improvvise. Farr si volse a guardarla, quando trovò il fiato per esclamare: — Ma cosa stai facendo qui? Eri diretto a Lungold, quando ci lasciammo nell’entroterra!

La voce pacata e familiare dell’arpista suonò scossa, fragile: — Io non avevo alcun desiderio d’incontrare la Morgol o le sue guardie, nell’entroterra. Sono sceso lungo il Cwill fino a Hlurle, e ho trovato un passaggio su una nave diretta a Caithnard. Non ci sono più molti luoghi nel reame che mi siano rimasti aperti.

— E così sei venuto qui?

— È l’unico posto che ancora mi resta.

— Qui! — Disperata e furiosa non aveva saputo trattenere quel grido, che fece fermare Duac a qualche passo da lei. — Tu sei venuto qui, e per colpa tua io adesso ho condotto tutti i Re di Hel in questa casa! — Sentendo la rauca domanda senza parole di Farr nella sua mente, si volse tremando. — Tu hai scortato l’uomo sbagliato! Lui non è neppure un cambiaforma!

— Lo abbiamo trovato in questa forma, ed egli ha scelto di mantenerla — rispose sorpreso Farr, sulla difensiva. — Era lui l’unico straniero che si spostasse segretamente attraverso Hel.

— C’era forse soltanto lui? Che misero modo di mantenere un patto è stato il tuo! Neppure se aveste cercato nei più luridi vicoli e angiporti del reame avreste potuto trovare un uomo che desideravo vedere meno di costui!

— Io ho mantenuto il giuramento che ho fatto — disse Farr, e lei capì dall’espressione di Duac che quelle parole rimbombavano anche nella sua mente. — Il teschio è mio. Il patto che ci legava è sciolto.

— No! — Lei fece un passo indietro, con le mani artigliate sulle nude orbite e sul sogghigno del teschio. — Tu hai lasciato l’uomo che giurasti di proteggere da qualche parte in Hel, incalzato dalla morte ed esposto al pericolo d’essere scoperto da…

— Non c’era nessun altro! — ruggì Farr. Lei vide che quel grido esasperato intimidiva perfino Duac. Il Re venne avanti, fulminandola con occhi torbidi d’ira. — Donna, tu sei legata col tuo nome a un giuramento. Tu hai proposto il patto che m’ha condotto oltre la soglia di questa casa, dove Oen osò portare il mio cranio su una picca, e seguito ancora dalle mie maledizioni mi incoronò Re della sua mensa. Se tu non mi consegni quel teschio, io giuro su…

— Tu non giurerai niente! — Lei raccolse i riflessi di luce dagli scudi, li ravvivò nella sua mente e li trasformò in una fulgida rete di sbarre che fece lampeggiare nell’aria davanti a lui. — E non provare a toccarmi!

— Credi di poterci fermare tutti, strega? — ringhiò Farr. — Provaci!

— Fermo! — gridò Duac. Alzò una mano a palmo avanti, mentre gli occhi di Farr si giravano a dardeggiare rabbia su di lui. — Fermati! — ripeté, e l’autorità disperata che gli vibrava nella voce arrestò l’impulso furente dell’altro. Duac oltrepassò cautamente le sbarre di luce, si accostò a Raederle e le poggiò le mani sulle spalle. Nel guardarlo lei ebbe l’impressione di vedere in parte il volto di Ylon, le stesse sopracciglia arcuate, gli stessi occhi tormentati color del mare. Quel tocco, un tocco umano dopo nove giorni durante i quali era stata attorniata soltanto da esseri inumani, la fece tremare, e vide l’angoscia deformare il volto del fratello mentre egli sussurrava: — Che cosa hai fatto a te stessa? E cos’hai fatto a questa casa?

Restituendogli lo sguardo desiderò disperatamente rivelargli il complicato intreccio degli avvenimenti di quei mesi, e di fargli capire perché tornava a casa coi capelli che le pendevano spettinati fino in cintura, perché altercava con un Re morto sul suo teschio, perché poteva in apparenza trasformare l’aria in sbarre di pura fiamma. Ma di fronte al volto ringhioso di Farr non osò mostrare segni di debolezza. Esibì un tono fermo: — Abbiamo fatto un patto, Farr e io…

— Farr! — dissero le labbra di lui quasi senza suono, e lei deglutì saliva, annuendo.

— Ho convinto Hallard Albanera a darmi questo teschio. La notte stessa, mentre Hel era in sommossa, ho vegliato circondandomi di fuoco, lavorando col fuoco, e all’alba avevo abbastanza potere per contrattare con lui. Il Portatore di Stelle stava venendo ad Anuin attraverso Hel; Farr ha giurato di riunire i Re e di proteggerlo in cambio del teschio. Ha giurato sul suo nome e sul nome di tutti i Re di Hel. Ma non ha mantenuto la sua parte del patto. Non ha neppure cercato di trovare un cambiaforma; ha semplicemente fatto da scorta al primo straniero che ha visto viaggiare per Hel…

— Lo straniero non ha fatto obiezioni — disse la voce di Evern il Falconiere fredda come una lama nella sua mente. — Gli davano la caccia, e ha usato la nostra protezione.

— Certo che gli davano la caccia! — Lui… — s’interruppe, mentre cominciava a capire solo allora la vera entità del pericolo che aveva portato nella sua casa. Le mani le si fecero di ghiaccio sulle ossa del teschio. Sussurrò: — Duac… — Ma lui s’era voltato a fissare l’arpista.

— Perché siete venuto qui? Il Portatore di Stelle non è ancora giunto ad Anuin, ma voi dovevate sapere che i mercanti avrebbero raccontato ovunque ciò che gli avete fatto.

— Pensavo che vostro padre potesse essere tornato.

— E cosa vi aspettavate che mio padre vi dicesse, in nome di Hel? — chiese Duac, più meravigliato che irritato.

— Molto poco. — Deth li fronteggiava con la solita calma, ma sul suo volto c’era un fremito di preoccupazione, quasi che con un orecchio stesse ascoltando qualcosa al di là del loro udito. Raederle sfiorò un braccio del fratello.

— Duac! — La sua voce tremò. — Duac, credo di aver portato ad Anuin qualcos’altro, oltre i Re di Hel.

Lui chiuse gli occhi con un borbottio. — E cosa? Due mesi fa hai rubato la nave di nostro padre e sei svanita da Caithnard, lasciando Rood senza la minima idea di dove tu fossi e costringendolo a tornare a casa da solo e a cavallo. Adesso torni come sbucata dal nulla, accompagnata dai Re morti di Hel, da un arpista fuorilegge e con un teschio incoronato. E mi metti in guardia su qualcosa. Se il tetto di questo palazzo mi cascasse sulla testa fra un minuto, dubito che la mia sorpresa aumenterebbe. — Tacque un attimo, stringendole le spalle fra le mani. — Ti senti bene, almeno?

Lei scosse la testa. — Non importa. Oh, Duac! — mormorò. — Io stavo cercando di proteggere Morgon da Ghisteslwchlohm.

— Ghisteslwchlohm?

— Lui è… lui ha seguito Deth attraverso Hel.

L’espressione parve morire sul volto di lui. Girò gli occhi su Deth, poi le sollevò le mani dalle spalle, lentamente, come se sollevasse due pietre. — E va bene — disse, ma la sua voce era disperata. — Forse possiamo…

L’arpista lo interruppe in tono secco e duro: — Il Fondatore è ad An in questo momento.

— Io l’ho sentito! — ansimò Raederle. — Era dietro di te alle porte di Anuin. Ho sentito la sua mente cercare in tutti gli angoli di Hel; è passato attraverso i miei pensieri come un vento nero, e ho potuto sentire il suo odio, la sua rabbia…

— Quello non era il Fondatore! — disse Deth.

— E allora chi… — S’interruppe. Gli uomini che le stavano intorno, i vivi e i morti, erano immobili come figure di legno su una scacchiera. Scosse il capo, ammutolita, stringendo forte le bianche ossa che aveva fra le dita.

Con inattesa intensità l’arpista disse: — Non sarei mai venuto qui per mia scelta. Ma tu non mi hai lasciato alternative.

— Morgon? — disse. Stupita ricordò la silenziosa e improvvisa partenza di lui da Caithnard, ripensò alla mente che aveva trovato la sua come un’ala oscura e senza legge e che tuttavia non l’aveva minacciata. — Io… sono stato io a portarti qui, perché lui potesse ucciderti? — Il volto esausto e disperato dell’uomo bastò a farle intuire la risposta. Dalla gola le emerse un singhiozzo dove si mescolavano lo stordimento e l’angoscia. Fissò Deth ansimando, mentre un caldo flusso di lacrime le annebbiava la vista. — Ci sono cose per cui non si deve uccidere. Tutti noi saremo dannati per questo: tu per aver fatto di lui ciò che è, lui perché non vede quel che è diventato, e io per avervi portati faccia a faccia. Tu lo distruggerai perfino con la tua morte. Quella è la porta! Finché hai tempo trova una nave e fuggi da Anuin!

— Dove?

— Dovunque! Sul fondo del mare, se non c’è altro posto. Vattene a suonare l’arpa sulle ossa di Ylon, non m’importa. Basta che tu te ne vada, così lontano che lui dimentichi il tuo nome e ciò che hai fatto. Vai via…

— È troppo tardi. — La voce di lui suonò quasi dolce. — Tu mi hai portato qui in casa tua.

Sentendo un rumore di passi dietro di sé la ragazza si girò. Ma era soltanto Rood che, spettinato e rosso in viso dopo esser balzato giù da cavallo, si stava precipitando nel salone. Il suo sguardo stupito abbracciò quel gruppo di spettri, usciti dai loro sepolcri come a rendere solidi gli incubi di rivincita e di vendetta con cui da secoli tormentavano i regnanti di An, e si arrestò con uno scivolone. Il lampo che ebbe negli occhi rivelò a Raederle che li aveva riconosciuti. Il più vicino a lui era Ohroe il Maledetto, il cui volto era orrendamente squarciato dal colpo di spada che l’aveva ucciso, e costui afferrò Rood per il colletto della tunica tirandolo indietro verso di sé. Il suo braccio sinistro rivestito di maglia metallica uncinò il giovane attorno alla gola, mentre un pugnale balenava nell’altra mano levata in alto; la punta aguzza si premette sotto la mandibola di Rood. — E adesso — esclamò l’uomo, — faremo un patto d’altro genere!

Il guizzo di terrore e di furia che nacque nei pensieri di Raederle s’impadronì del riflesso sulla lama del coltello e lo trasformò in un’abbagliante freccia di luce bianca, che si conficcò negli occhi di Ohroe. L’individuo ansimò, lasciando cadere l’arma. Le rabbiose gomitate con cui Rood cercava d’ammaccargli le costole attraverso la cotta di maglia sembrarono aver poco effetto, ma quando l’altro si trovò con la testa avvolta da un piccolo sole di fuoco fu costretto a portarsi le mani al viso. Rood lo spinse via e corse alla parete destra del salone, staccando dal muro la grossa spada di bronzo antico che era appesa lì fin dalla morte del Re Hagis. Agitandola ferocemente andò a mettersi al fianco di Duac, che però alzò le mani in un gesto rabbioso: — Vuoi abbassare quest’arma, per favore? L’ultima cosa che voglio è un torneo alla spada in questa casa!

I Re di Hel s’erano riuniti compatti, senza produrre alcun rumore ma più solidi che mai. Davanti a loro l’arpista, lo sguardo perso nel vuoto come se la sua attenzione fosse focalizzata su tutt’altri avvenimenti lontani, sembrò risaltare per la sua immobilità assoluta; nel vederlo Rood imprecò fra i denti. Impugnò la spada saldamente e disse: — Non mi fanno paura. Male che vada ci troveremo ad essere fantasmi anche noi, e ci batteremo come si battono loro. Chi li ha portati qui? Deth?

— Raederle.

Rood si volse di scatto. Solo allora parve accorgersi della presenza della sorella, seminascosta dalla figura di Duac. Vide i suoi capelli scarmigliati, il viso stanco, il teschio fra le sue mani, e la punta della spada si abbassò sul pavimento con un lieve tintinnio. Un fremito di sorpresa gli increspò la bocca.

— Raederle? Ti ho guardata senza neanche riconoscerti, così conciata! — Gettò la spada sui mosaici del pavimento e le si avvicinò, tendendo le braccia, ma le sue mani ricaddero prima di toccarla. Nello sguardo stranito che le diede ella lesse che dentro di lui qualcosa si torceva, esitava, avvertendo i suoi nuovi e insoliti poteri. Rood mormorò: — Cosa ti è successo? Cos’è che accade a tutti quelli che tentano di fare questo dannato viaggio al Monte Erlenstar?

Lei deglutì a vuoto. Tolse una mano dal teschio per sfiorargli un braccio. — Rood…

— Dove hai preso questi poteri? Sono molto diversi da qualsiasi cosa tu abbia mai avuto in passato.

— Li ho sempre avuti.

— E da cosa li hai avuti? Io sono qui che ti guardo, e mi sembra di non sapere neanche chi sei!

— Tu sai chi sono — sussurrò lei, con la gola secca. — Io appartengo ad An e…

— Rood! — lo chiamò Duac. Nella sua voce c’era una nota d’apprensione così strana che il fratello fu indotto a distogliere gli occhi dal volto di Raederle. Duac stava fissando la soglia del salone; annaspò con una mano dietro di sé come per invocare Rood accanto a sé. — Rood… quell’uomo! Chi è quell’uomo? Non dirmi che quello che sto pensando è vero…

Rood non ebbe fiato per rispondere. Dall’ingresso era appena entrato, senza far rumore, senza proiettare ombra, in sella a un grande cavallo nero i cui occhi erano morti come quelli del teschio di Farr, un uomo la cui fronte era ornata da una corona sul cui centro splendeva una singola gemma rossa. Era abbronzato, massiccio, muscoloso; i foderi del suo coltello e dello spadone erano intrecciati d’oro; la tunica che portava sopra la cotta di maglia era ricamata con l’antichissimo emblema di An: una quercia verde, tagliata da un fulmine di luce nera. Aveva lasciato il suo seguito all’esterno, cavalieri che dovevano essere emersi dai campi e dai frutteti intorno ad Anuin. Dietro costoro Raederle poté vedere le guardie di Duac e i servi che cercavano di spezzare la loro fila per gettarsi avanti. Ma avrebbe più facilmente sfondato un muro di pietra. L’effetto che l’arrivo dell’uomo incoronato ebbe sui fantasmi della sala fu immediato: tutte le loro spade vennero sguainate di colpo. Farr si mosse avanti livido in faccia, mentre lo squarcio rosso che gli inanellava il collo sembrava pulsare e gettare sangue, e protese l’arma. Ignorando Farr gli occhi del Re morto si spostarono lentamente sui presenti, fermandosi su Duac. Il cavallo nero si arrestò.

— Oen!

L’esclamazione di Rood gli guadagnò un attimo di attenzione da parte dell’antico Re, ma subito egli tornò a guardare Duac. Lo salutò inchinando appena la testa, quindi in tono duro e tuttavia controllato disse: — La pace sia su questa casa e coloro che la abitano. Possa il disonore non entrarvi mai. — Tacque, senza distogliere lo sguardo dal volto di Duac, quasi che avvertisse in lui quell’istinto senza tempo basato sulle leggi della terra e insieme a ciò anche qualcos’altro. Ebbe una secca risata priva d’allegria. — Tu hai una faccia che viene dal mare. Ma tuo padre è più fortunato di me. Non hai preso molto dal mio Erede, salvo una somiglianza.

Palesemente turbato Duac stentò a ritrovare la voce. — Pace… — La parola tremolò nell’aria, ed egli deglutì. — Mi auguro che tu sia venuto a portare la pace in questa casa, e che andandotene tu lasci la pace dietro di te.

— Questo non posso farlo. C’è un giuramento che mi lega, oltre la morte.

Duac socchiuse gli occhi, e alle labbra gli affiorò un’imprecazione quasi inudibile. Oen si decise a voltarsi verso Farr; i loro occhi si incontrarono attraverso la stanza, per la prima volta dopo sei secoli durante i quali s’erano sognati l’un l’altro nel buio dei loro sepolcri. — Io ho giurato che fin quando i Re regneranno ad Anuin, la testa di Farr di Hel avrebbe regnato nella mia mensa, in cima a una picca.

— E io ho giurato — ringhiò Farr, — che non avrei chiuso occhio nella mia tomba finché l’ultimo Re di Anuin non giacerà nella sua.

Oen inarcò le folte sopracciglia. — Già una volta hai perduto la tua testa. Io ho udito che una donna di Anuin ha portato il tuo cranio da Hel fin qui, e a sua vergogna ha aperto le porte di questa casa ai morti di Hel. Io sono venuto per ripulirla da questa spazzatura. — Gettò un’occhiata a Raederle. — Dammi quel teschio, donna!

La ragazza restò stupita dal disprezzo che l’uomo aveva nella voce e negli occhi, quegli occhi freddi e calcolatori che avevano sorvegliato la costruzione di una torre presso il mare, oltre le cui finestre sbarrate si preparava la prigione del suo Erede. — Tu! — sussurrò. — Tu che porti vuote parole in questa casa, cosa ne hai mai saputo della pace? Tu hai vissuto incatenato alla tua mente ristretta e alle tue guerre. E morendo hai lasciato dietro di te ben altro enigma, ad Anuin, che una faccia color del mare. Sei venuto per batterti con Farr sul suo teschio, come due cani che altercano su un osso. Dici che io ho tradito la mia casa: cosa ne sai dei tradimenti? Sei uscito dalla terra per vendicarti: cosa ne sai della vendetta? Ti sei illuso che avresti visto la fine degli strani poteri di Ylon quando l’hai rinchiuso in quella torre, con tanta scarsa compassione e con ancor minore intelligenza. Avresti dovuto capire che non potevi mettere le catene alla sua angoscia e al suo dolore. Hai aspettato dei secoli per batterti ancora con Farr? Ebbene, io ti dico che prima di snudare la tua spada in questa casa dovrai batterti con me!

Raederle strappò la luce dagli scudi, dalle armature, dalle corone ingioiellate e dalle mattonelle del pavimento, e circondò Oen e il suo cavallo in un lampeggiante cerchio di bagliori. Si guardò attorno in cerca di una sorgente di fuoco, ma nel salone non era accesa neppure una candela. Fu così costretta a cercare in sé il ricordo della fiamma, di quell’elemento fluttuante e informe che aveva padroneggiato sotto lo sguardo incollerito di Farr. Scagliò l’illusione del fuoco intorno alle forme illusorie dei morti. Spalancò le mani e mostrò loro come sapeva plasmarlo, facendolo fiammeggiare alto nell’aria e mandandolo ad espandersi in onde roventi sul pavimento. Li circondò di lingue ardenti e incalzanti, inducendoli a stringersi l’uno accanto all’altro per sfuggirgli. Poi arse con sbuffi di fiamma i loro scudi e li vide immediatamente gettarli via come ustionati, mandandoli a rimbalzare senza rumore per il salone. Inanellò di fuoco le loro corone, e i Re se ne liberarono scaraventandole in aria come ruote di fiamma. Con gli orecchi della mente udì lontano e indistinto lo squittire degli uccelli marini. Poi in lei crebbe sonora la grande voce del mare.

Il suo echeggiare le vibrava nell’anima, le fluiva dalle mani con le fiamme da lei plasmate. Riconobbe il lento frangersi e brontolare delle onde, il vuoto lamento del vento fra le sbarre spezzate della finestra. La musica dell’arpa s’era spenta, la torre era vuota. Tornò a volgere la sua attenzione a Oen; semiaccecata dai suoi pensieri di fuoco vide la sua figura come un’ombra, un po’ ricurvo sul suo cavallo. E una furia che non le apparteneva ma che emergeva dalla sua eredità di sangue cominciò a gonfiarsi in lei, simile a un’enorme ondata che avrebbe potuto strappar via la torre dalle sue radici di roccia e scaraventarla in mare.

La furia stessa le elargì oscure visioni dei poteri nascosti in lei. Le sussurrò come avrebbe potuto spezzare in due la solida pietra del pavimento, e come mutare quella sottile spaccatura in un nero abisso illusorio nel quale sprofondare il fantasma di Oen, senza nome e senza memorie. Le mostrò come avrebbe potuto sbarrare le porte e le finestre della sua dimora, chiudendo dentro i vivi come i morti; come creare l’illusione di una porta spalancata su un’illusione di libertà. Le mostrò come scindere le diverse sensazioni di tristezza, disperazione e malinconia che sentiva giungerle dal mare, dal vento e dal ricordo di quell’arpa, per poi intrecciarle nelle pietre e nelle ombre della casa affinché nel suo interno nessuno riuscisse a ridere mai più. Mentre nutriva la luce e il fuoco sentì le sue angosce mescolarsi a una rabbia e a un’agonia molto più antica, diretta contro Oen, finché non fu quasi capace di separarle di nuovo; a stento adesso riusciva a ricordare che Oen era soltanto un vecchio spettro di An, e non già il vivo, terribile, spietato personaggio rimasto nella memoria di Ylon.

D’un tratto si sentì sperduta, trascinata e dominata dalla forza di un odio che apparteneva a qualcun altro. Lottò contro di esso, cieca e spaventata, senza sapere come spegnere il violento impulso di distruzione diretto contro Oen. Il suo terrore si mutò in angoscia; era prigioniera, come Oen aveva imprigionato Ylon, dell’odio spietato e dell’incomprensione. Capì che, prima di distruggere Oen, prima di liberare qualcosa di incompatibile con le leggi della terra di An nella dimora dei suoi Re, avrebbe dovuto costringere lo spettro di Ylon, risorto dentro di lei, a vedere con chiarezza e per la prima volta l’eredità che ambedue portavano, e a comprendere che quel Re era stato semplicemente un essere umano incatenato alle sue ambizioni.

Uno alla volta, con uno sforzo terribile, isolò i volti dei Re nell’alone di fuoco che li circondava. Strappò fuori dal nero vuoto della rabbia e della disperazione le loro identità e le loro storie, li chiamò ciascuno per nome mentre essi la fronteggiavano muti nella sala, senza corone e senza armi: Acor, Ohroe, maledetto dal proprio dolore per i suoi figli, Nemir che parlava il linguaggio dei maiali, Farr che aveva patteggiato con lei per un teschio vecchio di seicento anni, Evern che era morto insieme ai suoi falchi mentre difendeva la sua fortezza. Il fuoco lingueggiò sempre più basso fino a svanire intorno a loro, tornando ad essere soltanto luce solare sul pavimento. Ella fu di nuovo in grado di vedere fra i Re la figura dell’arpista del Supremo. E vide Oen. L’uomo non era più in sella, ma in piedi accanto al suo cavallo. E poi vide la spaccatura nera che gli passava fra le scarpe tagliando in due l’intera pavimentazione della sala.

La ragazza lo chiamò per nome. Quella parola parve rimetterlo nella prospettiva che gli apparteneva: il fantasma spaventato di un uomo che era stato secoli addietro un Re di An. L’entità che s’era svegliata in lei emanò un’ultima stanca sensazione d’odio contro Oen, e contro il potere chiarificatore di lei; ebbe un sussulto ancora e quindi rifluì nel nulla come un’onda esausta nella risacca. La lasciò libera, ma con lo sguardo cupamente fisso sul pavimento squarciato, a chiedersi quale nome avrebbe portato per il resto dei suoi giorni in quel salone.

D’un tratto s’accorse di tremare così forte che le gambe le si piegavano. Accanto a lei Rood protese un braccio come per sostenerla, ma parve anch’egli quasi distrutto e non fu capace di toccarla. La ragazza vide che Duac fissava la spaccatura del pavimento. Il fratello rialzò la testa e la guardò. E un singhiozzo le incrinò la gola, poiché nei suoi occhi lesse che non sapeva più darle alcun nome. Il suo potere aveva fatto di lei una creatura senza terra e senza nome, lasciandola priva di tutto ciò che era stato suo. Lo sguardo della ragazza cadde su un’ombra che s’era allungata al suolo fra di loro. E lentamente capì che in quel salone, fra le figure dei Re morti e privi di ombra, stava entrando qualcun altro che possedeva un’ombra scura come la notte.

Si volse. Inquadrato sulla soglia oltre la quale il sole stava tramontando c’era il Portatore di Stelle. Era solo; nel cortile il seguito di Oen era scomparso. La stava fissando, e dall’espressione che aveva negli occhi capì che aveva visto quanto era accaduto lì. Disperata ricambiò il suo sguardo, ma lui disse soltanto: — Raederle. — Non era un avvertimento, né un giudizio, semplicemente il suo nome, e lei avrebbe voluto piangere per il sollievo di sentirlo pronunciare e riconoscerlo come suo.

Finalmente lui si mosse e avanzò oltre la soglia. Abbigliato con una tunica dimessa, in apparenza disarmato, venne avanti quasi con l’aria di chi non vuol disturbare fra le sgargianti figure dei Re, e tuttavia uno dopo l’altro essi furono indotti a dedicargli tutta la loro attenzione. L’oscura forza che s’era aggiunta al loro odio per spingerli fino ad Anuin non era più l’ala nera della magia, ma qualcosa che ora essi potevano vedere. Gli occhi di Morgon, spostandosi da volto a volto, trovarono quello di Deth. Si fermò. Raederle, con la mente aperta e vulnerabile ai pensieri di lui, sentì l’urto con cui i ricordi lo scuotevano fino in fondo all’anima. Lentamente Morgon riprese a camminare, ed i Re si scostarono senza produrre un rumore, facendo il vuoto intorno all’arpista. A capo chino Deth sembrava tendere l’orecchio al passo finale del lungo viaggio che li aveva portati entrambi lì dal Monte Erlenstar. Quando Morgon gli fu davanti rialzò il viso, e il sole che entrava dal portone parve denudare spietatamente le sue rughe.

Con voce piatta disse: — Quale concetto della giustizia hai strappato dalla mente del Supremo, là al Monte Erlenstar?

Morgon sollevò una mano e colpì il volto dell’arpista con un manrovescio così violento che perfino Farr sbatté le palpebre. Deth fece qualche passo di lato, piegato in due, poi si raddrizzò con uno sforzo.

In tono rauco e tormentato Morgon ringhiò: — Concetti ne ho imparati fin troppi. Da lui e da te. E la giustizia non è un argomento che mi interessa. A me interessa ammazzarti. Ma visto che siamo nella casa di un Re, e che il tuo sangue dovrà sporcare il suo pavimento, la semplice cortesia mi impone di spiegare perché devo spillartelo dalle vene: mi sono stancato di sentirti suonare l’arpa!

— Almeno rompeva il silenzio.

— C’è qualcosa di meglio al mondo che il tuo silenzio? — Quelle parole echeggiarono avanti e indietro fra i muri del salone. — Nel buio di quella montagna ho gridato tanto che avrei ridotto al silenzio chiunque, ma non la tua arpa. Sì, sei stato ben addestrato dal Fondatore. Non c’è niente in te che io possa toccare. Salvo che la tua vita. E mi domando se tu non dia valore neanche a quella.

— Sì. Per me ha valore.

— Non pregare per la tua vita. Io ho pregato Ghisteslwchlohm che mi regalasse la morte, e lui mi ha ignorato. Questo è stato il suo sbaglio. Ma lui ha avuto abbastanza accortezza da scappare. Tu avresti dovuto cominciare a scappare il giorno stesso in cui mi hai condotto in quella montagna. Tu non sei uno sciocco. Dovresti aver saputo che il Portatore di Stelle sarebbe sopravvissuto anche là dove un povero Principe di Hed sarebbe morto. E invece sei rimasto, e mi hai fatto ascoltare le tue canzoni e quelle di Hed, al punto che piangevo anche nel sonno. Se avessi potuto strappare le corde dalla tua arpa solo con il pensiero…

— Lo hai fatto. Più di una volta.

— E non hai avuto l’intelligenza di fuggire!

Nell’assoluto silenzio della dimora reale sembrava che intorno ai due uomini aleggiasse uno strano sipario d’intimità. I Re, coi loro volti segnati dalle battaglie e dalle amarezze, apparivano attentissimi alla scena, quasi che stessero osservando in essa segmenti delle loro vite passate. Duac, Raederle ne fu conscia, stava di nuovo tormentandosi col pensiero del Fondatore nella dimora del Monte Erlenstar. Rood appariva invece più calmo, anche se il suo volto era inespressivo; si limitava a osservare ogni tanto deglutendo qualcosa che avrebbero potuto essere le sue lacrime nascoste.

L’arpista aveva riflettuto qualche istante sull’ultima frase, poi rispose: — No. Io sono uno sciocco. Forse ho puntato sul fatto che tu avresti ignorato il servo per inseguire il padrone. O forse contavo che malgrado tutto, anche se avevi perso il governo della terra, in te fosse rimasto qualcuno dei princìpi appresi alla Scuola degli Enigmi.

Morgon strinse i pugni, ma si trattenne ancora. — Cos’hanno a che fare gli sterili princìpi di una Scuola abbandonata con la mia vita e con la tua morte?

— Forse niente. Era soltanto una mia riflessione. Come la musica della mia arpa. Una questione astratta, che un uomo armato di spada difficilmente perde tempo a contemplare. Ma le azioni implicano dei princìpi.

— Parole!

— Forse.

— Tu eri un Maestro: le questioni astratte non ti hanno impedito di rinnegare i princìpi morali ed etici della Scuola. Li hai lasciati per l’etica del Fondatore di Lungold: il linguaggio della verità è il linguaggio del potere. Verità sul nome e sull’essenza delle cose. E hai trovato che l’essenza del tradimento era più di tuo gusto. Chi sei tu per giudicare me, se io trovo la vendetta, o il delitto, o la giustizia, o qualunque nome tu voglia metterci sopra, più di mio gusto?

— E chi può pretendere di giudicarti? Tu sei il Portatore di Stelle. Mentre mi davi la caccia attraverso Hel, Raederle ti ha scambiato per Ghisteslwchlohm.

La ragazza lo vide ritrarsi lievemente. Rood mormorò, con voce arrochita: — Morgon, princìpi o non princìpi, ti giuro che se non lo uccidi tu lo farò io.

— Come ho già detto, è una questione astratta. L’idea di giustizia di Rood è per certi versi molto più lineare. — L’osservazione di Deth suonò esausta, secca, definitiva.

Con una smorfia d’agonia che gli torceva la faccia Morgon gridò, come se glielo gridasse dalle viscere del Monte Erlenstar: — Cos’altro ti aspettavi di avere da me? — Allungò una mano nell’aria, e la grande spada stellata gli si materializzò in pugno. Ne afferrò l’elsa con la destra e con la sinistra, sollevandola in un arco lampeggiante. Raederle fremette, mentre quell’immagine le si stampava come un marchio nei pensieri: l’arpista disarmato, immobile, lo sguardo alzato a seguire il movimento dell’arma che raccoglieva gli ultimi raggi del sole, e la potenza muscolare di Morgon che rigido di furia portava la lama all’apice di quella traiettoria prima di vibrarla in un fendente terribile. Poi l’arpista riabbassò gli occhi sul volto di Morgon. Sussurrò: — A loro era stato promesso un uomo di pace.

La spada ondeggiò stranamente, gettando sulle pareti rapidi riflessi di luce rosata. L’arpista chinò la testa sotto quel micidiale bordo affilato con un movimento mite che a Raederle parve allo stesso tempo familiare e orribile nelle sue implicazioni, più spaventoso di qualunque altra cosa elle avesse visto dentro di sé o in Morgon. Dalla sua gola scaturì un gemito, una protesta contro la docilità con cui l’uomo si sottometteva, e sentì una mano di Duac afferrarla per una spalla. Ma non sarebbe stata ugualmente capace di muoversi. La luce abbandonò di colpo la lama. La spada piombò in basso con un fendente che sibilò nell’aria e risuonò come una campana sul pavimento, allorché la punta strappò una vampata di scintille azzurre dalle mattonelle. Le mani di Morgon si aprirono, lasciandola cadere al suolo, ed essa rimbalzò, fermandosi con le tre stelle rivolte in basso.

Nel salone l’unico rumore rimase l’ansito di Morgon, che gli scaturiva come veleno dai polmoni contratti. Piazzandosi le mani sui fianchi fronteggiò l’arpista, senza muoversi né dir parola. Deth fu scosso da un tremito. Stranamente, soltanto allora il suo volto si sbiancò d’improvviso. Mosse la bocca come se volesse parlare, ma la sua voce parve morire contro il furibondo silenzio di Morgon. Fece un passo indietro, verso la porta, in un movimento che era una muta domanda. Poi abbassò gli occhi a terra. Girò su se stesso, strinse i pugni e s’incamminò rapidamente fra le immobili figure dei Re, uscendo dal salone: a capo chino scese i gradini che conducevano nel cortile, e si allontanò.

Gli occhi che non vedevano affatto ciò che aveva davanti, Morgon fissò quell’assemblea di vivi e di morti. Il groviglio esplosivo dei suoi istinti, rimasto irrisolto, sembrava aleggiare nell’aria come un pericoloso incantesimo in cerca di qualcos’altro su cui abbattersi. Accanto a Rood e a Duac, Raederle non osò avvicinarlo in quell’atmosfera minacciosa, e si chiese con quali parole avrebbe potuto riportare Morgon fuori dal nero labirinto di verità spiacevoli in cui l’arpista aveva finito per lasciarlo. Sembrava non riconoscere più nessuno di loro, li fissava come avrebbe potuto fissarli uno straniero dai poteri pericolosi; ma mentre attendeva di vedere quale forma avrebbero preso quei poteri capì che essi erano già nella loro forma dentro di lui, e che egli aveva dato loro il suo nome. Lo pronunciò sottovoce, esitante, non tanto certa di conoscere l’uomo a cui apparteneva:

— Portatore di Stelle!

Lui la guardò; il silenzio in cui s’era chiuso gli scivolò via di dosso quando le sue mani si riaprirono. E il ritorno dell’espressione sul suo volto la indusse a muoversi verso di lui attraverso la sala. Sentì Rood che cominciava a dire qualcosa dietro di lei, ma la sua voce si spense in un ansito rauco, e Duac borbottò alcune parole fra sé. Si fermò di fronte al Portatore di Stelle, gli sfiorò una spalla e vide che quel tocco lo faceva riemergere dai suoi ricordi.

Sussurrò: — A chi era stato promesso un uomo di pace?

Lui ebbe un brivido quando la ragazza lo abbracciò; gettò uno sguardo al teschio che una mano di lei gli aveva poggiato su una spalla. — I bambini…

Raederle sentì il tremito di lui trasmettersi anche al suo corpo, un tremito di superstizioso timore. — I Figli dei Signori della Terra?

— I figli della pietra, in quella caverna nera… — Le strinse con forza le spalle. — Egli mi ha dato questa scelta. E io che pensavo che fosse indifeso. Avrei dovuto… ricordare con quale abilità lui sa trasformare le parole in armi mortali.

— Chi è lui? Quell’arpista?

— Non lo so. Ma so questo: voglio dargli un nome. — Per un poco tacque, col volto poggiato a quello di lei. Infine si mosse, disse qualcosa che ella non capì, e girandosi avvertì il contatto dell’osso nudo contro una guancia. Prese il teschio fra le mani. Accigliato percorse il cavo dell’orbita col polpastrello del pollice, poi tornò a fissarla. La sua voce, ancora un po’ rauca, suonò calma.

— Ti ho vista quella notte, nelle terre di Hallard Albanera. Sono stato vicino a te ogni notte, mentre scendevi attraverso An. Nessuno, né vivo né morto, avrebbe potuto toccarti. Ma tu non hai mai avuto bisogno del mio aiuto.

— Ti ho sentito — sussurrò. — Ma ho pensato… ho creduto che tu fossi…

— Lo so.

— Ebbene, allora… allora, che cosa hai pensato che io stessi cercando di fare? — La sua voce si alzò un poco. — Credevi che io intendessi proteggere Deth?

— Questo è proprio ciò che hai fatto, né più né meno.

Lei lo fissò senza parole, ripensando a tutto ciò che le era accaduto in quegli strani e interminabili giorni. Esclamò: — E tu stavi ancora con me, per proteggermi? — Lui annuì. — Morgon, io ti ho detto ciò che sono; e tu hai potuto vedere quale oscuro potere stavo risvegliando dentro di me… ne conoscevi l’origine. Tu sapevi che io sono una consanguinea degli stessi cambiaforma che hanno cercato di ucciderti, ed eri convinto che io aiutassi l’uomo che ti ha tradito… in nome di Hel perché mai avevi ancora tanta fiducia in me?

Le mani di lui, chiuse intorno alla corona d’oro del teschio, strinsero il metallo intarsiato fino a sbiancarsi. — Non lo so. Ho fatto questa scelta, allora e per sempre. E tu, per quanto tempo ancora intendi portare in giro questo teschio?

Lei scosse la testa senza parlare, e allungò una mano per prendere il teschio e ridarlo a Farr. La luce cadde sul piccolo disegno a dodici angoli che le risaltava bianco sul palmo; una mano di Morgon le afferrò bruscamente il polso.

— Questo che cos’è?

Lei resistette all’impulso di richiudere le dita su di esso. — Mi è venuto… è comparso la prima volta che ho preso in mano il fuoco. Per eludere le navi da guerra di Ymris usai una pietra trovata a Pian Bocca di Re, e feci un incantesimo di luce. Mentre ero legata ad esso, guardando dentro la pietra vidi un uomo che a sua volta la teneva in mano e la fissava, come se stesse cercando qualcosa nella sua memoria. Io quasi… io ero già sul punto di scoprire chi era. Ma proprio allora sentii la mente di una cambiaforma dentro la mia, anch’essa in cerca del suo nome, e poi il legame si spezzò. Adesso la pietra è perduta, ma… i suoi contorni mi hanno lasciato questa cicatrice sul palmo.

La mano di lui si riaprì, sostenendole il polso con una strana dolcezza. Alzò gli occhi a guardarlo; la paura che lesse sul suo volto le gelò il cuore. Lui le passò le braccia attorno e la strinse a sé con un tremito, come se temesse che svanisse dalla sua realtà in uno sbuffo di nebbia e che soltanto le sue cieche speranze potessero trattenerla ancora lì.

Un fruscio di metallo sulla pietra li fece voltare entrambi. Duac raccolse la spada stellata dal pavimento, e nel raddrizzarsi si volse a Morgon. — Cos’è quel segno sulla sua mano? — domandò, preoccupato.

Lui scosse il capo. — Non lo so. So soltanto che per un anno Ghisteslwchlohm ha frugato nella mia mente per un frammento di conoscenza, andando avanti e indietro attraverso i miei ricordi in cerca di un certo volto, e di un nome. Potrebbe trattarsi dello stesso che ha visto lei.

— Il nome di chi? — chiese Duac. Raederle, scossa dall’orrore, immerse il viso contro una spalla di Morgon.

— Non si è preso la briga di dirmelo.

— Se vogliono la pietra, possono ritrovarla da soli — disse Raederle stancamente. Lui non aveva risposto alla domanda di Duac, ma avrebbe risposto a lei, più tardi. — Nessuna ha… la cambiaforma non ha potuto sapere niente da me. Adesso è in fondo al mare, con la corona di Peven… — Rialzò la testa, volgendosi di scatto a Duac. — Io credo che nostro padre sapesse tutto del Supremo. E di… probabilmente anche di me.

— Non ne dubito. — Duac ebbe una smorfia pensosa. — Talvolta penso che sia nato sapendo già tutto. Salvo come ritrovare la strada di casa.

— E nei guai? — domandò Morgon. Duac lo fissò un attimo, sorpreso, poi scosse la testa.

— No… almeno, non credo. L’avrei sentito, se fosse così.

— Allora so io dove può essere andato. Lo ritroverò.

Rood attraversò il salone e si accostò a loro. Il suo volto era rigato di lacrime, ma esibiva la stessa altera e placida espressione che si portava dietro nei suoi anni di scuola e nelle risse da taverna. A bassa voce disse a Morgon: — Io ti aiuterò.

— Rood…

— Lui è mio padre. Tu sei il più grande Maestro del reame. E io sono un Maestro Apprendista. E possa io essere sepolto accanto a Farr di Hel se ti lascerò uscire da questa casa nello stesso modo in cui ci sei entrato: da solo!

— Non ne ha bisogno — disse Raederle.

Duac protestò con tono basso e deciso: — Rood, tu non puoi lasciarmi solo con questi Re. Non so neanche i nomi di metà di loro. Quelli che sono riusciti ad arrivare fin qui potranno esser tenuti sotto controllo per un poco, forse, ma per quanto? Aum si solleverà, e anche l’ovest di Hel. In tutta An ci sono soltanto cinque persone che non si lasceranno prendere dal panico, e tu ed io siamo in questo numero.

— Io ci sono davvero?

— Nessuno spettro — tagliò corto Morgon, — entrerà ancora in questa casa. — Soppesò il teschio fra le mani, sotto lo sguardo degli altri, e poi lo gettò a Farr. Il Re lo prese al volo senza alcun rumore, vagamente stupito, come se avesse dimenticato che cosa fosse. Morgon fronteggiò l’immobile gruppo dei fantasmi, con le mani sui fianchi. — Volete una guerra? Io posso darvene una. Una guerra fatta di disperazione, per la terra stessa. Se la perderete, state certi che vagherete come ombre lacrimevoli da un capo all’altro del reame senza mai più trovare un luogo dove riposare in pace. Quale specie di onore, sempre che i morti si preoccupino dell’onore, avete trovato facendo fuggire il toro di Cyn Croeg fino ad ammazzarlo?

— Quella è stata una vendetta — puntualizzò Farr.

— Sì, lo è stata. Ma io sigillerò questa casa su di voi pietra su pietra, se dovrò farlo. Agirò secondo come voi mi costringerete ad agire. E io non mi preoccupo molto dell’onore. — Fece una pausa, poi aggiunse lentamente: — Non ho neppure gli scrupoli che potrebbero avere i morti o i vivi di An, legati alla vostra stessa terra.

— Tu non hai nessun potere sui morti di An — intervenne Oen. Ma il suo tono era quello di una domanda. Negli occhi di Morgon apparve una luce dura come la roccia del Monte Erlenstar su cui era stato disteso.

— Io ho imparato da un maestro — disse. — Voi potete combattere le vostre battaglie prive di significato, cadute nel dimenticatoio. Oppure potete battervi contro coloro che hanno dato a Oen quel suo erede, che vogliono distruggere Anuin, ed Hel, e anche la terra a cui siete legati, se li lascerete fare. Ed è una cosa — aggiunse, — che riguarda tutti voi.

Evern il Falconiere chiese: — E che possibilità abbiamo?

— Io non so dirvelo. Forse nessuna. — Morgon strinse i pugni e mormorò: — Ma giuro sul mio nome che, se potrò, vi darò una possibilità.

Fra i vivi e i morti tornò a cadere il silenzio. Quasi con riluttanza si volse a Duac con una domanda negli occhi. Il giovane ne comprese l’essenza, grazie all’istinto che lo legava alla terra di An.

La sua voce suonò decisa: — Tu puoi fare ciò che vuoi in questa terra. Chiedimi tutto quello di cui avrai bisogno. Io non sono un Maestro, non ho compreso bene ciò che hai fatto e detto in questa dimora. Non posso neppure cominciare a capire. E non so come tu possa avere un qualche genere di potere sulle leggi della terra di An. Tu e mio padre, quando lo avrai ritrovato, potrete parlarne fra voi. Tutto ciò che so è che in me c’è un istinto che mi spinge a fidare ciecamente in te. Al di là della ragione, e al di là della speranza.

Sollevò la spada e la porse a Morgon. Le stelle rifletterono i raggi del sole al tramonto con inaspettata dolcezza. Morgon fissò Duac senza muoversi. Fece per parlare ma non ci riuscì. D’improvviso volse gli occhi sulla soglia vuota; osservandolo Raederle si chiese cosa stesse guardando oltre il cortile, oltre le mura di Anuin. Infine le dita di lui si chiusero sull’elsa stellata, e sollevò l’arma dalle mani di Duac.

— Grazie. — Sul suo volto gli altri videro sciogliersi il tormento dei ricordi, come un velo che stesse cadendo, e i lineamenti gli si distesero. Alzò l’altra mano, sfiorò il volto di Raederle e sorrise. Poi ebbe un sospiro incerto. — Io non ho niente da offrirti. Neppure la corona di Peven. Neppure la pace. Te la sentiresti di attendere il mio ritorno, come già hai atteso, ancora per un po’? Non sono in grado di dirti quanto. Dovrò passare da Hed, e poi dovrò andare a Lungold. Io cercherò di… cercherò di…

Il sorriso di lei si spense. — Morgon di Hed — disse, secca. — Se oserai fare un passo oltre quella porta senza di me, io metterò un incantesimo sul tuo secondo passo, e poi sul terzo, e su tutti gli altri, finché da qualunque parte tu voglia andare essi ti riporteranno qui dentro!

— Raederle…

— Posso farlo. Vuoi sfidarmi a provarci?

Lui tacque, lottando coi suoi desideri e con il timore che aveva per la sorte di lei. Poi sbottò: — E va bene! Vuoi aspettarmi a Hed, allora? Credo di poter fare in modo di arrivare fin là con te senza difficoltà.

— No!

— Allora preferisci…

— No!

— D’accordo. Vuoi forse…

— No!

— Allora desideri venire con me? — sussurrò lui. — Vuoi? Perché io non potrei sopportare di lasciarti.

Lei gli passò le braccia intorno al collo, e nel farlo si chiese quale strano e pericoloso futuro stesse scegliendo. Ma quando una mano di lui le scivolò dietro la schiena, stringendola stavolta senza nessuna gentilezza e con fiero atto di possesso, alzò gli occhi a fissarlo con aria di sfida. — Meglio così. Perché ti giuro, sul nome di Ylon, che tu non mi lascerai mai più!


FINE
Загрузка...