CAPITOLO SESTO

Sentì che i suoi pensieri erano invasi da altri che li sondavano con grande abilità. Questa volta, quando l’immagine che aveva visto nella pietra riapparve, estratta dalla sua memoria insieme al volto elusivo dell’uomo senza identità, non cercò di lottare. Attese, come attendeva la donna dinnanzi a lei, il lieve movimento della testa che avrebbe dato un nome a quella faccia e preparato anche la sua irrevocabile condanna. Ma lo sconosciuto sembrava congelato nell’ultima posa in cui lo aveva visto, e anche i movimenti delle cose che scivolavano verso di lui come confluendo a quel centro s’erano fermati. Infine l’immagine svanì, e la donna passò a rastrellare altri ricordi, scene nitide quanto casuali appartenenti al passato di Raederle. Lei rivide se stessa bambina, che cercava di parlare coi maiali mentre Cyone parlava con la guardiana dei porci; si vide correre attraverso i Boschi di Madir riconoscendo senza sforzo gli alberi veri e quelli illusori, mentre Rood e Duac imprecavano frustrati alle sue spalle; si rivide discutere con Mathom sulle interminabili serie di enigmi che lui le insegnava, mentre il sole dell’estate indorava le pietre ai loro piedi. La donna indugiò a lungo sui rapporti che c’erano stati fra lei e la guardiana dei porci, e sulle piccole magie in cui l’aveva addestrata. I progetti di matrimonio che Mathom aveva fatto per lei parvero confondere la donna, e così anche l’imperturbabile testardaggine che lui aveva opposto in quei giorni ai nobili di An, a Duac, a Cyone, e alla stessa Raederle allorché lei aveva capito in cosa consistesse il voto del padre. Una torre oscura e massiccia che sorgeva dalla terra di Aum, come un’altra ombra cinta dai boschi, prese forma nella sua mente. A questo punto la donna si ritrasse da lei, lasciandola libera, e Raederle si accorse che la cosa l’aveva sorpresa molto.

— Tu sei stata là, alla torre di Peven!

Raederle annuì. Il fuoco s’era spento fra le braci e stava tremando, ma più per la stanchezza che per il freddo. La donna parve fluttuare avanti come una falena verso ciò che restava della luce del focolare. I suoi occhi fissarono le braci e da esse scaturì di nuovo la fiamma, alta e bianca, che delineò sullo sfondo buio il suo volto pallido e delicato.

— Io dovevo farlo. Dovevo sapere quale marchio mio padre avesse posto sul mio nome ancor prima della mia nascita. Così andai là. Ma non potei entrare. Fu molto tempo fa, e avevo paura… — Scosse la testa, come per scacciare quei ricordi. Di nuovo si volse a fronteggiare la donna, davanti a quel fuoco stregato che si rifletteva in quegli occhi scuri e imperscrutabili. — Chi sei? Qualcosa dentro di me ti conosce.

— Ylon. — Qualcosa di simile a un sorriso le incurvò le labbra. — Noi siamo consanguinee, tu ed io.

— Lo so — rispose lei con voce atona. Il cuore le aveva accelerato le pulsazioni. — Tu hai molti consanguinei nella discendenza dei Re di An. Ma chi sei?

La donna sedette davanti al caminetto. Alzò una mano verso la fiamma in un gesto stranamente dolce e insieme infantile, e disse: — Io sono un cambiaforma. Fui io a uccidere Eriel Ymris ed a prendere le sue sembianze. Fui io ad accecare quasi Astrin Ymris. Fui io ad avvicinare il Portatore di Stelle, sebbene non fosse la sua morte ad interessarmi. A quel tempo. E non m’interessa la tua, se è questo che ti stai chiedendo.

— Me lo chiedevo, sì — sussurrò Raederle. — Cosa… allora cos’è che ti interessa?

— La risposta a un enigma.

— Quale enigma?

— Lo capirai da sola, fin troppo presto. — Tacque, con le mani in grembo e lo sguardo nel fuoco, finché anche gli occhi di Raederle scivolarono sui tizzoni ardenti mentre sedeva nella seggiola che era alle sue spalle. — È un enigma vecchio quanto le radici degli alberi più antichi, quanto il silenzio che stagna nelle caverne più profonde dell’Isig, quanto le facce di pietra dei bambini morti. È vitale, come il vento o il fuoco. Il tempo non significa niente per me, è soltanto un intervallo fra quell’enigma e la sua risposta. Tu sei stata molto vicina a darmela, su quella nave, ma nonostante i miei sforzi hai spezzato il legame che c’era fra te e quella pietra. Questo mi ha sorpreso.

— Io non… non riuscivo a spezzarlo. Ricordo che fu Lyra a colpirmi. Tu! Quella presenza nella mia mente eri tu! E l’enigma… tu vuoi dare un nome a quella faccia?

— Sì.

— E poi… che altro? Cosa accadrà?

— Tu sei una specie di esploratrice di enigmi. Perché dovrei essere io a risolverli per te?

— Questa non è una gara di enigmi. Tu stai giocando con le nostre vite!

— Le vostre vite non significano niente per me — disse la donna freddamente. — Il Portatore di Stelle e io stiamo cercando la risposta alla stessa domanda; lui uccide quando è costretto; i nostri metodi non sono diversi. Io devo trovare il Portatore di Stelle. Egli è diventato molto potente, e molto abile a eludere chi lo cerca. Avevo pensato di usare te o Tristan e di costruire una trappola per lui, ma lo lascerò andare per la sua strada per un po’. Credo di aver capito dove quella strada lo sta portando.

— Vuole uccidere Deth — disse ottusamente Raederle.

— Non sarà il primo grande arpista che egli avrà ucciso. Ma d’altro canto non osa distogliere troppo a lungo la sua attenzione da Ghisteslwchlohm. Sia Morgon che i maghi vogliono uccidere il Fondatore. I maghi hanno la loro vendetta da compiere, fin dai tempi della distruzione di Lungold. Senza dubbio essi si distruggeranno l’un con l’altro, il che non avrà importanza poiché per sette secoli non si può dire che siano stati veramente vivi. — Notò l’espressione di Raederle, intuì quel che stava per dire, e sorrise. — Nun? Un tempo la vidi, a Lungold, Nun la potente, la bella. In vita sua non avrebbe mai messo piede fra i maiali, né intrecciato canestri di paglia.

— E tu cosa stai facendo di meglio?

— Sto aspettando. — Tacque per un poco, fissando Raederle coi suoi occhi imperscrutabili. — Non sei curiosa di te stessa? Non sei curiosa di sapere quali sono in realtà i tuoi poteri? Sono poteri considerevoli.

— No.

— Io sono stata onesta con te.

Le mani di Raederle si rilassarono sui braccioli, abbassando il capo sentì ancora, alle sue parole, quello strano senso di affinità, se non addirittura di fiducia, e una consapevolezza a cui non poteva sfuggire. Amareggiata e sconfortata sussurrò: — Il sangue di Ylon è nella mia famiglia da generazioni, e per quanto ciò non sia piacevole nessuno ha mai capito che questo era qualcosa di più di una semplice favola, una delle tante forme inesplicabili in cui la magia esiste ad An. Ora io so chi era suo padre. Uno di voi. Questo mi dà una certa affinità con te. Ma nient’altro: niente della tua fredda assenza di scrupoli, niente della tua capacità di uccidere.

— Soltanto qualche nostro potere. — La donna si piegò un poco verso di lei. — Il padre di Ylon ed io, con Hereu, cercavamo di fare la stessa cosa: distruggere l’istinto del governo della terra, ad An e ad Ymris, infondendo nelle dinastie reali un po’ di sangue misto e di istinti diversi. C’era uno scopo in questo, ma la cosa fallì. La terra produce un legame troppo forte. Soltanto ad Ylon accadde di sopportare il tormento del governo della terra; i suoi poteri si dispersero nei discendenti, talora inutili, talaltra sopiti. Salvo che in te. Un giorno, forse, tu potresti riuscire a dare un nome al tuo potere, e quel nome ti sorprenderebbe. Ma non vivrai abbastanza a lungo. Tu credi di conoscere l’infelicità di Ylon. Ma non ti sei mai domandata, se noi siamo così terribili, cosa lo spinse a rompere le sbarre della sua prigione per tornare fra noi?

— No — ammise Raederle in un sussurro.

— Non la compassione ma… la passione! — Qualcosa nel suo tono sembrò aprirsi, come una crepa nella roccia dell’Isig, a rivelare un’inaspettata vena di gioielli e di segreti sepolti, ma poi richiuse la bocca con una smorfia. Abbassò una mano a sfiorare il fuoco e d’un tratto ne strappò una fiammella che le guizzò fra le dita come un passero imprigionato. Scosse la mano, facendone cadere una ragnatela di luce, un osso spolpato, uno spolverio di stelle, una conchiglia bianca come la luna. Forma dopo forma altre immagini cadevano dalle sue dita: una manciata di fiori scintillanti, un cestello intrecciato con erbe simili ad alghe marine, un’arpa dalle corde argentee e sottilissime. Nell’osservarla Raederle sentì nascere in lei un impulso, il desiderio di possedere anch’ella la conoscenza e il controllo di quel fuoco magico. Il volto della donna era chino; come dimentica di lei, intenta al suo lavoro, sembrava perdersi nella meraviglia e assaporare la bellezza di ciò che creava. Infine lasciò che le fiamme si riabbassassero sul loro letto di braci. — Io prendo il mio potere, come tu il tuo, dal cuore stesso delle cose, dalla conoscenza di ciò che esse sono. Dalla curva interna di un filo d’erba, dal pallore di una perla chiusa nel segreto di un’ostrica, dall’odore che emana da un albero. Questo ti è già familiare, vero?

— Sì. — Raederle udì la sua stessa voce come da lontano, da oltre le pareti scure della stanza. La donna continuò, in un mormorio:

— Potresti capirlo: è l’essenza stessa del fuoco. Tu hai il potere. Puoi riconoscerlo, afferrarlo, dargli forma, perfino diventare fuoco tu stessa e mescolarti alla sua grande bellezza, libera da ogni legge umana. Sei esperta di illusioni, hai creato un miraggio di fuoco solare. Adesso lavora col fuoco vero. Guardalo. Comprendilo. Non con gli occhi, né con la mente, ma col potere che hai di accettare senza paura e senza domande la cosa in se stessa. Alza una mano, allungala, tocca il fuoco!

Raederle mosse lentamente una mano. Per un momento quella balenante creatura di luce che la attirava, che aveva conosciuto per tutta la vita senza conoscerla, le parve uno degli enigmi che si ponevano ai bambini. Incuriosita fece per sfiorarla. Poi comprese che se avesse toccato quel fuoco sarebbe stato come rinnegare il suo nome, il suo stesso diritto ereditario a far parte della dinastia di An, per sostituirli con un’eredità che non conosceva la pace, con un nome che nessuno sapeva. Le sue dita, già tese alla fiamma, si chiusero bruscamente. Allora sentì il calore, la barriera bruciante del fuoco, e ritrasse subito la mano. Dalla bocca le scaturì un ansito:

— No!

— Tu potresti, se volessi. Ti basterebbe abbandonare la paura che provi per l’origine dei tuoi poteri.

— E poi che accadrebbe? — Con uno sforzo distolse lo sguardo dalla sua mano. — Perché mi dici questo? Tu cosa ci guadagni?

Qualcosa nell’espressione della donna mutò, come se nell’oscurità della sua mente la porta di un pensiero si fosse chiusa. — Nessuna ragione particolare. Ero curiosa. Di te, e del voto di tuo padre che ti ha legata al Portatore di Stelle. Mathom ha il dono della precognizione?

— Non lo so.

— Io mi attendevo l’arrivo del Portatore di Stelle, ma non il tuo. Se mai lo rivedrai avrai il coraggio di dirgli, o di lasciargli capire, che sei della stessa razza di coloro che cercano di distruggerlo? E se gli darai un figlio, gli rivelerai quale sangue avrà nelle vene?

Raederle deglutì. Aveva la gola secca, e si sentiva la pelle del volto come stirata dalla tensione. Per ritrovare la voce fu costretta a inghiottire ancora saliva. — Lui è un Maestro degli Enigmi. Non ha bisogno che cose simili gli siano dette. — D’improvviso si ritrovò in piedi, attanagliata da un’angoscia insopportabile. Volse le spalle alla donna. — In tal caso, mi avrà vinta con un enigma e mi avrà lasciata a causa di un altro! — ansimò, quasi senza sapere cosa stava dicendo. — Queste sono forse cose che riguardano te?

— Perché altrimenti sarei qui? Tu hai paura di toccare il potere lasciato a te da Ylon; dunque ricorda il suo tormento, il suo desiderio.

Una tristezza disperata salì come una marea nell’animo di Raederle, finché non vide più nulla e non sentì più nulla, salvo la sofferenza e la nostalgia che l’avevano pervasa alla vista di Pian Bocca di Re. Alle narici le giunse l’odore salmastro del mare, delle alghe secche, del ferro arrugginito nel vento marino che anche Ylon doveva aver sentito nella sua prigionia. Udì il vuoto tonfo delle onde contro la base della torre di pietra, il risucchio delle acque che si ritraevano dai denti scabri delle rocce sotto di lui. Udì i lamenti degli uccelli marini che stridevano lasciandosi portare via dal vento. E poi udì provenire da un mondo al di là della tenbra, al di là della speranza, le note di un’arpa stranamente intonate alla sua tristezza, i cui arpeggi di pianto erano anche il suo pianto. Era una musica lieve, quasi sperduta nello scrosciare della pioggia sul mare e nel respiro incessante delle onde. Sentì la sua anima smarrirsi in quell’arpa, ebbe l’impressione di muoversi verso di essa, stordita, finché s’accorse che le sue mani s’erano appoggiate ai vetri freddi, come le mani di Ylon dovevano essersi appoggiate alle sbarre della sua finestra. Con un ansito scacciò da sé la voce dell’arpa e la voce del mare, e indietreggiò lentamente. La voce della donna fu come un sussurro che si allontanava sempre più:

— Tutti noi abbiamo quell’arpa nel sangue. Morgon uccise l’arpista, il padre di Ylon. Dunque dove, in un mondo che muta così inaspettatamente, pensi di aggrapparti per cercare la sicurezza che desideri?

Il silenzio che restò nella stanza dopo l’uscita della donna fu profondo come quello che precede la tempesta. Raederle volse le spalle alla finestra e fece un passo verso la porta. Ma Lyra non avrebbe potuto aiutarla affatto, e forse non l’avrebbe neppure capita. L’assenza di rumori fu rotta da un rantolo che sentì uscire dalla sua stessa gola, e si tappò la bocca con le mani. Un volto scivolò nei suoi pensieri: il volto di uno sconosciuto adesso, magro, amaro, tormentato anch’egli. Neppure Morgon avrebbe potuto aiutarla. Ma lui aveva saputo sopportare il contatto della verità e, per quel che riguardava lei, avrebbe potuto affrontarne un’altra. Le sue mani avevano cominciato a muoversi ancora prima che se ne fosse resa conto, togliendo dalla sacca da viaggio le vesti che non le sarebbero servite. Vi rovesciò dentro la frutta, le noci e i pasticcini dei due vassoi che le erano stati lasciati sul tavolo, ripiegò sopra di essi una soffice pelliccia, quindi richiuse la sacca. Si gettò il pesante mantello sulle spalle e uscì in punta di piedi, lasciando dietro di sé come un messaggio il disordine e l’evidenza della sua assenza.

Nell’oscurità di quella vasta dimora sconosciuta non fu capace di trovare le stalle, così uscì dal cortile a piedi, e alla luce della luna scese giù dalla montagna per la strada che portava all’Ose. Dalle mappe che Corbett aveva consultato spesso sapeva che l’Ose curvava a sud per un certo tratto, dopo aver girato intorno alle pendici delle colline dietro l’Isig; avrebbe potuto seguirne il corso fin dove tornava a voltare a oriente. Nel lasciare Osterland Morgon s’era diretto a sud lungo quello stesso percorso, o così poteva arguire, sempreché intendesse recarsi a Herun. O forse, come i maghi, s’era messo sulla strada di Lungold? Ma questo non aveva importanza, rifletté, poiché la via migliore per il sud restava quella. E con la sua mente da mago all’erta contro il pericolo, forse si sarebbe accorto della presenza di lei e avrebbe cercato di raggiungerla per investigare sulla sua identità, in quelle vaste zone deserte dell’entroterra.

Trovò una vecchia carrareccia, irregolare e fangosa, che scendeva lungo il fiume, e seguì quella. Dapprima, mentre quasi fuggiva dalla dimora del Re, l’eccitazione l’aveva fatta sentire invisibile, intoccabile dalla stanchezza, dalla paura e dal freddo. Ma il fruscio eterno dell’Ose non tardò a riportarla coi piedi sulla terra, e guardandosi attorno nel buio fu scossa da brividi. La luna riempiva la stradicciola di ombre oscure; la voce del fiume copriva altre voci, suoni che non era mai veramente certa di udire, scalpiccii che potevano essere qualcosa che la seguiva o che veniva verso di lei. Gli antichi abeti con la loro corteccia rugosa, stranamente simile alla faccia di Danan, le davano un po’ di conforto. Ad un tratto sentì fra i cespugli un fruscio e il ringhio di un animale, e si fermò di botto. Due bestie lottavano nel folto. Poi la fanciulla si disse che della sua sorte non gliene importava molto, e proseguì, ma fu sollevata quando quei rumori allarmanti si dileguarono in distanza. Camminò finché la carrareccia terminò senza preavviso in una parete di rovi, e la luna ormai al tramonto le impedì di trovare un’uscita. Tolse la pelliccia dalla sacca, la distese sull’erba e vi si arrotolò dentro. Era così sfinita che si addormentò subito, ma nei suoi sogni udì il mormorio dell’Ose che faceva da sottofondo al triste canto di un’arpa marina.

Si svegliò all’alba, e i suoi occhi furono subito abbagliati dal tocco del sole. Scese al fiume per lavarsi la faccia alla meglio e bevve, quindi mangiò un poco del cibo che aveva messo nella sacca. Le dolevano le ossa; i suoi muscoli snelli protestarono a ogni movimento finché non ebbe cominciato a camminare di lena. Farsi strada lungo la riva del fiume non sembrava difficile; evitò gli agglomerati di cespugli, scalò i banchi di rocce fra cui a tratti la corrente si spezzava in brevi rapide; si tolse gli stivali e si sollevò la veste nei punti in cui era necessario scendere per un po’ nell’acqua, si ammaccò le ginocchia e si graffiò le mani ogni volta che cadde, e sentì il sole caldo batterle sul volto. Dopo il primo tratto difficoltoso perse la cognizione del tempo, ed era a tal punto intenta a misurare ogni suo movimento sulle rocce che solo più tardi, udendo un rumore alle spalle, si rese conto che qualcuno la seguiva.

Si fermò con un fremito. Vacillando in malcerto equilibrio su due sassi dimenticò la stanchezza e il mal di piedi, mentre tendeva gli orecchi girando lo sguardo qua e là. Si chinò, bevve un po’ d’acqua e guardò ancora dietro di sé. Nella pigra calura del mezzodì non si muoveva una foglia, e tuttavia ella sentiva qualcosa, captava il suo nome nella mente di qualcuno. Bevve ancora, si asciugò la bocca con una manica, e si strappò dal polsino un filo d’argento con cui fece una treccia.

Lasciò dietro di sé parecchi di quei sviluppi di filo, cospicui e intricatissimi. Usò dei lunghi steli d’erba che annodò in modo complicato; sembravano fragili all’occhio, ma ad un uomo o a un cavallo che vi fossero capitati sopra sarebbero apparsi solidi come catene. Depose un certo numero di rovi nei punti di passaggio obbligato, immaginando che l’incantesimo li avrebbe trasformati agli occhi di chi la seguiva in barriere insuperabili. Più avanti scavò al suolo una buchetta larga un palmo, ne circondò il bordo con alcune foglie e poi la riempì d’acqua con le mani. Rifletteva l’azzurro del cielo come un occhio aperto nel terreno, null’altro che una buchetta, ma capace di diventare il miraggio di un lago dinnanzi a chi si fosse fermato sulla sua riva.

L’allarmante sensazione d’essere seguita cominciò a sfumare, e si disse che l’uomo doveva esser finito in qualcuna delle sue trappole. Allora si permise di rallentare il passo. Era ormai tardo pomeriggio, e il sole si abbassava sulle cime piatte dei pini. Il vento fresco della sera cominciò a levarsi fra le piante. Portava con sé l’odore della solitudine e della desolazione dell’entroterra. Gettò uno sguardo alla lunga teoria di giorni e di notti che si prospettavano dinnanzi a lei, al viaggio faticoso attraverso lande disabitate, quasi impossibile per chi osasse affrontarlo senz’armi e a piedi. Ma dietro di sé lasciava il Passo Isig coi suoi segreti oscuri e inesplorabili; e ad An non c’era nessuno, neppure suo padre, da cui avrebbe potuto avere un grammo di conoscenza. Poteva solo sperare che la sua cieca necessità avrebbe finito per inciampare da sola su ciò che poteva soddisfarla. Fu scossa da un brivido, non per il vento, ma al vuoto fruscio del suo passaggio, e riprese il cammino. Il sole tramontò, accarezzando gli alberi con le sue ultime dita di luce purpurea; il crepuscolo scese su un mondo fatto di silenzio irreale. La fanciulla continuò a procedere, senza pensare, senza fermarsi a mangiare, e senza capire che stava oltrepassando il limite sottile della sua resistenza fisica. Si alzò la luna; il suo lento progredire ipnotico al di sopra di cose che non poteva vedere cominciò a rallentare i suoi passi. Ad un tratto cadde, in apparenza senza alcun motivo, e quando cercò di rialzarsi fu sorpresa di scoprire quanto le era difficile. Pochi passi più avanti tornò a cadere, e ne provò lo stesso ottuso stupore. Mentre si tirava in piedi sentì il sangue caldo lungo i ginocchi, e vacillando finì con una mano fra le spine. Restò lì, stringendosi la mano sotto un’ascella, e si chiese perché il suo corpo stesse tremando, visto che l’aria della notte non era fredda. Fu allora che vide, come un sogno divenuto realtà, il rosseggiare di un piccolo fuoco che brillava fra gli alberi. Quando si fu avvicinata scoprì che l’uomo seduto nell’alone della fiamma era l’arpista del Supremo.

Per un momento, immobile nella penombra rosata, fu soltanto capace di pensare che non era Morgon. L’uomo sedeva con le spalle appoggiate a un macigno, a capo chino, il volto nascosto dai capelli argentati. Poi sollevò la testa e si accorse della sua presenza.

Lei sentì il suo ansito: — Raederle?…

La ragazza fece un passo indietro, e lui ebbe un movimento brusco come fosse sul punto di alzarsi e fermarla prima che svanisse di nuovo nell’oscurità. Poi l’uomo si controllò, e con deliberata calma si riappoggiò con le spalle alla roccia. Sul suo volto c’era un’espressione che non gli aveva mai visto prima, e che la costrinse a indugiare oltre la portata della luce. Lui ebbe un gesto d’invito verso il fuoco e la lepre infilata in uno spiedo sopra di esso.

— Sembri stanca; riposati un poco. — Girò lo spiedo, e un profumo di carne arrosto aleggiò nell’aria fino a lei. L’uomo aveva i capelli spettinati, il suo volto appariva smagrito, segnato, stranamente comunicativo. La voce, musicale e velata d’ironia, non era cambiata.

Lei mormorò: — Morgon ha detto che tu… tu suonavi l’arpa, mentre lui languiva mezzo morto in potere di Ghisteslwchlohm.

Vide un muscolo contrarsi sul suo volto. L’uomo allungò una mano a cercare un paio di rametti e li gettò sul fuoco. — È vero. Riceverò la ricompensa che mi spetta, per quella musica. Ma badiamo a noi: vuoi qualcosa da mangiare? Io sono condannato, e tu sei affamata. Sono questioni che hanno poco a che fare l’una con l’altra, dunque non c’è motivo che tu non possa mangiare con me.

Fece un altro passo, questa volta verso di lui. Benché si sentisse scrutata l’espressione dell’arpista non cambiava, così la giovane donna osò muovere ancora un passo. Lui tolse un boccale dalla sacca, lo riempì di vino con una borraccia di pelle. Infine lei si decise ad accostarsi e protese le mani verso il fuoco. Sentì una fitta di dolore; se le guardò e le vide più segnate dai rovi e dalle spine di quanto avrebbe creduto, lui disse: — Ho dell’acqua… — Lei si volse e lo vide raccogliere una ciotola, in cui versò dell’acqua da un piccolo otre floscio. Le sue dita ebbero un tremito mentre richiudeva il tappo, e non disse altro. La ragazza sedette e si lavò via la polvere e il sangue dalle mani. Sempre in silenzio lui le passò il boccale, il pane e la carne, e guardandola mangiare si limitò a sorseggiare il suo vino.

Poi disse, con voce così lieve che lei non trasalì neppure: — Mi sarei potuto aspettare che a comparire di notte presso il mio fuoco fosse Morgon, o uno qualsiasi dei cinque maghi, ma ben difficilmente la seconda donna più bella della lontana An.

Lei si contemplò distrattamente le mani e le ginocchia. — Non sono più molto all’altezza di questo titolo. — Un attimo di sofferenza la costrinse a deglutire saliva. Abbassò la ciotola di carne e sussurrò: — Anch’io ho cambiato forma. E anche tu.

— Io sono sempre stato me stesso.

Lei osservò quel volto fine, elusivo, trovandovi l’insolita ombra di un sorrisetto scherzoso. Allora chiese, benché sia le domande che le risposte le apparissero remote, addirittura impersonali: — E il Supremo? Per chi hai suonato la tua arpa in questi lunghi secoli?

Lui si piegò in avanti così bruscamente da far oscillare il fuoco. — Sai quali domande formulare, dunque conosci le risposte. Il passato è passato. Io non ho alcun futuro.

Lei si schiarì la gola. — Perché? Perché hai tradito il Portatore di Stelle?

— È una gara di enigmi, questa? Ti darò risposta per risposta.

— No. Non c’è nessuna gara.

Fra loro cadde ancora il silenzio. La giovane bevve, e mentre il vino e il calore del fuoco riportavano la vita nelle sue membra avvertì il dolore dei graffi e delle contusioni. Quando il suo boccale fu vuoto lui glielo riempì di nuovo. Per qualche motivo, forse perché entrambi sedevano avvolti in un alone di tristezza, si sentì più a suo agio e infine mormorò: — Lui ha già ucciso un arpista.

— Cosa?

— Morgon. — Strinse le spalle, come per scacciare il brivido che al ricordo di quella oscura nostalgia l’aveva pervasa. — Il padre di Ylon. Morgon ha ucciso il padre di Ylon.

— Ylon — ripeté lui in tono strano, costringendola a fissarlo sorpresa. Poi ebbe una risata, stringendo forte il boccale fra le dita. — Così è stato questo a spingerti fuori nella notte. E tu credi che, in mezzo a questo caos, la cosa abbia qualche importanza?

— Ha importanza! Io ho ereditato un potere dai cambiaforma… posso sentirlo! Se toccassi il fuoco, potrei prenderlo e tenerlo chiuso nella mia mano. Guarda… — Qualcosa, il vino, la disperazione, l’indifferenza di lui, la rese avventata. Allungò una mano, curvandola in una lenta carezza sopra un’ardente lingua di fiamma. Il fuoco si rifletteva negli occhi di Deth, la luce si spezzava nelle linee e nelle cavità del macigno alle sue spalle, si allargava a sciogliere gli intrecci dei rami che il buio aveva annodato in una massa amorfa. Lasciò che i bagliori del fuoco penetrassero nei suoi pensieri, riempiendoli di colore e di movimento, saturandoli col suo svanire e rinascere di guizzi che erano fatti di niente e di mistero. Il fuoco era una creatura aliena che divorava le tenebre e se ne nutriva, mai sazio, mai uguale a se stesso. Il suo linguaggio era più antico della storia degli uomini. Era un cambiaforma, e mentre lo guardava le scivolava nella mente brancolando alla ricerca di una forma, abbacinandole le pupille finché tutto ciò che si vide intorno fu fuoco: fuoco le pietre, fuoco gli alberi, fuoco le foglie che scintillavano come lacrime di luce sul terreno di fuoco. E dal profondo della sua anima, scaturendo dal segreto di un’eredità inumana addormentata in lei, balzò fuori la viva consapevolezza di una conoscenza occulta. La sfavillante realtà senza parole che era la pura nozione del fuoco la pervase; il suo morbido crepitio divenne un linguaggio, il suo incessante ondeggiare uno scopo, il suo colore il colore del mondo, il colore della sua mente. Toccò la fiamma, allora, e la sollevò sul palmo della mano come un fiore. — Guarda!… — ansimò. E chiuse le dita intorno ad essa per estinguerla, prima che la sua stessa meraviglia spezzasse il legame che era nato fra loro e le separasse, e la fiamma ferisse la sua carne. La notte ricadde più intensa attorno a loro quando il piccolo fiore di fuoco morì. Vide il volto di Deth rigido e imperscrutabile. Poi l’uomo mosse appena le labbra.

— Un altro enigma — sussurrò.

La fanciulla si sfregò le mani contro le ginocchia, perché malgrado ogni sua attenzione s’era un po’ scottata. Un refolo d’aria fredda proveniente dalle montagne le sfiorò il volto e le schiarì la riente; rabbrividì a un altro ricordo improvviso e disse: — Lei voleva che io prendessi in mano il fuoco, il suo fuoco…

— Lei chi?

— La donna. La donna bruna che fu Eriel Ymris per cinque anni. È venuta a dirmi che siamo della stessa razza, ma io l’avevo già capito.

— Mathom ti ha istruita bene — commentò lui. — Ti ha istruita per fare di te la sposa di un Maestro degli Enigmi.

— Tu eri un Maestro. Lo hai detto a lui, una volta. Sono proprio tanto brava con gli enigmi? Ma a cosa portano, se non alla tristezza e ai tradimenti? Guardati. Tu non hai soltanto tradito Morgon, ma anche mio padre e chiunque altro nel reame aveva fiducia in te. E guarda me. Quale nobile di An sprecherebbe un’oncia di fiato per chiedermi in sposa, se sapesse quale creatura mi ha riconosciuto sua consanguinea?

— Tu stai fuggendo da te stessa, e io sto fuggendo dalla morte. È troppo, per mantenere ancora i principi etici richiesti a un Maestro. Solo un uomo con il cuore e la mente implacabili, freddi come i gioielli sepolti nelle viscere dell’Isig, potrebbe aderire ad essi. E sul valore degli enigmi io presi le mie decisioni cinque secoli fa, quando Ghisteslwchlohm mi convocò al Monte Erlenstar. Pensavo che nulla nel reame avrebbe potuto contrastare il suo potere. Ma ero in errore. Egli si è spezzato i denti contro i rigidi principi etici del Portatore di Stelle, ed è fuggito, lasciandomi solo, senza protezione, senza arpa…

— Dov’è la tua arpa? — domandò lei, stupita.

— Non lo so. Ancora al Monte Erlenstar, presumo. Ora non ho il coraggio di suonarla. È stata l’unica cosa che Morgon ha udito, oltre alla voce di Ghisteslwchlohm, per un anno.

La fanciulla provò la tentazione di alzarsi e fuggire via da lui, ma il suo corpo non volle saperne di muoversi. Quasi in un singhiozzo disse: — La tua musica era un dono per i Re! — Lui non rispose, sollevò il boccale rigirandolo fra le dita e il fuoco ne strappò alcuni riflessi. Quando parlò fu in un sussurro.

— Io ho suonato per la rovina di un Maestro; egli si prenderà la sua vendetta. Ma rimpiango la perdita della mia arpa.

— Come Morgon rimpiange la perdita del governo della terra? — La voce di lei tremava. — Questo m’incuriosisce. Come ha potuto Ghisteslwchlohm strappare da lui quell’istinto… quel legame con la terra, che era noto soltanto a Morgon stesso e al Supremo? Quale frammento di conoscenza il Fondatore si aspettava di trovare, in mezzo alle nozioni di quando l’orzo comincia a germogliare, o di quale albero del frutteto nasconde una malattia nelle radici?

— È cosa fatta. Lascia perdere…

— E come posso? Credevi di tradire soltanto Morgon? — Tu mi hai insegnato a suonare sul flauto «L’amore di Passero e Allodola» quando avevo nove anni. Stavi dietro di me e aiutavi le mie dita di bambina a muoversi sullo strumento. Ma questo è ancora nulla, in confronto a ciò che proveranno i regnanti di tutto il reame, quando ripenseranno agli onori che hanno concesso all’arpista di Ghisteslwchlohm. Hai ferito Lyra, ma cosa proverà la Morgol quando Morgon le racconterà ciò che hai fatto? Tu… — La donna tacque. Deth non s’era mosso, sedeva nella stessa posizione in cui lo aveva trovato li, con la testa china e una mano su un ginocchio, il boccale stretto fra le dita. Lei sentì che in qualche modo l’angoscia che le stava riempiendo l’anima la intorpidiva. Sollevò la testa, annusò l’aria fredda gravida d’odore di pino che spirava dalla parte dell’Isig, si accorse che la notte creava troppe ombre anche dentro di lei. Era lì, rifletté, seduta davanti a un focherello, perduta in quell’immensa tenebra, coi vestiti laceri, i capelli sporchi e spettinati, la faccia graffiata, così malridotta che probabilmente nessun nobile di An l’avrebbe riconosciuta. Aveva messo una mano nel fuoco e lo aveva tenuto fra le dita; qualcosa del suo splendore sembrava ancora bruciarle nella mente. In un sussurro chiese: — Pronuncia il mio nome.

— Raederle.

Anch’ella chinò la testa. Per un poco cercò di rilassarsi, mentre il nome pulsava dentro di lei al ritmo dei battiti del cuore. Infine trasse un profondo respiro. — Sì. Quella donna per poco non me lo ha fatto dimenticare. Sono fuggita da Isig nel mezzo della notte, per cercare Morgon qui nell’entroterra. Sembra sciocco, non è vero, che sperassi di trovarlo in questo modo.

— Un poco.

— E nella dimora di Danan nessun sa se sono viva o morta. Sembra un’azione sconsiderata. Ho dimenticato che, pur avendo i poteri di Ylon, ho tuttavia ancora il mio nome. Quello, da solo, è un potere molto grande. Il potere di vedere…

— Sì. — Finalmente lui sollevò la testa, parve sul punto di portarsi il boccale alle labbra ma poi lo appoggiò con cautela sul terreno. Il sorrisetto ironico non aleggiava più sul suo volto. Vedendola stringersi le ginocchia sul petto disse: — Tu hai freddo. Prendi il mio mantello.

— No.

Un angolo della bocca di lui ebbe un fremito, ma mormorò soltanto: — Cosa sta facendo Lyra sul Monte Isig?

— Eravamo venute per porre al Supremo alcune domande, Lyra, Tristan di Hed e io, ma Danan ci ha detto che Morgon era vivo, e che non era consigliabile che qualcuno valicasse il Passo. Per ore e ore mi sono domandata il perché di questo. E poi, per un giorno e una notte, non ho fatto che pensare a un’altra domanda. Ma non c’è nessuno che possa rispondere, a parte Morgon e te.

— Pensi di poterti fidare della mia risposta?

Lei annuì stancamente. — Io non riesco a capirti più. Il tuo volto sembra cambiare forma ogni volta che ti guardo; ora è quello di uno sconosciuto, ora una faccia che esce dai miei ricordi… Ma chiunque tu sia, tu conosci forse meglio di ogni altro ciò che sta accadendo nel reame. Se Ghisteslwchlohm ha preso il posto del Supremo al Monte Erlenstar, allora dov’è il Supremo? Qualcuno continua a mantenere l’ordine nel reame, questo è chiaro.

— Vero. — Tacque un poco, con una strana piega dura sulle labbra. — Io feci la stessa domanda a Ghisteslwchlohm cinque secoli fa. Lui non seppe rispondermi, cosicché persi interesse alla questione. Adesso, con la morte che mi pende sulla testa, la mia curiosità è ancora minore. Comunque il Supremo, sia dove sia, non pare occuparsi per niente dei problemi del reame.

— Forse non è mai esistito. Forse è una leggenda nata dai misteri della città in rovina, e trasmessa attraverso i secoli finché Ghisteslwchlohm non le ha dato una forma più concreta.

— Una leggenda come quella di Ylon? Talvolta le leggende hanno un modo spiacevole di trasformarsi in verità.

— Allora perché non ti ha impedito di spacciarti per il suo arpista? Dovrebbe esserne stato al corrente di certo.

— Io non lo so. Non c’è dubbio che abbia le sue ragioni. Se la morte mi verrà da lui oppure da Morgon, farà poca differenza. Il risultato non cambierà.

— Non c’è un posto dove tu possa andare? — chiese lei, sorprendendo se stessa quanto lui. Deth scosse il capo.

— Morgon mi precluderà l’accesso a ogni angolo del reame. Anche a Herun. Comunque là non andrei mai, in nessun caso. Sono già stato scacciato da Osterland, tre notti fa, quando mi hanno fatto passare l’Ose. Il Lupo-Re ha parlato ai suoi lupi… un branco di essi mi ha scoperto accampato in una zona remota della sua terra. Non mi hanno toccato, ma mi hanno fatto capire che non ero il benvenuto. Quando la cosa si risaprà a Ymris, sarà lo stesso anche là. E ad An… Il Portatore di Stelle mi costringerà ad andare dove vuole che io vada. Ho visto lo squarcio che ha aperto nella dimora del Supremo, quando infine è riuscito a liberarsi… a vederlo, sembrava che il Monte Erlenstar fosse troppo piccolo per trattenerlo dentro di sé. Prima di andarsene si è fermato a strappare le corde della mia arpa. Io non contesto l’opinione che ha di me, ma… quella è stata la sola cosa della mia vita che ho saputo far bene.

— No — sussurrò lei. — Sono molte le cose che hai fatto bene. Pericolosamente bene. Non c’era un uomo, né una donna né un bambino in tutto il reame che non si fidasse di te. Questo lo hai fatto bene. Tanto bene che io sono ancora qui a sedere con te, e parlo con te, anche dopo che tu hai fatto del male a uno che io amo più della vita. E non ne capisco il perché.

— No? È semplicemente perché, da soli in questa desolazione sotto un cielo nero come l’interno della tomba di un Re, non ci resta niente salvo la nostra onestà. E i nostri nomi. Nel tuo c’è una grande ricchezza — aggiunse con un sospiro. — Nel mio non c’è un filo di speranza.

Dopo un poco Raederle si addormentò accanto al fuoco, e l’uomo continuò a bere in silenzio e ad alimentare le braci. Quando la ragazza si svegliò, a mattino inoltrato, Deth era andato via. Sentendo fruscii e voci fra i cespugli trasalì, e spaventata si tolse di dosso il mantello che la copriva. Poi si controllò, si sedette. Soltanto allora le accadde di guardarsi la mano, quella dove aveva tenuto l’ardore del fuoco la notte prima. Sul palmo, bianche come cicatrici, c’erano le sfaccettature e l’impronta a dodici lati della pietra che Astrin le aveva dato a Pian Bocca di Re.

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