CAPITOLO NONO

All’alba partì da Caithnard a cavallo, e per un giorno e mezzo viaggiò nell’immensa foresta di querce che costituiva il confine settentrionale di Hel, sforzandosi come mai aveva fatto prima di tendere tutti i poteri e tutta la consapevolezza della sua mente. Sin da quando era penetrata nella boscaglia aveva sentito la presenza di qualcosa che si muoveva molto più avanti, qualcosa d’indistinguibile, qualcosa che sembrava avere un impellente bisogno di rapidità e di segretezza. E la seconda notte, sveglia e all’erta nel buio, le era parso di vedere per un terribile istante quella che poteva essere la forma di un’enorme bestia sollevarsi nel chiarore lunare; una potente, inarrestabile e rabbiosa mente focalizzata su un singolo pensiero di distruzione.

Il giorno dopo, a meridione della foresta, si fermò a guardare le vaste terre di Hallard Albanera, e si chiese quale forma Morgon avesse assunto per attraversarle. I pascoli digradavano pian piano verso il fiume che scorreva accanto alla dimora del Nobile, e all’apparenza sembravano un’oasi di tranquillità, ma su di essi non si vedeva neppure un animale. In lontananza poteva udire una muta di segugi che abbaiavano, in un coro rauco e funereo, selvaggio e interminabile. Nei campi dietro la casa non c’era neppure un contadino al lavoro, e questo non la sorprese. Quell’angolo di Hel era stato l’ultimo campo di battaglia nelle ormai quasi dimenticate guerre fra Hel e An; aveva dato sostegno ai suoi soldati in un’interminabile serie di scontri feroci e disperati, finché Oen di An, risalendo a marce forzate da Aum sei secoli addietro, aveva quasi sprezzantemente travolto gli ultimi capisaldi della resistenza e fatto decapitare l’ultimo Re di Hel, che aveva trovato rifugio proprio lì. Da allora storie e leggende avevano tormentato quella terra; un acquazzone poteva ancora disseppellire un’antica spada corrosa dalla ruggine, o il manico spezzato di una lancia inanellato d’oro. In tanti secoli il Re Farr di Hel, privo della testa, aveva avuto tutto l’agio di ponderare sui lutti che aveva subito e, libero alfine dalla terra, non ci avrebbe messo molto tempo per tirar fuori le sue ossa dai campi di Hallard. Il caos di voci che Raederle aveva udito due notti prima s’era smorzato in una spaventosa quiete: la morte era libera, vigile, e occupata a tessere i suoi piani.

Mentre attraversava a cavallo i pascoli più alti di Hallard vide un gruppo di cavalieri uscire dalla boscaglia, portandosi sulla stradicciola che lei seguiva. Col batticuore tirò le redini, e poi riconobbe la bruna e muscolosa figura di Hallard Albanera, che torreggiava sui suoi uomini. Erano armati, ma privi d’armatura, e le loro teste nude e le leggere spade che portavano al fianco davano un’impressione di provvisorietà. La ragazza poté avvertire la loro esasperazione e la loro scarsa sicurezza di sé. Quando Hallard girò la testa e la vide, da lontano, riuscì a sentire il sobbalzo che ci fu nei suoi pensieri, e fra essi balenare il nome di lei.

Strinse le redini senza saper che fare, benché l’uomo avesse messo il cavallo al galoppo su per il pendio verso di lei. Non aveva il minimo desiderio di mettersi a discutere con lui; e tuttavia, rifletté, aveva bisogno di notizie. Restò immobile, e da lì a poco l’uomo arrestò bruscamente il cavallo dinnanzi a lei; era massiccio, abbronzato, e grondava di sudore nell’afa di quel pomeriggio silenzioso. Per un attimo parve stentare a trovare le parole, quindi esclamò: — Qualcuno dovrebbe scorticare quel comandante di nave. Dopo averti portata fino a Isig, adesso ti lascia partire da Caithnard senza scorta, da sola in questa terra, con quello che sta succedendo! Hai avuto notizie di tuo padre?

Lei scosse la testa. — Niente. Va tanto male?

— Va malissimo. — L’uomo socchiuse le palpebre. — I miei segugi stanno seguendo non so che pista da due giorni interi. Metà del mio bestiame è sparito; i miei campi di grano sembra che siano stati arati con macine da mulino; e gli antichi sepolcri nei campi meridionali sono stati appiattiti sul terreno da qualcosa che non è umano. — La fissò con occhi arrossati dalla mancanza di sonno. — Io non so cosa stia succedendo nel resto di An. Ieri ho mandato un messaggero nell’est di Aum, da Cyn Croeg. Non è riuscito neanche ad attraversare il confine; è tornato balbettando qualcosa su alberi che sussurrano. Ne ho mandato un altro ad Anuin; non so se ci sia arrivato. Ma anche se fosse così, che può fare Duac? Che si può fare contro la morte? — Alzò gli occhi al cielo, come aspettandosi una risposta, poi scosse il capo. — Maledizione a tuo padre! — sbottò, rudemente. — Dovrà combattere le guerre di Aum un’altra volta, se non torna coi piedi sulla terra. La sua autorità regale, il suo governo della terra… lo strapperei via da queste zolle con le mie mani, se sapessi come fare!

— Ebbene — disse lei. — Forse questo è proprio ciò che loro vogliono. I Re morti. Hai già visto qualcuno di loro?

— No. Ma so che sono qua fuori, da qualche parte. E meditano qualcosa. — Accennò alla striscia di boscaglia oltre i pascoli. — In nome di Hel, cosa vogliono fare col mio bestiame? I denti di quei Re sono sparsi per tutti i miei campi. Il teschio di Re Farr ha sogghignato sopra il caminetto del mio salone per dei secoli; dovrà scrostare parecchia fuliggine da quelle mandibole, se vorrà mangiare la carne dei miei vitelli!

Gli occhi di lei abbandonarono i boschi per fissarsi di colpo sul viso di Hallard. — Il suo teschio? — Nella mente le si accese il barlume di un’idea. Hallard annuì stancamente.

— Così si suppone. Un ribelle sfegatato rubò la sua testa dalla dimora di Oen, secondo quella vecchia storia, dopo che Oen l’aveva incoronata e conficcata sulla cima di una picca, che teneva nel salone da pranzo. Anni dopo in qualche modo la testa arrivò da queste parti, con ancora la corona incastrata sul nudo osso del teschio. Mag Albanera, il cui padre era morto in quella guerra, era ancora abbastanza incarognito per vedere in essa un emblema di battaglia, così la fissò, corona e tutto, sopra il grande caminetto. Nessuno l’ha toccata per secoli, tanto che l’oro e l’osso sembrano diventati una cosa sola, inseparabili. Ma io non l’ho levata da lì. Ed è per questo che non capisco — aggiunse, acremente, — perché loro stanno tormentando la mia terra. Sono i miei antenati!

— Qui vennero ammazzati anche molti nobili di An — gli ricordò lei. — Forse c’erano solo loro nei tuoi campi di grano. Hallard, io voglio quel teschio.

— Tu vuoi cosa?

— Il teschio di Farr. Lo voglio.

L’uomo la fissò, e nella durezza del suo sguardo lesse lo sforzo che stava facendo per cercare parole adatte a rimetterla al suo posto. — E perché?

— Tu dammelo.

— In nome di Hel, e per farne cosa? — sbottò lui. Poi cercò di calmarsi. — Scusa, ma… il fatto è che stai cominciando a parlare proprio come tuo padre. E lui ha il dono di farmi uscire dai gangheri. Adesso guardiamo di comportarci da persone razionali e…

— In vita mia non ho mai avuto tanta poca voglia di essere razionale. Voglio quel teschio. Voglio che tu vada a casa tua, e che lo stacchi dal muro senza danneggiarlo, e che poi lo avvolga in un panno di velluto, e che poi me lo…

— Velluto! — esplose lui. — Sei impazzita?

Lei si girò quell’ipotesi nella mente per una frazione di secondo, poi urlò di rimando: — Forse! Ma non me ne importa niente! Sì, velluto! A te piacerebbe vedere il tuo teschio avvolto in lurida tela da sacchi?

Il cavallo di lui s’impennò, come se per il nervosismo gli avesse dato un inutile colpo di sprone. La ragazza lo sentì imprecare sordamente. Quando Hallard ebbe placato l’animale le si fece accanto, allungò una mano e la afferrò per un polso. — Raederle! — quasi per rammentare a entrambi il suo nome. — Si può sapere cosa intendi fartene!

La ragazza deglutì. Nel ripensare a quel che s’era proposta aveva avuto un groppo in gola. — Hallard, il Portatore di Stelle sta attraversando le tue terre…

L’altro ebbe un ansito incredulo. — Adesso?

Lei annuì. — E dietro di lui… o dietro di me, c’è qualcosa che lo sta seguendo… forse il Fondatore di Lungold. Io non posso proteggere Morgon da lui. Però c’è la possibilità che io riesca a trattenere coloro che vogliono la distruzione di An.

— Con un teschio?

— Vuoi smetterla di gridare a questo modo?

L’uomo si passò le mani sulla faccia. — Per le ossa di Madir! Il Portatore di Stelle può benissimo badare a se stesso.

— Perfino lui potrebbe esser messo in difficoltà dalla presenza contemporanea del Fondatore e delle forze di An che si sono scatenate. — La voce di lei ritrovò sicurezza. — Lui sta andando ad Anuin. Io desidero che ci arrivi salvo. E se…

— No!

— E se tu non…

— No, ho detto. — La testa di lui continuava a muoversi a destra e a sinistra. — No.

— Hallard! — Lei lo fissò intensamente. — Se tu non mi consegni subito quel teschio, io getterò sulla soglia della tua casa una maledizione, a causa della quale nessun tuo amico potrà oltrepassarla mai più. Maledirò i cancelli dei recinti e le porte delle stalle, affinché nessuno possa mai più chiuderle. Maledirò le torce della tua casa, ed esse non si accenderanno più. E maledirò il tuo focolare, cosicché nessuno che si trovi sotto le orbite cave del teschio di Farr possa mai sentire il suo calore. Questo te lo giuro sul mio nome. Se non mi dai quel teschio io stessa solleverò le forze che vogliono distruggere An, le scatenerò qui sulla tua terra, e i Re morti di An dichiareranno guerra ai Re morti di Hel affrontandoli qui sopra i tuoi campi. Te lo giuro. Se tu non…

— E va bene!

Il grido di lui echeggiò, furibondo e disperato, sull’intero vastissimo pendio erboso. Sotto l’abbronzatura la pelle gli si era sbiancata. La fissò ansando, mentre gli uccelli spaventati si levavano in volo dalla vicina boscaglia ed i suoi uomini si agitavano nervosamente in fondo al pascolo. — Va bene! — ripeté in un sussurro. — Perché no? La terra di An è immersa nel caos, perché tu non dovresti dunque cavalcare qua e là col teschio di un Re morto fra le mani? Ma, donna, io spero che tu sappia cosa stai facendo, perché se ti dovessero uccidere la tua morte getterebbe davvero una maledizione di colpa e di dolore sulla soglia della mia casa, e non ci sarebbe focolare dentro di essa che potrebbe scaldare le mie ossa finché vivrò. — Fece girare il cavallo senza attendere la sua risposta. Lei lo seguì lungo i campi, e poi attraverso il fiume fino al portone della sua grande dimora, conscia che le pulsazioni del suo cuore, fredde e rapide, erano come i passi di un animale spaventato.

Attese senza scendere di sella, mentre l’uomo spariva nell’interno. Attraverso l’arcata di pietra poté vedere che il vasto cortile era vuoto. Perfino il fuoco nella bottega del fabbro era spento; non c’erano animali da cortile, non un bambino che giocava fra le ceste e i carretti; il solo rumore continuava ad essere l’incessante abbaiare della lontana muta di segugi. Hallard riapparve camminando a passi lunghi, con un oggetto tondeggiante avvolto in una lunga pezza di elegante velluto rosso. Glielo consegnò senza pronunciar parola. Lei svolse un lembo del tessuto, gettò una rapida occhiata a quel macabro reperto biancastro e all’oggetto d’oro che sembrava incuneato in esso, e poi disse: — C’è ancora un’altra cosa che desidero.

— Che succederà, se quella lì non è la sua testa? — la interrogò lui. — Si raccontano tante favole, e a quei tempi gli inganni si sprecavano.

— Sarà meglio che sia la sua — sussurrò. — Ho bisogno d’una collana di perle di vetro. Puoi trovarmene una?

— Perle di vetro! — L’uomo si coprì gli occhi con una mano ed emise un mugolio simile a quelli dei segugi. Poi si volse bruscamente e tornò in casa. Stavolta restò assente più a lungo, e quando riapparve la sua espressione era ancor più infastidita e disgustata. Da un dito gli penzolava una semplice collanina a un sol giro di perline biancastre, del tipo che i mercanti regalavano alle ragazzotte e alle mogli dei contadini per ingraziarsi i campagnoli. Gliela fece oscillare davanti al viso. — Farà un bell’effetto sulle ossa di Farr! — borbottò. Poi, mentre lei allungava una mano per prenderla, la afferrò per il polso. — Fammi un favore — mormorò. — Io ti ho dato il teschio. Adesso vieni in casa mia, e resta fuori da ogni pericolo. Io non posso lasciarti cavalcare da sola attraverso Hel. In questo momento tutto sembra calmo, ma quando cala la notte non c’è uomo che non tremi dietro la sua porta sbarrata. Là fuori, nelle tenebre, tu saresti sola col nome che porti contro tutto l’odio scatenato degli antichi nobili di Hel. E i ridicoli poteri che puoi aver ereditato non basteranno a difenderti. Te lo chiedo per favore.

Lei si divincolò dalla sua stretta, fece indietreggiare il cavallo. — In tal caso metterò alla prova i poteri che mi vengono da un’altra eredità. E se non dovessi tornare indietro, non importerà nulla.

— Raederle!

La ragazza ebbe l’impressione che il suo nome echeggiasse per tutte le terre di lui, vibrando fin nelle profondità dei boschi e nei più segreti nascondigli. Spronò via il cavallo al galoppo, per allontanarsi dalla casa prima che lui avesse il tempo d’inseguirla. Scese fino al fiume che aggirava i campi meridionali, dove il grano ancora verde appariva schiacciato al suolo e sconvolto, e si trovò di fronte le vecchie tombe degli antenati di Hallard, tumuli erbosi dalle porte di pietra affondate nel terreno, che adesso si mostravano devastati e squarciati come gusci d’uovo. Con un colpo di redini arrestò il cavallo dinnanzi a quello spettacolo. In quelle fosse di nera terra rivoltata erano visibili fondazioni e pareti semidistrutte, e il pallido luccichio di ricche armi antiche che nessun uomo vivente avrebbe osato toccare. Girò lo sguardo attorno. I boschi erano un sipario immobile; il cielo estivo si stendeva azzurro e tranquillo su tutta An, salvo ad occidente dove una fila di nubi si addensava scura sulla foresta di querce. Fece girare ancora il cavallo e spinse lo sguardo sull’immensità dei campi sussurranti. A bassa voce disse nel vento: — Farr, io ho la tua testa. Se la vuoi, per deporla col resto delle tue ossa sotto la terra di Hel, allora vieni a prenderla!

Trascorse il resto del pomeriggio raccogliendo legna, sul bordo della boscaglia a poca distanza dai sepolcri. Mentre il sole scendeva sotto l’orizzonte accese il fuoco, e poi tolse il cranio dall’involto di velluto. Era ingiallito dai secoli e dalla fuliggine, e la corona d’oro che qualcuno vi aveva calcato attorno sembrava inchiodata alla fronte e all’occipite. I denti, notò, erano intatti nella stretta delle mandibole chiuse ermeticamente. Pur vuote le cavità orbitali erano profonde, e in qualche modo le comunicavano la furia con cui quel Re, sconfitto ma non sottomesso, aveva dovuto piegare il capo alla spada di Oen. La luce del fuoco creava increspature d’ombra in quelle orbite, e sentì un groppo in gola. Aprì al suolo la pezza di velluto rosso, e poggiò il teschio a un’estremità di essa. Fatto ciò si tolse di tasca la collana di perle di vetro, la fissò finché essa divenne un’immagine nella sua mente, e vi plasmò sopra il suo nome. Poi la lasciò cadere nel fuoco. All’istante tutto intorno nacquero magici bagliori perlacei, mentre la collana si mutava in un circolo di grosse lune opalescenti che circondavano il fuoco, il teschio, il suo spaventato cavallo e lei stessa.

Al sorgere della luna sentì che le mandrie di bovini nei recinti di Hallard cominciavano a muggire. Dalle fattorie lontane oltre i boschi si levarono gli ululati lamentosi dei cani, che ben presto divennero un coro allarmante e interminabile. Qualcosa che non era il vento sussurrò fra le querce, e Raederle curvò istintivamente le spalle sentendoselo passare sopra la testa. Il cavallo, che s’era accovacciato al suolo accanto a lei, si alzò di scatto con un tremito violento. Cercò di parlargli per calmarlo, ma le parole le morirono in gola. Nel profondo della boscaglia era nato un forte scalpore, e gli animali che fin’allora erano stati immobili nel silenzio cominciarono a fuggire e a volar via davanti ad esso. Un cervo sbucò ciecamente dalla vegetazione, scalpitò e indietreggiò nel trovarsi dinnanzi il misterioso e lampante circolo di sfere perlacee, girò su se stesso e schizzò via verso i campi aperti. Piccoli roditori, volpi e donnole emersero dal buio e fuggirono disperatamente passandole attorno, seguiti da uno schianto di tronchi e di vegetazione sfondata che s’avvicinava e da un selvaggio, ultraterreno muggito il cui eco rombò fra gli alberi come un tuono. Raederle tremava e i suoi pensieri erano pagliuzze disperse dal vento; con mani gelide aggiunse rami su rami al fuoco finché le grandi perle intorno a lei rosseggiarono nei riflessi delle fiamme. Con uno sforzo di volontà impedì a se stessa di bruciare in una sola volta tutto il legno accumulato, poi sedette accanto al fuoco e si premette le mani sulla bocca, quasi temendo che il suo cuore potesse balzarne fuori, e ad occhi sbarrati attese che l’incubo scaturisse dalle tenebre.

Quando esso apparve, aveva le sembianze del grande Toro Bianco di Aum. L’enorme animale, che Cyn Croeg amava come Raith di Hel amava i suoi maiali, emerse dalla vegetazione galoppando pesantemente verso il fuoco, ed era pungolato e guidato da cavalieri che lo attorniavano in sella ad animali sfiniti, malconci, dagli occhi folli. Armati di lunghi bastoni gli uomini colpivano e incitavano il loro toro in corsa, gridando, strattonando da una parte e dall’altra le loro cavalcature. Coperto di sangue e di sudore, il muso massiccio striato di bava, gli occhi rossi strabuzzati dal terrore, il toro passò così vicino al circolo creato da Raederle che lei poté sentire l’odore acre della sua paura e leggergli la follia nelle pupille. Mentre deviava per evitare il fuoco, i cavalieri che si sforzavano di affiancarlo ignorarono completamente la presenza di Raederle; ma non così l’ultimo di essi, che girandosi a sogghignare verso di lei le consentì di vedere la bianca cicatrice che gli segnava il volto e terminava in un occhio bianco e senza vita.

Tutti i rumori che le stavano risuonando attorno parvero concentrarsi in un unico punto dentro la sua testa, e si domandò vagamente se era sul punto di svenire. Il muggito del toro in distanza la indusse a riaprire gli occhi. Riuscì a vedere l’animale, gigantesco e color cenere nel pallore lunare, che galoppava a testa bassa attraverso i campi di Hallard. All’apparenza i cavalieri, figure nere e biancastre in preda a una spietata agitazione, sembravano decisi a spingerlo dritto verso il portone chiuso del cortile di Hallard. In un improvviso lampo d’intuizione comprese che la loro intenzione era quella di farlo ammazzare là contro il muro di cinta, per lasciarlo come un regalo alla porta di Hallard: l’enorme carogna di un toro, tanto per dargli il problema di spiegare la cosa al Nobile di Aum. Brevemente si chiese cosa stesse accadendo ai maiali di Raith. Ma non ebbe il tempo di rispondersi, perché il suo cavallo nitrì, e nel volgersi con un ansito si trovò faccia a faccia con la furia di Re Farr di Hel.

L’uomo era come lo aveva sempre immaginato: irsuto, poderoso, e la sua faccia era dura e brutale come una maschera di pietra. Aveva la barba e i lunghi capelli color del rame; portava grossi anelli metallici a ogni dito, e la sua spada, sollevata e pronta per abbattersi con irruenza su una delle lune di vetro, aveva una lama larga oltre un palmo alla base. L’individuo non sprecò tempo in parole, ma quando la spada tagliò l’aria dall’alto in basso non trovò null’altro che un’illusione da attraversare, e il fendente andato a vuoto per poco non lo fece cadere di sella. Si raddrizzò, spronò il cavallo per farlo penetrare oltre il cerchio d’immagini sferiche, ma l’animale scalpitò e nitrì spaventato, opponendogli resistenza. A forza di redini lo fece retrocedere, preparandosi a balzare ancora avanti. Raederle afferrò il teschio e lo tenne sollevato sopra il fuoco.

— Bada, lo lascerò cadere! — minacciò, col fiato mozzo. — E poi lo porterò ad Anuin, nero di cenere, e lo getterò nella spazzatura!

— Non vivrai abbastanza per farlo! — ringhiò lui. La sua voce non era fatta di suono, e a udirla fu solo la mente della ragazza. Con un brivido vide il cerchio di carne rossa e sanguinolenta intorno al collo di Farr. L’uomo la maledisse con la sua rauca voce immateriale, metodicamente e selvaggiamente, dalla testa ai piedi, in un linguaggio che non aveva mai udito neppure sulle banchine dei porti.

Quando Farr tacque, il volto di lei era rosso fino alla radice dei capelli. Con un dito infilato in un’orbita del teschio lo fece oscillare sulle fiamme, e a denti stretti disse: — Devo fare quel che ho detto o no? Parla, o ti mostrerò come bruciano le tue ossa.

— Prima dell’alba avrai finito tutta la legna — ruggì quella voce implacabile. — E allora me lo riprenderò.

— No, tu non lo avrai mai. — Pur incrinata dall’ansia la sua voce rivelava una certezza mortale, di cui quasi non si rese conto. — Credi a quanto ti dico. Le tue ossa stanno imputridendo nei campi di un uomo che ha giurato alleanza ad An, e soltanto tu ricordi ancora quali frammenti di costole e vertebre spezzate appartengono a te. Se tu avessi il cranio e la corona potresti seppellirli, e avere la dignità di un sepolcro decente. Ma non potrai mai prendermeli. Solo io posso scegliere se darteli o meno. E questo ha un prezzo.

— Io non faccio baratti come un misero mercante. E non c’è uomo che possa sottomettermi; ancor meno una donna dell’imbelle schiatta dei Re di An.

— La mia schiatta è ancor peggiore di quella. Ti restituirò il teschio se pagherai il mio prezzo. Se dirai una sola parola di rifiuto, lo distruggerò. Quello che pretendo è una scorta di Re, attraverso Hel e fino ad Anuin, per un uomo che…

— Anuin! — Il grido di Farr le rimbombò negli orecchi, facendole fare un passo indietro. — E io dovrei piegarmi a…

— Te lo chiederò una sola volta. Quest’uomo viaggia come un cambiaforma e non conosce An. Ha motivo di temere per la sua vita in questa terra, ed io voglio che sia protetto e nascosto. A inseguirlo c’è il più grande mago del reame; egli cercherà di fermarti, ma tu non dovrai cedere a lui. Se l’uomo dovesse essere ferito o ucciso dal mago nel viaggio fra qui e Anuin, io farò cenere del tuo teschio incoronato. — Fece una pausa, poi aggiunse con più calma: — Qualunque altra cosa vorrai fare lungo la strada fino ad Anuin saranno affari tuoi, a patto che lui sia sempre protetto. Poi, nella dimora dei Re di An, io ti darò il teschio.

L’uomo la fissò in silenzio. D’un tratto lei si rese conto che la notte era divenuta molto tranquilla; perfino i segugi di Hallard Albanera tacevano. Si chiese se non fossero tutti morti. Poi pensò, con ottusa indifferenza, a quel che avrebbe potuto dire Duac quando si fosse visto entrare in casa il rabbioso gruppo dei Re morti di Hel. La voce di Farr vibrò nei suoi pensieri:

— E dopo?

— Dopo?

— Dopo che saremo ad Anuin. Quali pretese, quali altre clausole aggiungerai al patto, quando saremo nella tua casa?

Lei trasse un lungo respiro, conscia che non le restava neppure un filo di coraggio per pretendere altro. — Se quell’uomo sarà salvo, nessuna. Se lo avrai protetto. Ma io voglio per lui soltanto una scorta di Re, non tutto l’esercito della morte.

Ci fu un’altra lunga pausa di silenzio. Mise un altro ramo sul fuoco, e vide gli occhi socchiusi di lui farsi freddi e calcolatori. Poi egli chiese, inaspettatamente: — Chi è quest’uomo?

— Se tu non conosci il suo nome, nessun altro potrà saperlo da te. Tu conosci le forme di Hel: gli alberi, gli animali, il terreno, e fai parte di tutto ciò poiché vi sei radicato. Trova lo straniero la cui forma esterna è di An, ma il cui cuore non è di An.

— Se non fa parte di An, allora cos’è per te?

— Tu cosa credi? — disse stancamente lei. — Perché starei seduta qui nella notte della rivolta di Hel, a contrattare su un teschio con un Re morto, per la sua salvezza?

— Perché sei pazza.

— Forse. Ma siamo in due a contrattare su questo.

— Io non contratto. An ha usurpato la mia corona, e An deve restituirmela. In un modo o nell’altro. Ti darò la mia risposta all’alba. Se il tuo fuoco si spegnerà prima di allora, attenta a te. Per te non avrò più pietà di quella che Oen ebbe per me.

L’uomo si sedette ad aspettare nelle tenebre, col volto che incorniciato dalla barba incolta appariva duro e tragico nei riflessi del fuoco. Per un attimo la ragazza fu tentata di gridargli che lei non aveva niente a che fare coi suoi feudi e con la sua morte, che egli era sepolto da secoli e che la sua vendetta personale era insignificante nel turbine di eventi che stravolgeva An. Ma il cervello di lui viveva nel passato, e il trascorrere dei secoli su Hel non doveva sembrargli un intervallo più lungo di una notte. Sedette davanti al fuoco, con la bocca amara e secca per le preoccupazioni. Si chiese se all’alba l’uomo l’avrebbe uccisa, o invece non avrebbe deciso di mercanteggiare con Duac per la sua vita, come lei aveva mercanteggiato sul suo teschio. La dimora di Hallard Albanera, al di là dei campi, aveva molte finestre illuminate malgrado l’ora tarda, ma sembrava lontana come un miraggio. Mentre guardava sconfortata da quella parte nella zona risuonò un rumore nuovo, dal tono però diverso; era il clangore metallico delle armi, che si stavano scontrando in una battaglia notturna sui pascoli di Hallard. I segugi abbaiavano con furia e decisione contro gli avversari, sonori come corni di battaglia. Gli occhi del Re si fissarono in quelli di lei attraverso le illusioni che circondavano il fuoco, fermi e implacabili. Ella abbassò i suoi fra le fiamme e osservò la collana che era il cuore di quella illusione, le cui perline di vetro stavano cominciando a sgretolarsi al calore.

Le urla lontane scivolarono in un angolo della sua mente. Negli orecchi ebbe soltanto il crepitio del legno e il sibilante linguaggio delle fiamme. Aprì la mano sinistra, sfiorò la fiamma e ne sentì il riflesso immediato nella mente. Il fuoco cercò a tentoni l’identità di lei, mentre lo teneva dentro di sé e nel cavo fra le dita, ma bloccò i suoi pensieri creando nella propria mente un vuoto dove il fuoco continuò a guizzare ed a crescere. Lo lasciò ardere e crescere a lungo, seduta al suolo, immobile come gli antichi alberi che la circondavano, tenendo aperta la mano su cui una fiammella ballava seguendo senza sosta l’emblema a dodici linee tracciato sul suo palmo. Poi un’ombra cadde sulla sua mente estinguendo il fuoco dentro di essa: era un’altra mente che attraversava la notte, trascinando entro i suoi vortici la conoscenza dei vivi e dei morti di An. Essa passò sul cielo come un’immensa ala nera, che coprì la luna e le fece fare un balzo indietro, tremante e indifesa. Chiuse subito la mano intorno alla fiammella e alzò lo sguardo, incontrando il primo accenno di vera espressione negli occhi di Farr.

— Che cos’era quello? — Pur senza suono la voce di Farr fu rauca e bassa nella testa di lei.

Inaspettatamente captò i pensieri dello spettro e seppe che stava per sbalordirlo. Rispose: — Quello era colui contro il quale tu proteggerai il Portatore… lo straniero.

— Quel mago?

— Quel mago. — Dopo un istante aggiunse: — Lui spegnerebbe la tua furia come una candela se capisse cosa stai facendo, e di te non resterebbe davvero altro che ossa sparse e vecchi ricordi. Sei sempre tanto deciso a riprendere il tuo teschio, adesso?

— Lo voglio — ringhiò lui. — O qui oppure ad Anuin, strega. Fai la tua scelta.

— Io non sono una strega.

— Cosa sei allora tu, con quegli occhi pieni di fuoco?

Lei rifletté un poco. Poi si limitò a rispondere: — Io sono senza nome. — E quelle parole le riempirono la bocca di un sapore amaro e triste. Tornò a dedicarsi al fuoco, vi aggiunse, altra legna, e i suoi occhi seguirono il disordinato volo delle scintille che fluttuavano a spegnersi nell’aria. Poi sollevò ancora due fiammelle, stavolta una su ogni mano, e cominciò lentamente a plasmarle.

Durante quell’interminabile notte fu interrotta più volte: dalla fuga del bestiame rubato a Hallard Albanera, che muggiva terrorizzato attraversando i campi di grano; dal sopraggiungere di uomini armati che si radunarono intorno a Farr, e dall’urlo di rabbia che l’uomo le fece esplodere nella mente allorché essi risero di lui; e quindi dal clangore delle spade che si levò fra di loro. A un certo momento sollevò lo sguardo e vide soltanto le sue nude ossa in sella al cavallo, bianche nei riflessi del fuoco; poco più tardi vide invece che l’uomo si teneva la testa sottobraccio, come un elmo, e l’espressione di lui restò immutata mentre gli occhi della ragazza si spostavano a osservare lo spazio vuoto sopra il suo collo. Verso l’alba, quando la luna tramontò, aveva dimenticato Farr, aveva dimenticato ogni cosa. Era riuscita a plasmare le fiammelle in un centinaio di forme diverse, fiori che si aprivano e poi si disfacevano lentamente, e uccelli vivaci che dispiegavano le ali balzando dalle sue mani. Aveva dimenticato perfino la forma del suo stesso corpo: le mani, ondeggiavano e ardevano di luce liquida. Qualcosa d’indefinito e d’inatteso stava accadendo dentro la sua mente. Barlumi di poteri e di conoscenze elusive come il fuoco passavano sullo schermo dei suoi pensieri, quasi che avesse destato in sé memorie facenti parte della sua ereditarietà. Facce ed ombre, irriconoscibili, nascevano e svanivano prima che avesse il tempo di sondarle. Intravide strane piante, sentì sussurranti linguaggi marini fluttuare oltre la portata del suo udito. Un vuoto nelle profondità del mare, o nel cuore della terra, tagliò un varco nella sua mente; vi spinse lo sguardo con curiosità, senza timore, troppo presa nei suoi giochi di fiamma per chiedersi che oscuro pensiero fosse. Creò una lontana stella di fuoco anche in quella cava immensità sconfinata, e mentre quel buio fremeva subito sentì che non era un vuoto, bensì un groviglio di memorie e di poteri ancora oltre l’orlo della sua consapevolezza.

Quel miscuglio di sensazioni-rivelazioni causò in lei l’anelito di tornare al semplice caos di An. Stanca di viaggiare dentro se stessa cercò di riposare un poco. Sui campi di Hallard scivolava la nebbia del mattino; l’alba color cenere si espandeva fra gli alberi senza che un solo cinguettio la salutasse. Tutto ciò che restava del suo fuoco notturno era un mucchietto di rami carbonizzati. Si stiracchiò rigidamente, insonnolita, e fu allora che scorse con la coda dell’occhio una mano che si protendeva verso il teschio.

Svelta creò intorno alle ossa di quel cranio un’illusione di fuoco che scaturì dalla sua mente e lingueggiò alto; Farr balzò subito indietro. Lei raccolse il teschio, e si alzò, fronteggiandolo. L’uomo sibilò: — Tu sei fatta di fuoco…!

La ragazza lo sentiva ancora nelle dita infatti, scorrerle sotto la pelle e su fin nel cuoio capelluto. Con voce rotta per la stanchezza domandò: — Hai riflettuto abbastanza? Qui non troverai mai Oen, le sue ossa giacciono nel Cimitero Reale fuori dalle mura di Anuin. Se riuscirai a sopravvivere al viaggio, potrai prenderti laggiù la tua vendetta.

— E tu tradisci la tua stessa famiglia?

— Vuoi darmi la tua risposta? — gridò irritata. Lo vide tacere indeciso. Ancor prima che parlasse capì che avrebbe ceduto, e sussurrò: — Giura sul tuo nome. Giura sulla corona dei Re di Hel che né tu né nessun altro toccherà me o questo teschio finché non avrai oltrepassato la soglia della reggia di Anuin.

— Te lo giuro.

— Giura che riunirai i Re nel tuo cammino attraverso Hel, per trovare e proteggere la forma usata dallo straniero che viaggia fino ad Anuin, contro tutto ciò che vive e tutto ciò che è morto.

— Lo giuro.

— Giura che non dirai a nessuno, salvo ai Re di Hel, cosa ti sei impegnato a fare.

— Lo giuro. Sul mio nome, su tutti i Re di Hel e su questa corona.

In piedi accanto al suo cavallo nella luce dell’alba, con il sapore acre della sottomissione sulle labbra, l’uomo sembrava quasi vivo. Lei trasse un profondo sospiro. — Benissimo. Io giuro sul nome di mio padre e sul nome dell’uomo che scorterai che quando lo vedrò nella dimora del Re di Anuin ti restituirò il tuo teschio, e non chiederò altro da te. Ogni legame fra noi sarà sciolto. L’unica cosa in sovrappiù che ti chiedo è di farmi sapere quando lo troverai.

Lui annuì brevemente. I suoi occhi si fissarono nel vuoto e derisorio sguardo del teschio. Poi si volse e montò a cavallo. Dall’alto della sella la osservò ancora un istante, e lei vide che aveva un’espressione incredula. Subito dopo si volse e spronò il cavallo, scomparendo fra gli alberi più silenzioso di una foglia spinta dal vento.

Da lì a poco, mentre s’allontanava a cavallo dal limite dei boschi, la ragazza incontrò Hallard Albanera e i suoi uomini che s’avventuravano sui campi più bassi per contare le perdite fra il bestiame. L’uomo la attese in silenzio, e quando riuscì a farsi uscire di bocca la voce essa fece un sussurro stanco.

— Per la mano destra di Oen! Sei proprio tu, o sei un fantasma?

— Non te lo so dire. Il toro di Cyn Croeg è morto?

— Gli hanno fatto sputare la vita… Vieni in casa. — Alla luce del giorno i suoi occhi stavano finalmente ritrovando vita, ma erano ancora a metà preoccupati e a metà spaventati. Alzò una mano a toccarle una spalla, esitante. — Vieni dentro. Sembri… hai l’aria di…

— Me lo immagino. Ma non posso. Devo andare ad Anuin.

— Adesso? Aspetta almeno che ti dia una scorta.

— Ne ho già una. — Lo vide abbassare lo sguardo sull’involto del teschio appeso alla sella e deglutire a vuoto.

— Lui è venuto a cercarlo?

Gli sorrise appena. — È venuto. Ho fatto un patto con lui…

— Per il sangue… — L’uomo non nascose un brivido. — Farr non è mai venuto a patti con nessuno. Cos’hai mercanteggiato con lui? La salvezza di Anuin?

Lei sospirò. — Ebbene, no, non esattamente. — Si tolse di tasca la collanina annerita e gliela restituì. — Ti ringrazio. Senza di questa non avrei potuto sopravvivere.

Quando poi si chinò per aprire il cancello di legno, in fondo al campo, si volse e lo vide fermo accanto al corpo di un vitello, con gli occhi ancora fissi su quella manciata di perline annerite e incrinate.

Attraversò Hel da nord a sud fin quasi all’altezza delle terre di Raith, seguita da un’invisibile scorta di Re che pian piano s’ingrossava. Poteva sentirne la presenza intorno a sé, e con la sua mente cercò le loro finché essi le rivelarono i loro nomi: Acor, terzo Re di Hel, che un po’ con la forza e un po’ con la persuasione aveva portato sotto il suo controllo gli ultimi nobili indipendenti del territorio; Ohroe il Maledetto, che aveva visto sette dei suoi nove figli cadere in sette battaglie consecutive fra An e Hel; Nemir dei Maiali, che sapeva parlare sia nella lingua degli uomini che in quella dei porci, aveva allevato il maiale di nome Hegdis-Noon e aveva avuto come guardiana dei porci la strega Madir; Evern il Falconiere, che aveva addestrato falchi per usarli in battaglia contro gli avversari; e altri che come Farr aveva giurato erano tutti sovrani, e che avevano acconsentito di aggregarsi a lui, l’ultimo dei Re di Hel, nel suo viaggio verso la roccaforte dei Re di An. Talvolta le accadde di vederli; spesso li udiva trottare davanti e dietro a lei, e sentì che le loro menti si univano scambiandosi pensieri, progetti, leggende, complotti, ricordi di ciò che era stato Hel durante la loro vita e dopo la loro morte. Essi erano tuttavia ormai legati alla terra di An, assai più di quanto loro stessi credessero; le loro menti scivolavano sovente in pensieri sorprendentemente inumani, pensieri che corrispondevano alle forme di vita in cui i loro corpi avevano finito per assimilarsi: radici, foglie, insetti, perfino piccoli animali. Ed era proprio attraverso questa profonda conoscenza di An, intuì Raederle, che essi avevano potuto riconoscere e identificare il Portatore di Stelle, l’uomo nella cui forma non era compresa alcuna delle essenze intime di An.

L’avevano trovato quasi subito. Farr aveva rotto il silenzio per informarla, e lei non aveva voluto domandare quali sembianze egli avesse assunto. I Re seguirono il suo cammino standogli attorno, non troppo vicini, e Raederle immaginò con quale batticuore da parte sua allorché sui prati immersi nel lucore lunare avvertiva la loro spettrale presenza, o vedeva un uccello involarsi spaventato, o un topo di campo fuggire fra le stoppie. Aveva capito che lui non osava mantenere la stessa forma a lungo, e fu sorpresa nel constatare che ciò malgrado i Re non perdevano mai le sue tracce. Essi erano però un richiamo per la mente gravida di potere oscuro di cui lei aveva avuto una breve visione, e che si aggirava in quella terra. Nessun uomo di An, e certamente nessuno straniero, avrebbe potuto passare fra di loro inosservato; e il mago, rifletté, indubbiamente scandagliava ogni essere umano da essi incontrato. A sorprenderla ci fu anche il fatto che, sebbene cavalcasse da sola in quelle zone poco tranquille, lui non si avvicinasse a minacciarla. Forse, pensò, nel vederla portarsi dietro un teschio appeso alla sella e accamparsi a dormire nei boschi ignorando del tutto ogni pericolo, il mago aveva deciso che era soltanto una povera pazza.

Evitò di accostarsi ai contadini, cosicché non poté avere notizie di come e dove si estendevano i disordini; ma ovunque vide campi in cui nessuno si avventurava al lavoro, fattorie e granai chiusi e sorvegliati, e nobili che viaggiavano verso Anuin scortati da molte guardie armate. Sapeva che gli umori dei popolani e dei fattori dovevano esser stati inaspriti dalle continue molestie, e che entro breve tempo avrebbero trasformato le loro case in piccole fortezze, richiudendosi in se stessi, isolandosi, e che avrebbero accolto con le armi puntate qualsiasi viandante o sconosciuto. La sfiducia e la rabbia causate dall’assenza del Re sarebbero sfociate in scontri armati, in una guerra a cui avrebbero partecipato i vivi e i morti, tale che neppure Mathom sarebbe riuscito a riprenderla sotto controllo. E in quanto a lei, conducendo ad Anuin i Re di Hel avrebbe potuto far precipitare ancora gli eventi.

La ragazza pensò molto a questi fatti, specialmente la notte allorché distesa accanto al teschio era incapace di chiudere gli occhi. Cercò di prepararsi a quanto la attendeva esplorando i suoi poteri, ma aveva scarsa esperienza su cui basarsi. Era oscuramente conscia di ciò che poteva esser capace di fare, dei poteri intangibili come ombre chiusi in fondo alla sua mente, poteri che ancora non riusciva ad afferrare ed a controllare. Ad Anuin avrebbe fatto quel che avrebbe potuto fare; Morgon, se fosse stato in condizioni di affrontare il rischio, l’avrebbe aiutata. Forse Mathom sarebbe ritornato; forse i Re si sarebbero ritirati da Anuin senza radunare il loro esercito. Forse lei avrebbe trovato qualcos’altro da barattare con loro. Sperava che Duac, almeno in una certa misura, avrebbe capito. Ma ne dubitava.

Arrivò ad Anuin nove giorni dopo la sua partenza dalle terre di Hellard. I Re cominciarono ad apparire solidi e concreti prima ancora di entrare nelle mura della città: una minacciosa e stupefacente scorta armata chiusa intorno all’uomo che aveva protetto. Raederle, che li aveva raggiunti, cavalcava alle loro spalle. Le strade di Anuin si presentarono loro insolitamente tranquille; non fu molta la gente che si fermò a guardare, fra attonita e spaurita, quel gruppo di cavalieri sui loro nervosi e feroci cavalli da battaglia, le loro teste coronate, le armature e le vesti d’oro e di broccato e le armi ingioiellate, nelle cui diverse fogge era racchiusa quasi l’intera storia della loro terra. Fra quelle scintillanti figure, nascosto in un mantello col cappuccio malgrado la calura, cavalcava l’uomo da essi scortato. Appariva rassegnato alla protezione di quelle guardie ultraterrene; senza neanche dar loro uno sguardo guidò lentamente il cavallo attraverso le vie della città e poi su per la leggera salita che conduceva alla dimora del Re. Il portone era aperto; nessuno li ostacolò quando entrarono nel vasto cortile. Mentre stavano smontando dalle selle ci fu una certa confusione fra gli stallieri subito occorsi: nessun servo né paggio, sotto il peso dello sguardo rovente di Farr, si azzardò ad accostarsi per prendere i loro cavalli. Raederle era rimasta un po’ indietro, e allorché oltrepassò da sola il portone li vide seguire la figura ammantellata su per gli scalini che portavano nel grande salone delle udienze. Le facce pallide e spaurite dei servi che la fissavano esitanti le fecero capire che tutti quanti, probabilmente, si stavano chiedendo se anche lei fosse un fantasma. Poi un paggio si decise a farsi avanti, prese le redini e con mano tremante le tenne ferma la staffa mentre smontava. Staccò l’involto del teschio dalla sella, se lo mise sottobraccio e lo portò con sé nel salone.

Una volta che fu nel grande locale vi trovò Duac, che in piedi dinnanzi a quel consesso di Re li fronteggiava ammutolito. Il giovane aveva la bocca spalancata, e quando s’accorse del suo ingresso le indirizzò uno sguardo vacuo. Il silenzio era tale che ebbe l’impressione di udire il rumore delle palpebre di lui, quando le sbatté. Ma il sangue defluì del tutto dal volto di Duac nel momento in cui vide il teschio di Farr. La giovane donna si accostò all’uomo incappucciato, chiedendosi perché egli non si voltasse a parlare. Giusto allora però lui si girò, quasi che avesse sentito i suoi pensieri, e fu lei a sentire la bocca spalancarsi storditamente. L’uomo che i Re avevano scortato e protetto attraverso Hel non era Morgon, ma Deth.

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