CAPITOLO OTTAVO

Seduta fra quegli uomini attenti e silenziosi raccontò loro della cambiaforma che le aveva fatto visita nella dimora di Danan, e della sua fuga dal Monte Isig. Disse della pietra che Astrin aveva trovato a Pian Bocca di Re, e mostrò il marchio sul palmo della sua mano. Narrò di come avesse tenuto il fuoco chiuso fra le dita, quella notte nell’entroterra, dinnanzi all’arpista del Supremo che la osservava da sopra l’orlo scintillante del suo boccale. Ripeté loro, sapendo che la conoscevano ma spinta dalla tristezza e dall’orgoglio, la storia di Ylon, che era nato da una donna di An e da una creatura informe del mare, e vide nei loro occhi le ombre e gli intrecci mentali di chi è esperto di enigmi. Quando terminò di parlare fuori era caduta la notte, e nel locale gli uomini dalle toghe nere, i banchi, le file di preziosissimi manoscritti dalla copertina dorata, erano confusi in una massa d’ombre immobili. Uno dei Maestri accese una candela. La fiammella le rivelò il volto stanco e paziente di lui, contratto in un’espressione pensosa, e sulla destra la faccia magra e volitiva del Re di Osterland. Il Maestro disse sottovoce: — Tutti stiamo interrogando noi stessi in questi giorni.

— Lo so. E so quale importanza date alla cosa. Voi non avete chiuso la Scuola soltanto perché avevate accolto qui il Fondatore di Lungold come un Maestro. So chi fu ad accogliere Morgon, quando Deth lo condusse al Monte Erlenstar.

La candela che il Maestro stava abbassando verso lo stoppino di un’altra si fermò. — Sai anche questo?

— L’ho intuito. E più tardi Deth… Deth me lo ha confermato.

— Sembra che non abbia certo provato a consolarvi molto — disse Har. La sua voce suonò asciutta e calma, ma lei scorse sul suo volto un accenno dell’ansia e della confusione che l’arpista aveva sparso nel reame.

— Io non gli ho chiesto che mi consolasse. Volevo la verità. Voglio cercarla, ed è per questo che sono qui: è un buon posto da cui partire. Non posso tornare ad An con questo marchio. Se mio padre fosse là forse oserei. Ma non sarei capace di rimettere piede a palazzo e poi fingere con Duac, e Rood, e i nobili di appartenere ad An come le radici degli alberi e i sepolcri degli antichi Re. In me c’è potere, e io ne ho paura. Io non so… non so cosa ho liberato dentro di me senza conoscerne il vero significato. E comunque non so a cosa appartengo. Non so cosa fare.

— L’ignoranza — mormorò il Lupo-Re, — è mortale.

Il Maestro Tel si agitò, la sua tunica spiegazzata frusciò nel silenzio. — Entrambi siete venuti in cerca di risposte; noi ne abbiamo poche da darvi. Qualche volta, tuttavia, girando una domanda si ottiene una risposta. E noi abbiamo molte domande. Prima di tutto una riguardo i cambiaforma. Hanno cominciato a venire allo scoperto quasi senza preavviso nel momento in cui il Portatore di Stelle prendeva a realizzare il suo destino; essi sapevano il suo nome prima di lui; conoscevano l’esistenza della spada stellata nella tomba dei figli dei Signori della Terra a Isig. Sono antichi, più antichi della nostra storia e di ogni enigma, senza origine, senza nome. Dobbiamo dar loro un nome. Solo allora voi conoscerete l’origine del vostro potere.

— Cos’altro avrei bisogno di conoscere di loro, salvo che hanno cercato di distruggere le dinastie reali ad An e a Ymris, che hanno accecato Astrin, che hanno quasi ucciso Morgon, che non hanno pietà per nessuno, non danno tregua a nessuno, non amano nessuno. Diedero la vita a Ylon, e lo portarono alla morte. Non hanno compassione neppure per i loro stessi… — Tacque, ricordando com’era stata colpita dal tono sorprendentemente ricco, vibrante, incisivo, della cambiaforma.

Uno dei Maestri domandò sottovoce: — Vedete forse delle incongruenze in questo?

— Non la compassione, ma la passione… — sussurrò ella. — La cambiaforma mi ha risposto così. E poi ha creato un tale incanto dal suo fuoco bianco che ho come bramato il suo potere. Mi stava spiegando cosa aveva riportato Ylon da loro, a dispetto della fama che hanno d’essere terribili. Mi ha fatto sentire l’arpa che Ylon udì, per farmi capire la sua nostalgia. Poi mi ha detto che quell’arpista era stato ucciso da Morgon. — Fece una pausa, apprezzando il silenzio di quegli uomini abituati alla pazienza e alla meditazione. — Non la compassione, ma la passione. Sì, mi ha dato questo enigma. — La sua voce parve svuotarsi. — Un’incongruenza. Come la gentilezza di Deth, che forse era soltanto un’abitudine o… o forse no. Io non so. Niente… il Supremo, questa Scuola, ciò che era bene, ciò che era male… niente sembra mantenere la sua forma, non più. Questo è il motivo per cui ho cercato Morgon così disperatamente. Almeno lui sa il suo nome. E un uomo che conosce se stesso può vedere altre cose e dar loro un nome.

Quando la voce di lei tacque, nessuno si mosse. I loro volti, nella vacillante luce delle candele, sembravano fatti di ombre e di ricordi.

Infine il Maestro Tel disse dolcemente: — Ogni cosa è se stessa. Noi ne distorciamo la vera forma. Il tuo nome giace nascosto dentro di te, un enigma. Il Supremo, chiunque egli sia, è sempre il Supremo, sebbene Ghisteslwchlohm abbia indossato il suo nome come una maschera.

— E chi o cosa è l’arpista del Supremo? — domandò Har. Il Maestro Tel rifletté un momento, frugandosi nella memoria.

— Ha studiato qui, fra l’altro, secoli or sono… Non avrei mai creduto che un uomo che meritò il Nero potesse tradire i principi basilari dello studio degli enigmi.

— Morgon intende ucciderlo — disse bruscamente Har, e gli occhi del Maestro lo fissarono stupefatti.

— Io non ne avevo saputo…

— Questo non è un tradimento dei vostri principi etici? Un uomo saggio non insegue la sua stessa ombra. In lui non c’è quell’istintivo rispetto per le leggi della sua terra che ora possa fermare la sua mano. Non c’è sovrano, inclusa la Morgol, che voglia rifiutare di acconsentire ai suoi desideri. Gli abbiamo dato la nostra comprensione, abbiamo sbarrato i nostri confini come ci ha chiesto. E aspettiamo il tradimento finale, il suo: un auto-tradimento. — Il suo sguardo duro si spostava da volto a volto, come una sfida. — Il Maestro è un maestro di se stesso. Morgon ha una libertà assoluta in questo reame. Non ha più le restrizioni delle leggi della terra. Il Supremo sembra non esistere in nessun posto salvo che nell’evidenza della sua esistenza. Morgon ha guidato se stesso al suo destino coi principi etici dello studio degli enigmi. E adesso ha un enorme e ancora imprecisato potere. C’è un enigma nelle vostre liste che consenta a un uomo saggio di cercare la vendetta?

— Giudicare — mormorò uno dei Maestri, ma in tono tormentoso. — A chi spetta giudicare e condannare quest’uomo che per secoli ha tradito l’intero reame?

— Al Supremo.

— E in luogo del Supremo…

— Al Portatore di Stelle? — Har lasciò che il silenzio si tendesse come una corda d’arpa, poi lo ruppe: — L’uomo che ha strappato il suo potere da Ghisteslwchlohm perché nessuno, neppure il Supremo, gli ha dato il minimo aiuto? È amareggiato, autosufficiente, e tramite le sue azioni sta perfino mettendo in discussione i forti ma elusivi principi dello studio degli enigmi. Ma io dubito che veda questo dentro di sé, poiché dovunque guardi c’è Deth. Il suo destino è di rispondere agli enigmi, non di distruggerli.

Raederle sentì qualcosa rilassarsi in lei. — E voi glielo avete detto?

— Ci ho provato.

— Avete messo in pratica i suoi desideri, però. Deth mi ha riferito d’esser stato scacciato da Osterland dai vostri lupi.

— Io non voglio vedere più neppure l’orma delle scarpe di Deth sulla mia terra! — Tacque, poi la sua voce suonò meno aspra. — Quando ho rivisto il Portatore di Stelle, gli avrei dato perfino le cicatrici-vesta che ho sulle mani. È stato assai parco di parole su Deth, e anche su Ghisteslwchlohm, ma mi ha detto… abbastanza. In seguito, mentre cominciavo a capire ciò che stava facendo, e quanto più di me fosse ormai cresciuto, le implicazioni delle sue azioni mi hanno spaventato. Ed era più testardo che mai…

— Sta venendo a Caithnard?

— No. Mi ha chiesto di portare il suo resoconto e i suoi enigmi ai Maestri, i quali nella loro saggezza dovranno decidere se il reame è pronto o meno a sopportare la verità circa colui che per tanto tempo abbiamo chiamato il Supremo.

— Questo è il motivo per cui avete chiuso i battenti — disse lei al Maestro Tel, e l’uomo annuì, lasciandole vedere per la prima volta una smorfia di stanchezza psichica.

— Come possiamo autodefinirci Maestri? — chiese l’uomo pacatamente. — Ci siamo ritirati in noi stessi non per sfuggire all’orrore, ma per evitare la necessità di ricostruire quel modo di pensare a cui avevamo dato il nome di Verità. Se nel tessuto stesso del reame, nella sua struttura sociale, nelle storie e leggende, nelle guerre, nella poesia, negli enigmi… se lì c’è una risposta, o un frammento di verità incontestabile e rivelatore, noi lo troveremo. Se i principi su cui si basa lo studio degli enigmi non sono validi, noi lo scopriremo. È questo il messaggio che ci dà il Maestro di Hed con le sue azioni.

— Ha pur trovato il modo di uscire da quell’oscura torre di Aum… — mormorò lei. Har si raddrizzò sulla sedia.

— Pensate che possa trovare il modo di uscire da un’altra torre, da un’altra gara mortale? Questa volta ha ciò che ha sempre voluto: la scelta. Il potere di stabilire lui stesso quali sono le regole del gioco.

Lei ripensò a quella fredda e malridotta torre di Aum, che svettava impenetrabile quanto un enigma sulle chiome verdi e dorate delle querce, e vide un giovane modestamente vestito, fermo sotto il sole di fronte al portone corroso, esitare a lungo prima di muoversi. Lo vide alzare una mano, spingere il pesante battente e sparire nell’interno, lasciando l’aria tiepida e il cielo azzurro dietro di sé. Fissò Har, sentendosi come se egli le avesse proposto un enigma e qualcosa di vitale fosse sul piatto della bilancia in attesa della sua risposta. Disse: — Sì! — e seppe che la risposta era scaturita da qualche posto dentro di lei, al di là dell’incertezza e della confusione, al di là della logica.

L’uomo la studiò per qualche istante in silenzio. Quando parlò la sua voce era morbida come i fiocchi di neve che nell’immobilità della nebbia scendevano sulla sua nordica terra. — Un giorno Morgon mi disse che a Hlurle, a mezza via del suo viaggio verso Monte Erlenstar, gli era accaduto di starsene seduto a lungo in una vecchia locanda, da solo, mentre aspettava un imbarco per tornare a Hed. Ma una cosa lo trattenne dal fare ritorno a casa: la consapevolezza che non avrebbe potuto chiedervi di vivere con lui a Hed, a meno che non fosse riuscito a darvi la verità sul suo nome, su se stesso. Così decise di proseguire il viaggio. Allorché non molto tempo fa lo rividi entrare in casa mia, come un qualunque viandante che cercasse alloggio per la notte, ciò che vidi dapprima non fu il Portatore di Stelle: io vidi la terribile, inesorabile pazienza che c’era negli occhi di un uomo, quella pazienza che nasce dall’assoluta solitudine. Fu per voi che entrò nell’oscura torre della verità. Avrete il coraggio di mettere il vostro nome nelle sue mani?

Senza che lei lo volesse, il suo pugno sinistro si chiuse sulle linee bianche del marchio. Poi sentì qualcosa in lei, come un nodo che era stato stretto e che lentamente adesso si scioglieva. Annuì, non fidandosi della voce, e le sue dita si riaprirono, offrendo alla luce delle candele quel simbolo di misteriosa conoscenza. — Sì — disse poi. — Qualunque sia il potere tramandato a me da Ylon, io giuro sul mio onore che compirò ogni sforzo per volgerlo solo a qualcosa che sia degno. Dove si trova lui, adesso?

— Sta senza dubbio scendendo attraverso Ymris, diretto ad Anuin e poi a Lungold, pare, visto che quella sembra la destinazione verso cui sta spingendo Deth.

— E poi dove? Dopo che avrà fatto quel che ha deciso, dove? Non avrà il coraggio di tornare a Hed.

— No. Non se ucciderà l’arpista. A Hed non ci sarebbe pace per lui. Non lo so. Dove può andare un uomo per sfuggire a se stesso? Glielo chiederò quando lo rivedrò a Lungold.

— Voi intendete recarvi là…

Lui annuì. — Penso che potrebbe aver bisogno di un amico, a Lungold.

— Vi prego, desidero venire con voi.

Sulle facce dei Maestri lesse una muta protesta. Il Lupo-Re inarcò un sopracciglio. — Tanto lontano volete andare per fuggire da voi stessa? Lungold. E poi dove? Quanta strada può fare un albero che cerca di sfuggire alle sue radici?

— Io non sto cercando di… — S’interruppe, evitando il suo sguardo.

Dolcemente egli disse: — Andate a casa.

— Har — intervenne gravemente il Maestro Tel. — Questo è un consiglio che fareste bene a dare a voi stesso. Quella città non è un posto sicuro neppure per voi. I maghi andranno a cercare Ghisteslwchlohm laggiù: il Portatore di Stelle vi cercherà Deth; e se anche i cambiaforma interverranno non un solo essere vivente potrà considerarsi al sicuro a Lungold.

— Lo so — ammise Har, e il suo sorriso si spense. — Quando sono passato da Kraal, dei mercanti mi chiesero dove pensavo che i maghi fossero andati, dopo che furono visti svanire. Sono gente abituata a usare gli occhi e il naso, e i loro orecchi spaziano in tutto il reame quando si tratta di stabilire fino a che punto è rischioso andare a commerciare in una città condannata. I mercanti, come gli animali, hanno un sesto senso per il pericolo.

— E così voi — disse severamente il Maestro Tel. — Ma voi non avete il sano istinto di starne alla larga.

— Ma dove ci suggerireste di cercare la sicurezza, in un reame condannato? E quando, nell’intervallo fra un enigma e la sua risposta, c’è qualcosa di diverso dal pericolo?

Il Maestro Tel scosse il capo. Poi lasciò cadere l’argomento, rendendosi conto che infine si trattava di una questione privata. Si alzarono e scesero in refettorio per la cena, che era stata cucinata da un pugno di studenti i quali non avevano altra famiglia che i Maestri, né altra casa che la Scuola. Trascorsero il resto della sera in biblioteca, con Raederle e il Lupo-Re che ascoltavano, a discutere sulle possibili origini dei cambiaforma, sul significato della pietra trovata a Pian Bocca di Re, e sul volto sconosciuto che essa conteneva.

— Il Supremo? — suggerì a un certo punto il Maestro Tel, e Raederle si sentì chiudere la gola da una paura senza nome. — È possibile che essi siano così interessati a rintracciarlo?

— Perché dovrebbero interessarsi al Supremo più di quanto egli non si interessa a loro?

— Forse il Supremo si sta nascondendo da loro — osservò un altro. Har, seduto nell’ombra e così immobile che Raederle s’era quasi dimenticata della sua presenza, alzò di colpo la testa, ma non disse nulla. Uno degli altri Maestri colse al volo quell’ipotesi:

— Se il Supremo si fosse nascosto per paura di loro, perché non anche Ghisteslwchlohm? La legge del Supremo nel reame non è stata mai minata; sembra che lui li ignori piuttosto che averne paura. E tuttavia… lui è un Signore della Terra; le stelle di Morgon sono inestricabilmente collegate a quello che fu il tragico destino dei Signori della Terra e dei loro figli; sembra dunque incredibile che egli non abbia replicato a questa minaccia portata al suo reame.

— Qual è esattamente la minaccia? Qual è la vera estensione dei loro poteri? Quali le loro origini? Chi sono? Cosa vogliono? Cosa vuole Ghisteslwchlohm? Dov’è il Supremo?

Le domande stagnavano nell’atmosfera della stanza insieme al fumo puzzolente delle torce; poderosi manoscritti vennero tolti dagli scaffali, consultati e poi lasciati sui leggii con la cera delle candele che sgocciolava sui loro margini. Raederle poté vedere libri di maghi dalle chiusure più svariate, udì i nomi-chiave o le frasi che aprivano le serrature di ferro, di rame o d’oro prive di fessure visibili, vide le nitide calligrafie nell’inchiostro nero che non sbiadiva mai, e le pagine bianche che rivelavano la loro scrittura come occhi che s’aprissero pian piano solo se sfiorate dall’acqua, o dal fuoco, o dall’alito di chi sussurrava il verso di una poesia. Infine non ci fu più un tavolo che non fosse ricoperto da tomi, polverosi rotoli di pergamena e candele mezze sciolte; e gli enigmi senza risposta parvero aleggiare come elusive entità fatte d’ombra nella luce tremolante degli stoppini. I Maestri s’erano fatti taciturni. Ma a Raederle, che lottava contro la stanchezza, sembrava ancora di udire le loro voci e i loro pensieri che discutevano, suggerivano, scartavano ipotesi e analizzavano domande in quel silenzio. Poi Har si alzò rigidamente, si accostò a uno dei libri rimasti aperti e voltò pagina. — Stavo ripensando a una vecchia storia, nulla che meriti d’esser considerato, con ogni probabilità. Una di Ymris, tratta dalla raccolta di leggende di Aloil, dove mi pare che ci sia un riferimento ai cambiaforma…

Raederle si alzò, sentendo che i suoi pensieri erano divenuti un groviglio inestricabile che la avviluppava. Le facce dei Maestri le apparvero remote, vagamente sorprese nel vederla vacillare sfinita. Rivolse loro un sorrisetto di scusa. — Casco dal sonno.

— Mi dispiace! — si affrettò a dire il Maestro Tel. Le poggiò cortesemente una mano su un braccio, conducendola alla porta. — Uno degli studenti è stato così previdente e premuroso da scendere al porto, e ha informato il capitano della vostra nave che siete qui; tornando ha portato con sé il vostro bagaglio. Dovrebbe esserci da qualche parte una stanza pronta per voi, o almeno credo…

L’uomo aprì la porta. Subito un giovane studente che sedeva in corridoio alla luce di una candela si alzò, chiudendo il libro che stava leggendo. Aveva una faccia magra, abbronzata, con un grosso naso affilato, e alla vista di Raederle ebbe un timido sorriso d’ammirazione. Portava una sdrucita toga bianca da Maestro Inferiore, e i polsini erano ancora bagnati a indicare che probabilmente aveva lavato i piatti in cucina. Dopo averla salutata con un lieve inchino del capo abbassò gli occhi sul pavimento e mormorò: — Signora, ho preparato un letto per voi nell’ala riservata ai Maestri. Ho messo là le vostre cose.

— Grazie. — La fanciulla diede la buonanotte al Maestro Tel e seguì il giovane studente lungo i corridoi silenziosi. Lui non disse altro, anche se nel precederla con la candela un paio di volte si girò a guardarla con un lieve rossore. La stanza in cui la condusse era piccola e spoglia. Sul lettuccio c’era la sacca da viaggio, e brocche d’acqua e di vino erano su un piccolo tavolo, con un candeliere. Dalla finestra aperta, profondamente incassata nelle nude pareti di pietra, entrava il vento salmastro che più di sotto scuoteva le querce immerse nel buio. Lei ripeté: — Ti ringrazio — e andò a guardare fuori, benché non ci fosse da vedere altro che la luna e una stella solitaria che galleggiava fra i suoi corni. Sentì lo studente muovere un passo incerto dietro di lei.

— Le lenzuola sono ruvide — si scusò. Poi chiuse la porta e disse: — Raederle…

La giovane donna sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene.

Nella morbida luce rosata delle candele il volto di lui fu per un istante una chiazza di linee e ombre vacillanti. Era un tantino più alto di come lo ricordava, e la malconcia toga bianca che non era cambiata nel suo mutamento di forma adesso gli stava un po’ stretta di spalle. Una corrente d’aria fece oscillare la fiamma delle candele, la luce gli si rifletté sui lineamenti e lei poté vedere i suoi occhi. Si portò una mano alla bocca.

— Morgon! — fu l’ansito spezzato che riuscì a emettere.

Nessuno dei due si mosse. L’aria che entrava dalla finestra sembrava essersi fermata fra di loro come una parete di pietra. Lui la fissò con occhi che erano stati sbarrati interminabilmente nella vuota tenebra del Monte Erlenstar, nelle sue pareti di roccia, e nella tenebra e nella roccia dei pensieri di un mago. Poi lei avanzò oltre quell’invisibile barriera, alzò le mani e nel poggiargliele sulle spalle le parve di toccare qualcosa senza età, come il vento o la notte, che aveva una forma e non l’aveva, scabro come un ciottolo consumato dall’acqua e che per eoni aveva rotolato negli oscuri recessi di una montagna. Lui si spostò appena, e quel movimento le ridiede la consapevolezza della sua forma fisica. Sentì le mani di lui, lievi come un respiro, sfiorarle i capelli in una carezza. Poi lo vide un po’ discosto da lei, e non seppe dire chi dei due aveva fatto un passo indietro.

— Stavo per venire da te ad Anuin, ma ho saputo che eri qui. — La voce di lui aveva un tono rauco e profondo, come se avesse parlato fino a consumarsela. Sedette sul letto accanto alla sacca, mentre lei lo guardava senza riuscire ad aprir bocca. Nel ricambiare lo sguardo di lei il suo volto, magro, indurito fino ad apparire quello di uno sconosciuto e imperscrutabile, si rilassò in un’espressione gentile che sembrava aver dimenticato. — Ti ho spaventata. Mi spiace, non volevo.

— Non mi hai spaventata. — La voce suonò remota ai suoi stessi orecchi, quasi che a parlare fosse il vento che entrava dalla finestra. Sedette al fianco di lui. — Ti stavo cercando.

— Lo so. L’ho sentito dire.

— Non credevo… Har ha detto che non saresti venuto qui.

— Ho visto la nave di tuo padre entrare in porto. E sapendo che Tristan era con te ho pensato di fermarmi in città.

— Potrebbe essere ancora qui. È venuto Mastro Cannon a prenderla, ma…

— No. Sono già partiti per Hed.

Il tono secco di quell’osservazione la indusse a scrutarlo pensosamente. — Tu non hai voluto rivederla.

— Non ancora.

— Mi ha chiesto, se ti avessi visto, di dirti questo: sii cauto.

Pur continuando a fissarla egli non disse nulla. La giovane donna fu costretta a riflettere che sembrava avere una specie di talento per il silenzio. Sembrava irradiare da lui come un fluido allorché decideva di tacere, simile al silenzio dei vecchi alberi e delle pietre rimaste immobili per anni. Era ritmato dal suo respiro lento, sembrava adagiarsi sulle cicatrici che gli segnavano le palme delle mani. Ma quando si alzò bruscamente, andando accanto al davanzale della finestra per guardare fuori, scivolò via da lui come un mantello. Raederle si domandò se avesse il dono di vedere lontano, nella notte, fino a Hed.

— Si parla molto del viaggio che avete fatto — disse. — Tu, Lyra e Tristan su una nave di Mathom, rubata di notte nel porto di Caithnard. Ho sentito raccontare di come siete sfuggite alle navi da guerra di Ymris abbagliandole con una luce simile a un piccolo sole, e di come avete risalito il Fiume Inverno su una chiatta, decise ad arrivare alla dimora del Supremo per fargli una domanda… e dici a me di essere cauto! Cos’era quella luce che ha giocato perfino Astrin? Fra i mercanti ha fatto nascere le più fantasiose speculazioni. Anch’io ero incuriosito.

Lei fece per rispondergli, poi ci ripensò. — E quali sono le speculazioni che hai fatto tu?

Tornò a sedersi accanto a lei. — Ho pensato che probabilmente era opera tua. Ricordavo che tu potevi fare certe cosette…

— Morgon…

— Aspetta. Vorrei dirti che… non importa quel che è accaduto o che accadrà… mentre lasciavo Isig sapevo già che voi vi eravate messe in viaggio per il nord. Io sentivo i vostri nomi, durante il cammino. Li avvertii all’improvviso, come luci piccolissime e lontane. Posso sentirli anche adesso.

— Tristan desiderava disperatamente vederti. Non potresti…

— Non ancora.

— Allora quando? — chiese lei, sconfortata. — Dopo che avrai ucciso Deth? Morgon, quello potrebbe essere un arpista di troppo.

Il volto di lui non mutò espressione, ma i suoi occhi scivolarono via di lato, come verso un ricordo. — Corrig? — Poi aggiunse: — Me n’ero dimenticato.

Lei deglutì, sentendo che quella semplice frase aveva richiuso una barriera fra di loro. Pensò che lui usava l’impassibilità e il silenzio come uno scudo, una difesa impenetrabile, e si chiese se dietro di esso si celasse l’uomo che conosceva o uno straniero. Osservandola lui parve leggere i suoi pensieri; allungò una mano e le toccò un braccio. Ma d’un tratto lo scudo che aveva negli occhi s’infranse come al ricordo di qualcosa d’informe e terribile, e indifeso girò la testa finché quell’emozione svanì. Sottovoce disse: — Avrei dovuto aspettare prima di rivedere anche te. Ma dovevo… dovevo guardare ciò che per me vi è di più bello, la leggenda di An, il tesoro della sua corte. Dovevo sapere che tu esisti ancora. Ne avevo bisogno.

Le dita di lui le sfiorarono il viso come se la sua pelle fosse fragile quanto l’ala di una farfalla. Ella chiuse gli occhi, premette le mani su quelle di lui e sussurrò: — Oh, Morgon! Cosa, in nome di Hel, pensi che io stia facendo in questa Scuola? — Lasciò ricadere le braccia e si domandò se fosse almeno riuscita a ottenere l’attenzione di lui, oltre quell’armatura fatta di solitudine irteriore. — Io vorrei essere davvero questo per te, se potessi — gemette. — Vorrei essere muta, bella, eterna come la terra di An per te. Vorrei essere come mi ricordavi, senza età, innocente, sempre in attesa nella bianca dimora dei Re di Anuin. Vorrei essere questo per te, e per nessun altro uomo del reame. Ma questa sarebbe una menzogna, e io farei qualunque cosa pur di non mentire a te… te lo giuro. Un enigma può essere una storia così familiare che i tuoi occhi smettono di vederlo: è lì, semplicemente, come l’aria che respiri, come i nomi degli antichi Re che echeggiano nei corridoi della tua dimora, come il sole che ristagna pigro sui pavimenti dove cammini pensando ad altro, finché un giorno ti accade di guardarlo. E allora qualcosa senza forma e senza voce dentro di te ti apre un terzo occhio, e tu lo vedi come mai lo avevi visto prima. Allora non ti resta che la consapevolezza di una domanda senza nome dentro di te, e quella storia non è più priva di significato, ma è la sola cosa al mondo che da quel momento in poi significa qualcosa. — Tacque per riprendere fiato. Lui le aveva passato un braccio attorno alla vita e la sua stretta non era leggera. Il suo volto tornò finalmente a essere familiare, incerto, interrogativo.

— Quale enigma? Tu sei venuta qui, in questo posto, con un enigma?

— In che altro luogo avrei potuto andare? Mio padre era partito. Ho cercato di trovare te e non ci sono riuscita. Tu avresti dovuto sapere che al mondo non c’è niente che non cambi…

— Quale enigma?

— Tu sei il Maestro qui. Davvero c’è bisogno che te lo dica?

La sua stretta si fece più forte. — No — disse, e stavolta il suo silenzio, fra quelle mura impregnate di enigmi, fu quello di chi riflette su ancora un altro di essi. Lei attese, lavorando su quell’enigma con lui, sentendo che la sua identità era in gioco contro il suo passato e contro la storia di An, seguendo stanche tracce di pensiero che non portavano da nessuna parte. Ad un tratto avvertì un tremito nella dita di lui, e capì che stava esaminando un’ipotesi che conduceva ad altre possibilità e poi ad altre ancora. E quando lui alzò lentamente la testa e la guardò negli occhi, desiderò che la Scuola e tutti i suoi enigmi sprofondassero nel mare.

— Ylon! — Morgon lasciò che quel nome aleggiasse in un’altra pausa di silenzio. — È vero, non lo avevo mai visto. Ed era lì. — Bruscamente si alzò, ringhiando fra i denti una vecchia imprecazione di Hed. E nel suo tono ci fu una nota che vibrò nei vetri della finestra irretendoli di una ragnatela di crepe. — Hanno raggiunto anche te!

Come stordita dal vuoto che le era piombato dentro la fanciulla fissò ottusamente le sue mani. Si alzò in piedi per andarsene da lì, senza sapere se al mondo esisteva un posto dove avrebbe potuto andare. Lui la raggiunse con un passo e la afferrò, facendola girare.

— E credi che questo m’importi? — chiese, incredulo. — Pensi una cosa simile di me? Chi sono io per giudicarti? Io sono così accecato dall’odio che se mi mettessero davanti agli occhi la mia terra e la gente che ho amato non li vedrei neppure. Io sto dando la caccia a un uomo che non ha mai impugnato un’arma in vita sua, per poterlo guardare negli occhi mentre lo uccido, malgrado il parere contrario di tutti i sovrani con cui ho parlato finora. E tu cos’hai fatto in vita tua, invece, per meritare di perdere il rispetto di chi ti conosce?

— Io non ho mai fatto niente di niente, in vita mia.

— Tu mi hai dato la verità.

Lei tacque, immobile nella stretta dura delle sue mani, gli occhi fissi sul volto di lui che ora le si rivelava, amaro, vulnerabile, senza legge, così come oltre un ciuffo di capelli le si rivelarono le tre stelle sulla sua fronte. Alzò le mani e anch’ella gli strinse le braccia. Mormorò: — Morgon, ti prego stai attento.

— A che cosa? E perché dovrei? Sai chi trovai ad accogliermi là, quel giorno in cui Deth mi condusse dentro il Monte Erlenstar?

— Sì.

— Il Fondatore di Lungold è stato seduto su quel trono all’apice del mondo per secoli, dispensando la sua giustizia nel nome del Supremo. Dove posso andare a chiedere giustizia? L’arpista è un senzaterra, non ha legami con i Re e con la loro legge; il Supremo sembra del tutto incurante del mio e del suo destino. Importerà a qualcuno se lo uccido? In Ymris o nella stessa An, nessuno troverà mai da discutere su…

— Nessuno vorrà mai discutere ciò che tu fai! Sei tu la tua legge, sei tu la tua giustizia! Danan, Har, Hereu, la Morgol… tutti loro ti daranno sempre ciò che vuoi per rispetto al tuo nome e per la verità che tu porti con te. Ma, Morgon, se tu crei la tua legge, dove potranno andare gli altri se avranno bisogno di chiedere giustizia contro di te?

Gli occhi di lui rivelarono un guizzo d’incertezza. Poi scosse il capo, lentamente, testardamente. — Soltanto una cosa chiedo. Non più di una. E comunque, non c’è dubbio che qualcuno lo ucciderà… i maghi ne hanno il motivo. Forse Ghisteslwchlohm stesso lo farà. Io ne ho il diritto.

— Morgon…

Le mani con cui la stringeva si fecero ancor più dure, adunche. Non stava più guardando lei, bensì qualcosa di orrido e oscuro rimasto nella sua memoria. Alcune gocce di sudore gli si formarono sulla fronte, i muscoli facciali gli s’irrigidirono. Sussurrò: — Mentre Ghisteslwchlohm era nella mia mente, nient’altro esisteva. Ma nei momenti in cui lui… lui mi lasciava, e mi rendevo conto d’essere ancora vivo, disteso in una buia e vuota caverna di Erlenstar, io potevo udire Deth che suonava. Talvolta suonava canzoni di Hed. Mi ha dato qualcosa per cui vivere.

Lei chiuse gli occhi. Il volto elusivo dell’arpista apparve nella sua mente, si confuse e sfumò. Le mani dure e tremanti di Morgon le comunicarono la sua confusione e la sua rabbia, e il tradimento dell’arpista le apparve un enigma assurdo e incomprensibile che nessuna spiegazione avrebbe potuto giustificare, e che nessun Maestro nella quiete della sua biblioteca sarebbe riuscito a districare. Il tormento di lui le diede l’angoscia; la sua solitudine era un immenso vuoto pozzo dove le parole di lei cadevano come pietre per sparire nel buio. Solo allora capì come potesse esser bastata una sua parola per far sbarrare a Deth una Corte dopo l’altra, un regno dopo l’altro, mentre lui seguiva la sua segreta e difficoltosa strada attraverso il reame. In un sussurro ripeté le parole di Har: — Gli avrei dato perfino le cicatrici-vesta che ho sulle mani! — Finalmente la stretta di lui si rilassò. Abbassò gli occhi su di lei e tacque a lungo, prima di dire:

— Tu però non mi riconosci questo unico diritto.

Lei scosse il capo. Parlare le costò uno sforzo. — Tu potrai ucciderlo. Ma anche da morto continuerà a divorarti il cuore, finché non lo avrai capito.

Le mani di lui ricaddero. Le volse le spalle e tornò alla finestra. Sfiorò i vetri che aveva irretito di crepe, poi si girò bruscamente. Nell’ombra lei poté a malapena vedere il suo volto; la voce gli uscì rauca.

— Devo andare. Non so quando potrò rivederti ancora.

— Dove stai andando?

— Ad Anuin. Per parlare a Duac. Sarò già ripartito prima che tu arrivi là. È meglio a questo modo, per entrambi. Se mai Ghisteslwchlohm capisse in che modo può far uso di te, io sarei perduto; potrebbe chiedermi il cuore e io me lo strapperei dal petto con le mie stesse mani.

— E poi dove andrai?

— A cercare Deth. E poi, io non… — Improvvisamente si accigliò. Il silenzio gli si infittì attorno come se stesse ascoltando qualcosa; la sua figura parve tremolare nella debole luce delle candele. Lei tese gli orecchi, ma non udì altro che il sussurro del vento sulle fiammelle oscillanti, e gli enigmi senza parole mormorati dal mare. Fece un passo verso di lui.

— È Ghisteslwchlohm? — L’immobilità di lui le incrinò la voce. Egli non rispose, e la fanciulla non riuscì a capire se l’avesse udito o meno. D’un tratto la paura le strinse la gola; sussurrò: — Morgon! — Lui si volse lentamente a guardarla, trattenendo il respiro. Ma non si mosse finché non fu lei ad avvicinarsi. Poi le passò le braccia attorno con dolcezza, stancamente, e chinò il volto fra i suoi capelli.

— Devo andare. Poi tornerò da te, ad Anuin. Per essere giudicato.

— No…

Lui scosse lievemente la testa, indietreggiando. Mentre le sue mani scivolavano via da lui Raederle sentì la strana, quasi informe, tensione dell’aria intorno al suo corpo. Ebbe l’impressione che sotto la larga toga portasse appesa una spada, ma i contorni di lui si fecero incerti. Lo udì dire qualcosa che non comprese, con voce che si mescolava al mormorio del vento. La figura di lui divenne un’ombra striata di riflessi di luce, e poi fu soltanto un ricordo.

La giovane donna si spogliò e andò a letto, ma restò sveglia a lungo prima di cadere in un sonno tormentato. Qualche ora più tardi si svegliò di colpo, sconvolta, sbarrando gli occhi nelle tenebre. La sua mente era un groviglio di pensieri che si affollavano, di nomi, di desideri, di ricordi, di angosce; era un calderone da cui si rovesciavano fuori avvenimenti, impulsi, voci inarticolate. Sedette sul letto, domandandosi quale cambiaforma avesse attorcigliato la mente dentro la sua; ma in lei ci fu la repentina certezza che tutto ciò non aveva a che fare con loro, e che era invece lei a protendere la mente e gli occhi verso An, come se la sua vista potesse oltrepassare la pietra, la distanza e la notte. Sentì che il cuore ricominciava a batterle. Le sue radici la attiravano; la sua eredità fatta di boschi e colli erbosi, torri semidiroccate, nomi di Re, guerre e leggende, aveva spinto i suoi pensieri verso una terra dove vibrava il caos, una terra che era stata lasciata senza governo troppo a lungo. Si alzò in piedi e si coprì il viso con le mani, riuscendo finalmente a capire due cose: l’intera An si stava agitando e sollevando. E la via che il Portatore di Stelle seguiva lo avrebbe condotto dritto attraverso Hel.

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