CAPITOLO XIII CIÒ CHE SI TROVA SU TOP «FABBRICAZIONE D’ARCHI E DI FRECCE» UNA FORNACE «IL FORNO DA STOVIGLIE» DIVERSI UTENSILI DI CUCINA «LA PRIMA PENTOLA» L’ARTEMISIA «LA CROCE DEL SUD» UN’IMPORTANTE OSSERVAZIONE ASTRONOMICA

«EBBENE, signor Cyrus, da dove dobbiamo incominciare?» domandò l’indomani mattina Pencroff all’ingegnere.

«Dal principio» rispose Cyrus Smith.

E infatti, quei coloni erano costretti a cominciare proprio dall’inizio, per tutte le cose. Essi non possedevano nemmeno il necessario per fare gli utensili e neppure si trovavano nelle condizioni della natura, che «avendo il tempo, economizza lo sforzo». Il tempo mancava loro, poiché dovevano provvedere immediatamente ai bisogni dell’esistenza e se, per l’esperienza che già possedevano, non avevano niente da inventare, avevano nondimeno tutto da costruire. Per loro il ferro, l’acciaio erano ancora allo stato di minerale, le stoviglie allo stato di argilla, la biancheria e i vestiti allo stato di materie tessili.

Bisogna dire, però, che quei coloni erano «uomini» nella più bella e possente espressione della parola. L’ingegnere Smith non poteva essere assecondato da compagni più intelligenti, né più devoti e zelanti. Egli li aveva interrogati. Conosceva già le attitudini di ciascuno.

Gedeon Spilett, giornalista d’ingegno, che aveva imparato tutto per poter parlare di tutto, avrebbe certo largamente contribuito con il cervello e con l’opera alla colonizzazione dell’isola. Egli non sarebbe indietreggiato dinanzi a nessun compito; cacciatore appassionato, avrebbe fatto un mestiere di quello che, sino allora, non era stato per lui che un passatempo.

Harbert, bravo ragazzo, già notevolmente istruito nelle scienze naturali, avrebbe portato un serio contributo alla causa comune.

Nab era la devozione personificata. Svelto, intelligente, infaticabile, robusto, con una salute di ferro, egli conosceva un po’ l’arte del fabbro e non poteva che essere utilissimo alla colonia.

Quanto a Pencroff, era stato marinaio su tutti gli oceani, carpentiere nei cantieri di costruzione di Brooklyn, aiutante sarto sulle navi dello Stato, giardiniere, coltivatore durante i periodi di licenza, ecc.; e, come tutta la gente di mare, che sa fare di tutto, egli sapeva far di tutto.

Sarebbe stato veramente difficile riunire cinque uomini più adatti a lottare contro la sfortuna e più sicuri di trionfarne.

«Dal principio», aveva detto Cyrus Smith. Ora, questo principio di cui parlava l’ingegnere era la costruzione di un’apparecchiatura che potesse trasformare le sostanze naturali. Si sa quanta parte ha il calore in questa trasformazione. Di combustibile (legna o carbon fossile) si poteva disporre immediatamente. Si trattava, dunque, di costruire un forno per utilizzarlo.

«A che cosa servirà il forno?» domandò Pencroff.

«A fabbricare le stoviglie, di cui abbiamo bisogno» rispose Cyrus Smith.

«E il forno, con che cosa lo faremo?»

«Con dei mattoni.»

«E i mattoni?»

«Con l’argilla. In cammino, amici. Per evitare i trasporti di materiale, impianteremo la nostra fabbrica sul luogo stesso di produzione. Nab porterà le provviste, e il fuoco non mancherà per la cottura dei cibi.»

«No,» rispose il cronista «ma potranno mancare gli alimenti, per mancanza di arnesi da caccia!»

«Ah! Se avessimo soltanto un coltello!» esclamò il marinaio.

«Ebbene?» chiese Cyrus Smith.

«Fabbricherei arco e frecce e la selvaggina non mancherebbe!»

«Sì, un coltello, una lama tagliente…» disse l’ingegnere, come se parlasse a se stesso.

In quel momento, il suo sguardo cadde su Top, che andava e veniva sulla spiaggia.

Improvvisamente, l’occhio di Cyrus Smith si animò.

«Top, qui!» diss’egli.

Il cane accorse alla chiamata del padrone. Questi prese la testa di Top fra le mani, e, sciogliendo il collare che l’animale aveva al collo, lo ruppe in due pezzi, dicendo:

«Ecco due coltelli, Pencroff!»

Gli risposero due poderosi evviva del marinaio. Il collare di Top era fatto di una sottile lamina d’acciaio temperato. Bastava, dunque, affilarlo prima su una pietra di grès, in modo da mettere al vivo l’angolo del taglio, e poi eliminare il filo morto su di un grès più fino. Ora, questo genere di roccia arenaria si trovava in abbondanza sulla spiaggia, di modo che, due ore dopo, l’attrezzatura della colonia si componeva di due lame taglienti, ch’era stato facile fissare in una solida impugnatura.

La conquista di quel primo utensile fu salutata come un trionfo. Era una conquista preziosa davvero e giungeva proprio opportuna.

Partirono. Era intenzione di Cyrus Smith di ritornare sulla riva occidentale del lago, là dove aveva osservato il giorno innanzi la terra argillosa di cui possedeva un campione. Si avviarono quindi lungo la riva del Mercy, attraversarono l’altipiano di Bellavista, e dopo una marcia di cinque miglia al massimo, arrivarono a una radura situata a duecento passi dal lago Grant.

Cammin facendo, Harbert aveva scoperto un albero, i cui rami vengono adoperati dagli Indiani dell’America meridionale per la fabbricazione degli archi. Era il crejimba della famiglia dei palmizi, che non produce frutti commestibili. Furono tagliati e sfrondati alcuni rami lunghi e diritti, che vennero poi assottigliati alle estremità e lasciati robusti nel mezzo: non c’era che da trovare una pianta adatta a formare la corda dell’arco. Un hibiscus heterophyllus, pianta di una specie appartenente alla famiglia delle malvacee, diede fibre di notevole resistenza, tanto che si sarebbe potuto paragonarle a tendini di animali. Pencroff ottenne così degli archi abbastanza forti, ai quali non mancavano che le frecce. Queste si potevano fare facilmente con dei rami dritti e rigidi, senza nodosità, ma la punta di cui dovevano essere armate, vale a dire una sostanza atta a surrogare il ferro, non si poteva trovare altrettanto facilmente. Tuttavia Pencroff pensò che, avendo fatto la sua parte di lavoro, al resto avrebbe provveduto il caso.

I coloni erano giunti sul territorio esplorato il giorno avanti. Esso era costituito di quell’argilla figulina che serve a fabbricare i mattoni e le tegole; argilla, quindi, convenientissima per l’operazione ch’essi dovevano condurre a buon fine. La lavorazione non presentava difficoltà alcuna. Bastava sgrassare l’argilla con della sabbia, dare la forma ai mattoni e cuocerli poi su di un fuoco di legna.

Solitamente, i mattoni vengono pressati in stampi adatti, ma l’ingegnere si accontentò di fabbricarli con le mani. Il lavoro occupò tutta quella giornata e anche la seguente. L’argilla, imbevuta d’acqua, impastata e battuta poi con i piedi e con i pugni dei lavoratori, fu divisa in prismi di uguale grandezza. Un operaio pratico può confezionare, senza macchina, anche diecimila mattoni in dodici ore; ma i cinque dell’isola Lincoln, in due giornate di lavoro, non ne fabbricarono più di tremila, che furono disposti gli uni vicini agli altri, in attesa del momento in cui, essiccati completamente, sarebbe stato possibile cuocerli, cioè dopo tre o quattro giorni.

Nella giornata del 2 aprile Cyrus Smith si occupò di rilevare la posizione dell’isola.

Il giorno prima egli aveva segnato esattamente l’ora in cui il sole era scomparso dall’orizzonte, tenendo conto della rifrazione dei raggi. E quella mattina egli rilevò non meno esattamente l’ora in cui il sole riapparve. Fra il tramonto e l’alba, erano passate dodici ore meno ventiquattro minuti. Dunque, sei ore e dodici minuti dopo il suo sorgere, il sole, in quel giorno, sarebbe passato esattamente sul meridiano e il punto del cielo che esso avrebbe occupato in quel momento avrebbe indicato il nord. (Nota: Infatti, in quell’epoca dell’anno e a quella latitudine, il sole si levava alle 5,48 del mattino, e tramontava alle 6,12 della sera. Fine nota)

All’ora suddetta, Cyrus rilevò questo punto e allineando con il sole due alberi, che gli sarebbero serviti da punto di riferimento, ottenne così una meridiana invariabile per le ulteriori operazioni.

Durante i due giorni che precedettero la cottura dei mattoni, fu provveduto all’approvvigionamento del combustibile. Furono tagliati alcuni rami attorno alla radura, e si raccolsero tutti quelli caduti. Contemporaneamente, si cacciò,un poco nei dintorni, e con il maggior successo, in quanto Pencroff possedeva ora già alcune dozzine di frecce armate di punte acuminatissime. Top aveva fornito quelle punte, recando un porcospino, selvaggina piuttosto mediocre, ma di un valore incontestabile per gli aculei di cui era irto. Questi aculei furono solidamente infissi all’estremità delle frecce, alle quali fu applicata un’impennatura di piume di pappagallo, per assicurarne la direzione. Il giornalista e Harbert divennero presto degli accortissimi tiratori d’arco. E la selvaggina d’ogni sorta abbondò ai Camini: capibara, piccioni, aguti, galli di montagna, ecc. La maggior parte di questi animali fu uccisa nella zona della foresta situata sulla riva sinistra del fiume Mercy, alla quale si diede il nome di bosco dello Jacamar in memoria del volatile cui Harbert e Pencroff avevano dato la caccia durante la loro prima esplorazione.

Quella selvaggina fu mangiata fresca, ma si conservarono i prosciutti del capibara, affumicandoli sopra un fuoco di legna verde, dopo averli aromatizzati con foglie odorose. Tuttavia quel cibo, per quanto molto corroborante, era pur sempre dell’arrosto, e i commensali sarebbero stati lieti di sentire, dopo tanto, bollire sul focolare un semplice lesso; ma per questo bisognava aspettare che la pentola fosse fabbricata, e logicamente, che fosse prima costruito il forno.

Durante le escursioni, che si limitarono a una zona molto ristretta intorno alla fabbrica di mattoni, i cacciatori poterono constatare tracce del passaggio recente di grandi animali, armati di artigli potenti, ma di cui non riuscirono a indovinare la specie. Cyrus Smith raccomandò loro un’estrema prudenza, giacché era probabile che la foresta nascondesse qualche belva pericolosa.

E fece bene. Infatti, Gedeon Spilett e Harbert scorsero un giorno una bestia che somigliava a un giaguaro. Essa non li attaccò, e fu gran fortuna, perché probabilmente non se la sarebbero cavata senza qualche grave ferita. Ma Gedeon Spilett, quando avesse avuto una vera arma, vale a dire uno di quei fucili che Pencroff reclamava, si riprometteva di fare una guerra accanita alle bestie feroci e di liberarne l’isola.

Durante quei pochi giorni, nulla fu fatto per rendere più comodi i Camini, giacché l’ingegnere si proponeva di scoprire o anche costruire, se occorreva, una dimora più conveniente. Ci si accontentò di stendere sulla sabbia dei corridoi un fresco letto di muschi e di foglie secche e, su quei giacigli un po’ primitivi, i lavoratori, spossati, dormirono un sonno perfetto.

Fu, inoltre, fatto il conto dei giorni passati sull’isola di Lincoln, da quando i coloni vi avevano atterrato e da allora ne fu tenuto sempre un computo regolare. Il 5 aprile, un mercoledì, erano dodici giorni da che il vento aveva gettato i naufraghi su quel litorale.

Il 6 aprile, sin dall’alba, l’ingegnere e i suoi compagni erano riuniti nella radura, dove stava per aver luogo la cottura dei mattoni. Naturalmente, tale operazione doveva essere fatta all’aria aperta e non dentro i forni; d’altra parte, l’agglomerato dei mattoni avrebbe formato un enorme forno che si sarebbe cotto da sé. Il combustibile, composto di fascine ben preparate, fu messo a terra e circondato da parecchie file di mattoni disseccati, che formarono in breve un grosso cubo, all’esterno del quale furono lasciati aperti degli sfiatatoi. Quel lavoro durò tutta la giornata e soltanto a sera fu dato fuoco alle fascine.

Quella notte nessuno si coricò, ma tutti vegliarono attentamente perché il fuoco non si spegnesse.

L’operazione durò quarantott’ore e riuscì perfettamente. Bisognò allora lasciar raffreddare la massa fumante e, nel frattempo, Nab e Pencroff, guidati da Cyrus Smith, trasportarono, su un graticcio fatto di rami intrecciati, parecchi carichi di carbonato di calcio, pietre comunissime, che si trovavano in abbondanza a nord del lago. Queste pietre, decomposte dal calore, produssero una calce viva, molto grassa, che si dilatava molto estinguendosi, ed era pura come se fosse stata prodotta dalla calcinazione di creta o marmo. Mescolata con sabbia, il cui effetto è di attenuare il ritiro della pasta quando solidifica, quella calce fornì una malta eccellente.

Il risultato di questi vari lavori fu che per il 9 aprile l’ingegnere aveva a sua disposizione una certa quantità di calce già pronta e alcune migliaia di mattoni.

Si iniziò, dunque, senza perdere un istante, la costruzione d’un forno, che doveva servire alla cottura delle diverse stoviglie indispensabili per gli usi domestici. E vi si riuscì senza troppa difficoltà. Cinque giorni dopo, il forno fu caricato di carbon fossile, di cui l’ingegnere aveva scoperto un giacimento a cielo aperto, verso la foce del Creek Rosso, e le prime volute di fumo uscirono da un fumaiolo alto una ventina di piedi. La radura era, dunque, trasformata in una fabbrica e Pencroff non era lontano dal credere che da quel forno sarebbero usciti tutti i prodotti dell’industria moderna.

I coloni fabbricarono prima di tutto stoviglie comuni, ma adatte alla cottura degli alimenti. La materia prima era la stessa argilla del terreno usata per i mattoni, alla quale Cyrus Smith fece aggiungere un po’ di calce e di quarzo. Questa composizione costituiva così una vera «terra da pipe», e con essa si fecero pentole, tazze modellate su ciottoli di forme adatte, piatti, grandi giare, vasche per l’acqua, ecc. La forma di tali oggetti era goffa, difettosa; ma, dopo ch’essi furono cotti ad alta temperatura, la cucina dei Camini si trovò provvista di un certo numero di utensili tanto preziosi, come se il più bel caolino fosse entrato nella loro composizione.

E qui bisogna accennare che Pencroff, desideroso di sapere se quell’argilla così preparata giustificava il suo nome di «terra da pipe», si fabbricò alcune pipe piuttosto grossolane, ch’egli trovò graziosissime, ma alle quali, ahimè! mancava il tabacco. E, bisogna dirlo, questa era una grande privazione per Pencroff.

«Ma verrà anche il tabacco, come ogni altra cosa!» ripeteva egli nei suoi slanci di assoluta fiducia.

I lavori durarono fino al 15 aprile, e si comprende come il tempo fosse stato coscienziosamente impiegato. I coloni, diventati vasai, non fecero altro che stoviglie. Quando fosse convenuto a Cyrus Smith di mutarli in fabbri, essi sarebbero diventati fabbri. Ma l’indomani, essendo domenica, e per di più la domenica di Pasqua, tutti furono d’accordo di santificare quel giorno con il riposo. Quegli americani erano uomini religiosi, scrupolosi osservatori dei precetti della Bibbia; la situazione in cui si trovavano, poi, non poteva che intensificare i loro sentimenti di fiducia verso l’Autore di ogni cosa.

La sera del 15 aprile, i coloni ritornarono, dunque, definitivamente ai Camini. Le stoviglie furono portate via, e il forno lasciato spegnere, in attesa di destinarlo a nuovi usi. Il ritorno fu allietato da un fortunato evento: la scoperta fatta dall’ingegnere di una sostanza atta a surrogare l’esca. Com’è noto, la polpa spugnosa e vellutata di cui l’esca è formata, proviene da un fungo, il poliporo; opportunamente preparata, essa è estremamente infiammabile, soprattutto quando sia stata prima impregnata di polvere da sparo o bollita in una soluzione di nitrato o di clorato di potassio. Ma, sino ad allora nessuno di questi polipori era stato trovato, né alcuna spugnola che potesse farne le veci. Ma quel giorno, l’ingegnere, avendo veduto una certa pianta appartenente alla famiglia dell’artemisia, che annovera fra le sue varietà più notevoli l’assenzio, la citronella, il dragoncello, ecc., ne sradicò alcuni ciuffi, e offrendoli al marinaio:

«Pencroff,» disse «ecco una cosa che vi farà piacere. Pencroff guardò attentamente la pianta, ricoperta di lunghi e serici peli, e»

le cui foglie erano rivestite da una morbida peluria.

«Eh! Che cos’è questo, signor Cyrus?» domandò Pencroff. «Bontà divina! È tabacco?»

«No,» rispose Cyrus Smith «è l’artemisia, l’artemisia cinese per gli esperti; per noi, essa fungerà da esca.»

Infatti, quell’erba, opportunamente essiccata, fornì una sostanza infiammabilissima, specialmente quando, più tardi, l’ingegnere l’ebbe impregnata di nitrato di potassio, di cui l’isola possedeva parecchi strati, e che altro non è che salnitro.

Quella sera i coloni, tutti riuniti nel vano centrale, cenarono assai bene. Nab aveva preparato un lesso di aguti, un prosciutto di capibara aromatizzato; si aggiunsero i tuberi bolliti del caladium macrorhizum, specie di pianta erbacea della famiglia delle aracee, che in una regione tropicale avrebbero raggiunto la forma arborescente. Tali radici erano di sapore eccellente, nutrientissime, simili press’a poco alla sostanza che si vende in Inghilterra sotto il nome di «sagù di Portland» e potevano, in certo qual modo, sostituire il pane, che ancora mancava ai coloni dell’isola di Lincoln.

Finita la cena, prima di abbandonarsi al sonno, Cyrus Smith e i suoi compagni uscirono sulla spiaggia a prendere una boccata d’aria. Erano le otto di sera. La notte si annunciava magnifica. La luna, che era stata piena cinque giorni prima, non era ancora visibile, ma già l’orizzonte s’inargentava delle dolci e pallide sfumature, che si potrebbero chiamare l’alba lunare. Allo zenit australe le costellazioni circumpolari risplendevano, e, sfolgorante fra tutte, la Croce del Sud che alcuni giorni prima l’ingegnere aveva salutata dalla cima del monte Franklin.

Cyrus Smith osservò per qualche tempo quella splendida costellazione, che ha due stelle di prima grandezza, una al vertice e una alla base, al braccio sinistro una stella di seconda, e al braccio destro una stella di terza grandezza.

Poi, dopo aver riflettuto, domandò al ragazzo:

«Harbert, non siamo al 15 di aprile?»

«Sì, signor Cyrus» rispose Harbert.

«Ebbene, se non m’inganno, domani sarà uno dei quattro giorni dell’anno nel quale il tempo vero coincide con il tempo medio, vale a dire, ragazzo mio, che domani, salvo la differenza di qualche secondo, il sole passerà sul meridiano nel momento esatto in cui gli orologi segneranno il mezzogiorno. Se il tempo sarà bello, penso che potrò ottenere la longitudine dell’isola con un’approssimazione di pochi gradi.»

«Senza strumenti, senza sestante?» domandò Gedeon Spilett.

«Sì» riprese l’ingegnere. «Così pure, poiché la notte è serena, voglio tentare questa sera stessa di ottenere la nostra latitudine, calcolando l’altezza della Croce del Sud, vale a dire del polo australe, al di sopra dell’orizzonte. Voi comprenderete, amici, che prima d’intraprendere seri lavori d’installazione, non bisogna accontentarsi solo di sapere che questa terra è un’isola, ma bisogna determinare, per quanto è possibile, a quale distanza essa si trova, sia dal continente americano, sia dal continente australiano, e dai principali arcipelaghi del Pacifico.»

«Infatti,» disse il giornalista «invece di costruire una casa, possiamo avere interesse a costruire un’imbarcazione, se per caso non siamo che a un centinaio di miglia da una costa abitata.»

«Ecco perché» ripeté Cyrus Smith «io mi preparo questa sera a tentar di ottenere la latitudine dell’isola di Lincoln, e domani, a mezzogiorno tenterò di calcolarne la longitudine.»

Se l’ingegnere avesse posseduto un sestante, apparecchio che permette di misurare con grande precisione la distanza angolare degli oggetti per riflessione, l’operazione non avrebbe presentato alcuna difficoltà. In quella sera stessa, per mezzo dell’altezza del polo, l’indomani con il passaggio del sole al meridiano, egli avrebbe ottenuto le coordinate dell’isola. Ma, poiché l’apparecchio mancava, bisognava supplire in qualche modo.

Cyrus Smith rientrò, dunque, ai Camini. Alla luce del focolare, tagliò due righelli piatti, che unì l’uno all’altro per l’estremità, in modo da formare una specie di compasso, i cui bracci potevano scostarsi e riaccostarsi. Il punto d’attacco era fissato a mezzo di una robusta spina d’acacia, che si trovò in un ramo secco della legnaia.

A lavoro ultimato, l’ingegnere tornò sulla spiaggia; ma, poiché occorreva ch’egli prendesse l’altezza del polo su un orizzonte nettamente disegnato, vale a dire un orizzonte di mare, e il capo Artiglio invece gli nascondeva l’orizzonte a sud, dovette cercare un punto d’osservazione più adatto. Il migliore, evidentemente, sarebbe stato sul litorale esposto direttamente al sud, ma si sarebbe dovuto attraversare il Mercy, allora profondo, il che era molto difficile.

Cyrus Smith decise, quindi, di andare a fare le sue osservazioni sull’altipiano di Bellavista, riservandosi di tener conto della sua altezza sul livello del mare, altezza ch’egli si riprometteva di calcolare l’indomani con un semplice procedimento di geometria elementare.

I coloni si trasferirono, dunque, sull’altipiano, risalendo la riva sinistra del Mercy, e andarono a collocarsi sull’orlo orientato da nordovest a sudest, cioè sulla linea di rocce capricciosamente frastagliate che costeggiava il fiume.

Questa parte dell’altipiano dominava di una cinquantina di piedi le alture della riva destra, che discendevano, per una duplice china, fino all’estremità del capo Artiglio e fino alla costa meridionale dell’isola. Nessun ostacolo si opponeva, dunque, allo sguardo, che abbracciava l’orizzonte per un semicerchio, dal capo Artiglio fino al promontorio del Rettile. A sud, questo orizzonte, rischiarato inferiormente dalla prima luce lunare, spiccava vivamente sul cielo e lo si poteva traguardare con una certa precisione.

In quel momento, la Croce del Sud si presentava all’osservatore capovolta, con la stella alfa alla base, che è più vicina al polo australe.

Questa costellazione non è così vicina al polo antartico quanto la stella polare al polo artico. La sua stella alfa ne dista ventisette gradi circa, ma Cyrus Smith sapeva di dover tener conto di questa distanza nel suo calcolo. Egli ebbe inoltre cura di osservare la stella al momento in cui essa passava al meridiano inferiore, il che avrebbe reso più facile la sua osservazione.

Cyrus Smith diresse, dunque, un braccio del suo compasso di legno sull’orizzonte del mare, l’altro su alfa, come avrebbe fatto con i cannocchiali di un circolo ripetitore, e l’apertura dei due bracci gli diede la distanza angolare che separava alfa dall’orizzonte. Allo scopo, poi, di conservare intatto l’angolo ottenuto, fissò, per mezzo di spine, le due assicelle del suo apparecchio su di una terza, posta trasversalmente, in modo che il loro divario fosse stabilmente assicurato.

Ciò fatto, non restava che calcolare l’angolo ottenuto, riportando l’osservazione al livello del mare, tenendo cioè conto della depressione dell’orizzonte, ciò che rendeva necessario misurare l’altezza dell’altipiano. Il valore di quest’angolo avrebbe dato così l’altezza di alfa, e conseguentemente quella del polo sopra l’orizzonte, vale a dire la latitudine dell’isola; poiché la latitudine di un punto del globo è sempre uguale all’altezza del polo al di sopra dell’orizzonte di quel punto.

Questi calcoli furono rimandati all’indomani, e, alle dieci, tutti dormivano profondamente.

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