CAPITOLO XIV INVENTARIO «LA NOTTE» ALCUNE LETTERE «CONTINUAZIONE DELLE RICERCHE» PIANTE E ANIMALI «GRAVE PERICOLO CORSO DA HARBERT» A BORDO «LA PARTENZA» CATTIVO TEMPO «UN BARLUME D’ISTINTO» PERDUTI IN MARE «UN FUOCO ACCESO A PROPOSITO»

PENCROFF, Harbert e Gedeon Spilett erano rimasti silenziosi in mezzo all’oscurità.

Pencroff chiamò ad alta voce.

Non ebbe nessuna risposta.

Il marinaio batté allora l’acciarino e accese una frasca. Quella luce rischiarò per un istante una saletta, che parve assolutamente abbandonata. In fondo c’era un camino rudimentale, con delle ceneri fredde e una bracciata di legna secca. Pencroff vi gettò il ramoscello infiammato, la legna scoppiettò e diede una viva luce.

Il marinaio e i suoi due compagni scorsero allora un letto disfatto, le cui coperte, umide e ingiallite, provavano che non serviva più da gran tempo. In un angolo del caminetto, due ramini coperti di ruggine e una marmitta rovesciata; un armadio, con qualche vestito da marinaio mezzo ammuffito; sulla tavola, una posata di stagno e una Bibbia, rosa dall’umidità; in un angolo, alcuni utensili: vanga, zappa, piccone, due fucili da caccia, di cui uno rotto; su di una scansia, un bariletto di polvere ancora intatto, un bariletto di piombo e parecchie scatole d’esca; il tutto coperto da uno spesso strato di polvere, accumulatosi probabilmente in lunghi anni. -

«Non c’è nessuno» disse il giornalista.

«Nessuno!» rispose Pencroff.

«È molto tempo che questa stanza non è più abitata» fece osservare Harbert.

«Sì, molto tempo!» approvò il giornalista.

«Signor Spilett,» disse allora Pencroff «invece di ritornare a bordo, penso che sia meglio passare la notte in questa abitazione.»

«Avete ragione, Pencroff,» rispose Gedeon Spilett «ma se il suo proprietario ritorna, be’, forse non si lagnerà di trovar preso il suo posto!»

«Non ritornerà!» disse il marinaio, crollando il capo.

«Credete che abbia lasciato l’isola?» chiese il cronista.

«Se avesse abbandonato l’isola, avrebbe portato seco le armi e gli utensili» rispose Pencroff. «Voi sapete il valore che i naufraghi danno a tali oggetti, che sono gli ultimi avanzi del naufragio. No, no!» ripeté il marinaio con accento di convinzione «No, non ha lasciato l’isola! Se si fosse salvato su di una barca costruita da lui stesso, avrebbe ancor meno abbandonato questi oggetti di prima necessità! No, egli è nell’isola!»

«Vivo?…» domandò Harbert.

«Vivo o morto. Ma se è morto, non si sarà sotterrato da sé, suppongo,» rispose Pencroff «e ne ritroveremo almeno i resti!»

Fu, dunque, deciso di passare la notte nell’abitazione abbandonata, che poteva essere sufficientemente riscaldata mediante una provvista di legna trovata in un canto. Chiusa la porta, Pencroff, Harbert e Gedeon Spilett, seduti su di una panca, rimasero là, parlando poco, ma riflettendo molto. Essi si trovavano in una disposizione di spirito atta a supporre come ad attendersi qualsiasi cosa, e ascoltavano attentamente i rumori esterni. La porta avrebbe potuto aprirsi improvvisamente, e un uomo presentarsi a loro, che non ne sarebbero stati sorpresi, malgrado quanto quella dimora rivelava di abbandono, e avevano le mani pronte a stringere quelle di quell’uomo, di quel naufrago, di quell’amico sconosciuto, che era aspettato da amici!

Ma nessun rumore si fece udire, la porta non s’aperse e le ore trascorsero così.

Come sembrò lunga quella notte al marinaio e ai suoi due compagni! Harbert solo aveva dormito un paio d’ore, giacché alla sua età il sonno è un bisogno assoluto. Tutti e tre avevano fretta di riprendere l’esplorazione del giorno prima e di frugare quell’isolotto fin nei suoi angoli più segreti! Le deduzioni di Pencroff erano assolutamente giuste, ed era quasi certo che, essendo la casa abbandonata con gli utensili e le armi, l’ospite era perito. Conveniva, dunque, cercarne i resti e dar loro almeno sepoltura cristiana.

Sorse il giorno, Pencroff e i suoi compagni procedettero immediatamente all’esame dell’abitazione.

Era stata costruita in una posizione veramente felice, dietro a una collinetta ombreggiata da cinque o sei magnifiche acacie gommifere. Attraverso gli alberi, davanti alla facciata, la scure aveva aperto una vasta radura, che permetteva agli sguardi di spaziare sul mare aperto. Un tappeto erboso, fiancheggiato da un recinto di legno che cadeva in rovina, conduceva alla spiaggia, sulla sinistra della quale s’apriva la foce del ruscello.

Quell’abitazione era stata fatta con assi ed era facile indovinare che esse provenivano dallo scafo o dal ponte d’una nave. Era, dunque, probabile che un bastimento disalberato fosse stato gettato sulla costa dell’isola, che un solo uomo dell’equipaggio si fosse salvato e che con i rottami della nave, quell’uomo, avendo degli attrezzi a sua disposizione, avesse costruito quella dimora.

Questo divenne anche più evidente quando Gedeon Spilett, dopo aver fatto il giro dell’abitazione, vide su di una tavola, forse una di quelle che formavano l’impavesata del bastimento naufragato, queste lettere già cancellate a metà:

BR. TAN. A

«Britannia!» esclamò Pencroff, chiamato dal giornalista «è un nome comune a molti velieri, e non potrei dire se questo era inglese o americano!»

«Poco importa, Pencroff!»

«Poco importa, infatti,» rispose il marinaio; «e il superstite del suo equipaggio, se vive ancora, noi lo salveremo, a qualunque Paese appartenga! Ma, prima di ricominciare la nostra esplorazione, ritorniamo al Bonadventure!»

Una specie d’inquietudine s’era impadronita di Pencroff per la sorte della sua imbarcazione. Se l’isolotto era abitato e se qualche abitante se ne fosse impadronito… Ma finì per alzar le spalle a quest’inverosimile supposizione.

Fatto sta, che al marinaio non spiaceva d’andare a far colazione a bordo. La strada, già tutta tracciata, del resto, non era lunga: un miglio appena. Fu ripreso, dunque, il cammino, pur frugando sempre con lo sguardo i boschi e i cedui, attraverso i quali capre e porci fuggivano a centinaia.

Venti minuti dopo aver lasciato l’abitazione, Pencroff e i suoi compagni rivedevano la costa dell’isola e il Bonadventure, assicurato all’ancora, che mordeva profondamente la sabbia.

Pencroff non poté trattenere un sospiro di soddisfazione. Dopo tutto, quell’imbarcazione era sua figlia, e la condizione dei padri è quella d’essere spesso inquieti oltre il ragionevole.

I tre coloni risalirono a bordo, fecero colazione in modo da non aver bisogno di pranzare che molto tardi, poi, terminato il pasto, l’esplorazione venne ripresa e condotta con la cura più minuziosa.

Insomma, era assai probabile che l’unico abitante dell’isolotto fosse morto. Perciò era piuttosto un morto che un vivo colui del quale Pencroff e i compagni cercavano le tracce! Ma le loro ricerche furono vane, e, per buona metà della giornata, perlustrarono inutilmente le macchie d’alberi che coprivano l’isolotto. Bisognò proprio ammettere allora che, se il naufrago era morto, non restava più ormai alcuna traccia del suo cadavere e che qualche belva, indubbiamente, l’aveva divorato fino all’ultimo osso.

«Ripartiremo domani allo spuntar del giorno» disse Pencroff ai compagni, che verso le due dopo mezzogiorno si coricarono all’ombra d’un gruppo di pini, per riposarsi un poco.

«Credo che possiamo senza scrupoli portar con noi gli utensili appartenuti al naufrago» soggiunse Harbert.

«Lo credo anch’io» disse Gedeon Spilett. «Queste armi, questi arnesi, completeranno il materiale di GraniteHouse. Se non m’inganno, la riserva di polvere e di piombo è importante.»

«Sì,» rispose Pencroff «ma non dimentichiamo di catturare una o due coppie di questi porci, di cui l’isola di Lincoln è priva…»

«Né di raccogliere queste sementi,» aggiunse Harbert «che ci daranno tutte le verdure del vecchio e del nuovo continente.»

«Allora, sarebbe forse opportuno rimanere un giorno di più sull’isola di Tabor,» disse il cronista «allo scopo di raccogliervi tutto quello che ci può essere utile.»

«No, signor Spilett» rispose Pencroff; «io vi chiedo di partire proprio domani, allo spuntar del giorno. Mi pare che il vento abbia tendenza a girare ad ovest, e, dopo aver avuto buon vento per venire, avremo buon vento anche per ritornare.»

«Allora non perdiamo tempo!» disse Harbert alzandosi.

«Non perdiamo tempo» rispose Pencroff. «Tu Harbert, occupati di raccogliere le sementi, che conosci meglio di noi. Intanto, il signor Spilett e io andremo a dar la caccia ai porci, e benché ci manchi Top, spero bene che riusciremo a catturarne alcuni!»

Harbert s’avviò, dunque, per il sentiero che doveva ricondurlo verso la parte coltivata dell’isolotto, mentre il marinaio e il giornalista rientravano direttamente nella foresta.

Molti esemplari della razza porcina fuggirono dinanzi a essi; quegli animali, singolarmente agili, non sembravano disposti a lasciarsi avvicinare. Ciò nonostante, dopo una mezz’ora di inseguimenti, i cacciatori erano riusciti a impadronirsi d’una coppia, che s’era rintanata in un ceduo fitto, quando delle grida risuonarono a qualche centinaio di passi, a nord dell’isolotto. A quelle grida si mescolavano urla rauche orribili, che non avevano nulla di umano.

Pencroff e Gedeon Spilett si rialzarono e i porci approfittarono di quel movimento per scappare, proprio mentre il marinaio si preparava a legarli.

«È la voce di Harbert!» disse il giornalista.

«Corriamo!» gridò Pencroff.

Il marinaio e Gedeon Spilett si diressero con tutta la velocità delle loro gambe verso il luogo da cui provenivano quelle grida.

Avevano fatto bene ad affrettarsi, giacché alla svolta del sentiero, presso una radura, scorsero il giovinetto atterrato da un essere selvaggio, una gigantesca scimmia indubbiamente, che stava per ridurlo a mal partito.

Gettarsi sul mostro, atterrarlo a sua volta, strappargli Harbert, e poi afferrarlo solidamente, fu l’affare di un istante per Pencroff e Gedeon Spilett. Il marinaio era di una forza erculea, il giornalista robustissimo pure; malgrado la resistenza del mostro, essi lo legarono ben stretto, in modo che non potesse più fare un movimento.

«Ti sentì male, Harbert?» domandò Gedeon Spilett.

«No, no!»

«Ah, se quella scimmia t’avesse ferito!…» esclamò Pencroff.

«Ma non è una scimmia!» rispose Harbert.

A queste parole, Pencroff e Gedeon Spilett guardarono allora l’essere singolare, che giaceva a terra.

In verità, non era una scimmia! Era una creatura umana, era un uomo! Ma quale uomo! Un selvaggio, in tutta l’orribile accezione della parola, e tanto più spaventevole, in quanto sembrava esser caduto all’ultimo grado dell’abbrutimento!

Capigliatura ispida, barba incolta che scendeva fino al petto, corpo quasi nudo, salvo un brandello di stoffa sulle reni, occhi feroci, mani enormi, unghie smisuratamente lunghe, colorito scuro come il mogano, piedi induriti come il corno: tale era la miserabile creatura che pure bisognava chiamare uomo! Ma si aveva veramente il diritto di chiedersi se in quel corpo c’era ancora un’anima, o se soltanto il volgare istinto del bruto era sopravvissuto in lui!

«Siete ben sicuro che sia un uomo o che lo sia stato?» domandò Pencroff al giornalista.

«Ahimè, non c’è dubbio!» rispose questi.

«Sarebbe, dunque, il naufrago?» disse Harbert.

«Sì,» rispose Spilett «ma il disgraziato non ha più nulla di umano! Il giornalista diceva il vero. Era evidente che, se il naufrago era stato un»

essere civile, l’isolamento ne aveva fatto un selvaggio, e peggio, forse, un vero uomo dei boschi. Suoni rauchi gli uscivano dalla gola, fra denti che avevano l’acutezza di quelli dei carnivori, fatti per masticare ormai soltanto carne cruda. La memoria doveva indubbiamente averlo abbandonato da gran tempo e pure da tempo egli non sapeva più servirsi dei suoi utensili, delle sue armi; non sapeva più accendere il fuoco! Si vedeva ch’era ancora svelto e agile, ma che tutte le qualità fisiche s’erano sviluppate in lui a detrimento delle qualità morali!

Gedeon Spilett gli parlò. Non parve comprendere e nemmeno udire… Eppure, guardandolo bene negli occhi, il cronista credette di vedere che la ragione non era interamente spenta in lui.

Frattanto, il prigioniero non si dibatteva e non tentava di spezzare i suoi lacci. Era annientato dalla presenza di quegli uomini di cui era stato il simile? Ritrovava egli in un angolo del suo cervello qualche fuggitivo ricordo che lo riconduceva all’umanità? Lasciato libero, avrebbe tentato di fuggire o sarebbe rimasto? Non si sa, ma nemmeno ne fu fatta la prova e, dopo aver considerato il meschino con estrema attenzione:

«Chiunque sia,» disse Gedeon Spilett «chiunque sia stato o possa divenire, il nostro dovere è di condurlo con noi all’isola di Lincoln!»

«Sì, si!» rispose Harbert «e forse si potrà, con molte cure, risvegliare in lui qualche barlume d’intelligenza!»

«L’anima non muore,» soggiunse il giornalista; «e sarebbe una grande soddisfazione strappare questa creatura di Dio all’abbrutimento!»

Pencroff scuoteva la testa in aria di dubbio.

«Bisogna tentare, a ogni modo,» riprese il giornalista «l’umanità ce lo impone.»

Era infatti il loro dovere di essere civili e cristiani. Tutt’e tre lo compresero e sapevano bene che Cyrus Smith li avrebbe approvati per avere agito così.

«Lo lasceremo legato?» domandò il marinaio.

«Forse camminerebbe se gli sciogliessimo i piedi?» disse Harbert.

«Proviamo» rispose Pencroff.

Le corde che impacciavano i piedi del prigioniero furono sciolte, ma le sue braccia rimasero strettamente legate. Egli si alzò da sé e non parve manifestare alcun desiderio di fuggire. I suoi occhi aridi dardeggiavano sui tre uomini che camminavano vicino a lui, e nulla denotava ch’egli si ricordasse d’essere un loro simile o almeno d’esserlo stato. Un sibilo continuo gli sfuggiva dalle labbra, e il suo aspetto era feroce; ma non cercò di resistere.

Per consiglio del giornalista, lo sventurato venne ricondotto al suo rifugio. Forse la vista degli oggetti che gli appartenevano avrebbe fatto qualche impressione su di lui! Forse bastava una scintilla per ravvivare il suo pensiero oscurato, per riaccendere la sua anima spenta!

L’abitazione non era lontana. In pochi minuti vi giunsero; ma anche là il prigioniero non riconobbe nulla: sembrava aver perduto coscienza di tutto!

Che pensare del grado d’abbrutimento in cui lo sciagurato era caduto, se non che la sua prigionia sull’isolotto datava già da gran tempo e che, dopo esservi arrivato ragionevole, l’isolamento l’aveva ridotto in quello stato?

Il giornalista ebbe allora l’idea che la vista del fuoco forse avrebbe agito su di lui, e in un istante una di quelle belle fiammate, che attirano anche gli animali, illuminò il focolare.

La vista della fiamma sembrò dapprima fissare l’attenzione dell’infelice; ma subito dopo egli indietreggiò e il suo sguardo incosciente si spense.

Evidentemente, non c’era nient’altro da fare, almeno per il momento, che condurlo a bordo del Bonadventure, come fu fatto; e là egli rimase sotto la guardia di Pencroff.

Harbert e Gedeon Spilett ritornarono sull’isolotto per terminarvi le loro ricerche, e alcune ore dopo erano di ritorno alla spiaggia, recando gli utensili e le armi, una raccolta di sementi di ortaggi, alcuni capi di selvaggina e due coppie di porci. Il tutto fu imbarcato e il Bonadventure si tenne pronto a levar l’ancora, appena la marea dell’indomani mattina si fosse fatta sentire.

Il prigioniero era stato messo nella cabina di prua, dove rimase calmo, silenzioso, sordo e muto a un tempo.

Pencroff gli offrì da mangiare, ma egli respinse la carne cotta che gli fu presentata e che, senza dubbio, non gli si addiceva più. Infatti, avendogli il marinaio mostrato una delle anatre uccise da Harbert, egli vi si gettò sopra con un’avidità bestiale, e la divorò.

«Credete che tornerà in sé?» disse Pencroff scuotendo il capo.

«Forse» rispose il giornalista. «Non è impossibile che le nostre cure finiscano per agire su di lui, poiché l’isolamento l’ha reso così, ma ormai non sarà più solo.»

«È molto tempo, senza dubbio, che il poveretto si trova in questo stato!» disse Harbert.

«Forse» rispose Gedeon Spilett.

«Che età può avere?» domandò il ragazzo.

«È difficile dirlo» rispose il giornalista; «giacché è impossibile vedere i suoi lineamenti sotto la folta barba che gli copre la faccia; ma non è più giovane e suppongo che debba avere almeno cinquant’anni.»

«Avete notato, signor Spilett, come i suoi occhi sono profondamente infossati sotto l’arco delle sopracciglia?» domandò il ragazzo.

«Sì, Harbert; ma aggiungo ch’essi sono più umani di quanto si potrebbe credere dall’aspetto della persona.»

«Insomma, vedremo» rispose Pencroff. «Sono proprio curioso di conoscere il giudizio del signor Smith sul nostro selvaggio. Andavamo a cercare una creatura umana e riconduciamo un mostro! Insomma, si fa quel che si può!»

La notte passò e non si sa se il prigioniero dormi oppure no, ma, a ogni modo, benché fosse stato slegato, non si mosse. Era come quelle belve che nei primi momenti della loro cattura rimangono accasciate, salvo a essere riprese più tardi da impeti di rabbia.

Allo spuntare del giorno seguente, il 15 ottobre, il cambiamento di tempo previsto da Pencroff s’era prodotto. Il vento aveva piegato a nordovest e favoriva il ritorno del Bonadventure; ma nello stesso tempo rinforzava e quindi avrebbe reso la navigazione più difficile.

Alle cinque del mattino fu levata l’ancora. Pencroff prese una mano di terzarolo alla randa e fece rotta per estnordest, con la prora sull’isola di Lincoln.

Il primo giorno di traversata non si verificò alcun incidente. Il prigioniero era rimasto calmo nella cabina di prua, e siccome era stato marinaio, pareva che le agitazioni del mare producessero su di lui una specie di salutare reazione. Gli ritornava, dunque, qualche ricordo del suo antico mestiere? A ogni modo, si manteneva molto tranquillo, meravigliato, più che abbattuto.

L’indomani, 16 ottobre, il vento crebbe molto, girando ancor più a nord, e di conseguenza in una direzione meno favorevole alla rotta del Bonadventure, che sobbalzava sulle onde. Pencroff fu presto costretto a navigare di bolina, e senza dir nulla cominciò a sentirsi inquieto sullo stato del mare, e dei suoi colpi sulla prua dell’imbarcazione. Certo, se il vento non cambiava, sarebbe occorso più tempo per raggiungere l’isola di Lincoln di quanto se n’era impiegato per arrivare fino all’isola di Tabor.

Infatti, la mattina del 17, dopo quarantott’ore che il Bonadventure era partito, nulla indicava che fosse giunto nelle vicinanze dell’isola. Era impossibile, d’altronde, servirsi della stima per calcolare la rotta percorsa, perché la direzione e la velocità erano state troppo irregolari.

Ventiquattr’ore dopo, non v’era ancora nessuna terra in vista. Il vento era allora del tutto contrario e il mare orribile. Bisognò manovrare rapidamente le vele perché i colpi di mare venivano a bordo, prendere mani di terzarolo e spesso cambiare le mure, facendo delle piccole bordate. Accadde persino che, nella giornata del 18, il Bonadventure fu interamente coperto da un’ondata, e se i passeggeri non avessero prima preso la precauzione di assicurarsi in coperta, ne sarebbero stati strappati via.

In quell’occasione Pencroff e i suoi compagni, occupatissimi a trarsi d’imbarazzo, ricevettero un aiuto insperato dal prigioniero, che si slanciò su dal boccaporto, come se il suo istinto di marinaio avesse preso il sopravvento, e ruppe l’impavesata con un vigoroso colpo di asta per far scaricare più presto l’acqua, che inondava il ponte; poi, alleggiata l’imbarcazione, ridiscese nella sua cabina senza aver pronunciato una parola.

Pencroff, Gedeon Spilett e Harbert, stupefatti, l’avevano lasciato agire liberamente.

Nondimeno la situazione era cattiva, e il marinaio aveva motivo di credersi smarrito su quell’immenso mare, senza alcuna possibilità di ritrovare la rotta.

La notte dal 18 al 19 fu oscura e fredda. Tuttavia, verso le undici il vento calò, il mare diminuì di violenza e il Bonadventure, meno scosso, acquistò una maggior velocità. Del resto, esso aveva meravigliosamente tenuto il mare.

Né Pencroff, né Gedeon Spilett, né Harbert pensarono a prendersi un’ora di sonno. Vegliarono attentamente, poiché o l’isola di Lincoln non era lontana, e in tal caso al sorgere del giorno se ne sarebbe avuto conoscenza, o il Bonadventure, trascinato dalle correnti, aveva derivato, e allora sarebbe stato quasi impossibile rettificarne la rotta.

Pencroff, inquietissimo, non disperava tuttavia, perché aveva un animo fortemente temprato, e, seduto al timone, cercava ostinatamente di penetrare l’ombra densa che l’avviluppava.

Verso le due del mattino egli s’alzò improvvisamente:

«Un fuoco! Un fuoco!» gridò.

E, infatti, un vivo chiarore appariva a venti miglia a nordest. L’isola di Lincoln era là, e quel fuoco, evidentemente acceso da Cyrus Smith, mostrava la rotta da seguire.

Pencroff, che dirigeva l’imbarcazione troppo a nord, modificò la direzione e mise la prora su quel fuoco che brillava all’orizzonte, come una stella di prima grandezza.

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