CAPITOLO XII L’ATTREZZATURA DELL’IMBARCAZIONE «UN ATTACCO DI VOLPI» JUP FERITO «JUP CURATO» JUP GUARITO «LA COSTRUZIONE DELLA BARCA È FINITA» TRIONFO DI PENCROFF «IL «BONADVENTURE»«PRIMA PROVA A SUD DELL’ISOLA «UN DOCUMENTO INATTESO»

LA SERA stessa i cacciatori ritornarono, dopo una magnifica caccia; letteralmente carichi di selvaggina, portavano tutto quello che potevano portare quattro uomini. Top aveva una collana di codoni intorno al collo e Jup cinture di beccaccini intorno al corpo.

«Ecco, padrone,» gridò Nab «ecco di che occupare il nostro tempo. Conserve, pasticci, ne avremo una gradita provvista! Ma bisogna che qualcuno mi aiuti. Conto su di te, Pencroff.»

Il marinaio rispose:

«No, Nab. L’attrezzatura dell’imbarcazione mi chiama, e tu dovrai fare senza di me.»

«E voi, signor Harbert?»

«Io, Nab, debbo andare al recinto» rispose il ragazzo.

«Mi aiuterete, dunque, voi, signor Spilett?»

«Per farti un piacere, Nab,» rispose il giornalista «ma ti prevengo che se mi sveli le tue ricette, le pubblicherò.»

«Come vi piacerà, signor Spilett,» rispose Nab, «fate pure come vi piacerà!»

Ed ecco, l’indomani, Gedeon Spilett, divenuto aiutante di Nab, e installato nel suo laboratorio culinario. Ma prima l’ingegnere gli aveva fatto conoscere il risultato dell’esplorazione, da lui tentata il giorno innanzi, e a questo proposito il cronista condivise l’opinione di Cyrus Smith, che, cioè, sebbene egli non avesse trovato nulla, c’era pur sempre un segreto da scoprite!

Il freddo persistette ancora per una settimana, e i coloni non uscirono da GraniteHouse, se non per prodigare le necessarie cure al pollaio. La dimora era profumata dai buoni odori emananti dalle sapienti manipolazioni di Nab e del giornalista. Ma il prodotto della caccia nella palude non fu tutto trasformato in carne conservata, e siccome la selvaggina, con quel freddo intenso, si manteneva in perfetto stato, anatre selvatiche e altri volatili furono mangiati freschi e dichiarati superiori a tutte le altre bestie acquatiche del mondo conosciuto.

Durante quella settimana Pencroff, aiutato da Harbert, che maneggiava abilmente l’ago da velaio, lavorò con tanto ardore, che le vele dell’imbarcazione furono finite. Il cordame di canapa non mancava, grazie alla ritrovata attrezzatura del pallone. I cavi, il cordame della rete, tutto era ottimamente marinaro, e il marinaio ne trasse buon partito. Sugli orli delle vele furono cucite forti ralinghe, e rimaneva ancora di che fabbricare le drizze, le sartie, le scotte, ecc. Quanto ai bozzelli, seguendo i consigli di Pencroff e servendosi del tornio precedentemente installato, Cyrus Smith fabbricò tutti quelli che erano necessari. Accadde, quindi, che l’attrezzatura fosse pronta assai prima che il battello fosse finito. Pencroff preparò anche una bandiera azzurra, rossa e bianca; i colori erano stati forniti da piante coloranti, che abbondavano nell’isola. Solamente, alle trentasette stelle, rappresentanti i trentasette Stati dell’Unione, che risplendono nelle bandiere americane, il marinaio ne aveva aggiunto una trentottesima, la stella dello «Stato di Lincoln», poiché egli considerava la sua isola come già unita alla grande Repubblica.

«Eh!» diceva «è unita con il cuore, se non lo è ancora di fatto! Intanto, quella bandiera fu inalberata alla finestra centrale di GraniteHouse e i coloni la salutarono con tre evviva.»

Si avvicinava il termine della stagione fredda e sembrava che quel secondo inverno dovesse passare senza gravi incidenti, quando, nella notte dell’11 agosto, l’altipiano di Bellavista fu minacciato di completa devastazione.

Dopo una giornata molto attiva, i coloni dormivano profondamente, quando, verso le quattro di mattina, furono improvvisamente svegliati dai latrati di Top.

Il cane questa volta non abbaiava vicino alla bocca del pozzo, ma sulla soglia della porta, e vi si gettava contro come se avesse voluto sfondarla; Jup, dal canto suo, mandava grida acute.

«Ebbene, Top!» gridò Nab, che fu il primo a svegliarsi. Ma il cane seguitava ad abbaiare con maggior furore.

«Che cosa c’è, dunque?» domandò Cyrus Smith.

E tutti, vestiti in fretta e furia, si precipitarono verso le finestre della camera, aprendole.

Sotto i loro occhi si stendeva uno strato di neve, che appena appariva bianca in quella notte oscurissima. I coloni non videro niente, ma sentirono dei singolari latrati nell’ombra. Era evidente che la spiaggia era stata invasa da un certo numero d’animali, che non si potevano distinguere.

«Che cos’è?» esclamò Pencroff.

«Lupi, giaguari o scimmie!» rispose Nab.

«Diamine! Ma possono raggiungere facilmente l’altipiano!» disse il giornalista.

«E il pollaio,» gridò Harbert «e le nostre piantagioni?…»

«Per dove sono passati?» chiese Pencroff.

«Avranno varcato il ponticello del greto,» rispose l’ingegnere «che uno di noi avrà dimenticato di richiudere.»

«Infatti,» disse Spilett «ricordo di averlo lasciato aperto…»

«Un bell’affare avete fatto, signor Spilett!» esclamò il marinaio.

«Quel che è fatto è fatto» rispose Cyrus Smith. «Pensiamo adesso a quello che bisogna fare!»

Queste le domande e le risposte rapidamente scambiate fra Cyrus Smith e i suoi compagni. Intanto, era certo che il ponticello era stato varcato, che il greto era invaso da bestie e che queste, quali si fossero, potevano, risalendo la riva sinistra del Mercy, arrivare all’altipiano di Bellavista. Bisognava, dunque, superarle in sveltezza e all’occorrenza combatterle.

«Ma che bestie sono?» fu chiesto una seconda volta, in un momento in cui i latrati echeggiavano con maggior forza.

Quei latrati fecero trasalire Harbert, che si ricordò di averli già uditi durante la sua prima visita alle sorgenti del Creek Rosso.

«Sono di quella specie di volpi detti culpei» disse.

«Avanti!» gridò il marinaio.

E tutti, armatisi di scuri, carabine e rivoltelle, si precipitarono nell’ascensore e scesero sulla spiaggia.

Questi culpei sono bestie pericolose, quando sono in gran numero e irritate dalla fame. Ciò nonostante i coloni non esitarono a gettarsi in mezzo al branco, e le loro prime rivoltellate, lanciando rapidi bagliori nell’oscurità, fecero indietreggiare i primi assalitori.

Quel che importava prima di tutto era di impedire a quei predoni di spingersi sino all’altipiano di Bellavista, poiché le piantagioni e il pollaio sarebbero stati in loro balia e danni immensi, forse irreparabili, specialmente al campo di frumento, si sarebbero inevitabilmente verificati. Ma siccome l’invasione dell’altipiano non poteva effettuarsi che dalla riva sinistra del Mercy, bastava opporre alle volpi una barriera insormontabile sulla stretta porzione di sponda compresa tra il fiume e la muraglia di granito.

Questo fu compreso da tutti, e a un ordine di Cyrus Smith, raggiunsero il punto designato, mentre il branco di volpi si slanciava nel buio.

Cyrus Smith, Gedeon Spilett, Harbert, Pencroff e Nab si disposero, dunque, in modo da formare una linea invisibile. Top, con le formidabili mascelle aperte, precedeva i coloni seguito da Jup, armato d’un nodoso randello, che brandiva come una clava.

La notte era estremamente buia. Soltanto al bagliore degli spari, che dovevano andare tutti a segno, si scorgevano gli assalitori, che sembravano essere almeno un centinaio e i cui occhi brillavano come carboni ardenti.

«Bisogna che non passino!» esclamò Pencroff.

«Non passeranno!» rispose l’ingegnere.

Ma, se non passarono, non fu certo perché non l’avessero tentato. Le ultime file incalzavano le prime e fu una lotta incessante a colpi di rivoltella e di accetta. Numerosi cadaveri di culpei dovevano già essere sparsi al suolo, ma la turba non accennava a diminuire e si sarebbe detto che sempre nuovi rinforzi le giungessero attraverso il ponticello del greto.

In breve, i coloni furono costretti a lottare a corpo a corpo e non poterono evitare alcune ferite, fortunatamente leggere. Con una rivoltellata, Harbert aveva liberato Nab, sul cui dorso un culpeo stava per abbattersi come un gattopardo. Top si batteva con vero furore, saltando alla gola delle volpi e strangolandole senz’altro. Jup, armato del suo bastone, menava botte da orbi e invano si tentava di farlo retrocedere. Dotato indubbiamente d’una vista che gli permetteva di penetrare in quell’oscurità, era sempre ove più ferveva la mischia ed emetteva di tanto in tanto un fischio acuto, ch’era per lui il segno del massimo giubilo. A un certo punto, s’avanzò tanto, che al bagliore di una revolverata, lo si poté vedere circondato da cinque o sei grandi culpei, ai quali teneva testa con raro sangue freddo.

Ciò nonostante la lotta doveva finire con la vittoria dei coloni, ma solo dopo una resistenza di più di due ore! Le prime luci dell’alba determinarono certo la ritirata degli assalitori, che se la svignarono in direzione nord, in modo da ripassare il ponticello, che Nab corse immediatamente a rialzare.

Quando l’apparire del giorno ebbe sufficientemente illuminato il campo di battaglia, i coloni poterono contare una cinquantina di cadaveri sparsi sulla spiaggia.

«E Jup!» esclamò Pencroff «dov’è Jup?»

Jup era scomparso. Il suo amico Nab lo chiamò, e per la prima volta, Jup non rispose all’appello.

Tutti si misero a cercare Jup, temendo di doverlo contare fra i morti. Il luogo fu sgombrato dai cadaveri che imbrattavano la neve con il loro sangue e Jup venne ritrovato in mezzo a un vero e proprio cumulo di volpi, le cui mascelle fracassate e le cui reni spezzate testimoniavano ch’esse avevano avuto a che fare con il terribile randello dell’intrepido animale. Il povero Jup teneva ancora in mano il troncone del suo bastone rotto; privato della sua arma, era stato sopraffatto dal numero, e profonde ferite gli solcavano il petto.

«È vivo!» gridò Nab, chinandosi su di lui.

«E noi lo salveremo,» rispose il marinaio «lo cureremo come fosse uno di noi!»

Sembrava che Jup comprendesse, poiché piegò la testa sulla spalla di Pencroff, come per ringraziarlo. Il marinaio era ferito egli pure, ma le sue ferite, come quelle dei suoi compagni, erano insignificanti, giacché grazie alle loro armi da fuoco, avevano potuto quasi sempre tener gli assalitori a distanza. Non c’era, dunque, che l’orango in stato grave.

Jup, portato da Nab e Pencroff, fu condotto fino all’ascensore. Dalle labbra, gli usciva a stento un debolissimo gemito. Venne fatto risalire dolcemente a GraniteHouse. Là, fu deposto su di un materasso tolto a una delle cuccette e le sue ferite furono lavate con la massima cura. Non pareva che avessero toccato alcun organo vitale, ma Jup era molto indebolito per la perdita di sangue, e la febbre si manifestò abbastanza forte.

Dopo la medicazione, fu coricato, gli fu imposta una severa dieta, «proprio come a una persona umana», disse Nab, e gli fecero bere delle tazze di decotto rinfrescante, fatto con ingredienti forniti dalla farmacia vegetale di GraniteHouse.

Jup s’addormentò d’un sonno a tutta prima agitato; ma a poco a poco la sua respirazione divenne più regolare e lo si lasciò riposare nella maggior calma possibile. Di tanto in tanto Top, camminando, si può dire «sulla punta dei piedi», andava a trovare il suo amico e pareva approvare tutte le cure che gli venivano prodigate. Una mano di Jup pendeva fuori dal giaciglio e Top la leccava con aria contrita.

Quella stessa mattina i coloni procedettero al seppellimento delle volpi morte, che furono trascinate fino alla foresta del Far West e sotterrate profondamente.

Quell’attacco, che avrebbe potuto avere conseguenze assai gravi, fu una lezione per i coloni, e da allora in poi non si coricarono più, senza che uno di essi non si fosse assicurato che tutti i ponti erano alzati e che nessuna invasione era possibile.

Intanto Jup, dopo aver dato seriamente da temere durante alcuni giorni, reagì vigorosamente contro il male. La sua costituzione ebbe la meglio, la febbre diminuì a poco a poco, e Gedeon Spilett, ch’era anche un po’ medico, lo considerò presto come fuori pericolo. Il 16 agosto Jup cominciò a mangiare. Nab gli faceva dei buoni piattini zuccherati, che il malato assaporava con voluttà, giacché, se la brava bestia aveva un difettuccio, era proprio quello d’essere un tantino ghiotta, e Nab non aveva mai fatto niente per correggerla di quel difetto.

«Che cosa volete?» diceva a Gedeon Spilett, che qualche volta gli rimproverava di viziarlo «non ha altro piacere che quello della gola, questo povero Jup, e io sono troppo lieto di poter ricompensare così i suoi servigi!»

Dieci giorni dopo essersi messo a letto, e cioè il 21 agosto, mastro Jup si alzò. Le sue ferite s’erano cicatrizzate e si vide bene che non avrebbe tardato a ricuperare l’agilità e il vigore abituali. Come tutti i convalescenti, fu preso da una fame davvero insaziabile e il giornalista lo lasciò mangiare a suo piacimento, giacché si fidava di quell’istinto, che troppo spesso manca agli esseri ragionevoli e che doveva preservare l’orango da tutti gli eccessi. Nab gioiva vedendo ritornare l’appetito al suo allievo.

«Mangia» gli diceva «Jup mio, e non lasciarti mancar nulla! Hai versato il tuo sangue per noi e il meno ch’io possa fare è di aiutarti a rifarlo!»

Finalmente, il 25 agosto si udì la voce di Nab che chiamava i suoi compagni.

«Signor Cyrus, signor Gedeon, signor Harbert, Pencroff, venite, venite! I coloni, riuniti nel salone, si alzarono alla chiamata di Nab, che proveniva»

dalla camera riservata a Jup.

«Che cosa c’è?» chiese il giornalista.

«Guardate!» rispose Nab, scoppiando in una clamorosa risata. Che cosa videro i coloni? Mastro Jup che fumava tranquillamente, e

seriamente, accoccolato come un turco sulla porta di GraniteHouse!

«La mia pipa!» esclamò Pencroff. «Ha preso la mia pipa! Ah, mio bravo Jup, te la regalo. Fuma, amico mio, fuma!»

E Jup lanciava gravemente densi sbuffi di fumo, il che sembrava procurargli un godimento senza pari.

Cyrus Smith non si mostrò meravigliato del fatto e citò, anzi, parecchi esempi di scimmie addomesticate, alle quali l’uso del tabacco era divenuto familiare.

Fatto sta, che da quel giorno mastro Jup ebbe la sua pipa tutta per lui, l’expipa del marinaio, che fu appesa nella sua camera, vicino alla sua provvista di tabacco. Se la riempiva da sé, l’accendeva con un carbone ardente, e poi pareva il più felice dei quadrumani. Questa comunanza di gusti non fece che stringere maggiormente i già stretti legami d’amicizia, che univano la brava scimmia e l’onesto marinaio.

«Forse è un uomo» diceva alle volte Pencroff a Nab. «Ti meraviglieresti se un giorno si mettesse a parlare?»

«No, in fede mia» rispose Nab. «Mi meraviglio piuttosto che non parli, perché, dopo tutto, non gli manca che la parola.»

«Mi divertirebbe molto» disse il marinaio «se un bel giorno mi dicesse: «E se ci scambiassimo la pipa, Pencroff?»«

«Sì» rispondeva Nab. «Che disgrazia che sia muto dalla nascita! Con il mese di settembre l’inverno ebbe fine e i lavori ripresero.»

La costruzione della barca progredì rapidamente. Il fasciame era già stato completato, e furono sistemate internamente le ossature, in modo da collegare tutte le parti dello scafo con degli elementi resi flessibili con il vapore acqueo, e che si adattavano benissimo ai garbi e al loro piano.

Siccome il legname non mancava, Pencroff propose all’ingegnere di rivestire internamente lo scafo con un fasciame impermeabile, che assicurasse completamente la solidità dell’imbarcazione.

Cyrus Smith, non sapendo quel che poteva riservare l’avvenire, approvò l’idea del marinaio di rendere l’imbarcazione più solida che fosse possibile.

Il fasciame interno e il ponte della barca furono interamente finiti verso il 15 settembre. Per calafatare i comenti fu fatta della stoppa con delle zostere secche, che furono introdotte a colpi di mazzuolo fra i corsi di fasciame dello scafo e della coperta; poi i comenti vennero ricoperti di catrame bollente, fornito abbondantemente dai pini della foresta.

L’allestimento dell’imbarcazione fu semplicissimo. Era stata dapprima zavorrata con dei pesanti blocchi di granito inseriti su di un letto di calce e se ne stivarono così complessivamente circa dodicimila libbre. Un pagliuolato fu posto sopra quella zavorra e l’interno fu diviso in due locali lungo i quali si stendevano due sedili, che servivano da casse. La parte dell’albero sotto coperta doveva sostenere la paratia, che separava i due locali nei quali si accedeva da due boccaporti, aperti sul ponte e muniti di tambuggi.

Pencroff non fece fatica a trovare un albero adatto per l’alberatura. Scelse un giovane abete, ben diritto, senza nodi, che bastò squadrare alla base formando la miccia e arrotondare alla cima. I ferri dell’albero, quelli del timone e quelli dello scafo, erano stati grossolanamente, ma solidamente fabbricati nella fucina dei Camini. Insomma pennoni, picco di randa, boma, antenne, aste, remi, ecc., tutto fu terminato nella prima settimana d’ottobre, e si stabilì che la prova dell’imbarcazione sarebbe stata fatta nelle acque dell’isola, per constatare come si comportava in mare e in quale misura ci si poteva fidare.

In tutto questo tempo, gli altri lavori necessari non erano stati per nulla trascurati. Il recinto era stato riordinato, giacché il gregge di mufloni e di pecore contava un certo numero di nuovi nati, che bisognava alloggiare e nutrire. Inoltre, i coloni non avevano mancato di visitare né il vivaio d’ostriche, né la conigliera, né i giacimenti di carbon fossile e di ferro, né alcune parti inesplorate delle foreste del Far West, ch’erano ricchissime di selvaggina.

Furono scoperte altre piante indigene che, se non avevano un’utilità immediata, contribuirono a variare le riserve vegetali di GraniteHouse. Erano della specie dei ficoidi, alcune simili a quelli del Capo, con foglie carnose commestibili, altre con semi contenenti una specie di farina.

Il 10 ottobre la barca venne varata in mare. Pencroff era raggiante. L’operazione riuscì perfettamente. L’imbarcazione, tutta attrezzata, spinta su dei rulli sino alla battigia, venne in balia della marea montante e galleggiò fra gli applausi dei coloni e particolarmente di Pencroff, che in quest’occasione non mostrò alcuna modestia. D’altronde, la sua vanità doveva sopravvivere al varo della barca, poiché, dopo averla costruita, egli stava per essere chiamato a comandarla. E infatti, il grado di capitano gli fu conferito con il consenso di tutti.

Per soddisfare il capitano Pencroff bisognò innanzi tutto dare un nome all’imbarcazione, e dopo molte proposte lungamente discusse, i suffragi si orientarono su quello di Bonadventure, ch’era il nome di battesimo dell’onesto marinaio.

Appena il Bonadventure fu sollevato dall’alta marea, si poté subito vedere che la sua linea di galleggiamento coincideva con le linee d’acqua del piano di costruzione e che poteva navigare bene a tutte le andature.

Del resto, il collaudo doveva aver luogo il giorno stesso, in un’escursione al largo della costa. Il tempo era buono, il vento teso e il mare poco mosso, soprattutto sulla costa meridionale, poiché il vento soffiava da nordovest già da più di un’ora.

«A bordo! A bordo!» gridava il capitano Pencroff.

Ma prima di partire bisognava far colazione, e parve anche utile portare delle provviste a bordo, nel caso che l’escursione fosse durata fino a sera inoltrata.

Anche Cyrus Smith aveva fretta di provare quell’imbarcazione, di cui aveva fatto il progetto, benché ne avesse spesso modificato alcune parti su consiglio del marinaio; ma egli non aveva in essa la fiducia che manifestava Pencroff e dato che questi non parlava più del viaggio all’isola di Tabor, Cyrus Smith sperava che il marinaio vi avesse rinunciato. Insomma, l’ingegnere non vedeva di buon occhio, che due o tre dei suoi compagni di avventurassero lontano su quella barca, così piccola, dopo tutto, la cui stazza non superava quindici tonnellate.

Alle dieci e mezzo tutti erano a bordo, persino Jup e Top. Nab e Harbert levarono l’ancora, che mordeva la sabbia presso la foce del Mercy, la randa venne issata, la bandiera dell’isola di Lincoln ondeggiò al vento sulla cima dell’albero e il Bonadventure, governato da Pencroff, prese felicemente il largo.

Per uscire dalla baia dell’Unione bisognò dapprima navigare con il vento dritto di poppa, e si poté constatare che, con quell’andatura, la velocità dell’imbarcazione era soddisfacente.

Dopo aver doppiato la punta del Relitto e il capo Artiglio, Pencroff dovette stringere il vento, allo scopo di costeggiare ancora lungo la costa meridionale dell’isola e, dopo qualche viramento di bordo, osservò che il Bonadventure poteva navigare col vento a circa cinque quarte dalla prora e che scarrocciava poco. Virò benissimo in prora, «manovriere», come dicono i naviganti, continuando a guadagnare al vento anche durante la virata.

I passeggeri del Bonadventure erano veramente entusiasti. Avevano ora una buona imbarcazione che, all’occorrenza, avrebbe potuto render loro grandi servigi, e con quel bel tempo, con quella brezza favorevole, la gita fu proprio deliziosa.

Pencroff si portò al largo, a tre o quattro miglia dalla costa, all’altezza di Porto Pallone. L’isola apparve allora in tutta la sua estensione e sotto un nuovo aspetto, con il panorama variato del suo litorale dal capo Artiglio fino al promontorio del Rettile, in primo piano le foreste, nelle quali le conifere spiccavano ancora sul fogliame giovane degli altri alberi ricchi di gemme appena sbocciate, e il monte Franklin, che dominava l’insieme e la cui cima era bianca di neve.

«Com’è bello!» esclamò Harbert.

«Sì, la nostra isola è bella e buona» rispose Pencroff. «Io l’amo, come amavo la mia povera mamma! Essa ci ha ricevuti poveri e privi di tutto, e adesso che cosa manca a questi cinque figli, che le sono caduti dal cielo?»

«Niente!» rispose Nab «niente, capitano!»

E i due galantuomini mandarono tre formidabili evviva in onore della loro isola!

Intanto, Gedeon Spilett, appoggiato al piede dell’albero, disegnava il panorama che si svolgeva davanti ai suoi occhi.

Cyrus Smith guardava in silenzio.

«Orbene, signor Cyrus,» domandò Pencroff «che cosa dite della nostra barca?»

«Sembra che si comporti bene» rispose l’ingegnere.

«Bene! E adesso lo credete che potrebbe intraprendere un viaggio di una certa durata?»

«Quale viaggio, Pencroff?»

«Quello all’isola di Tabor, per esempio!»

«Amico mio,» rispose Cyrus Smith «credo che, in un caso urgente, non bisognerebbe esitare ad affidarsi al Bonadventure, anche per una traversata più lunga; ma sapete che vi vedrei con dispiacere partire per l’isola di Tabor, visto che nulla vi obbliga ad andarvi.»

«Fa piacere conoscere i propri vicini» rispose Pencroff, che s’ostinava nella sua idea. «L’isola di Tabor è la nostra vicina ed è la sola! La cortesia vuole che si vada almeno a farle una visita!»

«Diavolo!» fece Gedeon Spilett. «Il nostro amico Pencroff vuole proprio rispettare le convenienze!»

«Io non voglio proprio niente!» rimbeccò il marinaio, che l’opposizione dell’ingegnere contrariava un poco, ma che non avrebbe voluto dargli un dispiacere.

«Pensate, Pencroff» rispose Cyrus Smith «che non potete andare solo all’isola di Tabor.»

Pencroff insistette:

«Un compagno mi basterà.»

«Sia pure» rispose l’ingegnere. «Dunque, arrischiate di privare la colonia dell’isola di Lincoln di due coloni su cinque?»

«Su sei!» rispose Pencroff. «Dimenticate Jup.»

«Su sette!» aggiunse subito Nab. «Top ne vale senza dubbio un altro!»

«Non c’è da temere nessun rischio, signor Cyrus» riprese prontamente Pencroff.

«Può essere, Pencroff; ma, ve lo ripeto, è un esporsi senza necessità! L’ostinato marinaio non rispose e lasciò cadere la conversazione, ben»

deciso a riprenderla in altro momento. Ma egli non s’immaginava certo che un incidente stava per venirgli in aiuto e cambiare in un’opera d’umanità quello che era soltanto un capriccio molto discutibile.

Infatti, dopo essersi tenuto al largo, il Bonadventure veniva riavvicinandosi alla costa e dirigendosi verso Porto Pallone. Importava verificare i passi di mare esistenti tra i banchi di sabbia e gli scogli per segnalarli a mezzo di gavitelli, in caso di bisogno, poiché quella piccola cala doveva essere il porto, ove si sarebbe ormeggiata la barca.

Questa non era più che a mezzo miglio dalla costa ed era stato necessario bordeggiare per risalire il vento contrario. La velocità del Bonadventure era allora molto diminuita, perché la brezza, in parte ostacolata dalla terra alta, gonfiava appena le vele, e il mare, levigato come un cristallo, non s’increspava che al soffio di brevi raffiche di vento, che passavano capricciosamente.

Harbert stava a prua, allo scopo di indicare la rotta da seguire in mezzo ai passi, quando gridò tutto a un tratto:

«Orza, Pencroff, orza!…»

«Che cosa c’è?» rispose il marinaio, alzandosi. «Uno scoglio?»

«No… aspetta,» disse Harbert «non vedo bene… Orza ancora… bene… lascia portare un poco…»

E così dicendo, Harbert, che si era coricato lungo il bordo, tuffò rapidamente il braccio nell’acqua e si rialzò, esclamando:

«Una bottiglia!»

E teneva in mano una bottiglia chiusa, che aveva allora afferrato alla distanza di alcune gomene dalla costa.

Cyrus Smith prese la bottiglia. Senza dire parola, ne fece saltare il tappo, e ne estrasse un foglio di carta umida, sul quale si potevano leggere queste parole:

Naufrago… Isola di Tabor: 153° long. O. «37° 11’ lat. S.»

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