CAPITOLO XXII LE TRAPPOLE «LE VOLPI» I PECARI «SALTO DI VENTO A NORDOVEST» TEMPESTA DI NEVE «I PANIERAI» I PIÙ GRANDI FREDDI DELL’INVERNO «LA CRISTALLIZZAZIONE DELLO ZUCCHERO D’ACERO» IL POZZO MISTERIOSO «L’ESPLORAZIONE PROGETTATA» IL PALLINO DI PIOMBO

QUEI FREDDI intensi durarono fino al 15 agosto, senza tuttavia oltrepassare il limite di gradi Fahrenheit sino allora registrato. Quando l’atmosfera era calma, la bassa temperatura si sopportava facilmente; ma quando soffiava il vento, la situazione era penosa per gente non sufficientemente vestita. Pencroffera arrivato al punto di dolersi che l’isola di Lincoln non desse asilo a qualche famiglia di orsi, piuttosto che alle volpi o alle foche, la cui pelliccia lasciava a desiderare.

«Gli orsi» diceva «sono generalmente ben vestiti e io non domanderei di meglio che di prendere loro a prestito per l’inverno il caldo cappotto che hanno addosso.»

«Ma» rispose Nab ridendo «forse gli orsi non acconsentirebbero, Pencroff, a cederti il loro mantello. Non sono mica dei San Martini!»

«Li si costringerebbe, Nab, li si costringerebbe a farlo» replicava Pencroff con tono autoritario.

Ma quei formidabili carnivori non esistevano nell’isola, o per lo meno, non s’erano ancora mostrati.

Tuttavia, Harbert, Pencroff e il giornalista tesero alcune trappole sull’altipiano di Bellavista e nei punti di accesso alla foresta. Secondo l’opinione del marinaio, ogni animale, qualunque esso fosse, sarebbe stato una buona preda e, fossero roditori o carnivori a inaugurare le trappole, sarebbero stati bene accolti a GraniteHouse.

Le trappole erano, d’altronde, molto semplici: si trattava di fosse scavate nel suolo, dissimulate da una copertura di rami e d’erbe, con nel fondo qualche esca, il cui odore potesse attirare gli animali; ecco tutto. Bisogna aggiungere che non erano state scavate a caso, ma in certi punti, ove impronte più numerose indicavano il frequente passaggio di quadrupedi. Le trappole venivano visitate tutti i giorni, e per tre volte, durante i primi giorni, vi si trovarono esemplari di quella specie di volpi che già erano state viste sulla riva destra del Mercy.

«Ah, diamine! Ma non ci sono dunque che volpi, in questo paese!» esclamò Pencroff ritirando per la terza volta uno di quegli animali dalla buca ove stava molto avvilito. «Bestie buone a nulla!»

«Ma si» disse Gedeon Spilett. «Sono buone a qualche cosa!»

«A che cosa?»

«A farne esca per attirarne altre!»

Il giornalista aveva ragione, e da allora le trappole ebbero per esca i cadaveri delle volpi.

Il marinaio aveva pure fatto dei lacci con le fibre del curry, e questi diedero miglior risultato delle trappole. Era raro che passasse giorno senza che qualche coniglio della garenna non si lasciasse prendere. Era sempre coniglio, ma Nab sapeva variare le salse, e i convitati non pensavano certo a lamentarsi.

Nondimeno, nella seconda settimana d’agosto, una volta o due le trappole misero nelle mani dei cacciatori animali che non erano le solite volpi, ma qualche cosa di più utile. Erano dei cinghiali, di quelli già segnalati a nord del lago. Pencroff non ebbe bisogno di domandare se fossero commestibili: si capiva benissimo dalla loro rassomiglianza con il maiale d’America e d’Europa.

«Ma non sono maiali,» disse Harbert «te ne prevengo, Pencroff.»

«Ragazzo mio» rispose il marinaio, chinandosi sulla trappola, e traendone, per la piccola appendice che gli serviva da coda, uno di quei rappresentanti della famiglia dei suini «lasciami credere che sono maiali!»

«E perché?»

«Perché mi fa piacere!»

«Ti piace, dunque, molto il maiale, Pencroff?»

«Il maiale mi piace molto,» rispose il marinaio «soprattutto per i suoi piedi, e se ne avesse otto invece di quattro, mi piacerebbe due volte di più.»

Quegli animali erano pecari, appartenenti a uno dei quattro generi della famiglia; erano anche della specie dei tajassu, riconoscibili dal colore scuro e dall’assenza dei lunghi canini, che armano la bocca dei loro consimili. I pecari vivono ordinariamente in branchi: era, quindi, probabile che abbondassero nelle parti boscose dell’isola. In ogni caso, erano mangiabili dalla testa ai piedi, e Pencroff non chiedeva loro di più.

Verso il 15 agosto, le condizioni atmosferiche si modificarono improvvisamente per un salto di vento al nordovest. La temperatura risalì di alcuni gradi e i vapori accumulati nell’aria non tardarono a trasformarsi in neve. Tutta l’isola si coprì di uno strato bianco, mostrandosi ai suoi abitanti sotto un aspetto nuovo. La neve cadde abbondantemente per parecchi giorni, e il suo spessore raggiunse presto i due piedi.

In breve il vento rinforzò, divenendo violentissimo; dall’alto di GraniteHouse si udiva il mare rombare sopra gli scogli. In certi angoli si formavano dei rapidi risucchi d’aria, ove la neve, formando alte colonne giranti, assomigliava a quelle trombe liquide piroettanti sulla loro base, che i bastimenti attaccano a cannonate. Però, l’uragano, venendo da nordovest, prendeva l’isola a rovescio e GraniteHouse, per la sua stessa posizione, era preservata da un assalto diretto. In mezzo a quella tormenta di neve, terribile come se si fosse prodotta su qualche contrada polare, né Cyrus Smith né i suoi compagni poterono, malgrado il loro vivo desiderio, avventurarsi all’esterno, ma dovettero restare rinchiusi durante cinque giorni, dal 20 al 25 agosto. Si sentiva la tempesta ruggire nei boschi dello Jacamar, che dovevano molto soffrirne. Parecchi alberi sarebbero stati indubbiamente sradicati, ma Pencroff se ne consolava, pensando che non avrebbe avuto il disturbo di doverli abbattere.

«Il vento si fa taglialegna; lasciamolo fare» ripeteva.

D’altronde, non vi sarebbe stato mezzo alcuno di impedirlo.

Quanto agli ospiti di GraniteHouse, dovettero allora ringraziare il Cielo di aver loro preparato quel solido e incrollabile rifugio. A Cyrus Smith spettava certo la sua legittima parte dei ringraziamenti, ma era la natura che aveva scavato l’ampia caverna ed egli non aveva fatto altro che scoprirla. Là, tutti erano al sicuro, e i colpi della tempesta non potevano raggiungerli. Se avessero costruito una casa di mattoni e legname sull’altipiano di Bellavista, non avrebbe certamente resistito alla furia di quell’uragano. Quanto ai Camini, solo al frastuono delle onde che si faceva sentire con tanta forza, bisognava credere che fossero assolutamente inabitabili, poiché il mare, scavalcando l’isolotto, doveva batterli rabbiosamente. Ma a GraniteHouse, nel cuore di quel masso, contro il quale né l’acqua, né l’aria avevano presa, nulla v’era da temere.

Durante quei giorni di clausura, i coloni non rimasero inattivi. Il legname, ridotto in assi, non mancava nel magazzino, e così a poco a poco, il mobilio venne completato con tavole e sedie, solide, senza dubbio, poiché non si fece economia di materiale. Ma quei mobili, alquanto pesanti, rispondevano male al loro nome, che fa della mobilità una condizione essenziale: però fecero egualmente l’orgoglio di Nab e di Pencroff, che non li avrebbero cambiati con dei mobili di Boulle.

Poi i falegnami divennero panierai, e non riuscirono male anche in questa nuova attività. Verso la punta che il lago proiettava al nord, era stato scoperto un fecondo vincheto, ove crescevano in gran copia piante di vimini. Prima della stagione delle piogge Pencroff e Harbert avevano fatto raccolta di quegli utili arbusti, i cui rami, convenientemente preparati, potevano ora essere efficacemente utilizzati. I primi saggi furono informi; ma, grazie alla destrezza e intelligenza degli operai, consultandosi reciprocamente, ricordando i modelli veduti, facendo a gara fra loro, panieri e ceste di diverse grandezze accrebbero presto l’attrezzatura della colonia. Il magazzino ne fu provvisto e Nab chiuse in ceste speciali le sue raccolte di rizomi, di mandorle di pino e di radici di dracena.

Durante l’ultima settimana del mese d’agosto, il tempo cambiò ancora. La temperatura scese un poco e la tempesta si calmò. I coloni si slanciarono fuori. C’erano certamente due piedi di neve sulla spiaggia; ma sopra quella neve indurita, si poteva camminare senza troppa fatica. Cyrus Smith e i compagni salirono sull’altipiano di Bellavista.

Che cambiamento! I boschi, che avevano lasciati verdeggianti, soprattutto nella parte vicina, ove dominavano le conifere, sparivano ora sotto un colore uniforme. Tutto era candido, dalla vetta del monte Franklin fino al litorale: le foreste, la prateria, il lago, il fiume, la spiaggia. L’acqua del Mercy correva sotto una volta di ghiaccio che, a ogni flusso e riflusso, rovinava un poco, frantumandosi con fracasso. Numerosi uccelli svolazzavano sulla superficie solida del lago: anatre, beccaccini, codoni e urie: ve n’erano a migliaia. Le rocce, fra le quali si scaricava la cascata sull’orlo dell’altipiano, erano irte di ghiacci. Si sarebbe detto che l’acqua sgorgasse da un mostruoso canale scavato dalla fantasia capricciosa di un artista del Rinascimento. Valutare i danni causati alla foresta dall’uragano non era ancora possibile: bisognava aspettare che l’immenso strato bianco si fosse disciolto.

Gedeon Spilett, Pencroff e Harbert non mancarono d’andare a visitare le loro trappole. Non le ritrovarono facilmente, sotto la neve che le copriva Dovettero pure stare attenti a non cadere nell’una o nell’altra di esse, cosa che sarebbe stata pericolosa e umiliante a un tempo: essere presi nella propria trappola! Ma un simile inconveniente fu evitato e vennero ritrovate le trappole perfettamente intatte. Nessun animale vi era caduto, benché le impronte fossero numerose nelle vicinanze e alcune fra esse mostrassero nettamente forme di artigli. Harbert non esitò ad affermare che qualche carnivoro del genere dei felini doveva esser passato di là, ciò che giustificava l’opinione dell’ingegnere sulla presenza di bestie pericolose nell’isola di Lincoln. Senza dubbio esse abitavano solitamente le fitte foreste del Far West; ma, spinte dalla fame, s’erano avventurate fino all’altipiano di Bellavista. Sentivano forse la presenza degli abitanti di GraniteHouse?

«Ma, insomma, di che felini si tratta?» chiese Pencroff.

«Sono tigri» rispose Harbert.

«Credevo che queste bestie si trovassero solo nei paesi caldi.»

«Sul nuovo continente,» rispose il ragazzo «si trovano dal Messico sino alle Pampas di Buenos Ayres. Poiché l’isola di Lincoln è press’a poco alla stessa latitudine delle province della Piata, non è da meravigliarsi se vi si incontrano delle tigri.»

«Bene, staremo in guardia» disse Pencroff.

La neve finì per dileguarsi sotto l’influenza della temperatura, che si era alzata. Cadde la pioggia, e, grazie alla sua azione dissolvente, lo strato bianco si cancellò. Malgrado il cattivo tempo, i coloni si rifornirono di tutto: mandorle di pino, radici di dracena, rizomi, liquore d’acero, per la parte vegetale; conigli, aguti e canguri, per la parte animale. Questi lavori resero necessarie delle escursioni nella foresta, ciò che diede modo ai coloni di constatare come una certa quantità d’alberi fosse stata abbattuta dall’ultimo uragano. Il marinaio e Nab si spinsero anche, con il carretto, fino al giacimento di carbon fossile, allo scopo di portare a casa alcune tonnellate di combustibile. Passando, videro che il fumaiolo del forno per le terraglie era stato molto danneggiato dal vento e scoronato di sei piedi buoni almeno.

Contemporaneamente al carbone, anche la provvista di legna fu rinnovata a GraniteHouse, approfittando della corrente del Mercy che si era liberata dai ghiacci, per condurne parecchi carichi. Poteva darsi che il periodo dei grandi freddi non fosse finito.

Fu fatta una visita anche ai Camini, e i coloni non poterono che compiacersi di non avervi abitato durante la tempesta. Il mare vi aveva lasciato segni indubbi delle sue devastazioni. Sollevato dal vento, aveva superato l’isolotto, aveva violentemente assalito i corridoi, che erano invasi dalla sabbia; le rocce, poi, erano coperte da fitti strati di alghe marine. Mentre Nab, Harbert e Pencroff cacciavano o facevano nuove provviste di combustibile, Cyrus Smith e Gedeon Spilett si dedicarono a ripulire un po’ i Camini e ritrovarono la fucina e i fornelli quasi intatti, giacché erano stati protetti sin dall’inizio dall’accumularsi delle sabbie.

La riserva di combustibile non era stata rinnovata inutilmente. I freddi pungenti non erano ancora finiti. È noto che nell’emisfero boreale il mese di febbraio si segnala principalmente per i grandi abbassamenti di temperatura. Nell’emisfero australe doveva essere lo stesso, e infatti la fine del mese d’agosto, ch’è il febbraio dell’America del Nord, non sfuggì a questa legge climatica.

Verso il 25, dopo un altro alternarsi di neve e di pioggia, il vento spirò da sudest, e il freddo divenne improvvisamente molto intenso. Secondo la stima dell’ingegnere, la colonna di mercurio d’un termometro Fahrenheit non avrebbe segnato meno di otto gradi sotto zero (22°,22 centigradi sotto zero); questo freddo intenso, reso ancor più doloroso da un vento tagliente, durò parecchi giorni. I coloni dovettero rinchiudersi di nuovo in GraniteHouse, e siccome fu necessario tappare ermeticamente tutte le aperture della facciata, non lasciando che il passaggio strettamente necessario per il rinnovarsi dell’aria, il consumo di candele steariche fu considerevole. Per economizzarle, i coloni si accontentarono spesso della luce proveniente dalla fiamma dei focolari, dove il combustibile non veniva risparmiato. Più volte, l’uno o l’altro dei coloni provò a discendere sulla spiaggia, in mezzo ai ghiacci, che il flusso vi ammucchiava a ogni marea, ma tutti dovettero subito risalire a GraniteHouse, afferrandosi a stento ai pioli della scala che, dato il gran freddo, bruciavano loro le dita.

Bisognò ancora pensare al modo di occupare gli ozi, a cui la segregazione costringeva gli ospiti di GraniteHouse. Cyrus Smith intraprese allora un’operazione, che poteva farsi anche stando rinchiusi.

È noto che i coloni non avevano a loro disposizione altro zucchero se non la sostanza liquida, che traevano dall’acero, facendo profonde incisioni in detto albero. Bastava che raccogliessero il succo in vasi, e poi lo adoperavano senz’altro così, allo stato grezzo, in diversi usi culinari, e tanto meglio in quanto il liquido, invecchiando, tendeva a imbiancare, prendendo una consistenza sciropposa.

Ma c’era di meglio da fare, e un giorno Cyrus Smith annunciò ai suoi compagni ch’essi stavano per trasformarsi in raffinatori.

«Raffinatori!» disse Pencroff. «È un mestiere un po’ caldo, vero?»

«Caldissimo!» rispose l’ingegnere.

«Allora, bene: sarà adatto alla stagione!» replicò il marinaio.

Questa parola, «raffinazione», non deve però destare nella mente l’immagine di fabbriche complicate, di attrezzi e operai. No! Per cristallizzare il succo di cui si parla, bastava epurarlo mediante un’operazione estremamente facile. Esso fu semplicemente sottoposto a una certa evaporazione, mettendolo sul fuoco in grandi vasi di terra; poco dopo della schiuma apparve alla sua superficie; quando il liquido cominciò a divenir denso, Nab ebbe cura di rimestarlo con una spatola di legno, per accelerare la sua evaporazione e impedirgli nello stesso tempo di contrarre un gusto di bruciaticcio.

Dopo alcune ore di ebollizione su di un buon fuoco, che faceva tanto bene agli operatori quanto alla sostanza lavorata, quest’ultima si trasformò in un denso sciroppo. Questo sciroppo fu versato in stampi d’argilla, precedentemente fabbricati nel fornello stesso della cucina, ai quali erano state impresse forme svariate. L’indomani, lo sciroppo, raffreddato, formava pani e tavolette: era zucchero, di colore un po’ rossastro, ma quasi trasparente e di ottimo gusto.

Il freddo continuò fino a metà settembre e i prigionieri di GraniteHouse cominciavano a trovare assai lunga la loro prigionia. Quasi tutti i giorni tentavano qualche sortita, che però non poteva essere che molto breve. Lavoravano, quindi, costantemente a ordinare e abbellire la loro casa, e lavorando conversavano. Cyrus Smith istruiva i compagni in molte cose e spiegava loro principalmente le applicazioni pratiche della scienza. I coloni non avevano una biblioteca a loro disposizione, ma l’ingegnere era un libro sempre pronto, sempre aperto alla pagina di cui ciascuno aveva bisogno, un libro che risolveva loro tutti i problemi e che essi sfogliavano molto spesso. Così il tempo passava e quella brava gente non sembrava temere per nulla l’avvenire.

Però, era tempo che quella segregazione finisse. Tutti avevano fretta di vedere, se non la bella stagione, almeno la cessazione di quel freddo insopportabile. Se solamente fossero stati vestiti in modo da poterlo sfidare, quante escursioni avrebbero tentate, sia alle dune, sia alla palude delle tadorne! La selvaggina doveva essere facilmente avvicinabile e la caccia sarebbe stata sicuramente fruttuosa. Ma Cyrus Smith teneva a che nessuno compromettesse la propria salute, giacché aveva bisogno di tutte le braccia, e i suoi consigli furono seguiti.

Ma bisogna dire che il più stanco della prigionia, dopo Pencroff, era Top. Il fedele animale si trovava molto a disagio nella GraniteHouse. Andava e veniva da una camera all’altra e manifestava a modo suo la noia d’essere rinchiuso.

Cyrus Smith notò spesso che, quando si avvicinava all’oscuro pozzo, che era in comunicazione con il mare e la cui apertura si trovava in fondo al magazzino, Top faceva udire strani brontolii: girava intorno a quel buco, ch’era stato coperto con una tavola di legno. Talvolta cercava persino d’introdurre le zampe sotto la tavola, come avesse voluto sollevarla, e abbaiava allora in modo particolare, che indicava collera e inquietudine insieme.

Più volte l’ingegnere osservò questo lavorio. Che cosa c’era dunque in quell’abisso, che potesse tanto impressionare l’intelligente animale? Il pozzo finiva nel mare, questo era certo. Si ramificava in stretti canali attraverso l’isola? Era forse in comunicazione con altre cavità interne? Qualche mostro marino veniva forse, di tanto in tanto, a respirare nel suo fondo? L’ingegnere non sapeva che cosa pensare e non poteva fare a meno di fantasticare bizzarre complicazioni. Avvezzo ad andar lontano nel campo delle realtà scientifiche, egli non si perdonava di lasciarsi trascinare nel dominio dello strano e quasi del soprannaturale; ma come spiegarsi che Top, uno di quei cani sensati, che non perdono il loro tempo abbaiando alla luna, s’ostinasse a sondare con il fiuto e con l’udito quell’abisso, se niente vi accadeva, che potesse destare la sua inquietudine? La condotta di Top impensieriva Cyrus Smith più di quanto gli sembrasse ragionevole confessare a se stesso.

Però, l’ingegnere non comunicò le sue impressioni che a Gedeon Spilett, trovando inutile iniziare i suoi compagni alle riflessioni involontarie, prodotte in lui da quella che forse era solo una fissazione di Top.

Finalmente, il freddo cessò. Vi furono ancora piogge, raffiche miste di neve, piovaschi, temporali, colpi di vento, ma furono intemperie passeggere. Il ghiaccio s’era disciolto, la neve si era fusa; la spiaggia, l’altipiano, le rive del Mercy, la foresta erano ridivenuti praticabili. Questo ritorno della primavera trasse i coloni fuori da GraniteHouse, e pochi giorni dopo essi non vi trascorrevano che le ore del sonno e dei pasti.

Nella seconda metà di settembre la caccia fu molto intensificata e Pencroff ebbe così occasione di reclamare con nuova insistenza le armi da fuoco, che affermava essere state promesse da Cyrus Smith. Questi, ben sapendo che senza uno speciale complesso di attrezzi gli sarebbe stato quasi impossibile fabbricare un fucile che potesse essere di una qualche utilità, si schermiva sempre e rimandava l’operazione. D’altra parte faceva osservare che Harbert e Gedeon Spilett erano divenuti abili arcieri, che ogni sorta d’animali eccellenti: aguti, canguri, capibara, piccioni, ottarde, anatre selvatiche, beccaccini, insomma, molta selvaggina di pelo o di piuma, cadeva sotto le loro frecce, e che, di conseguenza, si poteva aspettare. Ma l’ostinato marinaio non ci sentiva da quell’orecchio e non avrebbe certo lasciato tregua all’ingegnere, sino a che questi non avesse soddisfatto il suo desiderio. Gedeon Spilett, del resto, appoggiava Pencroff.

«Se l’isola, come abbiamo ragione di sospettare,» diceva egli «ospita delle bestie feroci, bisogna pensare a combatterle e sterminarle. Può venire un momento in cui questo sia il nostro primo dovere.»

Ma intanto non era il problema delle armi da fuoco a preoccupare Cyrus Smith, ma quello delle vesti. I vestiti che i coloni portavano avevano passato l’inverno, ma non avrebbero certo potuto durare sino all’inverno prossimo. Occorreva procurarsi a ogni costo pelli di carnivori o lana di ruminanti e, visto che i mufloni non mancavano, conveniva pensare al modo di formarne un gregge da allevare per i bisogni della colonia. Un recinto destinato agli animali domestici, un pollaio adattato per i volatili, in una parola, una specie di fattoria, da costruire in qualche punto dell’isola, ecco i due importanti progetti da mettere in esecuzione durante la buona stagione.

Per questo, e in vista di simili opere future, diveniva, dunque, urgente fare una ricognizione in tutta la parte ancora ignorata dell’isola di Lincoln, vale a dire nelle alte foreste, che si stendevano sulla destra del Mercy, dalla sua foce fino all’estremità della penisola Serpentine, come pure su tutta la costa occidentale. Ma ci voleva tempo stabile, e un mese ancora doveva passare prima che questa esplorazione potesse essere intrapresa utilmente.

I coloni aspettavano, dunque, con una certa impazienza, quando accadde un fatto che contribuì ad eccitare ancor più il desiderio comune di visitare per intero il loro dominio.

Il 24 ottobre, Pencroff era andato a vedere le trappole, ch’egli manteneva sempre convenientemente provvedute d’esca. In una d’esse trovò tre animali, che sarebbero stati certo bene accolti nella dispensa di GraniteHouse. Erano una femmina di pecari e i suoi due piccoli.

Pencroff ritornò, dunque, a GraniteHouse, lietissimo della cattura, e come sempre, fece grande sfoggio della sua caccia.

«Andiamo! Faremo un buon pranzetto, signor Cyrus» esclamò. «E anche voi, signor Spilett, ne mangerete!»

«Certo che voglio mangiarne,» rispose il cronista «ma che cosa mangerò?»

«Del maialino da latte.»

«Ah! Davvero? Pencroff? A sentirvi, credevo che portaste una pernice tartufata!»

«Come?» esclamò Pencroff. «Sdegnereste forse un porcellino da latte?»

«No,» rispose Gedeon Spilett, senza mostrare alcun entusiasmo «e purché non se ne abusi…»

«Bene, bene, signor giornalista,» rimbeccò il marinaio, cui non garbava udir disprezzare la sua caccia «fate il difficile? Ma sette mesi or sono, quando siamo giunti nell’isola, sareste stato felice di trovare una simile selvaggina!…»

«Avete ragione» rispose il giornalista. «Ma l’uomo non è mai né perfetto né contento.»

«Adesso» riprese Pencroff «spero che Nab si faccia onore. Vedete! Questi due piccoli pecari non hanno ancora tre mesi e saranno teneri come quaglie! Andiamo, Nab; vieni! Ne sorveglierò io stesso la cottura.»

E il marinaio, seguito da Nab, raggiunse la cucina e fu tutto assorto nei suoi lavori culinari.

Fu lasciato fare a suo modo. Nab e lui prepararono, dunque, un desinare magnifico: i due piccoli pecari, una zuppa di canguro, un prosciutto affumicato, dei pinoli, la bibita di dracena, del té d’Oswego; insomma, tutto quanto c’era di meglio; però, fra tutti i piatti dovevano figurare in prima linea i saporiti pecari, preparati in stufato.

Alle cinque, il pranzo fu servito nella sala di GraniteHouse. La zuppa di canguro fumava sulla tavola e venne trovata eccellente.

Alla zuppa successero i pecari, che Pencroff volle tagliare egli stesso e dei quali servì porzioni enormi a ciascun convitato.

Quei porcellini erano veramente deliziosi, e Pencroff divorava la sua parte con grande entusiasmo, quando tutto a un tratto un grido e una bestemmia gli sfuggirono.

«Che cosa c’è?» domandò Cyrus Smith.

«C’è… c’è… che mi sono spezzato un dente!» rispose il marinaio.

«Ah, questo poi! Ci sono dunque dei sassi nei vostri pecari?» disse Gedeon Spilett.

«Bisogna crederlo!» rispose Pencroff, togliendosi dalle labbra l’oggetto che gli costava un molare!…

Non era un sasso… Era un pallino di piombo.


FINE DELLA PRIMA PARTE

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