CAPITOLO VI I RICHIAMI DI PENCROFF «UNA NOTTE NEI CAMINI» LA FRECCIA DI HARBERT «PROGETTO DI CYRUS SMITH» UNA SOLUZIONE INATTESA «CIÒ CHE ERA AVVENUTO A GRANITEHOUSE» COME UN NUOVO DOMESTICO ENTRA AL SERVIZIO DEI COLONI

CYRUS SMITH s’era fermato senza dir parola. I suoi compagni cercarono nell’oscurità, tanto lungo le pareti della muraglia, nel caso che il vento avesse rimosso la scala, quanto a terra nel caso ch’essa si fosse staccata… Ma la scala era sparita. Quanto a vedere se una burrasca l’avesse portata su fino al primo pianerottolo, a metà della parete, era una cosa veramente impossibile in quella notte profonda.

«Se è una burla,» gridò Pencroff «è una burla di cattivo gusto! Arrivare a casa e non trovar più la scala per salire nella propria camera, non è cosa che possa far ridere della gente stanca!»

Nab si perdeva in esclamazioni!

«Eppure non c’è stato vento!» fece osservare Harbert.

«Comincio a trovare che succedono strane cose nell’isola di Lincoln!» disse Pencroff.

«Strane?» rispose Gedeon Spilett «ma no, Pencroff, nulla di più naturale. Qualcuno è venuto durante la nostra assenza, ha preso possesso della dimora e ha ritirato la scala!»

«Qualcuno!» esclamò il marinaio. «E chi, dunque?»

«Ma! Il cacciatore del pallino di piombo, per esempio» rispose il giornalista. «A che cosa servirebbe, se non a spiegare la nostra disavventura?»

«Orbene, se c’è qualcuno lassù,» rispose Pencroff bestemmiando, poiché cominciava a spazientirsi «proverò a chiamarlo e bisognerà pure ch’egli risponda.»

E con voce tonante, il marinaio emise un «Ohe!» prolungato, che l’eco rimandò con forza.

I coloni tesero l’orecchio e parve loro di udire, all’altezza di GraniteHouse, una specie di riso beffardo, di cui non riuscirono a indovinare l’origine. Ma nessuna voce rispose alla voce di Pencroff, che ricominciò inutilmente il suo vigoroso richiamo.

C’era in quell’incidente di che meravigliare gli uomini più indifferenti del mondo; e i coloni non erano certo degli indifferenti. Nella situazione in cui si trovavano, ogni avvenimento aveva la sua gravità, e certamente, da sette mesi che abitavano l’isola,» nessuno si era loro presentato con carattere tanto sorprendente.

Comunque fosse, dimenticando le loro fatiche e dominati dalla singolarità del fatto, restavano ai piedi di GraniteHouse, non sapendo che cosa pensare, né che cosa fare, interrogandosi a vicenda senza potersi rispondere, moltiplicando svariate ipotesi, l’una più inammissibile dell’altra. Nab si lamentava, contrariato di non poter rientrare nella sua cucina, tanto più che le provviste di viaggio erano esaurite e per il momento non c’era alcun mezzo per procurarsene.

«Amici miei,» disse allora Cyrus Smith «non ci rimane altro da fare che attendere il giorno e agire allora secondo le circostanze. Ma, nell’attesa, andiamo ai Camini. Là saremo al coperto, e se non potremo cenare, potremo almeno dormire.»

«Ma chi è lo sfacciato che ci ha giocato questo tiro?» chiese ancora una volta Pencroff, incapace di adattarsi all’avventura.

Chiunque fosse lo «sfacciato», la sola cosa da fare era, come aveva detto l’ingegnere, di tornare ai Camini per aspettarvi il giorno. Ma fu dato ordine a Top di rimanere sotto le finestre di GraniteHouse: e quando Top riceveva un ordine, lo eseguiva senza fare osservazioni. Il bravo cane restò, dunque, ai piedi della muraglia, mentre il suo padrone con i compagni si rifugiavano fra le rocce.

Dire che i coloni, malgrado la loro stanchezza, dormirono bene sulla sabbia dei Camini, sarebbe falsare la verità. Non solo essi erano molto ansiosi di conoscere l’importanza del nuovo incidente, sia che fosse il risultato d’un caso, i cui motivi naturali si sarebbero rivelati con il sorgere del giorno, sia, invece, che fosse opera di un essere umano. Inoltre, erano malissimo sistemati. Comunque, la loro casa per il momento era occupata, e non potevano disporne.

Ora, GraniteHouse era più che la loro dimora: era il loro deposito. Là dentro c’era tutto il materiale della colonia: armi, strumenti, attrezzi, munizioni, riserve di viveri, ecc. Se tutto questo fosse stato rubato, i coloni avrebbero dovuto ricominciare da capo, rifacendo armi e attrezzi. Cosa grave! Perciò, cedendo all’inquietudine, l’uno o l’altro usciva ogni tanto, per vedere se Top faceva buona guardia. Solamente Cyrus Smith aspettava con la sua pazienza abituale, per quanto il suo fermo ed energico temperamento si esasperasse, sentendosi di fronte a un fatto assolutamente inesplicabile e s’indignasse pensando che attorno a sé, al di sopra di sé, forse, esisteva un’influenza alla quale egli non poteva dare un nome. Gedeon Spilett condivideva interamente l’opinione dell’ingegnere a questo proposito, e ambedue parlarono a più riprese, ma sottovoce, delle circostanze inesplicabili, a comprendere le quali la loro perspicacia e la loro esperienza erano insufficienti. Vi era, certo, un mistero sull’isola: ma come scoprirlo? Harbert non sapeva che cosa pensare e gli sarebbe piaciuto interrogare Cyrus Smith. Quanto a Nab, aveva finito per dirsi che tutto quanto avveniva non lo riguardava, ma riguardava il suo padrone, e se non avesse creduto di usare scortesia ai suoi compagni, quella notte il bravo negro avrebbe dormito coscienziosamente, come se avesse riposato nel suo lettuccio di GraniteHouse.

Insomma, il più stizzito di tutti era Pencroff, che si sentiva davvero molto in collera.

«È uno scherzo» diceva; «ci hanno fatto uno scherzo! Orbene, a me non piacciono le buffonate, e guai al burlone, se mi capita fra le mani!»

Appena i primi chiarori del giorno si mostrarono a est, i coloni, convenientemente armati, si recarono sulla spiaggia, al limite dei frangenti. GraniteHouse, colpita direttamente dal sole nascente, non doveva tardare a essere illuminata dalle luci dell’alba, e infatti, prima delle cinque, le finestre, le cui imposte erano chiuse, apparvero attraverso le loro tendine di fogliame.

Da quella parte tutto era in ordine; ma un grido sfuggì dal petto dei coloni quando scorsero spalancata la porta, che essi avevano chiusa prima di partire.

Qualcuno s’era introdotto in GraniteHouse. Non c’era più da dubitarne.

La scala superiore, tesa ordinariamente dal ripiano alla porta, era al suo posto; ma la scala inferiore era stata ritirata e sollevata fino alla soglia. Era più che evidente che gli intrusi avevano voluto mettersi al sicuro da ogni sorpresa.

Però, non era ancora possibile stabilire la loro specie e il loro numero, poiché nessuno d’essi si mostrava.

Pencroff chiamò di nuovo.

Nessuna risposta.

«Bricconi!» gridò il marinaio. «Dormono tranquillamente, come fossero in casa loro! Ehi! Pirati, banditi, corsari, figli di John Bull!»

Quando Pencroff, nella sua qualità di americano, trattava qualcuno da «figlio di John Bull» era giunto all’estremo limite dell’insulto.

Intanto si fece giorno chiaro e la facciata di GraniteHouse s’illuminò ai raggi del sole. Ma all’interno, come all’esterno, tutto era muto e calmo.

I coloni si domandavano se GraniteHouse fosse occupata o no; eppure, la posizione della scala lo dimostrava sufficientemente; ed era anche certo che gli occupanti non avevano potuto fuggire! Ma come arrivare sino a loro?

Harbert ebbe allora l’idea d’attaccare una corda a una freccia e di lanciare questa freccia in modo che passasse tra i primi pioli della scala penzolante dalla soglia della porta. Si sarebbe potuto allora, per mezzo della corda, svolgere la scala sino a terra e ristabilire la comunicazione fra il suolo e GraniteHouse.

Evidentemente, non c’era altro da fare, e con un po’ d’accortezza la cosa poteva riuscire. Fortunatamente, archi e frecce erano stati deposti in un corridoio dei Camini, dove si trovavano pure alcune braccia di leggera corda d’ibisco. Pencroff svolse questa corda, di cui fissò l’estremità a una freccia ben impennata. Poi, Harbert, dopo aver incoccato la freccia sul suo arco, mirò con la massima cura il capo della scala, sospeso fuor della soglia.

Cyrus Smith, Gedeon Spilett, Pencroff e Nab s’erano tirati indietro, in modo da osservare quello che sarebbe accaduto alle finestre di GraniteHouse. Il giornalista, con la carabina alla spalla, prendeva di mira la porta.

L’arco si tese, la freccia fischiò, traendo seco la corda, e andò a passare tra i due ultimi pioli. L’operazione era riuscita.

Tosto Harbert afferrò l’estremità della corda; ma nel momento in cui dava uno strattone per far cadere la scala, un braccio, passando lestamente tra il muro e la porta, l’agguantò e la trasse dentro a GraniteHouse.

«Tre volte briccone!» gridò il marinaio. «Se una palla può farti felice, non avrai da aspettarla molto!»

«Ma chi è, dunque?» domandò Nab.

«Chi? Non hai veduto?»

«No.»

«Ma è una scimmia, un macaco, un cebo, una bertuccia, un orangutan, un babbuino, un gorilla, un uistiti. La nostra casa è stata invasa da scimmie, che si sono arrampicate lungo la scala durante la nostra assenza!»

In quel momento appunto, come per dar ragione al marinaio, tre o quattro quadrumani si mostravano alle finestre, di cui avevano aperto le imposte, e salutavano i veri proprietari del luogo con mille smorfie e contorsioni.

«Sapevo bene che era una farsa!» esclamò Pencroff «ma ecco uno dei buffoni che pagherà per gli altri!»

Il marinaio, imbracciando il fucile, mirò rapidamente una delle scimmie e fece fuoco. Tutte scomparvero, salvo una, che, mortalmente colpita, precipitò sulla spiaggia.

Questa scimmia, di alta statura, apparteneva, non era possibile sbagliarsi, al primo ordine dei quadrumani. Fosse uno scimpanzè, un orangutan, un gorilla o un gibbone, essa era da annoverarsi tra gli antropomorfi, così chiamati a causa della loro rassomiglianza con gli individui di razza umana. D’altronde, Harbert dichiarò ch’era un orangutan, e si sa che il ragazzo se ne intendeva di zoologia.

«Che magnifica bestia!» esclamò Nab.

«Magnifica quanto vuoi!» rispose Pencroff «ma intanto non vedo ancora come potremo rientrare in casa!»

«Harbert è un buon tiratore,» disse il giornalista «e il suo arco è qui! Non ha che da ricominciare…»

«Oh! Quelle scimmie sono scaltre!» esclamò Pencroff. «Non si riaffacceranno alle finestre e non potremo ucciderle. Quando penso ai danni che possono fare nelle camere, nei magazzini…»

«— Un po’ di pazienza» rispose Cyrus Smith. «Questi animali non possono tenerci testa per molto tempo!»

«Non sarò contento finché non li vedrò a terra» rispose il marinaio. «Eppoi, sapete quante dozzine ce ne siano lassù, di questi buffoni?»

Sarebbe stato difficile rispondere a Pencroff, e quanto a ricominciare il tentativo del ragazzo, l’operazione era diventata più difficile, poiché l’estremità inferiore della scala era stata ritirata, e quando si alò di nuovo la corda, questa si ruppe, ma la scala non ricadde.

Il caso era veramente imbarazzante. Pencroff si struggeva dalla rabbia. La situazione aveva un certo lato comico, ch’egli però, dal canto suo, non trovava per nulla divertente. Era certo che i coloni avrebbero finito per rientrare in possesso del loro domicilio, cacciandone gli intrusi; ma quando e come? Ecco quello che non potevano dire.

Due ore passarono, durante le quali le scimmie evitarono di mostrarsi; ma erano sempre là, e tre o quattro volte un muso o una zampa apparvero di sfuggita alla porta o alle finestre, salutati da colpi di fucile.

«Nascondiamoci!» disse allora l’ingegnere. «Forse le scimmie crederanno che siamo andati via e si faranno vedere nuovamente. Spilett e Harbert si appostino dietro le rocce e facciano fuoco a ogni apparizione.»

Gli ordini dell’ingegnere furono eseguiti, e mentre il giornalista e il giovanotto, i due più abili tiratori della colonia, si appostavano in una posizione buona per il tiro, dove non potevano essere scorti dalle scimmie, Nab, Pencroff e Cyrus Smith, salivano l’altipiano e s’inoltravano nella foresta per uccidere un po’ di selvaggina, poiché l’ora della colazione era giunta e di viveri non ce n’erano.

In capo a una mezz’ora, i cacciatori ritornarono con alcuni piccioni di montagna, che furono fatti arrostire alla meglio. Nessuna scimmia era ancora riapparsa.

Gedeon Spilett e Harbert andarono a prendere la loro parte di colazione, mentre Top vigilava sotto le finestre. Poi, dopo aver mangiato, ritornarono al loro posto.

Due ore dopo la situazione non si era ancora modificata. I quadrumani non davano più alcun segno di vita e si poteva credere che fossero spariti; ma quello che pareva più probabile era che, spaventati dalla morte di uno di essi e dalle detonazioni, si tenessero cheti in fondo alle camere di GraniteHouse, oppure nel magazzino. E quando si pensava alle ricchezze che conteneva quel magazzino, la pazienza, tanto raccomandata dall’ingegnere, finiva per mutarsi in una violenta irritazione, la quale, francamente, era giustificata.

«Decisamente è troppo stupido,» disse alla fine il giornalista «e non vedo proprio perché tutto questo non debba finire!»

«Bisogna pure far sloggiare quei farabutti» esclamò Pencroff. «Vi riusciremmo certamente, quand’anche fossero una ventina; ma per questo bisogna combatterli a corpo a corpo! Ah, non c’è, dunque, un mezzo di arrivare sino a essi?»

«Sì» rispose allora l’ingegnere, a cui era balenata un’idea.

«C’è?» disse Pencroff. «Ebbene, sarà senz’altro quello buono, dato che non ce ne sono altri! E qual è?»

«Proviamo a ridiscendere a GraniteHouse per l’antico scarico del lago» rispose l’ingegnere.

«Ah, per mille e mille diavoli!» esclamò il marinaio. «E io che non ci avevo ancora pensato!»

Era, infatti, il solo modo di penetrare in GraniteHouse, allo scopo di combattere la banda di animali e di espellerli. È vero che l’apertura dello scarico era chiusa da un muro di pietre cementate, che sarebbe stato necessario sacrificare, ma lo avrebbero rifatto. Fortunatamente, Cyrus Smith non aveva ancora effettuato il suo progetto di nascondere quell’apertura facendola sommergere dalle acque del lago, poiché, in quel caso, l’operazione avrebbe richiesto un certo tempo.

Era già più di mezzogiorno, quando i coloni, bene armati e muniti di picconi e di zappe, lasciarono i Camini, passarono sotto le finestre di GraniteHouse, dopo aver ordinato a Top di rimanere al suo posto, e si accinsero a risalire la riva sinistra del Mercy, allo scopo di raggiungere l’altipiano di Bellavista.

Ma non avevano fatto cinquanta passi che sentirono i latrati furiosi del cane. Era come un appello disperato.

Si fermarono.

«Corriamo!» disse Pencroff.

E tutti ridiscesero la sponda a precipizio.

Giunti alla svolta, videro che la situazione era mutata.

Infatti, le scimmie, prese da un terrore improvviso, provocato da qualche causa ignota, cercavano di fuggire. Due o tre correvano e saltavano da una finestra all’altra con l’agilità di pagliacci. Esse non cercavano nemmeno di rimettere a posto la scala, per mezzo della quale sarebbe stato loro facile discendere: nello spavento avevano forse dimenticato questo mezzo per svignarsela. Poco dopo, cinque o sei furono in posizione da poter essere colpite, e i coloni, prendendole di mira comodamente, fecero fuoco. Alcune, ferite o uccise, ricaddero nell’interno delle camere, cacciando acute strida. Le altre, precipitate al di fuori, si fracassarono le ossa nella caduta, e pochi istanti dopo si poteva presumere che non ci fosse più un quadrumane vivo in GraniteHouse.

«Evviva!» gridò Pencroff «Evviva, evviva!»

«Oh! Non tanti evviva!» disse Gedeon Spilett.

«Perché? Sono tutte morte!» rispose il marinaio.

«Lo so, ma questo non ci dà il mezzo di rientrare in casa.»

«Andiamo allo scarico!» replicò Pencroff.

«Indubbiamente» disse l’ingegnere. «Però sarebbe stato preferibile…»

In quel mentre, e come una risposta all’osservazione di Cyrus Smith, fu veduta la scala scivolare sulla soglia della porta, svolgersi e cadere fino a terra.

«Ah, corpo di mille pipe! Questa è grossa!» esclamò il marinaio, guardando Cyrus Smith.

«Troppo grossa!» mormorò l’ingegnere, che si slanciò per primo sulla scala.

«State attento, signor Cyrus!» esclamò Pencroff «se c’è ancora qualcuno di quegli scimmiotti…»

«Vedremo» rispose l’ingegnere senza fermarsi.

Tutti lo seguirono e in un minuto arrivarono alla soglia della porta. Cercarono dappertutto. Nessuno nelle camere, nessuno nel magazzino, ch’era stato rispettato dalla banda dei quadrumani.

«Ma, e la scala?» esclamò il marinaio. «Chi è la persona gentile che ce l’ha gettata?»

Ma in quel momento un grido si fece udire e una grande scimmia, che s’era rifugiata nel corridoio, si precipitò nella sala, inseguita da Nab.

«Ah, il furfante!» gridò Pencroff.

E, brandendo la scure, si accingeva a spaccare la testa all’animale, quando Cyrus Smith lo fermò e gli disse:

«Risparmiatelo, Pencroff.»

«Come? Risparmiare questo brutto muso nero?»

«Sì. È lui che ci ha gettato la scala!»

E l’ingegnere disse queste parole con un tono di voce così singolare, che sarebbe stato difficile capire se parlava seriamente o no.

Nondimeno, i coloni si gettarono sulla scimmia che, dopo essersi difesa valorosamente, fu atterrata e legata.

«Ohibò!» esclamò Pencroff. «E adesso che cosa ne faremo?»

«Un domestico!» rispose Harbert.

E così dicendo, il ragazzo non scherzava, poiché sapeva l’utilità che si può ricavare dalla razza intelligente dei quadrumani.

I coloni s’avvicinarono alla scimmia e la osservarono attentamente. Essa apparteneva proprio alla specie degli antropomorfi, il cui angolo facciale non è molto inferiore a quello degli Australiani e degli Ottentotti. Era un orangutan, e come tale non aveva né la ferocia del babbuino, né la sventatezza del macaco, né la sordidezza dell’uistitì, né la impazienza della bertuccia, né i cattivi istinti del cinocefalo. A questa famiglia degli antropomorfi si attribuiscono tanti tratti che indicano in essi un’intelligenza quasi umana. Utilizzati nelle case, possono servire a tavola, pulire le camere, aver cura dei vestiti, lucidare le scarpe, maneggiare abilmente il coltello, il cucchiaio e la forchetta, e persino bere il vino… tutto con molto garbo, quanto il miglior domestico bipede e implume. È noto che Buffon possedette una di queste scimmie, che lo servì per molto tempo, come un servo fedele e zelante.

Quello che stava legato nella sala di GraniteHouse era un grosso diavolaccio, alto sei piedi, dal corpo mirabilmente proporzionato, petto largo, testa di media grossezza, angolo facciale di sessantacinque gradi, cranio rotondo, naso sporgente, pelle ricoperta d’un pelo liscio, morbido e lucente; insomma, un tipo perfetto di antropomorfo. I suoi occhi, un po’ più piccoli degli occhi umani, brillavano di intelligente vivacità; i suoi denti bianchi risplendevano sotto i baffi, e aveva una barbetta ricciuta color nocciola.

«Un bel giovanotto!» disse Pencroff. «Se conoscessimo almeno la sua lingua, gli potremmo parlare!»

«E così,» disse Nab «sul serio, padrone, lo prendiamo come domestico?»

«Sì, Nab» rispose sorridendo l’ingegnere. «Ma non devi essere geloso!»

«Spero che diverrà un eccellente servitore» aggiunse Harbert. «Sembra giovane, la sua educazione sarà facile e non saremo obbligati, per addomesticarlo, a usare la forza, né a strappargli i canini, come si fa in simili circostanze! Non può che affezionarsi a dei padroni che saranno buoni con lui!»

«E lo saremo!» rispose Pencroff, che aveva dimenticato tutto il suo rancore contro i «buffoni».

Poi, avvicinandosi all’orangutan:

«Orbene, ragazzo mio,» gli domandò «come va? L’orangutan rispose con un piccolo grugnito, che denotava un umore non»

molto cattivo.

«Vogliamo, dunque, far parte della colonia?» chiese il marinaio. «Entriamo, dunque, al servizio del signor Cyrus Smith?»

Nuovo brontolio d’approvazione da parte della scimmia.

«E ci accontenteremo del vitto per tutto salario? Terzo grugnito affermativo.»

«La sua conversazione è un po’ monotona» fece osservare Gedeon Spilett.

«Bene!» disse Pencroff «i migliori domestici sono quelli che parlano poco. Eppoi, niente salario! Capite, ragazzo mio? Per cominciare non vi daremo salario, ma più tardi lo raddoppieremo, se saremo contenti di voi!»

Così la colonia s’accrebbe di un nuovo membro, che doveva renderle più d’un servigio. Riguardo al nome da dargli, il marinaio domandò che, in memoria di un’altra scimmia da lui conosciuta, questa fosse chiamata Jupiter e Jup per abbreviazione.

Ed ecco come, senz’altre cerimonie, mastro Jup entrò a far parte degli inquilini di GraniteHouse.

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