CAPITOLO XV IL RISVEGLIO DEL VULCANO «LA BELLA STAGIONE» RIPRESA DEI LAVORI «LA SERATA DEL 15 OTTOBRE» UN TELEGRAMMA «UNA DOMANDA» UNA RISPOSTA «PARTENZA PER IL RECINTO» L’AVVERTENZA «IL FILO SUPPLEMENTARE» LA COSTA DI BASALTO «CON L’ALTA MAREA» CON LA BASSA MAREA «LA CAVERNA» UNA LUCE ABBAGLIANTE

I COLONI, avvertiti dall’ingegnere, avevano sospeso i lavori e osservavano in silenzio la cima del monte Franklin.

Il vulcano s’era, dunque, risvegliato, e i vapori erano filtrati attraverso lo strato minerale accumulatosi nel fondo del cratere. Ma i fuochi sotterranei avrebbero provocato qualche violenta eruzione? Ecco un’eventualità impossibile a prevenirsi.

Tuttavia, anche ammettendo l’ipotesi di un’eruzione, era probabile che l’isola di Lincoln, nel suo insieme, non avesse a soffrirne. Le effusioni di materie vulcaniche non sono sempre disastrose. L’isola era già stata sottoposta a simili prove, come attestavano le colate di lava, che rigavano i pendii settentrionali della montagna. Inoltre, la forma del cratere e la sua bocca dovevano far si che le materie eruttate venissero proiettate in direzione opposta alle parti fertili dell’isola.

Ma il passato non vincolava, naturalmente, l’avvenire. Spesso, sulla cima dei vulcani, antichi crateri si chiudono, ma se ne aprono di nuovi. Il fatto si è prodotto in tutt’e due i mondi: sull’Etna, sul Popocatepetl, sull’Orizaba, e alla vigilia di un’eruzione, tutto si può temere. Bastava, insomma, un terremoto — fenomeno che accompagna talvolta le manifestazioni vulcaniche «perché la disposizione interna della montagna si modificasse e nuove vie si aprissero alle lave incandescenti.»

Cyrus Smith spiegò queste cose ai compagni, e senza esagerare la situazione, ne fece loro conoscere il pro ed il contro.

Dopo tutto, i coloni non potevano far nulla. GraniteHouse, salvo che un terremoto avesse fatto sobbalzare violentemente il suolo, non sembrava minacciata. Ma il recinto aveva tutto da temere, se qualche nuovo cratere si fosse aperto nelle pareti sud del monte Franklin.

Da quel giorno, i vapori non cessarono d’impennacchiare la cima della montagna, e venne anzi constatato che crescevano d’altezza e di densità, senza che però nessuna fiamma si mescolasse nelle loro dense volute. Il fenomeno si concentrava ancora nella parte inferiore del camino centrale.

Intanto, con le belle giornate, i lavori erano stati ripresi. Veniva affrettata al massimo la costruzione della nave e, per mezzo della cascata della spiaggia, Cyrus Smith riuscì a creare una segheria idraulica, che segò più rapidamente i tronchi d’albero in tavole e in travi. Il meccanismo di quest’apparecchio fu semplice, quanto quelli che funzionano nelle rustiche segherie della Norvegia.

Un primo movimento orizzontale da imprimere al pezzo di legno, un secondo movimento verticale da dare alla sega, era tutto quanto si trattava d’ottenere, e l’ingegnere vi riuscì per mezzo d’una ruota, di due cilindri e di pulegge opportunamente disposte.

Verso la fine di settembre, lo scheletro del bastimento, che doveva essere attrezzato a goletta, s’ergeva nel cantiere. L’ossatura era quasi interamente terminata, ed essendo le costole tenute insieme da un’invasatura provvisoria, già si potevano intuire le forme dell’imbarcazione. Quella goletta, dalla prua molto affinata, sveltissima nello stellato di poppa, sarebbe stata evidentemente adatta per una traversata abbastanza lunga, in caso di bisogno; ma l’adattamento del fasciame esterno, interno e del ponte esigeva ancora un tempo considerevole. Per fortuna, le parti in ferro del brigantino distrutto avevano potuto essere salvate dopo l’esplosione sottomarina. Dai corsi e dai braccioli spezzati Pencroff e Ayrton avevano strappato perni, caviglie e una gran quantità di chiodi di rame. Tanto di guadagnato per i fabbri, ma per i carpentieri fu un duro lavoro.

I lavori di costruzione dovettero essere interrotti durante una settimana per quelli della mietitura, della fienagione e per riporre i diversi raccolti, che abbondavano sull’altipiano di Bellavista. Terminati questi lavori, tutto il tempo fu poi consacrato al compimento della goletta.

Quando scendeva la notte, i lavoratori erano veramente esausti. Per non perdere tempo avevano modificato le ore dei pasti: pranzavano a mezzogiorno e cenavano solo quando la luce del giorno veniva loro a mancare. Risalivano allora a GraniteHouse e si coricavano subito.

Qualche volta, però, la conversazione, quando cadeva su qualche argomento interessante, ritardava alquanto l’ora del sonno. I coloni si lasciavano andare a parlar dell’avvenire e ragionavano volentieri dei cambiamenti, che avrebbe portati alla loro situazione un viaggio della goletta alle terre più vicine. Ma fra quei progetti dominava sempre il pensiero di un ulteriore ritorno all’isola di Lincoln. Mai avrebbero abbandonato quella colonia, fondata con tante fatiche e tanto successo e alla quale le comunicazioni con l’America avrebbero dato un nuovo efficace sviluppo.

Pencroff e Nab soprattutto speravano di finirvi i loro giorni.

«Harbert,» diceva il marinaio «non abbandonerai mai l’isola di Lincoln?»

«Mai, Pencroff, specialmente se tu decidi di restarci!»

«È già deciso, figliolo mio,» rispondeva Pencroff «ti aspetterò qui! Ritornerai, conducendo la tua sposa e i tuoi bimbi e io farò di essi degli uomini arditi e valorosi!»

«Siamo intesi» soggiungeva Harbert, ridendo e arrossendo.

«E voi, signor Cyrus,» riprendeva Pencroff entusiasta «sarete sempre il governatore dell’isola! Quanti abitanti potrà sfamare? Diecimila, almeno!»

Si parlava così, lasciando che Pencroff galoppasse con l’immaginazione e, passando da un argomento all’altro, il giornalista finiva per fondare un giornale: il «NewLincoln Herald»!

Così è il cuore umano. Il bisogno di compiere un’opera duratura, che gli sopravviva, è il segno della sua superiorità su tutto il resto del mondo vivente. Questo ha dato origine alla sua supremazia e la giustifica nel mondo intero.

Dopo di ciò, chissà se Jup e Top non avevano anch’essi il loro piccolo sogno avvenire?

Ayrton, silenzioso, diceva fra sé che avrebbe voluto rivedere lord Glenarvan e mostrarsi a tutti, riabilitato.

Una sera, il 15 ottobre, la conversazione, avviata così a formulare ipotesi, s’era protratta più del solito. Erano le nove di sera. Già lunghi sbadigli, mal dissimulati, segnavano l’ora del riposo, e Pencroff s’era appena avviato verso il suo letto, quando il campanello elettrico suonò improvvisamente nella sala.

Erano tutti là. Cyrus, Gedeon Spilett, Harbert, Ayrton, Pencroff, Nab. Nessuno dei coloni si trovava dunque al recinto.

Cyrus Smith si era alzato. I suoi compagni si guardavano, credendo di aver sentito male.

«Che cosa vuol dire ciò?» esclamò Nab. «È il diavolo che suona? Nessuno rispose.»

«Il tempo è burrascoso» fece notare Harbert. «L’influenza dell’elettricità non può?…»

Harbert non finì la frase. L’ingegnere, verso il quale erano rivolti tutti gli sguardi, crollava la testa negativamente.

«Aspettiamo» disse allora Gedeon Spilett. «Se è un segnale, chiunque sia che l’ha fatto, lo ripeterà.»

«Ma chi volete che sia?» esclamò Nab.

«Ma,» rispose Pencroff «quello che…»

La frase del marinaio fu troncata da un nuovo squillo della soneria elettrica.

Cyrus Smith si diresse verso l’apparecchio e lanciando la corrente attraverso il filo, rivolse questa domanda:

«Che cosa volete?». Alcuni istanti dopo, l’ago, muovendosi sul quadrante alfabetico, dava agli ospiti di GraniteHouse questa risposta: «Venite in fretta al recinto.»

«Finalmente» gridò Cyrus Smith.

Sì! Finalmente il mistero stava per svelarsi! Di fronte all’immenso interesse che li spingeva ora al recinto, ogni stanchezza dei coloni era scomparsa, ogni bisogno di riposo era cessato. Senza aver pronunciato una parola, in pochi istanti, avevano lasciato GraniteHouse e già si trovavano sul greto. Jup e Top soli erano rimasti. Si poteva fare a meno di loro.

La notte era nera. La luna, nuova proprio in quel giorno, era sparita contemporaneamente al sole. Come aveva fatto rilevare Harbert, grosse nubi tempestose formavano una volta bassa e pesante, che nascondeva ogni scintillio di stelle. Alcuni lampi di caldo, riflessi di un temporale lontano, illuminavano l’orizzonte.

Era possibile che, alcune ore dopo, la folgore tuonasse sull’isola. Era una notte minacciosa.

Ma l’oscurità, quantunque profonda, non poteva arrestare delle persone abituate a quella strada. Essi risalirono la riva sinistra del Mercy, raggiunsero l’altipiano, passarono il ponte del Creek Glicerina e avanzarono attraverso la foresta.

Camminavano di buon passo, in preda a un’emozione vivissima. Non v’era dubbio, essi stavano per aver finalmente la tanto cercata chiave dell’enigma, il nome di quell’essere misterioso, così profondamente entrato nella loro vita, così generoso nella sua azione e così potente! Per aver sempre potuto agire al momento opportuno, bisognava che quello sconosciuto si fosse interessato della loro esistenza, che ne conoscesse i minimi particolari, che udisse tutto quel che si diceva a GraniteHouse?

Ciascuno, sprofondato nelle proprie riflessioni, affrettava il passo. Sotto quella volta vegetale l’oscurità era così fonda, che non si vedeva nemmeno l’orlo della strada. Nessun rumore nella foresta. Quadrupedi e uccelli, impauriti dalla pesantezza dell’atmosfera, erano immobili e silenziosi. Nessun soffio agitava le foglie. Solamente il passo dei coloni risuonava nell’ombra, sul suolo indurito.

Durante il primo quarto d’ora di marcia il silenzio non fu interrotto che da questa osservazione di Pencroff:

«Avremmo dovuto prendere una lanterna. E da questa risposta dell’ingegnere:»

«Ne troveremo una al recinto.»

Cyrus Smith e i suoi compagni avevano lasciato GraniteHouse alle nove e dodici minuti. Alle nove e quarantasette minuti avevano superato una distanza di tre miglia, sulle cinque che separavano la foce del Mercy dallo steccato del recinto.

In quel momento, grandi lampi biancastri sbocciavano nell’oscurità del cielo, allargandosi poi sull’isola e disegnando in nero le frastagliature del fogliame. Quei lampi intensi abbagliavano e accecavano. Il temporale, evidentemente, non avrebbe tardato molto a scatenarsi. I lampi divennero a poco a poco più rapidi e più luminosi. Rombi lontani brontolavano sulle misteriose regioni del cielo. L’atmosfera era soffocante.

I coloni andavano, come se fossero stati spinti innanzi da qualche forza irresistibile.

Alle dieci e un quarto, un vivissimo lampo mostrava loro lo steccato del recinto, e non ne avevano àncora varcato la porta, che il tuono scoppiava con formidabile violenza.

Il recinto fu attraversato in un attimo e Cyrus Smith si trovò davanti all’abitazione.

Poteva darsi che la casa fosse occupata dallo sconosciuto, poiché appunto dalla casa stessa il telegramma era partito. Eppure, nessuna luce rischiarava la finestra.

L’ingegnere batté alla porta.

Nessuna risposta.

Cyrus Smith aperse la porta e i coloni entrarono nella camera, avvolta in una profonda oscurità.

Un colpo di acciarino di Nab accese la lanterna, che venne adoperata per esplorare ogni angolo della stanza.

Non c’era nessuno. Tutto si trovava come era stato lasciato.

«Siamo forse stati tratti in inganno da un’illusione?» mormorò Cyrus Smith.

No, non era possibile! Il telegramma aveva proprio detto: «Venite in fretta al recinto».

I coloni s’avvicinarono alla tavola destinata al telegrafo. Tutto era a posto, la pila e la scatola che la conteneva, e così pure l’apparecchio ricevente e trasmittente.

«Chi è venuto qui per ultimo?» chiese l’ingegnere.

«Io, signor Smith» rispose Ayrton.

«E quando?»

«Quattro giorni or sono.»

«Ah, uno scritto!» esclamò Harbert, mostrando una carta posata sulla tavola.

Su quella carta erano scritte, in inglese, queste parole: «Seguite il nuovo filo».

«In cammino!» esclamò Cyrus Smith, che comprese come il dispaccio non fosse partito dal recinto, ma dal nascondiglio misterioso, che un filo supplementare, collegato a quello vecchio, univa direttamente a GraniteHouse.

Nab prese la lanterna accesa e tutti lasciarono il recinto.

Il temporale si scatenava allora con estrema violenza. L’intervallo che separava ogni lampo dal colpo di tuono diminuiva sensibilmente. Il fenomeno stava per dominare il monte Franklin e l’intera isola. Alla viva luce dei bagliori intermittenti, si poteva vedere la sommità del vulcano impennacchiata di vapori.

In tutto il tratto del recinto, che separava la casa dalla cinta, non esisteva alcuna comunicazione telegrafica. Ma l’ingegnere, correndo direttamente al primo palo, dopo aver varcata la porta, vide al chiarore d’un lampo che un nuovo filo ricadeva dall’isolatore fino a terra.

«Eccolo!» disse.

Questo filo posava per terra, ma era avvolto per tutta la sua lunghezza da una sostanza isolante, come i cavi sottomarini, il che assicurava la libera trasmissione della corrente. Dalla sua direzione, pareva cacciarsi attraverso i boschi e i contrafforti meridionali della montagna, e correva verso l’ovest.

«Seguiamolo!» disse Cyrus Smith.

E ora alla luce della lanterna, ora sotto i lampeggiamenti della folgore, i coloni si slanciarono sulla via tracciata dal filo.

Il rombare del tuono era allora continuo, e così forte, che nessuna parola avrebbe potuto essere udita. D’altra parte, non si trattava di parlare, ma di andare avanti.

Cyrus Smith e i suoi salirono prima il contrafforte tra la vallata del recinto e quella del fiume della Cascata, che guadarono nella sua parte più stretta. Il filo, ora teso sui rami più bassi degli alberi, ora svolgentesi a terra, li guidava sicuramente.

L’ingegnere supponeva che quel filo si sarebbe probabilmente arrestato in fondo alla valle e che ivi si sarebbe trovato il rifugio ignorato.

Ma non fu così. Bisognò risalire il contrafforte di sudovest e ridiscendere sull’arido altipiano, limitato dalla muraglia di basalti, tanto stranamente ammonticchiati. Di tanto in tanto l’uno o l’altro dei coloni si chinava, tastava il filo con la mano e, all’occorrenza, rettificava la direzione. Ma non v’era più dubbio: il filo correva direttamente al mare. Là, indubbiamente, in qualche profondità delle rocce ignee, s’internava la dimora, invano cercata fino allora.

Il cielo era in fiamme. Un lampo non aspettava l’altro. Parecchi percuotevano la cima del vulcano e si precipitavano nel cratere, in mezzo al fumo denso. A momenti, si sarebbe potuto credere che il monte sprigionasse fiamme.

Pochi minuti prima delle dieci, i coloni erano arrivati sull’alto orlo roccioso, che dominava l’Oceano a ovest. S’era levato il vento. La risacca muggiva cinquecento piedi più sotto.

Cyrus Smith calcolò ch’egli e i suoi compagni avevano percorso la distanza di un miglio e mezzo dal recinto.

A questo punto il filo penetrava in mezzo alle rocce, seguendo la china abbastanza ripida d’un burrone stretto e capricciosamente conformato.

I coloni cominciarono a discendervi, a rischio di provocare qualche franamento di macigni male equilibrati e di precipitare in mare. La discesa era estremamente pericolosa, ma essi non pensavano al pericolo, non erano più padroni di sé e un’irresistibile forza li attirava verso quel punto misterioso, come la calamita attira il ferro.

Così, essi discesero quasi inconsciamente quel burrone, che, anche in piena luce, sarebbe stato pressoché impraticabile. Le pietre rotolavano e splendevano come bolidi infiammati, quando attraversavano le zone di luce. Cyrus Smith era in testa al gruppo. Ayrton chiudeva la marcia. Qui, procedevano a passo a passo; là, scivolavano sulla roccia levigata; poi si riamavano e continuavano la discesa.

Alla fine, il filo, formando un angolo brusco, toccò le rocce del lido, disseminato di scogli, battuto senz’altro dalle grandi maree. I coloni avevano raggiunto il limite inferiore della muraglia basaltica.

Là si apriva uno stretto corridoio, che correva orizzontalmente e parallelamente al mare. Il filo lo seguiva e i coloni fecero altrettanto. Non avevano fatto cento passi, che il riparo, inclinandosi moderatamente, scese a poco a poco fino al livello stesso delle onde.

L’ingegnere afferrò il filo e vide che penetrava nel mare.

I suoi compagni, fermi vicino a lui, erano stupefatti.

Un grido di delusione, quasi di disperazione, sfuggì loro! Bisognava, dunque, tuffarsi sott’acqua e cercarvi qualche caverna sottomarina? Nello stato di sovreccitazione morale e fisica in cui si trovavano, non avrebbero esitato a farlo.

Ma una riflessione dell’ingegnere li trattenne.

Cyrus Smith condusse i suoi compagni sotto un’anfrattuosita delle rocce e disse:

«Aspettiamo. La marea è alta. Con la bassa marea la via sarà aperta.»

«Ma che cosa v’induce a credere?…» chiese Pencroff.

«Non ci avrebbe chiamati, se fosse mancato il modo per arrivare fino a lui!»

Cyrus Smith aveva parlato con accento di così profonda convinzione, che gli altri non sollevarono obiezione alcuna. Del resto, la sua osservazione era logica. Bisognava ammettere che un’apertura, praticabile a bassa marea e ostruita in quel momento dal flusso, s’aprisse ai piedi della muraglia.

Bisognava aspettare alcune ore. I coloni rimasero, dunque, silenziosamente rannicchiati sotto una specie di portico profondo, scavato nella roccia. La pioggia cominciava allora a cadere, e poco dopo le nubi lacerate dalla folgore si sciolsero a torrenti. Gli echi ripercuotevano il fragore del tuono con una sonorità grandiosa.

L’emozione dei coloni era estrema. Mille pensieri strani, straordinari, attraversavano il loro cervello rievocavano qualche grande e sovrumana apparizione, che solo avrebbe potuto corrispondere all’idea che essi si facevano del genio misterioso dell’isola.

A mezzanotte, Cyrus Smith, portando con sé la lanterna, discese sino a livello della spiaggia, allo scopo di osservare la disposizione delle rocce. La bassa marea durava già da due ore.

L’ingegnere non s’era ingannato. La curva della volta d’una vasta caverna cominciava a disegnarsi al di sopra delle acque. Per di là, il filo, piegandosi ad angolo retto, penetrava nella gola spalancata.

Cyrus Smith ritornò presso i compagni e disse loro semplicemente:

«Fra un’ora l’apertura sarà praticabile.»

«Essa esiste, dunque?» domandò Pencroff.

«Ne avete dubitato?» rispose Cyrus Smith.

«Ma questa caverna sarà piena d’acqua fino a una certa altezza» fece notare Harbert.

«O la caverna si prosciuga completamente,» rispose Cyrus Smith «e in questo caso la percorreremo a piedi, o, se non si prosciuga, un mezzo qualunque di trasporto sarà messo a nostra disposizione.»

Trascorse un’ora. Tutti discesero sotto la pioggia al livello del mare. In tre ore la marea era calata di quindici piedi. La sommità dell’arco tracciato dalla curvatura della volta sovrastava il livello dell’acqua di otto piedi almeno. Era come l’arco di un ponte, sotto cui passavano le acque schiumose.

Sporgendosi, l’ingegnere vide qualcosa di nero che galleggiava alla superficie del mare e lo trasse a sé.

Era una lancia, ormeggiata con una cima a qualche sporgenza interna della parete. Era di lamiera chiodata. A pagliuolo, sotto i banchi vi erano i remi.

«Imbarchiamoci» disse Cyrus Smith.

Un momento dopo, i coloni erano nella lancia. Nab e Ayrton s’erano messi ai remi, Pencroff al timone, Cyrus Smith a prua; la lanterna, posata a prua, illuminava la strada.

La volta, dapprima bassissima, sotto la quale la lancia passò, si alzava poi bruscamente; ma l’oscurità era troppo profonda e la luce del fanale insufficiente per poter conoscere l’estensione della caverna, la sua larghezza, altezza e profondità. In mezzo a quella costruzione basaltica regnava un silenzio imponente. Nessun rumore vi penetrava dal di fuori e gli scoppi del fulmine non potevano attraversare le sue spesse pareti.

Esistono in certe parti del globo di queste caverne immense, specie di cripte naturali, che datano dalle epoche geologiche. Alcune sono invase dalle acque del mare; altre contengono dei laghi interi nei loro fianchi. Come la grotta di Fingal, nell’isola di Staffa, una delle Ebridi; così le grotte di Morgat, sulla baia di Douarnenez, in Bretagna; le grotte di Bonifacio, in Corsica, quelle del LyseFjord, in Norvegia; così l’immensa caverna del Mammouth, nel Kentucky, alta cinquecento piedi e lunga più di venti miglia! In parecchi punti del globo la natura ha scavato queste cripte e le ha conservate all’ammirazione dell’uomo.

La caverna che i coloni stavano esplorando s’estendeva, dunque, sino al centro dell’isola? Da un quarto d’ora la lancia avanzava, facendo delle deviazioni che l’ingegnere indicava a Pencroff con voce breve, quando, a un certo momento:

«Più a dritta!» comandò Cyrus Smith.

La barca, modificando la sua direzione, andò tosto a rasentare la parete di destra. L’ingegnere voleva, con ragione, accertarsi se il filo correva sempre lungo la parete stessa.

Il filo era là, appeso alle sporgenze rocciose.

«Avanti!» disse Cyrus Smith.

E i due remi, tuffandosi nelle acque nere, spinsero innanzi l’imbarcazione. La lancia proseguì per un altro quarto d’ora e doveva aver percorso una distanza di circa mezzo miglio, quando si udì la voce di Cyrus Smith.

«Fermate!» disse.

La lancia si fermò e i coloni scorsero una viva luce, che illuminava l’enorme cripta, profondamente scavata nelle viscere dell’isola.

Allora fu possibile esaminare quella caverna, di cui nulla aveva mai potuto far supporre l’esistenza.

A un’altezza di cento piedi s’incurvava una volta, sostenuta da colonne di basalto, che sembravano essere state fuse tutte nel medesimo stampo. Spigoli irregolari, modanature capricciose spiccavano su quelle colonne, che la natura aveva erette a migliaia nelle prime epoche della formazione del globo. I tronconi di basalto, incastrati l’uno nell’altro, misuravano da quaranta a cinquanta piedi d’altezza e l’acqua, tranquilla, malgrado le agitazioni esterne, andava a bagnarne la base. Lo splendore della sorgente di luce, segnalata dall’ingegnere, investendo tutti gli spigoli prismatici e picchiettandoli di punte di fuoco, penetrava, per così dire, le pareti, come se fossero state diafane, e cambiava in tante scintillanti pietre preziose le minime sporgenze di quella costruzione.

Per un fenomeno di riflessione, l’acqua riproduceva quei diversi splendori alla sua superficie, in modo che la lancia sembrava galleggiare fra due zone sfavillanti.

Non era possibile sbagliarsi sulla natura dell’irradiazione proiettata dal centro luminoso, i cui raggi, netti e rettilinei, s’infrangevano contro tutti gli angoli, contro tutte le modanature della cripta. Quella luce proveniva da una sorgente elettrica, il suo colore bianco ne tradiva l’origine. Era come il sole della caverna, che ne era invasa tutta.

A un segno di Cyrus Smith, i remi ricaddero, facendo zampillare una vera pioggia di scintille, e la lancia si diresse verso la sorgente luminosa, dalla quale in breve si trovò distante solo la lunghezza di una mezza gomena.

In quel punto la larghezza della distesa d’acqua era di circa trecentocinquanta piedi e, al di là del centro abbagliante, si poteva scorgere un enorme muro di basalto, che chiudeva ogni apertura da quella parte. La caverna s’era, quindi, notevolmente allargata e il mare vi formava un laghetto. Ma la volta, le pareti laterali, la muraglia dell’abside, tutti quei prismi, tutti quei cilindri, tutti quei coni, erano immersi nel fluido elettrico, al punto che quello splendore pareva fosse una loro naturale emanazione e si sarebbe potuto dire che quelle pietre, sfaccettate come diamanti di gran valore, trasudavano luce!

Al centro del lago, un lungo oggetto fusiforme galleggiava alla superficie delle acque, silenzioso, immobile. Lo splendore che tutto illuminava usciva dai suoi fianchi, come da due gole di forno scaldate al calore bianco. Quell’apparecchio, simile al corpo di un enorme cetaceo, era lungo duecentocinquanta piedi circa e si elevava da dieci a dodici piedi sopra il livello del mare.

La lancia gli si avvicinò lentamente. A prora, Cyrus Smith s’era alzato. Guardava, in preda a violenta agitazione. Poi, tutto a un tratto, afferrando con moto convulso il giornalista per le braccia:

«Ma è lui! Non può essere che lui!» esclamò «Lui!… Poi ricadde sul sedile, mormorando un nome che solo Spilett udì.»

Il giornalista indubbiamente conosceva quel nome, giacché fece su di lui un effetto prodigioso, ed egli rispose con voce sorda:

«Lui! Un fuori legge!»

«Lui!» disse Cyrus Smith.

Per ordine dell’ingegnere la lancia s’avvicinò al singolare apparecchio galleggiante, attraccandosi al fianco sinistro, dal quale usciva un fascio di luce attraverso uno spesso vetro.

Cyrus Smith e i suoi compagni montarono sulla piattaforma. Un boccaporto spalancato li attendeva. Tutti si slanciarono attraverso quell’apertura.

Ai piedi della scala si presentava un corridoio illuminato elettricamente. All’estremità di questo corridoio s’apriva una porta, che Cyrus Smith spinse.

Una sala riccamente ornata, che i coloni attraversarono rapidamente, dava in una biblioteca, nella quale un soffitto luminoso versava un torrente di luce.

In fondo alla biblioteca una grande porta, ugualmente chiusa, fu aperta dall’ingegnere.

Un vasto salone, specie di museo, ov’erano accumulate, con tutti i tesori della natura minerale, opere d’arte e meraviglie dell’industria, apparve agli occhi dei coloni, che dovettero credersi trasportati, per virtù di magia, nel mondo dei sogni.

Disteso su di un ricco divano, videro un uomo che non parve accorgersi della loro presenza.

Allora Cyrus Smith alzò la voce e, fra la più grande sorpresa dei suoi compagni, pronunciò queste parole:

«Capitano Nemo, ci avete chiamati? Siamo qui!»

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