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«Come dolce c’è una torta di loganberry» annunciò Charlie «e ho tutta l’intenzione di assaggiarla. E voi signore?» Scossero entrambe la testa. «Bene. Mentre io mangio il dolce lei Beth mi racconterà un po’ di cose. Cominci con delle brevi e concise descrizioni dei giocatori di Smart House.»

Beth guardò Constance come per cercare aiuto, ma ricevette solo un sorriso d’incoraggiamento. Questo significava che si fidavano di lei o che la stavano mettendo alla prova? Sentì aumentare la confusione che provava e scosse la testa, ma Charlie stava facendo segno al cameriere di avvicinarsi mentre Constance non la guardava affatto. Congedato il cameriere, Charlie si voltò verso Beth ansioso di ascoltarla.

«Cominciamo dal fratello, Bruce» le suggerì vedendo che esitava a parlare.

«In Bruce» disse Beth dopo una pausa «sembra che genio e follia vadano di pari passo, ma è tutta una finzione. Gary non era pazzo» si affrettò a precisare senza sapere perché lo stesse difendendo anche adesso. In preda alla confusione si fermò, poi aggiunse prudentemente: «Non si rendeva conto di quello che ci faceva… che faceva a loro.» Dovette fermarsi nuovamente perché nemmeno questo era esatto. Charlie emise un vago brontolio e Constance si limitò ad aspettare. Beth provò a spiegarsi. «Le sue priorità erano diverse» disse infine. «Tutto ciò che aveva a che fare con problemi, rompicapi, giochi e ogni aspetto intellettuale aveva la precedenza, mentre le persone venivano dopo.» Rifletté un secondo poi annuì. «Vedete, non è che ignorasse le persone, piuttosto non rappresentavano una priorità per lui. Una volta» si affrettò a dire, domandandosi nuovamente perché si desse tanto la pena di far comprendere a Charlie e Constance com’era Gary, dal momento che non aveva più alcuna importanza «quando Jake era ancora sposato, la moglie gli diede un ultimatum. Poteva continuare a lavorare per sempre diciotto ore al giorno o poteva restare sposato con lei, le due cose insieme non erano compatibili. Gary capì perfettamente cosa stava accadendo e diede a Jake anche più lavoro. Volle metterlo alla prova pur rendendosi perfettamente conto delle conseguenze che questo avrebbe avuto, del costo che Jake e sua moglie avrebbero dovuto pagare. Quello per lui era un altro problema, niente di più. Aveva una buona comprensione dei meccanismi umani, ma li valutava con un metro tutto suo.»

Il cameriere portò il caffè e rimasero in silenzio finché non si fu allontanato. A quel punto Charlie disse: «Harry.»

Beth chiuse ripetutamente gli occhi e cercò di radunare i pensieri, di inquadrare Harry. «È sempre in tensione» disse lentamente. «È come se avesse avuto la visione di qualcosa che aveva sempre giudicato irraggiungibile, e all’improvviso si fosse convinto di poterci arrivare. Come la vetta di una montagna» aggiunse, e guardò alternativamente Charlie e Constance. «Dovete sapere che Harry è uno scalatore. Scala le montagne in maniera quasi ossessiva.» Charlie annuì. «A volte ho l’impressione che stia sempre scalando una montagna anche se ha i piedi per terra. Non vorrei mai trovarmi sulla sua strada, non esiterebbe a togliermi di mezzo, e se dovessi finire a terra, pazienza.»

«Anche Gary?»

Beth scosse la testa. «Lei non capisce, Gary era già arrivato in vetta e lo spronava, lo incoraggiava. Era il modello da imitare, la meta da raggiungere. Probabilmente nessuno lo ammirava più di Harry.»

«Povero Gary» mormorò Constance quando Beth ripiombò nel silenzio. «A nessuno importava di lui come persona?»

Beth arrossì e abbassò la testa, osservando il mulinello che il movimento del cucchiaino formava nella tazza di caffè. «A Maddie sì, naturalmente, e molto tempo fa anche a me. A Jake importava di lui.»

Il vortice nella tazza si allargò sempre di più finché il caffè raggiunse il bordo e si versò fuori. Beth stava ripensando al funerale di Gary. Erano ritornati tutti a casa di Maddie e l’avevano trovata piena di gente, di curiosi, di amici, di estranei, alcuni puramente interessati, altri sinceri, alcuni stretti in capannelli, uniti dai bisbigli, altri che volevano toccare, dare pacche sulle spalle, consolare, partecipare al dolore. Beth era scappata di corsa al piano di sopra, nel piccolo ufficio di Maddie, e si era voltata con le spalle alla stanza, la testa china, le mani premute contro la porta come se i convenuti potessero seguirla e riuscire a entrare.

Si era sentita toccare sulla spalla e si era irrigidita, si era voltata di scatto ritrovandosi tra le braccia di Jake Kluge. Jake l’aveva abbracciata, le aveva accarezzato i capelli come una bambina, e Beth si era sentita oppressa dal senso di colpa, dalla consapevolezza di non sentirsi in lutto, di non provare sofferenza né alcun coinvolgimento. Si sentiva in colpa per essere viva mentre Gary era morto, e forse era persino felice che lo fosse. Si sentiva in colpa perché non sapeva cosa avrebbe dovuto provare e si sentiva svuotata di ogni sentimento, come gli ospiti al piano di sotto, fredda come il ghiaccio. Jake le aveva mormorato parole senza senso e lei aveva pianto, non per Gary ma per se stessa e quel disastro che era la sua vita. Il senso di colpa era aumentato, raddoppiato; tanto che dovette allontanare bruscamente Jake non riuscendo più a sopportarne la vicinanza. Jake indossava gli occhiali e le lenti erano così spesse da distorcere i suoi occhi chiari, ma non riuscivano a nasconderne il rossore. Il dolore assolutamente autentico di Jake l’aveva fatta sentire ancora più in colpa.

Beth era corsa fuori e aveva vagato in auto per ore. Quando poi Jake l’aveva chiamata e lasciato un messaggio nella segreteria telefonica, lei l’aveva spenta. Beth sapeva che Jake voleva condividere il suo dolore, alleviare la reciproca sofferenza, ma lei non ne provava, se non per la ragazza che era stata tanto tempo prima.

Smise di fissare il caffè versato nel piattino e sulla tovaglia, sollevò lo sguardo e posò il cucchiaino. «Si staranno chiedendo dove sono finita» disse pacatamente. «È meglio che rientriamo.»


Mentre tornavano a Smart House, Charlie chiese a Beth di mostrargli il punto in cui si era fermata ad aspettare davanti al massiccio cancello di bronzo che ora invece era aperto. Charlie continuò a guidare e aspettò che Beth ripercorresse mentalmente i gesti compiuti il giorno del suo arrivo. Charlie cercò le telecamere proprio come aveva fatto Beth la prima volta, e con lo stesso risultato. Erano nascoste troppo bene. Arrivati a Smart House suonò il campanello del portone e si udirono le quattro note della Bellringer Company. Qualche secondo dopo, la porta decorata dell’ingresso principale si aprì e una donna di mezz’età si scostò per lasciarli entrare.

«I signori sono Mr Meiklejohn e Mrs Leidl» disse Beth. «Lei è Mrs Ramos.»

Era una bella signora dalla stazza robusta, aveva capelli ingrigiti dal tempo che teneva raccolti in uno chignon, non era truccata, non indossava gioielli e nemmeno un orologio. Charlie si ricordò che, la sera in cui erano morti i due uomini, la donna e il marito avevano effettuato un’interurbana durata dalle undici e qualche minuto fino quasi alle undici e mezzo. Mrs Ramos, infatti, era da poco diventata nonna. La donna inclinò leggermente la testa. «Vi mostro la vostra camera. Avete dei bagagli? Se volete lasciarci le chiavi della macchina provvederemo a scaricare i bagagli e a parcheggiarla nell’autorimessa. Mr Sweetwater ha chiesto di avvisarlo del vostro arrivo.» Aveva un timbro di voce molto gradevole, persino musicale, e non c’era traccia di alcun accento.

«Se vedrò Milton lo avviserò io» disse Beth. «A dopo.» Li salutò con la mano, girò loro intorno e attraversò il grande ingresso.

«Desiderate prendere l’ascensore per salire?» domandò Mrs Ramos.

«Certo che sì» rispose Charlie, e la donna li condusse nell’ampio corridoio con la grande vetrata che si affacciava sull’atrio. Charlie emise un fischio.

«Possiamo passare da qui» disse Mrs Ramos. «Lo fanno quasi tutti, è la strada più corta per andare da un capo all’altro della casa.»

Osservarono il giardino, la piscina, la sistemazione delle sedie, dei tavoli, del bar, il modo in cui l’ambiente era stato costruito per assomigliare a una collina rocciosa coperta da un’intricata giungla verde. L’aria era opprimente.

«Lei sa perché siamo qui?» le domandò Charlie fermandosi per studiare il muro di roccia da cui scendeva l’acqua che si riversava in piscina.

«Me l’hanno spiegato.»

«Mi sembra di essere nel palazzo di un pascià» fu il commento di Charlie, e riprese a camminare. «Sarà qui per il fine settimana? Potremmo avere bisogno di parlare con lei e suo marito.»

«Naturalmente» rispose. «Viviamo in un cottage all’interno della proprietà. Può venire quando vuole.»

Charlie pensò che si trattasse della tipica governante imperturbabile e impeccabile, e si chiese cosa nascondesse dietro quel volto sereno, quegli occhi neri e prudenti. Dopo aver attraversato l’atrio la donna si fermò nuovamente.

«Ecco l’ascensore» disse.

L’ascensore si trovava in fondo al corridoio e da lì si dipartiva un corridoio più piccolo, percorrendo il quale ci si allontanava dalla piscina. L’ascensore era al piano con le porte aperte e vi salirono. Sulla parete accanto alle porte il pannello di controllo era costituito da un pentagramma con note e pulsanti a filo del muro. Strisce di metallo dorato dividevano le pareti in sezioni irregolari, ognuna di un colore pastello differente che andava dall’azzurro al verde e al giallo. Per terra c’era una moquette di borgogna eccessivamente folta. Il soffitto color avorio era luminescente e costituiva la fonte di luce principale. Charlie aveva letto sui verbali che la cabina era lunga tre metri, larga uno e mezzo e alta due e mezzo.

«Dov’è l’aspirapolvere automatico?» domandò a Mrs Ramos.

«Nel pannello centrale della parete di fondo» rispose indicandolo con il mento. «A questo piano non posso mostrarglielo. Funziona soltanto quando l’ascensore è nel seminterrato. Questi sono gli indicatori di piano» spiegò loro, e premette una delle note. «La prima nota fa chiudere le porte.» Le porte si chiusero silenziosamente. «Quella successiva serve per farle aprire, e le note in scala corrispondono ai piani. Ora ci troviamo al pianterreno, la vostra stanza è al primo.» La donna premette un’altra nota. Non si percepiva alcun movimento e sembrava che la cabina fosse immobile. «Quando il computer è in funzione non è necessario premere alcun tasto, si dice semplicemente dove si vuole andare. È tutto automatico.»

Li condusse lungo il corridoio del primo piano avanzando tra la vetrata e le porte delle stanze; tra le porte delle stanze si aprivano ampie porzioni di muro su cui erano appesi quadri di valore, ognuno illuminato da una lampada posta al di sopra della cornice. Passarono davanti a parecchie porte chiuse prima che la donna si fermasse e ne aprisse una. Mrs Ramos non entrò, ma tenne loro aperta la porta. «Spero che starete comodi. Se avete bisogno di qualcosa potete chiamare la cucina digitando il numero sei sul telefono. Mi assicurerò che Mr Sweetwater venga messo al corrente del vostro arrivo.»

Durante il percorso e per tutto il tempo delle spiegazioni Constance era rimasta in silenzio e vigile. «Lavorava per Gary Elringer?» chiese d’un tratto a Mrs Ramos.

«No. Lavoro per la società. Mr Elringer stava qui solo in alcuni periodi. Mi occupo della casa per la società.»

«E le piace, Mrs Ramos? Mi riferisco a Smart House, al computer che controlla ogni cosa.»

Per un istante il volto amabile e ben allenato della governante lasciò il posto a un’espressione dura e severa. Ma se Constance non avesse osservato attentamente il viso della donna non se ne sarebbe accorta, tanto quel cambiamento fu impercettibile.

«Il computer è spento, non comanda più nulla.» Per dovere professionale diede uno sguardo alla stanza in modo da assicurarsi che fosse tutto a posto, si voltò e se ne andò.

Mentre Constance apriva le tende, Charlie esaminò la serratura della porta e la targhetta numerata all’esterno, cercando d’immaginare come quel marchingegno funzionasse quando il computer era operativo. Decise che non sarebbe mai riuscito a capirlo, così accostò la porta e cercò un modo a lui più familiare per chiuderla a chiave. Non trovò niente.

«Questa non è una casa!» esclamò Constance davanti alla vetrata. La finestra si affacciava sulla distesa grigia e bellissima dell’oceano coperto di foschia. La stanza era decorata con sfumature di colore che andavano dal violetto al lavanda e al blu scuro, e aveva qua e là oggetti cloisonné di squisita manifattura tra cui delle lampade, una statuetta raffigurante una gru, un portacenere. «È come uno di quegli hotel a quattro stelle che si vedono sulle riviste.»

C’erano due letti gemelli, una scrivania con computer, un televisore, dei cassettoni, un grande armadio a muro e una sala da bagno equipaggiata in modo stravagante. Sembrava proprio di essere in un costoso albergo, ne convenne Charlie dopo aver ispezionato la stanza, tranne che non c’era modo di chiudere a chiave la porta. Charlie però sapeva che sarebbe ricorso al vecchio trucco della sedia sotto la maniglia.

Uscendo dalla stanza trovarono Beth in corridoio. «Vi accompagno in soggiorno» disse. «Milton vi sta aspettando insieme a Bruce e a un paio di altre persone.» Si avviò lungo il corridoio con un’aria mesta. «Niente ascensore. Non mi ci voglio nemmeno più avvicinare.» Li condusse alle scale sul retro.

«C’è davvero bisogno di una guida in questa casa» disse Constance.

«La volta scorsa hanno distribuito delle piantine per ogni piano. Ce ne dovrebbe essere ancora qualcuna in giro. Milton saprà sicuramente dove.»

Entrarono in soggiorno e Beth fece le presentazioni. Alexander Randall pareva nervoso e non sapeva cosa fare delle mani. Milton, tenendo in mano una grande busta marrone, li salutò con un cenno del capo. Maddie Elringer annuì a entrambi e non disse nulla. Il suo trucco era un disastro: aveva messo troppo rossetto, peraltro sbavato, il mascara era sceso e lei sembrava non essersi accorta, come se da quella mattina non si fosse più specchiata. Aveva in mano un bicchiere alto, e ogni indizio diceva che non era il primo della giornata, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio.

Terminate le presentazioni, Milton Sweetwater porse la busta a Charlie. «Sono riuscito a trovare tutto quello che mi ha chiesto. Alexander ha lavorato al progetto della casa sin dall’inizio, qualsiasi cosa vogliate sapere lui sarà in grado di fornirvi ogni informazione.»

«Grazie.» Charlie mise la busta sotto il braccio.

«Cosa gli hai dato? Dei dossier su ognuno di noi?» domandò bruscamente una nuova voce alle sue spalle.

«Questo è Bruce» spiegò stancamente Beth.

«E questa non è una risposta» replicò Bruce asciutto. Raggiunse il gruppo accanto alla vetrata scrutando Charlie e ignorando Constance. «So chi è lei. Quello che voglio sapere è cosa le hanno detto circa il motivo per cui l’abbiamo assunta.»

«Bruce, ti stai rendendo ridicolo» sbottò Milton. «Gli ho detto esattamente quello che abbiamo deciso durante l’ultima riunione e gli ho fornito i rapporti del medico legale, della polizia, lo statuto della società, le clausole del testamento di Gary, un rendiconto della situazione finanziaria della società dello scorso anno, una piantina della casa e forse un paio di altri documenti, ma avrei fornito la lista completa alla successiva riunione.»

Constance osservava la scena con un interesse quasi clinico. Le mani di Maddie avevano cominciato a tremare talmente che la donna aveva dovuto posare il bicchiere, e ora le teneva strette tra loro con tale forza che la punta delle dita era diventata rossa, e le nocche bianche. Alexander si stava avvicinando pian piano alla porta pronto a fuggire.

«Gli ho già detto di cosa mi accusi!» intervenne freddamente Beth guardando Bruce con disprezzo.

Bruce cercò di afferrarla per un braccio ma lei si svincolò.

«Non mi toccare!» gli urlò con una voce soffocata dalla rabbia.

«Devi stare a sentire la mia versione. Non voglio che mi accusi di sparlarti alle spalle. Quella sera la tenevo d’occhio» disse rivolto a Charlie. «Quando abbiamo udito la risata di Gary l’ho osservata e mi sono accorto che l’aveva sentita anche lei. Infatti si alzò e uscì a cercarlo. Aveva tentato di parlargli tutto il giorno e quello, mentre tutti gli altri stavano guardando il film, era il momento giusto. Gary aveva intenzione di farla lavorare al progetto in modo che si guadagnasse i soldi con cui la stava mantenendo, ma Beth voleva il divorzio e un bell’accordo finanziario. Per Dio, so riconoscerle certe intenzioni! Quella sera l’ho vista uscire per andare a cercarlo. Chi altro avrebbe potuto portare Gary nella sala idromassaggio a parte Beth? Chi altro a parte Gary avrebbe potuto intervenire sul computer perché non ci fosse traccia della loro presenza in quella stanza? Gary era furente perché lei non mostrava alcun interesse per i suoi nuovi giocattoli. Così pensò di farle da guida, di pavoneggiarsi un po’. Cancellò entrambi dal programma di identificazione e le disse che voleva parlarle. Andarono nella stanza della Jacuzzi e lì Beth riuscì a mettere le mani sui comandi.» Alzò il tono fino a che divenne un falsetto e disse imitando Beth: «Oh, Gary, fammi vedere. Come sei intelligente…»

Beth emise un suono soffocato e scosse la testa. «Sei completamente pazzo!»

«Poi lo hai scaraventato in piscina e hai premuto il pulsante per attivare la copertura. Gary non ha avuto alcuna possibilità di reagire! Avevi in mano il computer portatile, potevi andare ovunque senza che i tuoi spostamenti fossero registrati. Non avrebbe permesso a nessun altro di toccarlo tranne che a te!»

«Cosa intende per computer portatile? Quant’è grande?» domandò Charlie.

«È piccolo, come un pacchetto di sigarette.»

«Come lo sai?» gli domandò stupito Alexander. «Aveva detto che non lo avrebbe mostrato a nessuno fino alla riunione di lunedì.»

Bruce lo guardò in modo sprezzante. «Lo sapevano tutti, coglione. Pensavi che sarebbe riuscito a non vantarsi?»

«Io non lo sapevo» intervenne Milton scandendo lentamente le parole e scuotendo la testa. «Non credo che lo sapessero tutti, altrimenti la cosa sarebbe venuta fuori prima.»

«Nemmeno io lo sapevo» gli fece eco Beth.

Bruce guardò uno dopo l’altro i presenti con un’espressione incredula. Maddie, sul punto di piangere, prese nuovamente il bicchiere con le mani che le tremavano visibilmente. «Lo sapevate tutti» disse Bruce con un tono aspro. «È l’unica spiegazione sensata. Ho immaginato perfettamente la scena e voi avete fatto altrettanto. Cosa state cercando di provare? Che è tutta una montatura? Non funzionerà! È stata lei! Solo lei aveva un movente per farlo!»

«Avete riferito alla polizia di questo piccolo congegno?» domandò Charlie cortesemente.

Alexander scosse la testa. «Credevo di essere il solo a conoscerne l’esistenza, e poi non sono più riuscito a trovarlo. In quei giorni non mi era nemmeno capitato di pensarci perché Gary stava partecipando al gioco proprio come tutti gli altri. Non lo avrebbe usato durante il gioco, avrebbe dato una dimostrazione delle capacità del computer portatile il lunedì successivo. Quel fine settimana tutta la casa era in prova, andava testata. Quel fine settimana ognuno di noi, senza rendersene conto, fungeva da test beta. Il computer portatile era solo un dispositivo di sicurezza, un congegno di supporto nel caso qualcosa fosse andato storto, si fosse bloccata una porta o si fosse verificata qualche altra disfunzione, ma non è successo nulla. Cioè, non è andato storto nulla. Ho pensato al computer solo in seguito.»

«Mi chiedo se non le dispiacerebbe accompagnare me e Constance in una visita guidata, fornendoci al contempo qualche spiegazione sulla casa, dal momento che lei più di chiunque altro sa cosa sia o non sia in grado di fare.»

Alexander s’inumidì le labbra, guardò prima Bruce, poi Milton, infine di nuovo Charlie e annuì.

Bruce lanciò ai presenti delle occhiate minacciose, poi si allontanò a grandi passi gridando senza voltarsi: «Qualsiasi hacker del mondo avrebbe immaginato che aveva un apparecchio simile. Lo sapevate tutti!»


Cominciarono la visita dal piano più basso in cui si trovavano laboratori informatici, uffici, una stanza con tavoli da biliardo classico e uno a sei buche, la sala giochi e infine la sala d’esposizione con la teca che durante il gioco conteneva le armi giocattolo. Charlie la fissò con uno sguardo assorto. In quel momento la teca era vuota.

«Come funzionava?» domandò infine. «Beth ha detto che si apriva solo se si aveva diritto a un’arma, e che poi il computer ringraziava il concorrente chiamandolo per nome. Come faceva?»

Alexander parve a disagio, cambiò posizione e disse: «Il principio era l’identificazione visiva, grazie allo scanner ottico all’ingresso e il peso dell’oggetto stesso. Era un metodo abbastanza efficace ma non perfetto, non del tutto almeno. Ci stavamo ancora lavorando.»

«Quindi avvicinandosi alla teca si veniva identificati dal computer.» Alexander annuì e Charlie si avvicinò alla teca. «A questo punto sarei abilitato ad aprire il coperchio?»

Alexander gli si avvicinò e indicò il soffitto. «C’è uno scanner lassù, e un altro da questa parte» disse. Charlie non riuscì a individuarli nemmeno dopo che Alexander glieli ebbe indicati. «È lassù» ripeté il ragazzo. «Ce ne sono anche fuori dalle camere da letto, dalla porta d’ingresso e dal cancello. Prima che la persona entri in casa viene fotografata due volte, mentre alla porta d’ingresso e davanti alla camera da letto viene rilevato il suo peso. Naturalmente le passatoie dei corridoi sono tutte provviste di sensori, così come l’ascensore, ma non le camere da letto. Dopodiché si tratta solo di incrociare i dati, tutto qui.»

«Le armi giocattolo erano appoggiate su una qualche bilancia?»

Alexander annuì. «Erano catalogate per numero, e non appena un’arma veniva sollevata il computer ne registrava l’utilizzo. A quel punto la teca non poteva più essere aperta, a meno che non ci provasse qualcun altro o si registrasse un’uccisione riacquistando quindi il diritto a scegliere una nuova arma. Questa parte era semplice.»

Charlie e Constance si scambiarono degli sguardi. Quello di Constance sembrava dire: "Semplice come una magia".

Mentre Alexander li conduceva lungo il corridoio, Constance domandò timidamente: «Che cos’è un test beta?»

Alexander la guardò quasi con sospetto, come se pensasse che si stesse prendendo gioco di lui. «È un test sull’utente finale» biascicò. «Qualcuno che non è tenuto a conoscere come funziona il programma ma solo a testarne il funzionamento.»

Constance annuì con serietà. La stanza successiva in cui entrarono era l’ufficio laboratorio di Gary. Un labirinto di cavi elettrici, computer senza telaio, altri con telaio, pannelli di controllo, tastiere di supporto, unità a disco e monitor sembravano sparsi qua e là a caso, ma Charlie era certo fosse stato seguito un metodo sebbene non riuscisse a individuarlo. Sul muro di fondo c’erano degli scaffali, uno schedario, un bancone da lavoro con altre apparecchiature che sembravano servire per testare i nuovi modelli.

«Cosa c’è dietro quel muro?» domandò Charlie dopo aver osservato la stanza per alcuni istanti.

«Una cella frigorifera per la frutta. Vi si accede dalla dispensa al piano di sopra.»

«Proseguiamo» disse Charlie. «Voglio vedere come funziona l’aspirapolvere automatico nell’ascensore.»

Alexander spiegò che era la cosa più semplice del mondo, una delle invenzioni migliori della casa per quanto concerneva l’aspetto commerciale. Le unità di aspirazione erano incassate nelle pareti di ogni ambiente. Ogni stanza aveva un dispositivo di comando, ma ogni singolo apparecchio o l’intero sistema poteva anche essere programmato tramite un timer. Alexander premette il pulsante di comando, una piccola barra posta sotto il pentagramma musicale che sembrava un elemento puramente decorativo. Appena premuto il pulsante il pannello di fondo dell’ascensore si staccò e scivolò sul pavimento attraverso rotelle orientabili nascoste dall’intelaiatura del macchinario. Tutto l’apparecchio era alto solo pochi centimetri, circa trenta per quaranta. La parte alta era costituita dallo stesso materiale delle pareti dell’ascensore, una plastica semilucida azzurro pastello. L’aspirapolvere cominciò a muoversi lungo il pavimento dell’ascensore. Raggiunta la fine della parete fece una curva ad angolo retto e proseguì ripetendo la stessa operazione alla fine della parete successiva, emettendo un leggero ronzio.

Sulla parete dove era contenuto c’erano due guide di metallo che servivano per aiutare l’aspirapolvere a rientrare nel suo alloggiamento, e un foro rotondo. Charlie indicò con il mento la parete. «È lì che viene svuotato?»

Alexander si chinò e capovolse l’aspirapolvere ronzante che subito smise di funzionare. Sul fondo del piccolo elettrodomestico si vedevano uno scopino, le quattro ruote con cuscinetto a sfere e un foro tondo da cui veniva aspirata la polvere. Parte del meccanismo era nascosta da una piastra di metallo. «Vede» disse Alexander indicando il foro. «Mentre pulisce questo foro è aperto. Quando è a riposo il coperchio si chiude aprendo l’altro foro in modo che l’aspirapolvere possa essere svuotato dal sistema di aspirazione. Qui ci sono le bocchette di ventilazione per supportare la fase di aspirazione.»

Le bocchette lungo le guide di metallo su entrambi i lati dell’apparecchio erano quasi invisibili. Charlie studiò l’aspirapolvere con un’aria dubbiosa. «Sono davvero convinti che da lì possa essere aspirata abbastanza aria da provocare anossia?»

Alexander posò la macchina e premette nuovamente il tasto a forma di barra. L’aspirapolvere si avvicinò silenziosamente alla parete e ritornò a posto. Il ronzio aumentò per qualche secondo, poi svanì.

«Questo è un esempio di come dovrebbe funzionare» fu il suo commento. «Hanno fatto misurare l’ascensore, calcolare i metri cubi e la quantità d’aria che può essere aspirata in un minuto e hanno concluso che, nel caso di un malfunzionamento dell’impianto, potevano verificarsi le condizioni per provocare un’anossia.»

«E secondo loro la vittima avrebbe semplicemente aspettato di morire.»

«Hanno detto che le cose sono andate così.»

«Mi sembra di capire però che lei non è d’accordo.»

Alexander Randall si mordicchiò l’unghia del pollice, spostò il peso da un piede all’altro, guardò Constance, Charlie, l’aspirapolvere e nuovamente il pollice. «Non lo so» rispose infine.

«Non importa. Riusciamo ad arrivare sul retro all’ascensore dove passano le condutture e tutto il resto?»

Il ragazzo parve sollevato da quella richiesta. «Certo. La strada migliore è attraverso l’impianto di riscaldamento.»

Riattraversarono la sala giochi, raggiunsero la parte opposta del seminterrato ed entrarono in un’altra grande area della casa. Passarono davanti a una caldaia a gasolio, un condizionatore d’aria altrettanto gigantesco e altri macchinari di grosse dimensioni. Allineate da una parte lungo il muro c’erano file di serbatoi da cui fuoriuscivano tubi che poi svanivano dietro un pannello. Cloro, antialghe, altri prodotti chimici per la piscina, biossido di carbonio.

Lo sguardo di Charlie si spostò dall’ultimo serbatoio ad Alexander. «A cosa serve quello?»

«È per la cantina interrata dove si conservano tuberi e radici, per le mele e l’uva della cella frigorifera e cose così. Il biossido di carbonio serve a conservarle più a lungo. In parte viene usato anche nella serra. Utilizzato per le coltivazioni nelle proporzioni di uno per mille, aumenta il rendimento del raccolto in maniera considerevole. In realtà non ne so molto al riguardo. Rich era più informato di me, e comunque c’è un orticoltore che si occupa della serra.»

L’espressione di Charlie era ferale. «Un uomo muore per anossia, voi avete dei serbatoi di biossido di carbonio accessibili a chiunque e a nessuno viene in mente di dirlo! Perché?»

«La polizia ha cercato di trovare una connessione, ma non c’è riuscita» si giustificò Alexander con una voce quasi stridula per il nervosismo. «Nessuno ha saputo spiegare come avrebbe potuto arrivare all’ascensore o in qualunque altra zona della casa. È impossibile.»

«Lo spero bene. Dove vanno a finire questi tubi?»

Alexander li condusse in una stretta intercapedine che correva tra il retro della casa e il muro di cemento della piscina. Il muro era un labirinto di tubi e condutture. Il sottile tubo del biossido di carbonio era di acciaio inossidabile e si immetteva in una condotta vicino al soffitto. A metà dell’intercapedine s’imbatterono in una rampa ripida di scale, ma le tubazioni proseguivano dritte oltre i gradini. La conduttura più grande si fermava in corrispondenza della tromba dell’ascensore, mentre altre tubature arrivavano fino alla fine dell’intercapedine.

«E laggiù?» domandò Charlie indicando proprio la fine dell’intercapedine. «Cosa c’è là dietro?»

«La cella frigorifera. Non vi si può accedere da qui, ma solo dalla dispensa accanto alla cucina.»

Charlie esaminò nuovamente la tubatura e non riuscì a individuare un modo in cui il gas sarebbe potuto arrivare da lì all’ascensore. Il tubo era un pezzo unico, senza valvole, senza saldature. Si voltò, e questa volta fu lui a far strada su per la scala stretta e ripida che li condusse sul retro della casa, vicino a un ingresso che si affacciava sulla parte posteriore del giardino. Di fronte alla scala c’era la porta che dava accesso alla Jacuzzi. La vasca idromassaggio era lunga tre metri e larga un metro e mezzo. Era coperta da un telo di plastica rigido con un rullo da una parte e dei binari lungo i bordi su cui scorreva la copertura.

«La apra» ordinò Charlie, e guardò il ragazzo avvicinarsi con un’aria scontenta al pannello di controllo sul muro. Alexander premette un tasto e la copertura si aprì, si arrotolò e scomparve.

«La chiuda di nuovo» borbottò Charlie osservando con attenzione la copertura scorrere sulla vasca. Sebbene si muovesse velocemente non era abbastanza veloce da impedire a qualcuno di uscire dall’idromassaggio, se avesse avuto l’intenzione di farlo. Una volta srotolato sarebbe stato impossibile rimuovere il telone per chiunque ci fosse rimasto intrappolato sotto. Tra il telone e la superficie dell’acqua c’erano meno di due centimetri. Osservò attentamente i binari, esaminò la copertura e alla fine disse scuotendo la testa: «Proseguiamo.»

«Per la cella frigorifera?» domandò Alexander. Il ragazzo aveva cominciato a rosicchiarsi l’unghia del secondo pollice. Le altre unghie erano ridotte alla carne viva.

«Naturalmente.» Charlie prese la mano di Constance e la premette leggermente sperando di rassicurarla. Da quando la visita guidata era cominciata Constance non aveva detto una parola. Charlie sapeva che lui e sua moglie avevano visto le stesse cose e più tardi ne avrebbero parlato, si sarebbero scambiati le impressioni. La mano di Constance era gelida.

Passarono davanti a uno spogliatoio e a un bagno e si ritrovarono nuovamente nel corridoio accanto all’ascensore. Un altro corridoio conduceva invece a una porta che dava sull’esterno. Alexander lo imboccò. Arrivati quasi in fondo videro due porte una di fronte all’altra, la prima conduceva in cucina, la seconda nella dispensa. Alexander aprì quest’ultima. Appena entrati si ritrovarono davanti un’altra porta estremamente massiccia e a tenuta stagna. Aperta la seconda porta, furono investiti da una corrente d’aria fredda che proveniva dal basso.

«È un vero frigo» spiegò Alexander cominciando a scendere i gradini. «Gary la chiamava cantina interrata, ma in realtà si tratta di un frigo.»

Sembrava di entrare in una caverna di ghiaccio. La stanza era così ben isolata che non penetrava alcun suono, le pareti erano di acciaio inossidabile, il pavimento di plastica. Da una parte erano stati allineati dei bidoni, dall’altra degli scaffali. Due neon a soffitto emanavano una luce bluastra. Constance rabbrividì e si strinse le braccia intorno al corpo. In fondo alla stanza c’erano due carrelli d’acciaio e un’altra porta alta però solo un metro e mezzo circa. Charlie individuò il tubo d’acciaio che scendeva dal soffitto e scompariva dietro ai bidoni.

«Mi dia una spiegazione» disse bruscamente indicando con un ampio gesto i bidoni, la porticina e la stanza in generale.

«È un esperimento di Rich» rispose Alexander. «La stanza è un ambiente a bassa concentrazione di ossigeno e alta concentrazione di anidride carbonica. Non è pericoloso» si affrettò a precisare. «C’è un quindici per cento di ossigeno e l’un per cento di biossido di carbonio, non fa male, quantomeno se non lo si respira a lungo. I bidoni servono per conservare prodotti particolari come uva, pere e frutta di ogni genere, ognuna mantenuta nel proprio ambiente ideale per garantirne una lunga conservazione. I bidoni sono ermetici e la miscela di biossido di carbonio viene controllata dal computer.»

Charlie cercò di aprire uno dei bidoni ma Alexander gli afferrò il braccio.

«Non lo faccia. Guardi.» C’era un cartello con dei simboli che a Charlie non dicevano nulla. «Il cartello spiega che il bidone ha una concentrazione di biossido di carbonio del dodici per cento e che la temperatura è di cinque gradi e mezzo. È meglio aprirlo dopo aver aspirato il gas.»

Charlie esaminò altri bidoni con altri cartelli, tutti leggermente diversi, tutti contenenti biossido di carbonio. «E quella?» domandò indicando la porta in fondo.

«È un montavivande che arriva alla dispensa. Dovrebbe servire per portare una mezzena di bue, grosse quantità di frutta o cose troppo pesanti da trasportare giù per le scale.»

Charlie lo guardava con un’espressione incredula. «Spero che si riesca ad aprirlo» disse.

«Oh, certo. So cosa sta pensando, Mr Meiklejohn, mi creda. Uno stuolo di poliziotti ha esaminato la stanza, i bidoni e tutto il resto e non è riuscito a elaborare nessuna ipotesi plausibile che giustificasse i loro sospetti. Guardi, questo bidone è vuoto.» Alexander lo aprì. Era profondo circa una sessantina di centimetri e altrettanto largo, ma si restringeva verso il fondo. Lo richiuse e andò ad aprire la porta del montavivande, un vano di acciaio inossidabile sessanta per un metro e alto circa un metro e mezzo. Il pannello di comando era semplice, prevedeva un pulsante nero per la salita e uno per la discesa. Sulla porta esterna c’era una barra che fungeva da maniglia, mentre l’interno era tutto completamente liscio senza pulsanti né appigli.

Charlie ormai guardava Alexander con uno sguardo torvo. «Andiamo al piano di sopra a dare un’occhiata al montavivande» borbottò seccamente. Fu un sollievo uscire dalla cella frigorifera. Constance tremava e Charlie era piuttosto infreddolito. Il montavivande si trovava nella dispensa al di là di un’altra porta ben isolata. Sul muro c’erano due pulsanti di comando. Alexander allungò la mano per premerne uno ma Charlie scosse la testa. «Un momento.» Aprì la porta ed esaminò lo spazio interno. Dall’alto vide che c’erano delle prese d’aria sul tetto della cabina. Charlie si voltò verso Alexander con un’aria interrogativa.

«C’è una condotta che prende aria dall’esterno. Sa, in caso ci fosse una perdita. L’anidride carbonica è più pesante dell’aria e una volta arrivata in cima alle scale non potrebbe fuoriuscire dalla porta stagna, mentre potrebbe invadere il montavivande. Se il montavivande arriva quassù con dell’anidride carbonica, l’aria all’interno viene aspirata automaticamente prima che la porta si apra. Perlomeno è così che funziona quando il computer è acceso.» Alexander indicò una sorta di termometro senza mercurio appeso accanto ai pulsanti di salita e discesa. «Questo è un sensore di supporto per garantire maggiore sicurezza» spiegò. «Rileva la presenza di biossido di carbonio nel vano del montavivande.»

Charlie annuì e premette il pulsante di chiamata ma non accadde nulla.

«Non funziona con la porta aperta.»

Charlie chiuse la porta e riprovò. Il meccanismo si mise silenziosamente in funzione. Poco dopo arrivò il montavivande e la porta si aprì.

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