12

Sette giorni più tardi, il Re di Eldwold risaliva a cavallo, accompagnato dalle sue guardie, il tortuoso sentiero del Monte Eld.

Oltrepassò la casetta di strega di Maelga, dove nel cortile tubavano le tortore e sul consunto palco di corna che decorava l’architrave della porta era appollaiato un corvo nero.

Si fermò infine davanti al cancello chiuso della casa bianca, e fece vagare lo sguardo sul giardino immobile e trascurato, sugli aghi di pino che coprivano il sentiero lastricato di larghe pietre che portava dal cancello alla porta sbarrata. Un alito di vento gli spostò un ciuffo di capelli, facendoglielo finire sugli occhi. Lui lo scostò con la mano e smontò di sella.

— Aspettatemi qui fuori — ordinò alle guardie.

— Sire, è una donna pericolosa…

Si voltò di scatto verso la guardia che aveva parlato e corrugò la fronte.

— A me — disse — non farebbe mai del male. Aspettatemi qui.

— Sì, Sire.

Provò a scuotere le sbarre di ferro, ma vide che il cancello era chiuso a chiave. Lo fissò per un momento, perplesso. Poi incuneò il piede in una lunga fenditura che attraversava il muro, si afferrò a una pietra sporgente e si sollevò a forza di braccia.

Sentì uno strappo: il tessuto della sua nera tunica si era impigliato contro una sporgenza; senza curarsene, si liberò e trovò un’altra presa, poi un’altra ancora, finché le sue dita si chiusero, intorpidite e doloranti, sulla liscia cornice di marmo in cima al muro. Vi montò con una gamba e poi si lasciò cadere sul soffice terreno sottostante.

Si alzò e si spolverò gli abiti. Il vento cadde, e nel giardino tornò a regnare il silenzio. Socchiudendo le palpebre, perplesso, guardò fra le scure ombre del sottobosco, tra i lisci tronchi dei grandi pini illuminati dal sole, ma nessun movimento rispose al suo sguardo. Raggiunse lentamente il sentiero e cercò di aprire la porta. La scosse piano, bussò leggermente. Da dietro il cancello, una delle guardie gli gridò, sperando di dissuaderlo:

— Sire, forse non è qui.

Lui non rispose. Le finestre fissavano ciecamente l’esterno, come occhi senza vita e senza pensiero. Fece qualche passo indietro, mordendosi il labbro, poi raccolse da terra, vicino al sentiero, un sasso levigato. Lo picchiò varie volte contro una delle losanghe di spesso vetro che componevano la finestra: il vetro si incrinò in una ragnatela di mille fili; poi una pioggia di frammenti cadde all’interno della casa. Lui staccò gli ultimi denti di vetro che ancora aderivano al telaio di piombo, poi infilò nell’apertura il braccio, fino al gomito, e cercò la maniglia.

— Sire, fate attenzione!

La finestra si aprì all’improvviso; lui la spalancò del tutto, accostandola alla bianca parete. Dentro, il pulviscolo dell’aria scendeva lentamente verso il pavimento, danzando in uri raggio di sole.

Batté gli occhi per abituarli alla penombra, e tese l’orecchio, ma la stanza era immobile, non si udivano né respiri né passi. Scavalcò il davanzale di marmo e infilò una gamba all’interno.

— Sybel?

La domanda rimase sospesa nella luce del sole, insieme con le particelle di pulviscolo dorate e danzanti. Salì sul davanzale anche con l’altra gamba e poi saltò agilmente sul pavimento.

In mezzo all’assoluto silenzio, si diresse alla grande stanza dal soffitto a cupola, e vide sopra di sé la pallida concavità di cristallo, trasparente come la luce lunare.

Lì sedeva una donna dai capelli color della brina sfiorata dal sole. Era immobile come se fosse stata incastonata nel ghiaccio. I suoi occhi neri erano aperti, ma non vedevano.

Le si avvicinò senza fare rumore, camminando sullo spesso tappeto di pelliccia. Si inginocchiò davanti a lei, la fissò negli occhi.

— Sybel?

La toccò con la punta delle dita, esitante, aggrottando le sopracciglia. Il volto pallido della donna, su cui si distingueva chiaramente il disegno delle ossa, pareva fatto di pietra, tanto era immobile e impenetrabile. Le mani sottili erano strette insieme. Lui la fissò, e cominciò a massaggiarle vigorosamente le braccia e le gambe. Si lasciò sfuggire un lamento, poi prese fiato e gridò:

— Sybel!

Lei trasalì, si scosse debolmente, e le tornò in faccia un po’ di colore. Lo fissò, e lui sorrise, con un tale senso di sollievo da non riuscire a trovare parole. La donna si voltò leggermente verso di lui. Dal velo di capelli che la nascondeva, una mano si protese ad accarezzarlo.

— Tamlorn…

Lui annuì. — Sì. — Lei gli passò le dita sulla bocca, gli accarezzò una spalla. Poi lasciò cadere il braccio e abbassò lo sguardo, traendo un lungo, interminabile respiro.

— Sybel — disse il ragazzo. — Ti prego. Non ritornare dov’eri. Parlami. Di’ il mio nome.

Lei si coprì gli occhi con le mani. — Tamlorn.

— Adesso, Sybel, sono Tamlorn Re di Eldwold.

Solo in quel momento lei lo vide chiaramente: fermo accanto a lei, con le mani sulle ginocchia, i capelli elegantemente tagliati, la faccia lunga e sottile. Vide la fermezza delle sue labbra, le ombre sotto i suoi occhi e l’espressione tesa. L’elegante tunica nera che indossava faceva apparire più scure le sue pupille. Lei fece per alzarsi, e si sentì tutte le articolazioni rigide.

— Perché mi hai riportato indietro?

— Dove eri andata, Sybel? E perché l’hai fatto? Perché?

— Non avevo altri posti dove andare.

— Sybel, sei così magra. Mi hanno detto che non eri più nel Sirle, ma dovevo trovarti, per chiederti una cosa. Perciò sono venuto qui, e il cancello era chiuso. Mi sono arrampicato sul muro, ma ho trovato chiusa anche la porta. Ho rotto il vetro di una finestra e sono entrato, e quando ti ho trovato non sono riuscito a raggiungerti. Eri immobile, come se fossi di pietra, e mi fissavi senza vedermi. Sybel, dove eri andata? È stato per… per quello che ti ha fatto mio padre?

— È stato per quello che mi sono fatta io.

Tamlorn scosse la testa, come per cacciare via quella risposta, e le scostò delicatamente i capelli, una ciocca alla volta, per guardarla in faccia.

— Mio padre mi ha confessato ciò che ti ha fatto.

— Ti ha confessato…

— Sì. La notte prima della battaglia. Mi ha detto, Sybel, che aveva paura di te… Non mi sembrava più lui, in quegli ultimi giorni. Poi, quando mi ha spiegato tutto, ho capito.

S’interruppe per un istante e storse involontariamente le labbra. Poi tornò a guardarla.

— Mi ha detto che quel giorno è salito in cima alla torre per venirti a prendere, e che ha trovato la porta aperta. È entrato nella stanza del mago e ha visto che eri sparita… ma il mago era steso sul pavimento, e gli occhi… gli erano stati strappati via, e non aveva più un osso intero.

“In quel momento ha cominciato ad avere paura di te.

“E poi ti sei sposata con Coren del Sirle. Dopo il tuo matrimonio, Drede parlava solo per dare ordini, per consultarsi con altre persone. Mi rivolgeva raramente la parola, ma a volte, quando sedeva solo nelle sue stanze, con tutte le torce accese, senza fare niente, con lo sguardo perso lontano, io andavo a sedergli accanto, senza parlare, perché sapevo che voleva avermi vicino.

“Non mi diceva niente, ma a volte mi metteva una mano sui capelli, o sulla spalla, e per un attimo ritornava a essere sereno.

“Sybel. Io gli volevo bene. Ma chissà perché, quando mi ha detto quello che ti aveva fatto, non ne sono rimasto sorpreso, perché avevo capito che eri in collera con lui per qualche sua colpa. Era troppo tardi perché la cosa mi stupisse, e poi… quella notte è morto.”

Si staccò da lei. Sybel, guardandolo in faccia, si sentì arrossire.

— Tamlorn — gli chiese infine. — Come è morto?

Il ragazzo tirò un profondo respiro e le disse:

— Sybel, so che non sei stata tu a uccidere quel mago. Non so come sia morto, ma penso… penso che la cosa che ha ucciso il mago abbia anche ucciso Drede.

Lei rabbrividì.

— Dunque — bisbigliò — quella notte si è recato anche in altri posti, oltre che nella casa di Coren.

— Chi? L’hai visto anche tu?

Lei non gli rispose, e Tamlorn l’implorò:

— Sybel, ti prego! Devo saperlo. Drede giaceva sul pavimento e su di lui non c’era neppure una ferita, ma ho visto l’espressione che aveva sulla faccia, prima che la coprissero. Hanno detto che gli si è spezzato il cuore, ma credo che sia morto di paura.

Sybel mormorò una parola inudibile, poi chinò la testa.

— Tamlorn, mi dispiace.

— Sybel, che cosa ha visto, prima di morire? Che cosa lo ha ucciso?

Lei sospirò.

— Tamlorn, quel mago, quel Re e io abbiamo visto la stessa cosa. Gli altri due sono morti, ma io sono viva, anche se sono stata talmente lontana da me stessa che non credevo di fare più ritorno.

“Sono andata oltre il confine della mia mente. È una specie di fuga dal mondo. Non posso dirti come sia fatta quella Creatura; so soltanto che, quando l’ha guardata, Drede ha visto quello che c’era in lui stesso, e questo lo ha ucciso. Lo so perché anch’io, per poco, non ho rischiato di distruggere me stessa.”

Tamlorn tacque per qualche istante. Poi disse:

— Ma tu avevi il diritto di essere in collera.

— Sì. Ma non di fare del male a coloro che amo, o a me stessa.

Gli accarezzò il viso, gentilmente.

— Sono stata così contenta — gli disse — di sentirti nuovamente pronunciare il mio nome. Pensavo… anzi, ero certa che fossi in collera con me per ciò che ti ho fatto.

— Tu non mi hai fatto niente — rispose Tamlorn.

— Ti ho messo in mano al Sirle come una pedina indifesa. Non sono riuscita a fermare la mia corsa.

Tamlorn scosse leggermente la testa, sorpreso.

— Sybel, io non sono affatto nelle mani di Rok. Ho dei consiglieri, ma non c’è nessun reggente. In caso di morte di Drede, suo cugino Margor doveva governare finché non avessi compiuto i sedici anni, ma è scomparso. La stessa cosa è successa ai generali di mio padre. E anche a Horst di Hilt, a Derth di Niccon, a suo fratello e ai loro capitani. E ai sei Principi del Sirle e ai loro capi militari…

Lei gli afferrò il braccio, e gli chiese ansiosamente:

— Tamlorn, che cosa gli è successo? Sono morti in battaglia?

— Sybel, lo sai tu che cosa gli è successo. Devi saperlo. Nell’accampamento fuori Mondor, dove avrebbe dovuto trovarsi mio padre, è arrivato il Leone Gules. Al loro ritorno in città, i pochi che lo hanno visto e che non lo hanno seguito non avevano parole per descrivere il suo manto dorato e la sua criniera di fili di seta, i suoi occhi che brillavano più del sole.

“Uno di loro, un cantore soldato, ha già composto una ballata in cui si parla di Gules che compare dinanzi a venti generali disarmati, sull’altra sponda del Fiume Slinoon, al primo sorgere dell’alba… e ho anche sentito un canto in cui Moriah arriva al campo di mio zio Sehan, a occidente di Hilt, e canta con voce più dolce di quella di una fanciulla affacciata a un balcone tappezzato di velluto… Sybel, non dirmi che non lo sapevi!”

— No, no, non lo sapevo.

Si alzò in piedi e si portò le mani alla bocca.

— Quella notte — disse — ho reso loro la libertà.

Lui la fissò, come pensando di non avere capito bene.

— Perché? — le chiese.

— Perché… li avevo traditi. E gli arpisti del Sirle che cosa cantano? Il Cinghiale Cyrin?

Tamlorn annuì.

— Dicono che i sei Principi del Sirle e i loro comandanti sono partiti per dare la caccia al cinghiaie nella Foresta di Mirkon, invece di scendere in battaglia. E il Drago Gyld… ha spaventato tutti. Nei pressi di Hilt si era già accesa la battaglia tra gli uomini di Horst e quelli di mio zio, Sehan, e Gyld è piombato in volo su di loro, rompendo qualche schiena e bruciando qualche soldato.

“Allora, tutti sono scappati via. Non avevo mai visto Gyld soffiare fiamme, fino ad allora. È poi venuto in volo su Mondor, ed è calato sulle barche che erano entrate in città… ne era giunta solo una manciata, senza ordini, e volevano saccheggiare la reggia di Drede. Il Drago Gyld ha dato fuoco alle barche, e i soldati hanno guadagnato a nuoto la riva… quelli che non avevano l’armatura pesante.

“Gli abitanti della città si sono rintanati in casa per paura di Gyld, e io sono rimasto sotto la sorveglianza dei miei uomini finché non ho detto al Falco Ter che volevo uscire, e allora lui ha allontanato le guardie.

“Sono andato sulle mura e ho visto Gyld che volava sopra Mondor, con le ali verdi e il corpo dorato. Poi Ter si è allontanato e mia zia Illa ha mandato alcune persone a prendermi.

“A Niccon, il Signore ha posato la spada, imitato da suo fratello Thone di Perl e dai loro capitani riuniti in consiglio, e hanno seguito il canto di un Cigno. I cantori di Niccon dicono che era come un mormorio d’amore in un tiepido giorno d’estate, quando tutte le api ronzano dolcemente… Sybel, non sei stata tu, a ordinare loro di farlo?”

— Li ho lasciati liberi di fare quello che volevano — disse lei. — Tamlorn, io ti avrei giocato un bruttissimo tiro, facendoti diventare un re travicello nelle mani del Signore del Sirle…

Si passò stancamente le mani sulla fronte.

— Mi hai riportata in questo mondo, ma non so a che scopo. I miei animali sono scomparsi, ho perso Coren, ho perso anche me stessa… ma almeno è piacevole sentire di nuovo la tua voce, rivedere il tuo sorriso.

Tamlorn si alzò. L’abbracciò, posando la guancia sui suoi capelli.

— Sybel — disse — ho ancora bisogno di te. Devo sapere che tu sei qui. Molta gente conosce il mio nome, ma solo due o tre persone mi conoscono veramente. Tu non mi hai fatto niente di terribile… e anche se me lo avessi fatto, ti amerei lo stesso, perché ho bisogno di amarti.

— Tamlorn, sei proprio un bambino… — mormorò lei.

Gli prese la faccia tra le mani, e Tamlorn sorrise: un sorriso che gli fece brillare gli occhi grigi come il sole dietro la foschia.

— Certo — le disse. — Per questo non devi più andartene. Ho perso Drede, e non voglio perdere anche te. Sono un bambino perché non penso a quello che avete fatto, ma soltanto che vi amo.

Si staccò dal suo abbraccio. Il sole dilagò attraverso la cupola, dando un colore di fiamma alla bianca pelliccia che avevano sotto i piedi.

— Sei così magra. Dovresti mangiare qualcosa.

— Anche tu sei magro, Tamlorn. Hai avuto delle preoccupazioni.

— Sì. Ma sto anche crescendo.

La prese per mano e la portò fino al focolare. Lei si sedette davanti alla griglia vuota; lui si appoggiò al bracciolo dell’altra sedia, e la guardò.

— Maelga sa che sei qui?

— Non saprei. Forse è venuta, ma io non l’ho vista.

— Ti sei chiusa in casa, ma volendo si poteva entrare lo stesso. Sybel, dovremmo scendere da Maelga e farci preparare qualcosa.

Lei sorrise e tutto il suo viso si addolcì.

— Hai ragione, Tamlorn. Io ho perso tutto; tu sei un Re in posizione precaria, i cui consiglieri corrono in cerchio in cupe foreste alla ricerca di animali favolosi; io non so cosa ci porterà il domani, ma adesso ho fame e dobbiamo andare a mangiare.

La maga dai capelli d’argento e il re bambino lasciarono la casa, inoltrandosi in mezzo agli alti alberi sussurranti; sopra di loro, mentre camminavano, la nebbia si alzò di nuovo a coprire il Monte Eld, nascondendone la nuda, terribile vetta coperta di ghiaccio.

Maelga li accolse ridendo e piangendo insieme, passandosi le mani tra i capelli spettinati. Rimasero con lei fino a tardi, a parlare, finché il crepuscolo si alzò tra gli alberi come una nube di fumo e la luna si fece strada tra le stelle dell’Eldwold come una nave d’argento.

Infine, Tamlorn prese la via di casa, insieme con le sue guardie del corpo, che ormai accusavano visibili segni di stanchezza. Sybel si sedette tranquillamente accanto al focolare di Maelga, con in mano una tazza di vino caldo e gli occhi immobili, rivolti verso il proprio interiore.

Maelga si dondolava sulla sedia, e suoi anelli riflettevano la luce delle sette candele mentre lei spostava nervosamente le mani sui braccioli. Infine, la fattucchiera disse:

— Questo paese, divenuto improvvisamente tanto tranquillo, è ancora privo dei suoi generali… che si aggirano nelle foreste come bambini, in preda alla confusione. E le Principesse del Sirle dormiranno sole anche questa notte, e i loro figli non rivedranno il padre. Quegli uomini ritorneranno mai alle loro famiglie?

— Non lo so — disse Sybel. — Non conosco più la mente di quei grandi animali. E non riesco a pensare a queste cose. Mi pare di vivere in un sogno, ma nessun sogno è mai stato così lungo, né ha mai ferito così profondamente. Maelga, mi sento stanca come la terra dopo l’inverno che l’ha uccisa e indurita. Non so se qualcosa di verde e di tenero potrà ancora nascere dentro di me.

— Cerca di essere gentile con te stessa, bambina mia — disse Maelga. — Vieni con me nella foresta, domani; raccoglieremo funghi neri ed erbe che, quando le stringerai fra i polpastrelli, diffonderanno un magico profumo. Sentirai il sole sui capelli e la ricca terra sotto i tuoi piedi, e respirerai i freschi venti della tua montagna, profumati dall’aroma della neve, nei punti più inaccessibili del Monte Eld. Cerca di avere pazienza; la stessa pazienza che si deve avere con i semi pallidi e nuovi, sepolti nella terra scura. Quando sarai più forte, potrai iniziare di nuovo a pensare. Ma in questo momento devi limitarti ad assaporare i tuoi sentimenti.


Giorno e notte si confusero in una quiete senza tempo che Sybel si guardò bene dal misurare, finché un giorno si destò e nello scorgere sul pavimento una macchia di luce immobile, nel vedersi circondata da mute pareti di pietra, sentì germogliare in lei il primo desiderio di muoversi e di agire.

Cominciò ad aggirarsi nella casa silenziosa, nel giardino vuoto, fermandosi sulla riva del laghetto del Cigno per guardare gli uccelli selvatici che vi si abbeveravano. Poi si recò sull’altra riva del lago ed entrò nella caverna del Drago; laggiù, con l’occhio dell’immaginazione, le parve di vederlo ancora, raggomitolato nell’oscurità, e le parve di sentire ancora la sua voce mentale. Ma all’interno dell’umida caverna c’era solo un vuoto senza parole; e lei dovette uscire da quel silenzio e tornare a farsi accarezzare dagli errabondi venti autunnali che si aprivano con sicurezza il passo oltre il Monte, lasciandosi alle spalle lei e la sua solitudine.

Rientrò in casa, e si sedette sotto la cupola di cristallo. Riprese a cercare come un tempo, inviando il proprio richiamo nell’Eldwold e oltre l’Eldwold, per attirare a sé il Liralen. Le ore passarono; le stelle presero ad ammiccare al di sopra della cupola, ma lei continuò a sedere, perduta nel proprio richiamo, e infine sentì che il vecchio potere, nella sua mente, si ridestava e si rafforzava. Verso l’alba, allorché la luna era ormai tramontata e le stelle cominciavano ad appassire nel cielo, Sybel ritornò a se stessa e si alzò rigidamente in piedi. Aprì la porta e si fermò sulla soglia, inalando profondamente l’odore della terra umida e degli alberi immoti, profumati di rugiada, del primo mattino.

Poi, alzando lo sguardo al di là del cancello aperto, vide Coren smontare di sella, prendere il cavallo per le briglia ed entrare nel suo giardino.

Lei lo fissò, senza parole. Coren, quando si accorse che lei lo stava guardando, si fermò e le gettò un’occhiata titubante. Lei trasse un profondo respiro e ritrovò la voce.

— Coren. Stavo chiamando il Liralen.

— Hai fatto venire me.

Poi tacque, in attesa della sua risposta. Lei gli disse:

— Ti prego… vieni dentro.

Coren portò il cavallo nella stalla e la raggiunse accanto al focolare spento. Sybel accese alcune candele per illuminare la stanza, ancora avvolta nella penombra; la luce fece risaltare il pallore e la magrezza del volto del Principe del Sirle. Sybel sentì affiorare dentro di lei i ricordi che credeva perduti e si affrettò ad abbassare lo sguardo.

— Hai fame? Devi avere cavalcato tutta la notte. O ti sei fermato a dormire a Mondor?

— No. Ho lasciato il Sirle ieri pomeriggio.

Guardandola negli occhi, la costrinse infine ad alzare il viso verso di lui. Le disse, con più calore:

— Sei così magra. Che cosa hai fatto, in questi ultimi giorni?

— Non lo so. Cose prive di importanza, credo… ho cucito, mi sono presa cura delle piante, sono andata a ricercare erbe con Maelga. Poi ieri, per la prima volta, mi sono accorta che questa casa era tanto vuota e silenziosa. Perciò mi sono messa a chiamare il Liralen. Non… pensavo di disturbarti.

— E anch’io non credevo di essere più disturbato. Quando mi sono svegliato, quella mattina, e ho visto che eri sparita, ho pensato che non avrei mai più sentito la tua voce che mi chiamava. I miei fratelli mi hanno accusato di essermela presa troppo. Hanno detto che te ne eri andata a causa della mia ostinazione.

— Non è questo il motivo che mi ha spinto a fuggire.

— Lo so — disse lui.

Sybel si afferrò ai braccioli della sedia. Con lo sguardo fisso lontano, domandò:

— Che cosa sai?

Lui guardò il focolare vuoto.

— L’ho capito — disse stancamente — non quel mattino, ma in seguito, nei giorni lenti e tranquilli in cui aspettavo il ritorno dei miei fratelli.

“Mi è giunta la notizia della strana, improvvisa morte di Drede, e della sparizione dei generali dell’Eldwold, mentre si stavano avviando alla guerra.

“Tutto il paese era agitato da voci incredibili, che parlavano di magici animali, di nomi antichi, di storie semidimenticate. La guerra ci era stata strappata di mano, con la stessa facilità con cui si toglie un giocattolo a un bambino.

“Mi tornò allora in mente l’indovinello che ti rivolse il Cinghiale Cyrin, il giorno in cui giunse nel Sirle. Era lo stesso indovinello che aveva rivolto a me, prima che vedessi il Rommalb: avrei dovuto avvertirti, ma in quel momento mi pareva che tu non avessi niente da temere.

“Ricordando quel piccolo fatto, ho capito cosa doveva esserti successo. Tu non eri disposta a rinunciare a quella guerra: né per me, né per Tamlorn, né per qualsiasi altra persona a te cara. Saresti arrivata fino in fondo, ma avevi fatto un errore: avevi con te il Rommalb, ma non potevi più dargli quello che ti chiedeva.”

Sybel rimase in silenzio a lungo. Poi, con la testa china, senza guardare Coren, mormorò:

— Sei davvero saggio, Coren del Sirle. Ho rinunciato a tutto in cambio della vita, e poi sono fuggita via. Nella mia mente, sono fuggita addirittura al di là dei suoi confini, perché non avevo altro posto dove andare. Infine è giunto Tamlorn e mi ha svegliata. Se non fosse venuto, non so che cosa mi sarebbe successo.

Sollevò la testa e lo guardò. Vide che lui, con aria indecifrabile, continuava a fissare il focolare. Allora gli disse, in tono leggermente offeso:

— Se sei ancora in collera con me, perché sei venuto? Nessuno ti imponeva di rispondere alla voce della mia solitudine. Non mi aspettavo di rivederti.

Lui alzò le spalle.

— E io non mi aspettavo di venire. Ma come potevo evitare di venire, quando ho saputo che eri sola in questa casa vuota, senza Tamlorn e senza i tuoi animali, e senza neppure me? Tu non hai mai avuto bisogno di me, e non so se adesso desideri la mia presenza, ma ti ho sentito e sono dovuto venire.

Lei aggrottò le sopracciglia. Disse piano, in tono leggermente perplesso:

— Se hai sentito il mio richiamo, senza che io sapessi di avertelo inviato, allora sai che ho bisogno di te.

— Già altre volte mi hai detto di avere bisogno di me — rispose Coren. — È facile a dirsi. Ma quella notte, quando il Rommalb è venuto a te nell’oscurità… non mi hai neppure chiesto di stringerti, come una volta mi hai stretto accanto a questo focolare, ancora prima che tu mi amassi.

Lei lo guardò a bocca aperta, senza parlare. Poi, all’improvviso, sorrise, e solo in quel momento si rese conto che non rideva da molto tempo. Nascose il sorriso come un prezioso segreto, chinando la testa, e disse con serietà:

— Volevo svegliarti, ma mi sembravi così lontano da me…

— Anche questo — rispose lui — è facile a dirsi. Non avevi bisogno di me quando Mithran ti ha chiamato, e neppure quando hai progettato la tua vendetta con Rok, o quando il Rommalb ha minacciato la tua vita. Tu segui sempre una tua strada, e non so mai che cosa pensi o che cosa intendi fare. E adesso ridi di me. Non ho fatto tutto questo cammino, dal Sirle a qui, per farmi ridere in faccia.

Sybel scosse la testa, arrossendo. Gli prese la mano e sentì che anche lui le ricambiava la stretta.

— Mi spiace, Coren. Ma è proprio per questo che adesso ho bisogno di te. Ho combattuto per me… e anche contro di me. Ma questo non mi ha dato nessuna gioia. Soltanto quando sono con te riesco a sorridere, e tu sei l’unico che possa insegnarmi a farlo.

Lui la guardò e, suo malgrado, sulle labbra cominciò ad affiorargli un sorriso.

— E hai bisogno di me solo per questo?

Lei scosse la testa, senza ridere.

— No — sussurrò. — Ho bisogno di te perché tu mi perdoni. Allora, forse, potrò cominciare a perdonare me stessa. Soltanto tu puoi farlo.

Coren sospirò.

— Sybel — disse — rischiavo di non poter fare neppure questo. L’ira e il dolore che portavo in me erano come una pietra: ero in collera con te e con Rok, e perfino con Drede, perché in quei giorni pensavi più a lui che a me. Poi, una sera, in sogno, mi sono visto in faccia: una faccia scura e triste, senza sorriso, e mi sono svegliato con il batticuore, perché non era più la mia faccia, ma quella di Drede…

— No! — esclamò lei. — Non potrai mai divenire come Drede!

— Anche Drede è stato giovane e ha amato una donna. Lei lo ha ferito, e lui non l’ha mai perdonata: perciò è morto solo e atterrito. E io mi sono spaventato all’idea di fare lo stesso errore con te. Sybel, mi perdoni?

Lei sorrise, e si sentì spuntare le lacrime.

— Di che cosa? — gli chiese. — Non c’è niente da perdonare.

— Di non avere avuto il coraggio di dirti che ti amavo. E neppure quello di chiederti di tornare nel Sirle con me.

Lei abbassò la testa, stringendogli così forte la mano da fargli male alle ossa.

— Anch’io ho paura di me stessa. Ma non voglio vederti andare via ancora una volta. Ho bisogno di te. Ho bisogno di amarti. Chiedimi di venire con te, ti prego.

— Verrai con me?

— Oh, sì. Sì. Grazie.

Lui, con l’altra mano, le sollevò il mento.

— Sybel, non piangere.

— Non posso evitarlo.

— Fai piangere anche me.

— Anche questo, non posso evitarlo. Da tanto tempo non ridevo e non piangevo, e oggi, prima ancora che il sole sia sorto, tu mi hai fatto fare entrambe le cose.

Lui l’attirò a sé, e si sedettero sul pavimento. Spostandosi, fecero cadere a terra la candela, che si spense contro il marmo illuminato dal primo raggio di sole. Sybel appoggiò il viso contro la spalla di Coren e pianse, e lui le accarezzò i capelli, mormorando parole affettuose.

Poi, per molto tempo, rimasero senza parlare, finché la luce, disegnando una fine ragnatela fra i capelli di Coren, cadde sugli occhi di Sybel, che li aprì, battendo le palpebre. Lei fece per alzarsi, e Coren la lasciò con riluttanza. Sybel sorrise, fissando la sua faccia pallida e stanca, e si accorse di essere stanca anche lei.

— Hai fame?

Lui annuì, sorridendo.

— Preparerò qualcosa da mangiare — disse. — Sai, è strano venire qui e non trovare il Cinghiale Cyrin che mi guarda con i suoi occhi rossi, o non vedere il Leone Gules che svanisce dietro un angolo.

— Tamlorn dice di avere sentito una ballata che parlava di te, dei tuoi fratelli e del Cinghiale Cyrin.

Lui rise.

— L’ho sentita anch’io — disse. — Oh, Sybel, pensa: sei uomini adulti, un’altra dozzina di guerrieri veterani di tante battaglie, e un folto gruppo di messaggeri e di scudieri, riunitisi all’alba per rovesciare un Re, che all’improvviso, senza pensarci un istante, si mettono a rincorrere un grande cinghiale dalle zanne bianche, luccicanti come falci di luna, e dalle setole simili a scintille d’argento, che li attira con la magia dei suoi occhi, pieni di qualche arcana conoscenza. Noi lo abbiamo seguito come un gruppo di ragazzini di primo pelo sedotti dal sorriso di una donna di strada.

“Gli arpisti ci canteranno per secoli, e noi continueremo ad arrossire anche nella tomba. Io mi sono risvegliato nella Foresta di Mirkon e, quando ho visto un gruppo di cavalieri sparire in mezzo agli alberi, all’inseguimento di un cinghiale color della luna, ho capito chi era quel Cinghiale.

“Perciò sono ritornato a casa e, quando sono arrivato, cinque donne piangenti mi sono venute incontro, e nessuna di loro era la mia. Mi hanno detto che l’esercito del Sirle era nella più grande costernazione, misteriosamente privo di capi, e che i portaordini avevano continuato a picchiare per tutta la mattina alle loro porte chiedendo cosa dovevano fare.

“Poi ci sono giunte le storie della Gatta e del Cigno e del Drago, da ogni parte dell’Eldwold. I miei fratelli hanno cominciato a tornare a casa una settimana più tardi, alla spicciolata; per la prima volta nella sua vita, Eorth era senza parole.

“E Rok, il Leone del Sirle, in quella cavalcata era invecchiato di dieci anni. A tutt’oggi non riesce ancora a parlare della sua esperienza. È stata come un sogno: la cavalcata interminabile, il grande, sfuggente Cinghiale, sempre a portata di mano… e sempre inafferrabile.

“Quando sono rientrato in me, ero affamato e dolorante per le sferzate dei rami e talmente stanco che avrei voluto piangere, e il mio cavallo non era neppure sudato…”

Scosse la testa.

— Per tutta la vita prepari i tuoi progetti… e poi arriva qualcosa di imprevisto, che taglia un filo importante della tua trama e ti lascia completamente disorientato e sconfitto.

— Lo so — disse lei. — Quando ho lasciato liberi gli animali, non pensavo che avrebbero fatto quest’ultima cosa per me. Sento molto la loro mancanza.

— Magari un giorno o l’altro ritorneranno, perché forse anch’essi sentono la mancanza della tua voce che li chiama per nome. Ma quando giungerà quel momento, la nostra casa sarà piena di piccoli maghi che si occuperanno di loro come faceva Tamlorn.

— Sì. Mi occorre un bambino, adesso che Tamlorn è diventato grande. Coren…

— Cosa?

— Ti prego, non voglio passare un’altra notte in questo guscio vuoto. So che sei stanco e che anche il tuo cavallo è stanco, ma… mi porti a casa, adesso?

Lui l’abbracciò.

— Ho atteso per tanto tempo queste parole — sussurrò. — Mia Bianca Signora, mio Liralen…

— Sono davvero questo, per te? — gli chiese lei, pensierosa. — Ti ho dato le stesse preoccupazioni che quel bianco uccello continua a dare a me. Ti sono sempre stata così vicina, eppure così lontana…

S’interruppe, come per ascoltare il suono delle sue stesse parole. Coren la guardò.

— A cosa pensi? — le chiese.

Lei mormorò qualcosa di inudibile. Vecchi ricordi fiorirono e svanirono nella sua mente: la prima volta che aveva chiamato il Liralen, le parole di Mithran, il suo ultimo sogno, in cui l’uccello magico giaceva spezzato nelle profondità della sua mente. Trasse un profondo respiro e si allontanò da Coren.

— Sybel… Che cosa…

— Sono certa che… — incominciò lei.

Lo prese per il braccio e lo portò fino all’uscio. Lui si lasciò trascinare, sorpreso, e guardò il cortile vuoto. Poi Sybel disse, con una voce strana, carica di attesa:

— Blammor.

Lui la guardò, stupito.

— Che cosa fai? — le chiese.

Il Blammor si avvicinò a loro, simile a un’ombra che scivolava tra i grandi pini: un’ombra con occhi color della luna, ciechi e bianchi come la cima del Monte Eld sepolta sotto nevi perenni.

Sybel lo fissò, concentrandosi sui propri pensieri, ma, prima che facesse in tempo a parlargli, la scura sagoma del Blammor si schiarì e si condensò, assumendo una forma più solida e più precisa.

Il liquido cristallo dei suoi occhi si sciolse e scivolò verso il basso, divenendo una linea bianca e netta. Si delinearono un collo lungo e sottile come un giunco; la curva del petto, bianca e simile a un colle coperto di neve; un ampio, candido dorso e lunghe ali, che palpitavano lentamente come bandiere e che sfioravano la terra come strascichi della lana più fine.

Coren lanciò un grido di sorpresa. Il grande uccello delicato e bellissimo li sovrastava entrambi: abbassò lo sguardo su di loro, contemplandoli con occhi color della luna, identici a quelli del Blammor.

Sybel si passò la mano sulle palpebre: tanta era la bellezza del grande uccello bianco, che si sentiva spuntare le lacrime. Gli aprì la propria mente, e gli sentì mormorare storie antiche e preziose come gli arazzi di una favola.

“Dammi il tuo nome” gli chiese.

“Lo hai già.”

— Il Liralen — bisbigliò Coren. — Sybel, come l’hai capito?

Lei allungò la mano per toccare il grande animale, gli accarezzò le piume lisce e robuste. Poi, asciugandosi sovrappensiero una lacrima, disse:

— La chiave me l’hai data tu, quando mi hai chiamato con il suo nome. Ho pensato che doveva essere qualcosa di vicino e insieme di lontano, e mi sono ricordata che quando ho chiamato il Liralen, tanto tempo fa, è venuto il Blammor, dicendomi che l’avevo chiamato io.

“E la notte in cui rischiai di morire di paura come Drede. Vidi in fondo al mio cuore il Liralen morto, e piansi per lui. Questo mi salvò la vita, perché il dolore per la morte del Liralen mi fece dimenticare la paura. In qualche modo, il Blammor… il Liralen… capiva più di me stessa l’importanza che aveva per me. Per questo Mithran non poteva averlo: insieme con il Liralen si deve accettare anche il Blammor, e lui ne aveva paura.”

Sentì vibrare nella mente la voce del Liralen:

“Stai diventando sempre più saggia, Sybel. Ero venuto tanto tempo fa, ma non riuscivi a vedermi. Da allora, sono stato sempre qui.”

“Lo so” rispose lei.

“Come posso servirti?”

Lei lo fissò nel profondo degli occhi. Tenendo per mano Coren, gli rispose piano:

— Per favore, portaci a casa nostra.


FINE
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