5

Quel pomeriggio, Sybel si recò a far visita a Maelga. Le bianche tortore si appollaiarono sulle travi del soffitto per osservarla, e il corvo continuò a entrare e a uscire da un foro della finestra. La piccola casa era piena di strani odori; Maelga bisbigliava frasi magiche, china sul calderone, e il vapore le inumidiva i bianchi capelli fino a incollarglieli sulle guance.

Quando Sybel entrò nella stanza, vide che la vecchia non sollevava lo sguardo dalla sua pozione: anche lei, perciò, non le rivolse parola. Ma era inquieta, e per sfogare il proprio nervosismo si aggirò per tutta la casa, aprendo e chiudendo i libri, curiosando nei vasi pieni di misteriose sostanze, passeggiando avanti e indietro nella stanza, con la fronte aggrottata. Infine, Maelga smise di bisbigliare le sue formule magiche e voltò la testa verso di lei.

— Bambina — le disse — sto perdendo il conto delle mie Arcane Cose.

— Mi dispiace — disse Sybel.

Teneva in mano un oggetto e, giocandoci sovrappensiero, lo spezzò. Senza capire cosa fosse successo, fissò i due pezzi, turbata.

Maelga vuotò il mestolo e lo posò sull’orlo del calderone.

— Il mio osso… — disse.

— Che osso?

— La falange dell’indice destro di un mago. Mi sono occorsi tanti anni per trovarla.

Sybel tornò a fissare i pezzetti che teneva in mano. Poi disse:

— Ti porterò tutte le ossa di mago che vuoi, se ti servono. Anche il teschio, se troverò il cervello che cerco.

Maelga la fissò, aggrottando la fronte.

— Che cosa è successo? — le chiese.

Sybel posò l’osso e afferrò la strega per le braccia.

— C’è qualcuno che mi sta chiamando — rispose. — Non so chi sia, ma non posso chiudere la mia mente al suo richiamo. Mi sta cercando con la stessa abilità con cui io stessa chiamerei un animale. Sono stupita e offesa, ma è lo stupore che potrebbe provare un pesce preso all’amo: quello di chi non può fare niente per opporsi al suo destino.

Maelga prese a torcersi nervosamente le mani, tra lo scintillio dei suoi gioielli. Poi si mise lentamente a sedere sulla sedia a dondolo.

— Lo sapevo — disse infine. — Un giorno ti saresti messa nei guai, a furia di rubare quei volumi.

Sybel smise di camminare avanti e indietro.

— Credi che si tratti solamente di questo? — le chiese, in tono ansioso.

Poi scosse la testa.

— No — proseguì. — La mente che mi sta cercando è più potente della mia. Questo mi spaventa. Per dei semplici libri, non si darebbe tanta pena.

“Maelga, non so proprio cosa fare. Di fronte a questo tipo di richiamo, non esiste nessun nascondiglio sicuro. Se venisse qualcuno con l’intenzione di farmi del male, i miei animali mi difenderebbero, ma non si può lottare contro questo genere di cose.”

— Oh, cara — disse Maelga, passandosi una mano nei capelli. Poi, d’improvviso, le sorrise.

— Posso fare una cosa per te — disse. — Manderò il mio corvo a scrutare, con i suoi occhi scuri e acuti, nelle finestre dei maghi.

Sybel annuì.

— L’ho già fatto — disse. — Ho mandato il Falco Ter.

Poi sospirò, e, con le palme delle mani, si coprì gli occhi.

— È stata una sciocchezza, però. Se quell’uomo è in grado di chiamare me, allora è anche in grado di chiamare Ter.

— Se conosce il suo nome.

— Lo conosce certamente. Chi sarà mai? Ho rubato libri a maghi di scarso potere, nelle loro torri gelide, tra materassi di paglia e banchi coperti di polvere; li ho rubati a maghi importanti, grassi e sussiegosi per le ricchezze accumulate al servizio dei Principi, ma non ho mai trovato qualcuno che mi facesse paura. Non so perché, adesso, questo grande mago mi stia chiamando.

Fissò Maelga, disperata.

— Che ragione può esserci? — chiese. — Non posso fare niente, contro un mago così potente.

— È davvero così potente? — chiese Maelga. — Forse, se tu non gli rispondessi, lui rinuncerebbe.

— Forse… Ma è entrato in me mentre ero sovrappensiero, e adesso non posso più seguire le sue tracce. Se non riesco a trovarlo, non posso neanche dargli un nome.

Riprese a passeggiare nervosamente avanti e indietro, con le braccia conserte e i capelli che ondeggiavano dietro di lei come un manto bianco.

— Sono così in collera… ma la collera non serve a niente, e neppure la paura. Non so cosa fare. Spero soltanto che il mio ignoto nemico non sia talmente forte da riuscire a togliermi il nome.

— Hai un posto dove recarti per qualche tempo? — chiese Maelga.

— Dove? Anche se andassi oltre i confini dell’Eldwold, lui potrebbe trovarmi e chiamarmi a sé.

In preda a una profonda angoscia, si sedette accanto al fuoco.

— Oh, Maelga — bisbigliò — non so cosa fare. Se soltanto avessi il Liralen… potrei volarmene alla fine del mondo, ai bordi delle stelle…

— Non piangere — le disse Maelga con ansia. — Quando ti vedo piangere, mi spavento anch’io.

— Non piango. Le lacrime sono inutili. Posso soltanto attendere.

Poi si voltò verso la strega e la guardò negli occhi:

— Maelga, se un giorno non riuscissi a trovarmi e nessuno ti sapesse dire dove sono, ti occuperesti tu degli animali?

Maelga si alzò in piedi, con le mani nei capelli.

— Oh, Sybel — disse — non penserai che si arrivi a questo! Il mio corvo lo troverà. Il Falco Ter lo troverà, e preparerò un incantesimo che gli scioglierà le ossa dentro la carne.

— Non tutte, spero. Ti serve una sua falange…

Con la faccia appoggiata alle pietre del focolare, continuò a fissare le fiamme che danzavano sotto il calderone, senza vederle.

Infine, trasse un lungo sospiro:

— Ora vado — disse. — Ti lascio lavorare. Tu non puoi fare niente per me, e anch’io posso fare poco. Forse Ter lo troverà prima che lui trovi me, e allora, forse, potrò fare qualcosa.

Si alzò in piedi. Maelga la guardò con grande preoccupazione.

— Bambina mia, cerca di stare attenta — le raccomandò.

Quella notte fu destata da qualcosa che le sfiorava la mente con la delicatezza della punta di un dito che increspa uno specchio d’acqua.

Si rizzò a sedere sul letto, con gli occhi spalancati, e scrutò l’oscurità che la circondava, mentre, sulla sua testa, le stelle illuminavano con le loro sagome glaciali la cupola di cristallo.

Tornò a sentire lo strano solletico mentale, come un pensiero informe e indesiderato. Poi udì, come un bisbiglio che infrangeva l’immobilità della notte, la debole, indubitabile evocazione del suo nome:

“Sybel.”

Emise un gemito nell’oscurità. Poi, in un punto accanto a lei, scorse un movimento; gli occhi dorati del Leone Gules scintillarono come gemme dalle infinite sfaccettature.

“Di che cosa hai paura, figlia di Ogam?”

“Ho fatto un brutto sogno…”

E la voce ritornò, in un monotono sussurro:

“Sybel.”

Trascorse un giorno e una notte nella stanza dal soffitto di cristallo, senza mangiare e senza dormire, cercando negli antichi libri il nome di un mago così potente, ma non ne trovò traccia.

All’alba lasciò che i libri le scivolassero dalle mani e fissò il cielo che si andava progressivamente schiarendo. Una linea rosa segnava i confini del suo mondo; nubi bianche dai bordi argentei luminosissimi afferrarono i raggi del sole e li rifransero sulle Terre Incolte, sulla Piana di Terbrec, sulla città di Mondor, con la sua cerchia di mura, dove andarono a riscaldare le fredde e cupe pareti delle torri.

Desolata, pensò al Liralen e alle sue ali bianche e luminose, e provò per qualche istante a chiamarlo, dirigendo il richiamo verso il bianco mondo dell’alba. Gli animali cominciarono a destarsi nella casa. Poi udì la voce di Maelga, che era salita fino al suo cancello:

— Sybel! Sybel, svegliati!

Si alzò lentamente, rigidamente, e attraversò le stanze fredde. Il sole dipingeva strisce di fuoco sulla neve; quando aprì la porta, la luce le balzò dolorosamente agli occhi. Batté le palpebre, cercando di fissare il mondo davanti a sé.

— Entra, Maelga.

— Oh, Sybel. Hai lasciato spegnere il fuoco.

Entrò, e Sybel fissò a occhi sbarrati la creatura morta che la fattucchiera teneva in mano.

— Temo che non sia l’unica cosa morta in questa stanza… — commentò poi.

Toccò il corpo nero e rigido del corvo di Maelga, e si sentì trafiggere da una lampo di paura, più forte e agghiacciante di quanti ne avesse mai conosciuti.

Maelga disse stancamente:

— L’avevo mandato a spiare; questa mattina è entrato in casa e mi è caduto ai piedi, stecchito. Credo che fosse morto ancor prima di mettersi in volo.

Sybel rabbrividì.

— È già freddo — mormorò. — Mi dispiace.

Fissò la forma immobile dell’uccello finché Maelga non la toccò delicatamente, facendola trasalire.

— Sybel, sei stanca. Hai mangiato?

— Mi sono dimenticata. Stavo leggendo.

Fino a quel momento, si era sforzata di tenere dritta la schiena; ora chinò le spalle e, con le mani, si coprì la faccia. Maelga l’abbracciò.

— Bambina mia — pianse — cosa posso fare per te?

— Niente — bisbigliò Sybel. — Niente.

Lasciò ricadere le braccia, sospirando.

— Spero che il Falco Ter sia al sicuro — aggiunse. — Lo chiamerò e gli dirò di ritornare con Tamlorn.

— Ti cucinerò qualcosa. Sei così dimagrita, da quando il ragazzo è partito.

Si avviò verso la cucina, portando con sé il corpo del corvo. Sybel colse la mente del Falco mentre era in volo, scorse la terra passare rapidamente sotto di lui.

“Ter, ritorna da Tamlorn. È pericoloso.”

Per un istante regnò il silenzio, prima che lei tornasse a sentire il cuore pulsante del Falco, il torrente di fuoco che gli scorreva nelle vene. Poi il grande rapace disse.

“No.”

“Ter, ritorna da Tamlorn.”

“Figlia di Ogam, chiedimi qualsiasi altra cosa. Ma adesso devo cercare due occhi, devo far tacere una mente nera.”

“Ter…”

Lo perse all’improvviso, e cercò di riafferrarlo, stupefatta, ma lo perse di nuovo; poi, le fece irruzione nella mente un sussurro forte e implacabile:

“Sybel.”

— No — gridò lei, e la parola cadde senza vita sul bianco marmo del pavimento. — No!


Sedeva sotto la cupola di cristallo, a mezzanotte, e la luna piena la osservava come se fosse stata l’occhio stesso del cielo. Il mondo che si stendeva oltre la cupola era ovattato, silenzioso, nascosto; tutta la montagna era immobile, le stelle erano ferme come cristalli di ghiaccio.

La notte era priva di voci, così come era priva di voce la sua mente: riposava nel cuore di un silenzio che non era disturbato da alcun soffio di vento, da alcun bisbiglio di foglie. Sybel fissava l’oscurità, e i suoi occhi scuri erano immobili come ogni altra cosa che la circondava; ascoltava la quiete della propria mente, in attesa del momento, in attesa che si ripetesse il richiamo che osava penetrare nel cuore del silenzio.

Accanto a lei c’era il Leone Gules: teneva la testa sollevata e i suoi occhi dorati erano fissi nel vuoto, perfettamente immobili, come se non avesse avuto neppure bisogno di respirare.

Dopo qualche tempo, nella stanza si udì un lieve rumore. Girandosi, lei scorse il Cinghiale Cyrin, le cui zanne scintillavano bianche come stelle.

“Rispondi a questa domanda, o Signore della Saggezza” gli disse, e sentì passare nella mente del Cinghiale tutte le domande del mondo. Poi il Cinghiale abbassò la testa, e il riflesso dei suoi rossi occhi svanì.

“È la domanda a cui non so rispondere” disse.

Lei chinò il capo. — Sono stanca — bisbigliò all’oscurità. — Non so cosa fare.

Continuò per qualche tempo a sedere immobile, e di tanto in tanto sentì il richiamo che la allontanava da se stessa, come il lento ritrarsi delle onde al sorgere della luna.

La luce lunare disegnava la sua ombra sul pavimento bianco, accanto alle forme massicce del Cinghiale e del Leone. Infine, Sybel chiuse gli occhi e lanciò il suo richiamo, e, mentre chiamava, sentì giungere dal cancello un grido debole, familiare.

— Sybel — disse Coren, correndo nella notte, sulla neve, verso di lei. — Sybel!

Si afferrò strettamente alle sbarre, come cercando di aprirsi un varco.

— Mi spiace… — disse. — Mi spiace… non ero nel Sirle.

— Ti ho chiamato pochi minuti fa — disse lei, trafelata, mentre gli apriva il cancello quasi bloccato dal gelo. — Come sei venuto, volando?

— Ho tentato di farlo.

Fece entrare il cavallo e si fermò davanti a lei, cercando di scrutare la sua faccia nel buio.

— Che cosa c’è? — le chiese, con ansia. — Sybel, sarei voluto venire tre giorni fa, ma Rok mi aveva mandato a Hilt, a parlare con il Signore Horst di un certo suo piano disperato. Sapevo che eri preoccupata; non riuscivo a dimenticarlo neppure nel sonno, ma sono potuto partire soltanto ieri. Che cosa è successo? Qualcosa a Tamlorn?

Lei sollevò il mento per guardarlo, senza parlare. Poi scosse la testa.

— No. Come sapevi che avevo bisogno di te, prima che io stessa me ne rendessi conto?

— Lo sapevo. Sybel, che cosa è successo? Che cosa posso fare?

— Solo… una piccola cosa.

— Qualsiasi cosa.

— Abbracciami.

Lui lasciò cadere le redini nella neve. Aprì il mantello e l’attirò a sé, richiudendoglielo poi intorno; sul suo petto, vide brillare debolmente la corona di capelli di Sybel.

Lei gli appoggiò la testa sulla spalla, sentì l’odore della pelliccia di cui era foderato il mantello, ascoltò il rumore del suo respiro e il battito del suo cuore. Poi Coren cessò per un attimo di respirare, e lei aprì gli occhi.

— Sybel… tu hai paura.

— Sì.

— Ma…

— Stringimi più forte — disse lei, e Coren rafforzò la stretta. Sybel sentì il cuore del Principe del Sirle battere sotto il suo orecchio, sentì la mano guantata con cui lui le reggeva la nuca. Sospirò, a lungo, lentamente.

— Ti ho fatto venire dal Sirle, per sentirmi stringere così. Solo per questo.

— E io sarei venuto di corsa. Solo per abbracciarti e poi ripartire immediatamente. Ma, Sybel, ci deve essere qualcosa d’altro che posso fare per te.

— No. La tua voce è come la luce del sole: appartiene al mondo degli uomini, non al cupo mondo dei maghi.

La voce di Coren s’impigliò nei suoi capelli.

— Dimmi. Che cosa ti turba?

Lei tacque. Poi sollevò la testa, sospirando, e si sciolse dal suo abbraccio.

— Non volevo fartelo sapere — gli spiegò, infine. — Ma forse è meglio che te lo dica, nel caso mi succedesse qualcosa. Altrimenti, perderesti la pace per scoprirlo.

Lui le prese il volto tra le mani e le chiese, con voce impaziente:

— Sybel, cosa c’è?

— Vieni dentro, vicino al fuoco. Ti spiegherò tutto.

Coren portò il cavallo nella stalla e gli diede la biada, poi entrò nella casa, appese il mantello ad asciugare e si sedette accanto a Sybel. Lei gli porse una tazza di vino caldo e gli disse:

— Qualcuno mi sta chiamando.

Lui la fissò da dietro il bordo della tazza. Poi la posò di scatto e il vino gli finì sulle dita.

— Chi è?

— Se conoscessi il suo nome — rispose lei — forse sarei in grado di oppormi. L’ho cercato dappertutto; ho sorpreso maghi di paesi lontani, bisbigliando parole nella loro mente, e la loro paura mi ha fatto capire che non mi conoscevano.

“Perciò, adesso… non so che cosa fare. Ha catturato il Falco Ter; ho mandato Ter a cercarlo, e lui mi ha rubato il nome di Ter e l’ha legato a sé, con un potere superiore al mio. È molto potente. Non ho mai sentito parlare di un mago potente come lui. Perciò, temo che dovrò cedergli.”

Senza parlare, Coren aggrottò la fronte.

— Non credo — le disse infine — di poterti cedere a lui.

Lei scosse la testa.

— Coren, non ti ho chiamato per questo. Tu non puoi aiutarmi.

— Potrei tentare. Non sono riuscito ad aiutare Norrel, ma cercherò di aiutare te. Resterò con te, e quando il tuo nemico verrà a cercarti, o quando ti recherai da lui, io ti sarò al fianco, e dovrà vedersela con me.

— Coren, non servirebbe a niente. Potresti soltanto morire; oppure la tua mente verrebbe rivolta contro se stessa, e ti scorderesti di me. Il Rommalb era terribile, ma non era malvagio. Il Rommalb era fatto di paura, e tu sei sopravvissuto, ma questo mago, per te, significherebbe la morte.

— Allora, che cosa posso fare? — domandò lui, disperato. — Credi che possa starmene fermo qui, o nel Sirie, docile come un bambino, mentre un pericolo sconosciuto ti minaccia?

— Be’ — rispose Sybel — non voglio vederti morire davanti a me.

— Io, invece, preferirei morire anziché essere svegliato di notte dalla voce impaurita della tua mente, senza sapere dove sei, o cosa ti affligge.

— Non ti ho mai chiesto di venire senza essere chiamato — disse lei. — Non ti ho mai chiesto di ascoltare la voce della mia mente.

— Lo so: e neanche mi hai chiesto di amarti. Però io ti amo, e sono preoccupato, e starò con te anche se non vuoi. È facile chiamare un uomo, ma non è altrettanto facile mandarlo via.

— Sei proprio un vero figlio del Sirle: pensi che qualsiasi minaccia possa essere sgominata da una spada. Un tempo ho creduto che tu fossi saggio, invece sei uno sciocco.

“Quando sei andato a combattere contro Drede nella Piana di Terbrec, cosa impugnavi, un libro di incantesimi? Combatteresti a colpi di spada contro un mago, che con una sola parola potrebbe rivolgere la tua arma contro di te? E quando il mago scioglierà la tua lama, trasformandola in una macchia di metallo fuso ai tuoi piedi, cosa farai?”

Coren strinse le labbra, senza rispondere. Poi, all’improvviso, alzò le spalle.

— È sciocco discutere — disse. — Ma dovrai prendermi di peso e sbattermi fuori, per allontanarmi di qui. Puoi far finta di non vedermi, puoi rifiutarti di darmi da mangiare, ma se ti vedrò lasciare la casa io ti seguirò e farò del mio meglio per uccidere i tuoi nemici.

Lei si alzò. Guardò il giovane con distacco: nelle altre stanze, si udì il debole rumore degli animali che si destavano.

— Ci sarebbe un modo — disse Sybel — per rimandarti nel Sirle, riluttante, ma vivo…

Il Leone Gules, sbadigliando, giunse come un’ombra dalla camera con la cupola di cristallo e girò in cerchio attorno a Coren, strofinandosi inquieto contro di lui. In cucina, la Gatta Moriah si svegliò, mormorò un canto senza parole, dal profondo della gola, e si diresse a passi misurati verso di loro.

Coren, che continuava a fissare gli occhi fermi di Sybel, li vide nuovamente velarsi e udì, nel silenzio della notte, il lento battito di grandi ali che frustavano l’aria. Le pose la mano sul braccio, e vide che lei tornava a fissarlo. Continuò a guardarla senza battere ciglio, mentre il soffio del Cinghiale e il battito delle ali del Drago intessevano una fragile rete di suoni, che fu bruscamente interrotta da un miagolio minaccioso della Gatta. Coren prese allora Sybel per le spalle, come per destarla da un sogno.

— Sybel, stai cercando di spaventarmi? Perché non ti limiti a entrare nella mia mente, come hai fatto quella volta con Drede, e non mi rimandi tranquillamente nel Sirle, dopo avermi tolto i miei ricordi? A una cosa come questa, non potrei oppormi.

Lei lo fissò per un momento, senza rispondere. Poi fece una smorfia e si staccò da lui, mormorando:

— Non posso. Vorrei, ma non posso.

— Cosa farai, allora? Se mi lancerai addosso gli animali, io lotterò; ci faremo del male. Poi ci odieremo per avere permesso che succedesse una cosa simile.

“Sarebbe meglio per tutti e due che mi permettessi di prendermi cura di te. Lascia che tenti di proteggerti. Concedimi questo piccolo favore. Cerca di essere gentile con me.”

Lei lasciò ricadere le braccia. I lunghi capelli le coprivano gli occhi, e lui non poté vedere la sua espressione. Infine Sybel lo fissò.

— Vorrei che te ne andassi — gli disse. — Per il tuo bene, ti legherei al Drago Gyld, e gli ordinerei di portarti nel Sirle, lasciandoti sulla soglia del castello di Rok. Ma se dessi ascolto ai miei desideri, ti vorrei qui con me. Te ne andrai, allora?

— Naturalmente no.

Se la strinse al petto e, sorridendo al Leone Gules, le baciò delicatamente la testa.

Lei mormorò:

— Sono egoista. Ma so una cosa, e te la dico adesso. Quando infine dovrò andare, so già che dovrò andare da sola.


Trascorse la notte senza chiudere occhio, con il Leone Gules ai piedi del letto, la Gatta Moriah sulla soglia della stanza e i grandi, gelidi mondi di fuoco dispiegati silenziosamente sulla sua testa. Continuò a sentire mentalmente l’appello, come una pulsazione continua che attraversava il silenzio, le entrava nei corridoi della mente e scendeva nelle profondità dove lei conservava la fredda, chiara coscienza di se stessa.

La voce si dirigeva inesorabilmente verso quei luoghi profondi, e intanto i suoi poteri si disperdevano e si allontanavano, i suoi pensieri rimanevano inutilizzati e non riuscivano a completarsi.

Infine, in lei rimase soltanto quel richiamo, che rendeva opaca la sua volontà, che la estraniava dalla propria casa come dall’ombra di un sogno. I luoghi segreti della sua mente si spalancarono, indifesi; ogni suo potere fu esaminato e le fu sottratto il suo nome, con tutto ciò che significava: ogni sua esperienza, ogni suo istinto, ogni suo pensiero vennero valutati e imparati.

Sybel si levò in piedi, a un comando che era solo una parola, e si vestì così silenziosamente che non si udì neppure un fruscio. Un grande Leone dorato continuò a dormire ai piedi del letto, illuminato dalla luce lunare; una Gatta nera senza nome continuò a rimanere distesa sulla soglia come fosse stata soltanto un’ombra. Lei li fissò, ma non trovò nella propria mente alcun nome con cui svegliarli, perché i loro nomi erano chiusi come gemme nelle profondità di una montagna, invisibili al suo occhio interiore.

Scavalcò la Gatta dormiente con tanta leggerezza che le sue orecchie non si mossero neppure. Nell’altra stanza, seduto davanti a una fiamma verde, c’era un uomo dai capelli color giallo oro e dagli occhi chiusi. Lei gli passò accanto, silenziosa come un sospiro, e passò accanto al Cinghiale dalle setole argentee che dormiva ai suoi piedi.

Quando la porta si chiuse, si udì un debolissimo scatto metallico e Coren si destò all’improvviso. Si guardò attorno, sbattendo gli occhi. Dal fuoco gli giunse il crepitio di un rametto spezzato dal calore, e il Principe del Sirle tornò ad appoggiarsi allo schienale, sorvegliando la stanza buia dove, custodita dal Leone Gules e dalla Gatta Moriah, dormiva Sybel.

E mentre lui sorvegliava la stanza, Sybel prese il suo cavallo e lo fece uscire silenziosamente sulla neve, fin oltre il cancello. Poi gli montò in groppa, senza sella, e lo guidò lungo il sentiero imbiancato, oltre la casa dove Maelga dormiva, per dirigersi infine verso la cupa città di Mondor, cinta di mura turrite.

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