15 Pressione

Con la primavera giunsero le vacanze scolastiche. Un lunedì mattina, appena sveglia, restai qualche secondo a letto a pensarci. Anche l’anno precedente, nello stesso periodo, ero stata braccata da un vampiro. Sperai che non diventasse una tradizione...

Mi stavo già abituando ai ritmi di vita di La Push. Avevo passato quasi tutta la domenica sulla spiaggia, mentre Charlie si tratteneva a casa di Billy. In teoria Jacob avrebbe dovuto farmi compagnia, ma aveva altre faccende da sbrigare, perciò bighellonai da sola, senza dire niente a Charlie.

Jacob tornò a cercarmi e si scusò per avermi mollato. Disse che i suoi orari non erano sempre così folli, ma del resto, finché non avessero fermato Victoria, per i lupi era allarme rosso.

Ormai, quando passeggiavamo sulla spiaggia, mi teneva sempre per mano.

Quel gesto rievocava le parole di Jared, quando si era lamentato del fatto che Jacob avesse coinvolto la propria «ragazza». Probabilmente, agli occhi di un estraneo le cose stavano proprio in quel modo. Ma finché la faccenda fosse stata chiara tra me e Jake, non era il caso di temere certe insinuazioni. Certo, a Jacob sarebbe piaciuto che le cose fossero davvero come apparivano, e lo sapevo bene. Ma la stretta della sua mano calda mi rincuorava, perciò non protestavo.

Il giorno dopo, martedì, lavoravo. Jacob mi scortò in moto fino al negozio dei Newton e Mike se ne accorse.

«Esci con il ragazzino di La Push? Quello del secondo anno?», chiese, celando a malapena il risentimento.

Mi strinsi nelle spalle. «Non nel vero senso della parola. Passo parecchio tempo con lui, questo è vero. È il mio migliore amico».

Mike strabuzzò gli occhi, scettico. «Non prenderti in giro, Bella. Quel tipo è pazzo di te».

«Lo so», sospirai. «La vita è complicata».

«E anche le ragazze crudeli», aggiunse Mike a mezza voce.

Anche quella era una conclusione come un’altra.

La sera, Sam ed Emily raggiunsero me e Charlie da Billy per il dolce. Emily portò una torta capace di ammorbidire uomini anche più duri di Charlie. Mentre la conversazione proseguiva spontanea, di argomento in argomento, era chiaro che le preoccupazioni di mio padre a proposito delle bande giovanili di La Push si scioglievano come neve al sole.

Io e Jake ce ne andammo presto, per restare un po’ da soli. Tornammo in garage, a sederci nella Golf. Jacob si lasciò sprofondare nel sedile: era il ritratto della stanchezza.

«Hai bisogno di riposo, Jake».

«Prima o poi me lo concederò».

Cercò la mia mano e la strinse. La sua pelle era bollente.

«Anche queste sono cose da lupi?», chiesi. «Il calore, intendo».

«Sì. Siamo un po’ più caldi delle persone normali. Tra i quarantadue e i quarantatré. Non sento più freddo, mai. Potrei restare così», e indicò il proprio petto nudo, «in mezzo a una tempesta di neve, senza fare una piega. I fiocchi mi si scioglierebbero addosso».

«E guarite in fretta: è un’altra cosa da lupi?».

«Sì, vuoi vedere? È fico». Spalancò gli occhi e sorrise. Si allungò a frugare nel portaoggetti. Ne estrasse un coltellino.

«No, non voglio vedere!», urlai non appena capii le sue intenzioni. «Rimettilo al suo posto!».

Jacob ridacchiò e ripose il coltello dove l’aveva preso. «Va bene. Però è davvero un’ottima cosa guarire in fretta. Sarebbe difficile presentarsi da un medico con una febbre che ammazzerebbe chiunque altro».

«Immagino di sì». Ci pensai sopra. «Pure essere così grossi fa parte di tutto questo? Per questo siete preoccupati per Quil?».

«Per questo e perché, a sentire suo nonno, Quil potrebbe cuocersi un uovo sulla fronte, tanto è calda». Jacob proseguì, sconsolato. «Non manca molto, ormai. Non c’è un’età esatta... È una cosa che cresce, pian piano, e all’improvviso...». S’interruppe, esitando per qualche istante prima di ricominciare. «A volte, capita che un’arrabbiatura o cose del genere inneschino la reazione prima del previsto. Ma io non ero affatto arrabbiato. Ero felice». Rise, con un filo di amarezza. «Soprattutto per merito tuo. Se no mi sarebbe successo prima. È cresciuto a poco a poco, scoppiato come una bomba a orologeria. Sai cos’è stato? Sono tornato a casa e Billy ha detto che avevo un’aria strana. Nient’altro, ma è bastato a farmi saltare i nervi. E a quel punto sono... esploso. Ho rischiato di strappargli la faccia a morsi... a mio padre!». Ebbe un fremito e impallidì.

«È davvero così brutto, Jake?». Mi chiedevo in che modo potessi aiutarlo. «Ti senti male?».

«No, no», rispose. «Non più. Non ora che sai tutto. Prima era difficile». Si avvicinò fino a posare la guancia sulla mia testa.

Per un istante restò in silenzio, chissà a cosa pensava. Forse era meglio non saperlo.

«Qual è la parte più difficile?», sussurrai.

«La parte più difficile è la sensazione di... perdere il controllo», disse lentamente. «Il timore di non potermi fidare di me stesso: la sensazione di non poter stare vicino a te, né a chiunque altro. Sono una specie di mostro che potrebbe combinare danni in qualsiasi momento. Hai visto Emily: Sam ha perso l’autocontrollo per un secondo... e lei era troppo vicina. Ormai è impossibile riparare il danno. Ne sento i pensieri, conosco i sentimenti... Che senso ha diventare un incubo, un mostro? E poi, il fatto che per me sia così facile, che io sia più svelto e forte degli altri, mi rende ancora meno umano di Embry o Sam? A volte ho il timore di non riuscire a tornare me stesso».

«È così difficile ritrovarti?».

«Le prime volte, sì», disse. «Ci vuole un po’ di allenamento per imparare a trasformarsi. Ma per me è più facile».

«Come mai?».

«Perché il nonno di mio padre era Ephraim Black, e quello di mia madre Quil Ateara».

«Quil?», chiesi, confusa.

«È anche suo bisnonno», spiegò Jacob. «Il Quil che conosci tu è un mio lontano cugino».

«Ma quanto importa chi fossero i tuoi bisnonni?».

«Ephraim e Quil facevano parte dell’ultimo branco. Il terzo membro era Levi Uley. Ce l’ho nel sangue. Senza via di scampo. Allo stesso modo di Quil».

Era scuro in viso.

«E gli aspetti positivi, quali sono?», chiesi nel tentativo di tirargli su il morale.

«La cosa migliore», disse tornando a sorridere, «è la velocità».

«Meglio che andare in moto?».

Annuì entusiasta. «Non ci sono paragoni».

«Quanto...».

«Quanto siamo veloci? Abbastanza. Come posso spiegartelo? Abbiamo catturato... come si chiamava? Laurent? Immagino che così lo puoi capire meglio di chiunque altro».

Lo capivo eccome. Non riuscivo a crederci: i lupi correvano più veloce dei vampiri. Quando i Cullen correvano, diventavano quasi invisibili tanto erano rapidi.

«Dai, raccontami qualcosa che non so», disse. «Qualcosa sui vampiri. Come facevi a sopportare di stare in mezzo a loro? Non sei mai morta di paura?».

«No», risposi, laconica.

Il tono della mia voce lo fece riflettere.

«Puoi dirmi perché il tuo succhiasangue ha ucciso James, però?», chiese d’un tratto.

«James voleva uccidere me. Per lui era una specie di gioco. Che ha perso. Ricordi quando, l’estate scorsa, ho passato un po’ di tempo in ospedale a Phoenix?».

Jacob trattenne il fiato. «Ci è andato così vicino?».

«Molto, molto vicino». Sfiorai la mia cicatrice. Jacob se ne accorse, perché mi strinse la mano.

«Cos’è?». Esaminò il mio polso destro. «È la tua cicatrice strana, quella fredda». La guardò da vicino, con occhi nuovi, e trasalì.

«Sì, è proprio ciò che pensi», risposi. «James mi ha morsa».

Strabuzzò gli occhi e il suo colorito bronzeo impallidì. Sembrava preso dalla nausea.

«Ma se ti ha morsa... Non avresti dovuto...», balbettò.

«Edward mi ha salvata due volte», sussurrai. «Ha succhiato via il veleno... hai presente, come si fa con i serpenti». Un fremito, e sentii bruciare di dolore i margini dello squarcio nel mio petto.

Non fu l’unica reazione che sentii. Anche il corpo di Jacob tremava, vicino al mio. Persino l’auto traballava.

«Vacci piano, Jake. Tranquillo. Calmati».

«Sì», sospirò. «Mi calmo». Scosse la testa avanti e indietro, rapidamente. Dopo un istante, gli tremavano soltanto le mani.

«Stai bene?».

«Sì, quasi. Raccontami qualcos’altro. Dammi altro a cui pensare».

«Di cosa vuoi che parli?».

«Non so». Chiudeva gli occhi, concentrato. «Degli extra, magari. C’erano altri Cullen con... poteri extra? Come leggere nel pensiero?».

Per un secondo fui incerta. Avrei risposto come una spia, non da amica. Però, che senso aveva tenere per me ciò che sapevo? Ormai non importava più e dovevo fare il possibile per tranquillizzarlo. Perciò risposi decisa, con l’immagine del volto sfigurato di Emily ben chiara, e la pelle d’oca. La Golf non sarebbe riuscita a contenere il lupo dal pelo bronzeo. Se Jacob si fosse trasformato in quel momento avrebbe devastato il garage.

«Jasper era in grado di... controllare, più o meno, le emozioni di chi gli stava accanto. Non in senso negativo: tranquillizzava l’umore, una cosa del genere. Servirebbe parecchio a Paul», aggiunsi azzardando una battuta. «Alice vedeva ciò che stava per succedere. Leggeva il futuro, ecco, ma non in senso assoluto. Vedeva le conseguenze di decisioni che potevano cambiare il corso delle cose».

Come quando mi aveva vista morire... o trasformarmi in una di loro. Due cose che non erano accadute. Una in particolare non sarebbe accaduta mai. La mia testa iniziò a girare, mi sentivo mancare l’ossigeno. Polmoni fuori uso.

Jacob era tornato in sé e mi stava vicinissimo.

«Perché fai così?», chiese. Cercò di spostarmi il braccio che stringevo forte al petto, ma rinunciò quando capì che non avrei ceduto facilmente. Non mi ero nemmeno resa conto di aver preso quella posizione. «Fai sempre così quando perdi la testa. Perché?».

«Pensare a loro mi fa stare male», sussurrai. «Non riesco a respirare... è come se cadessi a pezzi». Che strano poter raccontare tutto a Jacob. Ormai non avevamo segreti.

Mi accarezzò i capelli. «Va tutto bene, Bella, tutto bene. Non ne riparlerò più. Scusami».

«Non preoccuparti», sospirai. «Succede sempre così. Non è colpa tua».

«Siamo davvero una coppia incasinata, eh?», disse Jacob. «Nessuno dei due è capace di restare tutto d’un pezzo».

«Già, che pena», bisbigliai.

«Se non altro possiamo tenerci compagnia», disse chiaramente confortato dall’idea.

Sentii lo stesso conforto. «È vero, ed è già qualcosa».

Nei momenti che passavamo assieme, andava tutto bene. Ma Jacob aveva un compito orribile e pericoloso che si sentiva costretto a svolgere, perciò trascorrevo molto tempo da sola, bloccata a La Push per motivi di sicurezza, senza altro da fare che tenere lontane le preoccupazioni.

Mi sentivo a disagio, mi sembrava di rubare spazio in casa di Billy. Cercai di studiare un po’ di matematica in vista di una verifica che mi aspettava la settimana successiva, ma non riuscivo a concentrarmi. Se non avevo niente che mi tenesse occupata, mi sentivo in dovere di chiacchierare con il padre di Jacob, schiacciata dalla pressione delle normali regole di convivenza. Ma riempire le pause della conversazione non era il suo forte e l’imbarazzo non diminuiva.

Il mercoledì pomeriggio, per cambiare, decisi di andare a trovare Emily. Sulle prime fu piacevole. Emily era una ragazza allegra che non stava mai ferma. La seguii mentre svolazzava tra la casetta e il cortile per spazzare il pavimento immacolato, strappare una piccola erbaccia, riparare un cardine rotto, filare la lana con un telaio antico, e al contempo cucinare, sempre. Accennò una protesta contro l’aumento di appetito dei ragazzi, dovuto agli straordinari, ma era ovvio che per lei non era un peso occuparsi di loro. Restare in sua compagnia non era difficile: dopotutto, ormai eravamo entrambe ragazze lupo.

Dopo qualche ora arrivò Sam. Con lui presente, restai in casa lo stretto necessario per assicurarmi che Jacob stesse bene e che non ci fossero novità, e poi fui costretta ad andarmene. L’atmosfera di amore e armonia che li circondava era troppo difficile da sopportare, senza nessun altro a diluirla.

Perciò non mi rimase che vagare per la spiaggia, avanti e indietro sulla mezzaluna rocciosa, senza sosta.

Restare sola non mi faceva bene. Grazie alla sincerità che potevo permettermi con Jacob, avevo iniziato a parlare e a pensare un po’ troppo ai Cullen. Malgrado le mie tante distrazioni ero sinceramente e disperatamente preoccupata per Jacob e i suoi fratelli licantropi; ero spaventata per Charlie e gli altri che pensavano di essere a caccia di animali; ero sempre più intima di Jacob senza nemmeno aver deciso razionalmente di andare in quella direzione, e non sapevo cosa farci. Nessuna preoccupazione, neppure la più concreta, pressante e urgente, riusciva a smorzare il dolore che sentivo dentro. A un certo punto smisi di camminare, perché non respiravo più. Mi sedetti su uno spiazzo roccioso quasi asciutto e mi raggomitolai.

Jacob mi trovò in quella posizione e gli si leggeva in faccia che aveva capito quel che si agitava nella mia testa.

«Scusa», disse subito. Mi sollevò da terra e mi strinse in un abbraccio. Non mi ero ancora accorta di sentire freddo. Il suo calore mi faceva tremare, ma se non altro, con lui vicino, riuscivo a respirare.

«Ti sto rovinando le vacanze», disse mentre risalivamo la spiaggia.

«No. Non avevo programmi. E comunque, le vacanze pasquali non mi piacciono granché».

«Domani prendo mezza giornata di pausa. Gli altri possono anche fare a meno di me. Così ci andiamo a divertire».

In quel momento della mia vita la proposta sembrava fuori luogo, incomprensibile, bizzarra. «Divertire?».

«Sì, penso che tu ne abbia proprio bisogno. Mmm...». Lanciò un’occhiata intensa verso le onde alte e grigie. L’ispirazione gli venne mentre scrutava l’orizzonte.

«Idea!», esclamò. «Ho un’altra promessa da mantenere».

«Di che parli?».

Lasciò la mia mano e indicò il profilo meridionale della spiaggia, in cui la mezzaluna piatta e rocciosa cedeva terreno allo strapiombo della scogliera. Restai a fissare, confusa.

«Ricordi che ti ho promesso che ci saremmo tuffati dallo scoglio?».

Trasalii.

«Certo, farà freddo, ma meno di oggi. Senti il cambio di temperatura? La pressione? Domani farà più caldo. Ci stai?».

L’acqua scura non era affatto invitante e da quella posizione la scogliera sembrava più alta che mai.

Però erano passati giorni dall’ultima volta che avevo sentito la voce di Edward. Anche quello era un problema: dipendevo dal suono delle mie illusioni. Più latitavano, peggio andava. Tuffarmi dallo scoglio era senz’altro un ottimo rimedio.

«Certo che sì. Ci divertiremo».

«Consideralo un appuntamento», disse cingendomi le spalle con il braccio.

«D’accordo. Adesso vai a fare una bella dormita». Non mi piacevano quelle occhiaie pesanti ormai incise sul suo volto.


Il mattino dopo mi svegliai presto e di nascosto infilai un cambio di vestiti sul pick-up. Avevo la sensazione che Charlie avrebbe approvato i miei piani per la giornata almeno quanto una corsa in motocicletta.

La prospettiva di lasciarmi per un momento le preoccupazioni alle spalle era quasi riuscita a entusiasmarmi. Forse ci saremmo divertiti davvero. Un appuntamento con Jacob, uno con Edward... Sorrisi cupa a me stessa. Jake poteva dire quel che gli pareva su quanto fossimo incasinati in coppia, ma la più incasinata dei due ero io. Riuscivo a fare sembrare normale persino la faccenda dei licantropi.

Mi aspettavo di trovare Jacob di fronte a casa sua, come faceva sempre, allertato dal rumore del pick-up. Quando non lo vidi, pensai che stesse dormendo. Restai ad aspettare per concedergli tutto il riposo di cui aveva bisogno. Doveva recuperare ore di sonno e in quel modo avremmo approfittato del momento più caldo della giornata. Jake aveva azzeccato le previsioni del tempo: durante la notte, era cambiato. Uno spesso strato di nuvole incombeva basso e l’atmosfera era quasi afosa; sotto quella coperta grigia l’aria premeva, calda. Lasciai la felpa sul pick-up.

Bussai piano alla porta.

«Entra pure, Bella», disse Billy.

Era seduto al tavolo della cucina, alle prese con una tazza di cereali.

«Jake dorme?».

«Ehm, no». Posò il cucchiaio e il suo sguardo si fece torvo.

«È successo qualcosa?», chiesi. La sua espressione bastava a rispondere sì.

«Embry, Jared e Paul hanno fiutato tracce fresche stamattina. Sam e Jake sono corsi in loro aiuto. Sam era ottimista: si è riparata tra le montagne. È convinto che siano vicini a farla finita».

«Oh, no, Billy», sussurrai. «Oh, no».

Lui fece una risata cupa e profonda. «La Push ti piace così tanto da voler prolungare la prigionia?».

«Come fai a scherzare, Billy? Io ho troppa paura».

«Hai ragione», rispose di buonumore. Leggere il suo sguardo antico era impossibile. «La situazione è spinosa».

Restai senza parole.

«Il rischio che corrono i ragazzi non è alto come credi. Sam sa quello che fa. Sei tu che dovresti essere preoccupata per te stessa. Il vampiro non vuole scontrarsi con loro. Sta soltanto cercando di evitarli... per arrivare a te».

«Come fa Sam a sapere ciò che fa?», chiesi, interrompendolo bruscamente. «Hanno ucciso un solo vampiro... magari è stato un colpo di fortuna».

«Prendiamo molto sul serio il nostro compito, Bella. Niente è lasciato al caso. Tutto ciò che occorre sapere è stato tramandato di padre in figlio per generazioni».

Non riuscì a confortarmi come voleva. Il ricordo di Victoria, selvaggia, felina, letale, era troppo forte. Se non fosse riuscita a evitare i lupi, alla lunga avrebbe finito per gettarsi all’attacco.

Billy tornò alla colazione e io mi accomodai sul divano a guardare la TV senza seguirla. Non resistetti a lungo. Iniziai a sentirmi in preda della claustrofobia e innervosita dall’impossibilità di guardare fuori dalle finestre oltre le tende.

«Vado in spiaggia», dissi a Billy di punto in bianco, e sfrecciai verso la porta.

Uscire non mi procurò il sollievo che speravo. Le nuvole facevano pesare la loro massa invisibile e il senso di soffocamento non diminuiva. La foresta sembrava stranamente deserta mentre mi avvicinavo alla spiaggia. Non c’erano animali: niente uccelli o scoiattoli. Non si sentiva nemmeno un cinguettio. Il silenzio era inquietante; il vento che di solito soffiava tra gli alberi era assente.

Sapevo che nelle giornate afose andava così, ma non riuscii a restare tranquilla. La pressione e il caldo erano evidenti anche ai miei deboli sensi umani e segnalavano l’incombere di qualcosa di grosso alla voce “tempeste”. Uno sguardo verso il cielo e ne fui certa: le nuvole si addensavano veloci, malgrado l’assenza di vento a terra. Quelle più basse erano grigio fumo, ma tra le loro crepe spuntava l’inquietante velo violaceo di uno strato più alto. I piani che il cielo aveva in serbo per la giornata erano spietati. Probabilmente gli animali erano già tutti al riparo.

Raggiunta la spiaggia, mi pentii di essere uscita. Ne avevo già abbastanza di quel posto. Praticamente tutti i giorni lo visitavo da sola. Era poi tanto diverso dai miei incubi? Eppure, dove altro potevo andare? Mi trascinai fino al mio tronco e mi ci sedetti appoggiando la schiena alle radici fitte. Fissai il cielo arrabbiato sopra di me, rimuginando, in attesa che le prime gocce spezzassero l’immobilità.

Cercai di non pensare ai rischi che correvano Jacob e i suoi amici. Perché a Jacob non poteva succedere nulla. L’idea era insopportabile. Avevo già perso troppo. Il destino aveva forse deciso di strapparmi gli ultimi brandelli di pace? Mi sembrava ingiusto, disonesto. Ma forse avevo infranto una regola sconosciuta, passato un limite che mi aveva condannata. Forse non era consentito immischiarsi nella vita di miti e leggende, voltare le spalle al mondo degli umani. Forse...

No! A Jacob non poteva succedere nulla. Dovevo crederci, altrimenti non sarei stata in grado di sopravvivere.

Con un gemito, saltai giù dal tronco. Non riuscivo a stare ferma e seduta, era peggio che camminare avanti e indietro.

Quel mattino avevo davvero sperato di poter sentire Edward. E ormai pareva l’unica cosa in grado di rendermi sopportabile il resto della giornata. La ferita ricominciava a suppurare, come a vendicarsi dei momenti in cui la presenza di Jacob l’aveva disinfettata. I margini della voragine bruciavano ancora.

Mentre camminavo, i cavalloni si alzavano e s’infrangevano sulle rocce, ma di vento non c’era traccia. Mi sentii inchiodare a terra dalla pressione della tempesta. Tutto girava attorno a me, ma nel punto in cui mi trovavo nulla si muoveva. Nell’aria c’era una leggera elettricità che sentivo vibrare nei capelli.

Al largo, le onde erano più infuriate di quelle che lambivano la spiaggia. Le vedevo schiaffeggiare gli scogli ed esplodere in grandi nuvole di schiuma bianca. L’atmosfera era sempre immobile, ma le nuvole ora si spostavano più velocemente. Lo spettacolo era inquietante, simile a un movimento volontario. Rabbrividii, anche se sapevo che si trattava dell’effetto della pressione.

Gli scogli erano una barriera di lame nere contro il cielo livido. Li fissai, ripensando al giorno in cui Jacob mi aveva parlato di Sam e della sua banda. Ripensai anche ai ragazzi—i licantropi—che si gettavano nel vuoto da quell’altezza. La visione delle loro sagome che volavano roteando era ancora nitida. Immaginai la libertà totale nella caduta... Immaginai la voce di Edward nelle orecchie: furiosa, vellutata, perfetta... Il bruciore nel mio petto si accese in uno scatto di agonia.

Doveva esserci un modo per raffreddarlo. Più passava il tempo, meno il dolore era tollerabile. Fissai gli scogli e le onde vi si frangevano contro.

Be’, perché no? Perché non placare il dolore, subito?

Jacob mi aveva promesso che saremmo andati a tuffarci, no? La sua assenza bastava forse a farmi rinunciare allo svago di cui avevo assoluto bisogno, soprattutto ora che lui stava davvero rischiando la vita? E la metteva a rischio per me. Se non ci fossi stata io, Victoria non se ne sarebbe andata in giro per la foresta a uccidere; si sarebbe tenuta lontana. Se fosse successo qualcosa a Jacob, la colpa sarebbe stata mia. Quella certezza mi feri nel profondo e mi costrinse a raggiungere di corsa la strada, verso casa di Billy, dove mi aspettava il pick-up.

Sapevo come raggiungere lo sterrato che correva vicino alla scogliera e con qualche difficoltà individuai pure il sentiero che portava allo strapiombo. Imboccato quello, badai a ogni bivio e diramazione, ricordando che Jacob voleva condurmi sullo spuntone più basso. Il viottolo, però, serpeggiava verso la cima senza interrompersi. Non avevo tempo di cercare un altro percorso, la tempesta era sempre più vicina. Finalmente sentivo addosso il vento e la pressione delle nubi. Quando raggiunsi il punto in cui lo sterrato veniva inghiottito da un precipizio roccioso, le prime gocce mi bagnarono il viso.

Non fu difficile convincermi che non c’era tempo di cercare un’alternativa: volevo saltare dalla cima. Quella era l’immagine che conservavo. Desideravo perdermi in quella lunga caduta, simile a un volo.

Certo, sarebbe stato il gesto più stupido e irresponsabile mai commesso in vita mia. A quel pensiero, sorrisi. Il dolore era già meno intenso, come se il mio corpo sapesse che entro pochi secondi avrei sentito la voce di Edward...

Il rumore dell’acqua era molto lontano, più di quando l’avevo sentito tra gli alberi, sul sentiero. Feci una smorfia al pensiero della temperatura gelida dell’acqua. Ma non avevo intenzione di lasciarmi scoraggiare.

Il vento soffiava più forte, la pioggia mi colpiva a frustate.

Mi avvicinai al ciglio del precipizio con gli occhi fissi sul vuoto davanti a me. Tastai il terreno con i piedi, alla cieca, fino a sfiorare il profilo della roccia. Feci un respiro profondo e lo trattenni... in attesa.

«Bella».

Sospirai e sorrisi.

Sì? Non risposi ad alta voce, per paura di rovinare la splendida illusione. Sembrava così vero, così vicino. Solo quando udivo quel tono di disapprovazione il ricordo della sua voce era reale, perché la grana vellutata e il tono musicale la rendevano tanto perfetta.

«Non farlo», implorò.

Volevi che restassi umana, risposi. Be’, guardami.

«Per favore. Fallo per me».

Ma non c’è altro modo per averti vicino.

«Per favore». Era soltanto un sussurro coperto dalla pioggia furiosa che mi scompigliava i capelli e inzuppava i vestiti quasi come se mi fossi già tuffata.

Mi piegai sulle caviglie.

«No, Bella!». Arrabbiato, la sua furia era adorabile.

Sorrisi e stesi le braccia, pronta a tuffarmi di testa, il volto battuto dalla pioggia. Ma anni di nuotate in piscina mi fecero ricordare la regola: la prima volta meglio entrare con i piedi. Mi piegai in avanti, rannicchiandomi per guadagnare spinta...

E mi gettai dallo scoglio.

Urlai, saltando nel vuoto come una meteora, ma era un grido di entusiasmo, non di paura. Il vento non cedeva, cercava invano di combattere contro la gravità invincibile, mi si abbatteva contro costringendomi a roteare a spirale, come un razzo che si schianta a terra.

Sì! L’esclamazione mi riempì la testa quando penetrai la superficie dell’acqua. Era ghiacciata, più fredda di quanto temessi, eppure il gelo non fece che aumentare l’ebrezza. Più affondavo nell’acqua nera e gelida, più mi sentivo fiera di me. Non ci fu nemmeno un istante di terrore: soltanto adrenalina pura. Sul serio, il tuffo non era stato terrificante. Dove stava la sfida?

Lo capii quando la corrente mi catturò.

Mi ero preoccupata degli scogli e della pericolosità evidente del loro profilo alto e ripido, tanto da snobbare l’acqua scura che mi attendeva. Non avrei mai immaginato che la vera minaccia tramasse ai miei piedi, nascosta dalle onde impetuose.

Sembrava che si azzuffassero per prendermi, sbattendomi in tutte le direzioni come se ognuna desiderasse un pezzo di me. Sapevo come non farmi travolgere dalla marea: nuotare parallela alla costa anziché puntare dritta verso la spiaggia. Ma la consapevolezza era inutile, perché non sapevo da che parte fosse la costa.

Non capivo nemmeno se fossi vicina o lontana dalla superficie.

La marea furiosa era una massa nera; nessun bagliore mi guidava verso l’alto. La gravità era invincibile quando si opponeva all’aria, ma di fronte alle onde non poteva niente e non mi sentivo spingere verso il basso o affondare. C’era soltanto la corrente a strattonarmi e a sbattermi a destra e a manca come una bambola di pezza.

Mi sforzai di trattenere il respiro, di sigillare le labbra per non sprecare l’ultima scorta di ossigeno.

Non mi sorpresi di ritrovare l’illusione di Edward, là sotto. Era il minimo che potesse fare, visto che stavo morendo. A sorprendermi fu la certezza di averlo vicino. Stavo per annegare. Stavo annegando.

«Non smettere di nuotare!», ordinò Edward angosciato.

Dove? Non vedevo altro che oscurità. Non capivo da che parte andare.

«Smettila!», esclamò. «Non vorrai darti per vinta!».

Il freddo m’intorpidiva braccia e gambe. Non sentivo più nemmeno il tremore. Era diventato uno spasmo, fatto di inutili contorsioni subacquee.

Tuttavia gli prestai ascolto. Mi costrinsi a gettare le braccia in avanti, a muovere le gambe con decisione, malgrado la mia direzione cambiasse di secondo in secondo. Era uno sforzo inconcludente. Aveva senso?

«Combatti!», urlò. «Maledizione, Bella, continua a combattere!».

Perché?

Non avevo più voglia di combattere. Mi andava bene così e non era colpa né dell’intorpidimento o del freddo, né dei muscoli delle braccia che cedevano esausti. Ero quasi felice che fosse finita. Avevo rischiato morti molto peggiori di quella. Sentivo una strana pace.

Pensai per un istante al luogo comune secondo cui la vita in quei momenti ti scorre di nuovo davanti agli occhi. Ero molto più fortunata. Ma poi, che gusto c’era a vederne una replica?

Vidi lui e mi passò la voglia di combattere. Fu un’apparizione nitida, molto più definita di qualsiasi ricordo. Il mio inconscio aveva conservato per quel momento un’immagine di Edward precisa in ogni dettaglio. Osservavo il suo volto perfetto come fosse davvero lì; la tonalità esatta del colorito glaciale, la forma delle labbra, il profilo della guancia, la luce dorata che brillava negli occhi infuriati. Era infuriato, ovviamente, perché avevo deciso di rinunciare. Serrava le mascelle e sbuffava di rabbia.

«No! Bella, no!».

Avevo le orecchie tappate dall’acqua ghiacciata, ma la sua voce squillava più nitida che mai. Ignorai le parole e mi concentrai sul suono della voce. Perché combattere, se ero così felice in quel momento? Persino mentre i polmoni bruciavano, a corto d’aria, e le gambe erano immobilizzate dal freddo, ero contenta. Avevo dimenticato cosa fosse la vera felicità.

La felicità. Rendeva sopportabile persino la morte.

In quel momento la corrente ebbe la meglio e mi scaraventò con forza contro qualcosa di duro, una roccia nascosta nell’oscurità. Mi colpì in pieno nel petto, violenta come una sbarra d’acciaio, e la poca aria che avevo nei polmoni schizzò fuori in una nuvola densa di bolle argentate. L’acqua mi invase la gola, soffocante, urticante. La barra d’acciaio mi trascinava via, lontana da Edward, verso l’oscurità e il fondo dell’oceano.

Addio, ti amo, fu il mio ultimo pensiero.

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