8 Adrenalina

«Bene. Dov’è la frizione?».

Indicai la leva sinistra. Mollare la presa fu un errore. La motocicletta pesante traballò e quasi cadde, trascinandomi con sé. Afferrai il manubrio e cercai di raddrizzarla.

«Jacob, non sta in piedi», mi lamentai.

«È perché sei ferma, stai tranquilla», promise. «Il freno, invece, dov’è?».

«Dietro il piede destro».

«Sbagliato».

Afferrò e strinse le dita della mia mano destra attorno alla leva vicina all’acceleratore.

«Ma hai detto...».

«Questo è il freno da usare. Per ora lascia stare quello posteriore, ti servirà dopo, quando avrai più confidenza con la guida».

«Non mi quadra», dissi sospettosa. «Non sono importanti entrambi i freni?».

«Dimentica il freno posteriore, okay? Ecco...». Strinse la mia mano nella sua e mi fece tirare la leva. «Così si frena. Non dimenticare». E strinse di nuovo la mano.

«Bene», dissi.

«Acceleratore?».

Girai la manopola destra.

«Cambio?».

Lo sfiorai con il polpaccio sinistro.

«Molto bene. Direi che hai individuato tutti i componenti. Adesso ti basta soltanto metterla in moto».

«Già», mormorai, e non osai aggiungere altro. Sentivo strane contorsioni allo stomaco e temevo mi mancasse la voce da un momento all’altro. Ero terrorizzata. Cercai di convincermi che era inutile avere paura. Ero sopravvissuta a momenti ben peggiori. Ormai, cos’altro avrebbe potuto spaventarmi? Avessi visto la morte in faccia, mi sarei messa a ridere.

Ma lo stomaco non se la beveva.

Osservai il lungo tratto di sentiero sterrato, affiancato da densa vegetazione. La strada era sabbiosa e umida. Meglio quella, del fango.

«Ora tira la frizione», ordinò Jacob.

Feci come mi diceva.

«Questo è un passaggio fondamentale, Bella», sottolineò Jacob. «Non mollarla, okay? Devi fare come se stringessi una bomba a mano. Ho staccato la sicura, se lasci la leva, esplode».

Strinsi più forte.

«Bene. Pensi di riuscire ad avviarla?».

«Se alzo il piede, cado per terra», risposi digrignando i denti, con le dita strette alla bomba a mano innescata.

«Okay, ci penso io. Non mollare la frizione».

Fece un passo indietro e all’improvviso affondò un colpo di pedale. Sentii un breve rumore di strappo e un forte contraccolpo che scosse la moto. Quasi caddi su un fianco, ma Jake afferrò la moto prima che mi schiacciasse a terra.

«Tieni duro. La frizione è sempre stretta?».

«Sì», esclamai.

«Tieni i piedi piantati a terra. Ci riprovo», e per sicurezza afferrò la parte posteriore del sedile.

Ci vollero quattro tentativi per accendere il motore. Sentivo la moto brontolare sotto di me, come un animale arrabbiato. Strinsi la frizione fino a sentir male alle dita.

«Prova l’acceleratore», suggerì. «Muovilo appena appena. E non mollare la frizione».

Timidamente, ruotai la manopola destra. Un movimento minimo bastò a far ringhiare il motore. A quel punto sembrava arrabbiato e affamato. Jacob sorrise, profondamente soddisfatto.

«Ricordi come s’innesta la prima?», chiese.

«Sì».

«Be’, allora fallo».

«Okay».

Attese qualche secondo.

«Piede sinistro», suggerì.

«Lo so», risposi prendendo fiato.

«Sei convinta?», chiese Jacob. «Sembri spaventata».

«Sto bene», sbottai. Con un calcetto inserii la marcia.

«Molto bene. Adesso, con molta delicatezza, lascia andare la frizione».

Fece un passo indietro.

«Vuoi che molli la bomba a mano?», chiesi incredula. Non c’era da meravigliarsi che si stesse allontanando.

«È così che si parte, Bella. Lasciala andare a poco a poco».

Mentre mollavo la presa, fui turbata da una voce che non apparteneva al ragazzo che mi stava accanto.

«Questo è un gesto insensato, infantile e idiota, Bella», sbottò la voce vellutata.

«Ah!». Spaventata, mollai la frizione.

La moto, con un sobbalzo, mi fece saltare in avanti e mi disarcionò, per poi cascarmi quasi addosso. Il ruggito del motore divenne una tosse e si spense.

«Bella?». Jacob spostò con facilità la moto che mi schiacciava. «Ti sei fatta male?».

Non lo stavo ascoltando.

«Te l’avevo detto», mormorò la voce perfetta, cristallina.

«Bella?». Jacob mi scosse le spalle.

«Sto bene», farfugliai esterrefatta.

Più che bene. La voce che sentivo nella testa era tornata. Risuonava ancora in un’eco morbida e calda.

Valutai immediatamente le possibilità. Non c’erano elementi familiari—ero su una strada mai battuta, stavo facendo qualcosa che non avevo mai provato—né déjà-vu. Perciò, a innescare le allucinazioni era qualcos’altro... L’adrenalina tornò a scorrermi nelle vene, forse avevo trovato la risposta. Era una combinazione di adrenalina e pericolo, o forse semplice stupidità...

Jacob mi aiutò a rialzarmi.

«Hai battuto la testa?», chiese.

«Non credo». La scossi avanti e indietro per controllare. «Non ho fatto niente alla moto, vero?». Speravo proprio di no. Ero impaziente di riprovarci, subito. Comportarmi da incosciente dava frutti migliori del previsto. Altro che imbrogliare. Forse avevo trovato il modo di generare le allucinazioni: ecco qual era la cosa più importante.

«No. L’hai soltanto fatta spegnere», disse Jacob, interrompendo le mie rapide speculazioni. «Hai staccato la frizione troppo in fretta».

Annuii. «Riproviamoci».

«Sei sicura?», chiese Jacob.

«Sicurissima».

Stavolta, cercai di avviarla da sola. Era complicato: per affondare il pedale d’accensione con la forza sufficiente dovevo fare un saltello e ogni volta che ci provavo la moto minacciava di schiacciarmi. Jacob stringeva il manubrio, pronto a sorreggermi in caso di bisogno.

Occorsero parecchi tentativi, buoni e cattivi, prima che il motore riprendesse vita e tornasse a ruggire. Tenendo ben stretta la bomba a mano, giocai un po’ con l’acceleratore. Ogni minimo tocco era un ringhio. Il mio sorriso si specchiava in quello di Jacob.

«Piano con la frizione», ripeté.

«Allora vuoi proprio suicidarti, eh? È questo che vuoi fare?». L’altra voce parlò di nuovo, severa.

Sorrisi sotto i baffi—funzionava—e ignorai le domande. Jacob non avrebbe mai permesso che mi accadesse niente di grave.

«Torna a casa, da Charlie», ordinò la voce. La sua tremenda bellezza mi lasciava a bocca aperta. Non potevo permettere che sfuggisse dalla mia memoria, per nessun motivo.

«Lasciala andare piano», fu il consiglio di Jacob.

«Certo», dissi. Che cosa strana, rendermi conto che stavo rispondendo a entrambi.

La voce nella mia testa ringhiò assieme al rombo della motocicletta.

Cercando di concentrarmi, per non consentire alla voce di spaventarmi di nuovo, rilassai la mano a poco a poco. All’istante, la marcia s’innestò spingendomi in avanti.

E io presi il volo.

Sentivo un vento che prima non c’era, che mi schiacciava la pelle sul viso e i capelli sulla testa, come se qualcuno li tirasse con forza. Lo stomaco era rimasto al punto di partenza, ma l’adrenalina era in circolo, la sentivo pungere nelle vene. Gli alberi correvano ai miei fianchi, confondendosi in una muraglia verde.

Ed era soltanto la prima marcia. Mentre davo di gas, il mio piede sfiorò il cambio.

«No, Bella!», ordinò la voce, arrabbiata e dolce come il miele. «Stai attenta!».

Mi distrasse dalla velocità, quanto bastava per accorgermi che la strada iniziava a curvare leggermente verso sinistra, mentre io procedevo dritta. Jacob non mi aveva insegnato a svoltare.

«Freni, freni», mormorai, e istintivamente inchiodai con il piede destro, come avrei fatto alla guida del pick-up.

Di colpo persi il controllo della ruota posteriore e la moto oscillò. Mi trascinava contro la muraglia verde, troppo velocemente. Cercai di girare il manubrio dall’altra parte e l’improvviso spostamento del peso schiacciò la moto, che puntava dritta verso gli alberi, a terra.

Me la sentii rombare forte addosso e scivolai sulla sabbia umida, fino a scontrarmi con qualcosa di solido. Non vedevo niente. Mi ero infilata a faccia in giù nell’erba. Cercai di alzare la testa, ma qualcosa la bloccava.

Ero sconvolta e confusa. Sentivo tre ringhi diversi: quello della moto sopra di me, la voce nella mia testa e qualcos’altro...

«Bella!», urlò Jacob, e il ruggito dell’altra moto si spense.

Non sentivo più il peso che mi costringeva a terra e mi girai per respirare. I ruggiti cessarono, tutti.

«Grandioso», mormorai. Ero in fibrillazione. Ecco la ricetta perfetta per le allucinazioni: adrenalina, più pericolo, più stupidità. O qualcosa del genere.

«Bella!», esclamò Jacob ansioso, chino al mio fianco. «Bella, sei viva?».

«Sto benissimo!». Ero entusiasta. Allungai le braccia e le gambe. Tutto sembrava funzionare. «Rifacciamolo».

«Direi proprio di no». Jacob sembrava ancora preoccupato. «Penso sia meglio portarti in ospedale, prima».

«Sto bene».

«Ehm, Bella? Hai un bruttissimo taglio in testa, sanguina parecchio».

Posai il palmo della mano sulla fronte. Sì, era bagnata e appiccicosa. Soltanto grazie all’odore della terra umida riuscii a non vomitare.

«Oh, scusami davvero, Jacob». Schiacciai forte la ferita, come se potessi ricacciare il sangue dentro la testa.

«Ti stai scusando perché sanguini?», chiese, mentre con le sue lunghe braccia mi aiutava a rimettermi in piedi. «Andiamo. Guido io». Allungò una mano per farsi dare le chiavi.

«E le moto?», risposi porgendogliele.

Ci pensò per un secondo. «Aspetta qui. E prendi questa». Si tolse la maglietta, già macchiata di sangue, e me la lanciò. La annodai stretta in fronte. Iniziavo a sentire l’odore del sangue; respiravo a fondo con la bocca e cercavo di concentrarmi su qualcos’altro.

Jacob saltò sulla moto nera, avviò il motore al primo tentativo e sfrecciò verso la strada, sollevando un polverone di sassolini e sabbia. Stretto al manubrio, a testa bassa e chino in avanti, aveva un’aria atletica, professionale, la schiena bronzea frustata dai capelli lucidi. Restai a fissarlo, invidiosa. Di sicuro non facevo la stessa impressione, in moto.

Ero sorpresa da quanta strada avessi fatto. Nei pressi del pick-up, Jacob era visibile a malapena. Gettò la moto a terra e si lanciò verso il posto di guida.

Non mi sentivo affatto male mentre Jacob arrivava rombando, al volante del pick-up, impaziente di salvarmi. Avevo un po’ di mal di testa e dolori allo stomaco, ma il taglio non era niente di serio. Le ferite al capo sanguinano più delle altre. Non era il caso di andare nel panico.

Jacob lasciò il motore del pick-up acceso e corse al mio fianco. Mi cinse di nuovo con il braccio.

«Okay, torniamo in macchina».

«Ma sto bene, davvero», lo rassicurai, mentre mi aiutava a salire. «Non angosciarti, è soltanto un po’ di sangue».

«È soltanto parecchio sangue», lo sentii mormorare, mentre andava a recuperare la mia moto.

«Ora, facciamo mente locale», dissi, quando tornò sul pick-up. «Se mi porti al pronto soccorso in queste condizioni, Charlie lo verrà senz’altro a sapere». Abbassai gli occhi verso la sabbia e lo sporco che m’incrostavano i jeans.

«Bella, secondo me devi farti dare dei punti. Non voglio lasciarti morire dissanguata».

«Certo che no. Però, prima riportiamo indietro le moto, poi passiamo da casa mia, così posso liberarmi delle prove, e infine andiamo in ospedale».

«E Charlie?».

«Ha detto che oggi avrebbe lavorato».

«Ne sei proprio sicura?».

«Credimi. Basta poco per farmi sanguinare. Non è terribile come sembra».

Jacob non era contento, sulle sue labbra c’era una smorfia insolita ed evidente. D’altronde non voleva che mi cacciassi nei guai. Sulla strada verso Forks, guardavo fuori dal finestrino, tenendo la sua maglietta stretta alla fronte. La moto era meglio di quanto sperassi. Era servita al mio scopo originario. Avevo imbrogliato per infrangere la promessa. Mi ero comportata da incosciente, senza una giustificazione logica. Ora che entrambi avevamo violato il patto, mi sentivo un po’ meno disgraziata.

E poi, che gran cosa scoprire la chiave delle allucinazioni! Almeno, speravo fosse quella. Ero decisa a verificare la teoria il più presto possibile. Magari quella sera stessa, se al pronto soccorso mi avessero curata in fretta.

Sfrecciare lungo la strada in quel modo era stato meraviglioso. La sensazione del vento in faccia, la velocità, la libertà... avevano rievocato i momenti di una vita passata in cui sfrecciavo tra la vegetazione densa, senza seguire un sentiero, in groppa a lui che correva... A quel punto cessai di pensarci, e lasciai che i ricordi s’interrompessero, vinta dal dolore. Trasalii.

«Va tutto bene?», chiese Jacob.

«Sì». Cercai di sembrare convincente come poco prima.

«A proposito», aggiunse. «Stasera scollegherò il freno posteriore alla tua moto».

La prima cosa che feci, a casa, fu controllarmi allo specchio: che visione raccapricciante. Il sangue rappreso disegnava strisce spesse sulla guancia e sul mento, sporcandomi anche i capelli infangati. Mi esaminai accuratamente, fingendo che fosse vernice, per non farmi prendere dalla nausea. Finché respiravo con la bocca, nessun problema.

Mi lavai come potevo. Poi nascosi i vestiti sporchi e insanguinati in fondo alla cesta della biancheria, indossai un paio di jeans e una camicia con i bottoni (per evitare di infilarla e sfilarla dalla testa), usando la massima cautela. Riuscii a farcela, con una mano sola e senza sporcare gli indumenti nuovi.

«Sbrigati», disse Jacob.

«Okay, okay», risposi gridando. Dopo essermi assicurata che non ci fossero tracce compromettenti, scesi le scale.

«Come ti sembro?», chiesi.

«In effetti, meglio».

«È credibile che sia inciampata nel tuo garage e abbia sbattuto la testa contro un martello?».

«Sì, direi di sì...».

«Allora andiamo».

Jacob mi accompagnò in fretta alla porta e insistette per continuare a guidare. A metà del percorso verso l’ospedale, mi resi conto che era ancora a torso nudo.

Aggrottai le sopracciglia, imbarazzata. «Forse avremmo dovuto recuperare un giubbotto per te».

«Ci avrebbero smascherati», disse. «E poi, mica ho freddo».

«Scherzi?». Avevo i brividi, mi allungai ad accendere il riscaldamento.

Cercai di capire se stesse soltanto giocando a fare il duro per tranquillizzarmi, però Jacob sembrava davvero a proprio agio. Teneva il braccio appoggiato al mio schienale mentre mi rannicchiavo per combattere il freddo. Dimostrava davvero più di sedici anni—magari non quaranta, ma poteva essere più grande di me. Quanto a muscolatura, non aveva molto da invidiare a Quil, benché si lamentasse di essere uno scheletro. I muscoli lunghi e affusolati erano evidenti sotto la pelle liscia. La carnagione era di un colore così bello da stuzzicare la mia invidia.

Si accorse che lo stavo osservando.

«Che c’è?», chiese imbarazzato.

«Niente. Non me ne ero mai accorta. Sai che sei, come dire... bello?».

Un istante dopo essermi lasciata sfuggire quella frase, già temevo che potesse interpretarla nel modo sbagliato.

Ma lui alzò gli occhi al cielo. «Hai preso una bella botta in testa, eh?».

«Dico sul serio».

«Be’, allora... come dire, grazie».

Feci un sorriso. «Come dire, prego».


Per il taglio in fronte mi dettero sette punti di sutura. Dopo l’iniezione per l’anestesia locale, non sentii alcun dolore. Jacob mi teneva la mano mentre il dottor Snow ricuciva e io cercavo di non vedere l’ironia di quella scena.

Restammo in ospedale per un’eternità. Poi mi toccò riaccompagnare Jacob e correre a casa per preparare la cena a Charlie. La storia del martello nel garage di Jacob sembrò convincerlo. Dopotutto, non sarebbe stata la prima volta che finivo al pronto soccorso facendomi male da sola.

La notte non fu brutta come quella seguita alla prima volta che udii la voce perfetta a Port Angeles. La voragine si riaprì, come accadeva sempre in assenza di Jacob, ma i margini della ferita non pulsavano così forte. Già pensavo al futuro, alla ricerca di nuove illusioni, e riuscii a distrarmi. E poi, sapevo che il giorno dopo avrei rivisto Jacob e mi sarei sentita meglio. Così riuscii a sopportare il senso di vuoto e il familiare dolore; il sollievo era a portata di mano. Anche l’incubo perse un po’ della propria forza. Ero terrorizzata dalla sensazione del nulla, come sempre, ma anche stranamente ansiosa di urlare e risvegliarmi. Sapevo che l’incubo sarebbe finito.

Il giovedì successivo, prima che mi dimettessero di nuovo dal pronto soccorso, il dottor Gerandy chiamò mio padre per avvertirlo che potevo aver subito una commozione cerebrale e per suggerirgli di svegliarmi ogni due ore, di notte, e verificare che non fosse niente di serio. Charlie reagì con un’occhiata sospettosa al mio debole tentativo di giustificare la seconda ferita raccontandogli che ero inciampata ancora una volta.

«Forse è il caso che tu non metta piede in garage, Bella», suggerì quella sera a cena.

Andai nel panico, spaventata dalla possibilità che un editto di Charlie mi vietasse di andare a La Push e, di conseguenza, in moto. Non intendevo rinunciare: quel giorno avevo avuto la più straordinaria delle allucinazioni. L’illusione dalla voce vellutata aveva urlato per quasi cinque minuti, prima che frenassi di colpo e finissi contro l’albero. Quella notte ero pronta ad accettarne le conseguenze più dolorose senza lamentarmi.

«Non è successo in garage», replicai svelta. «Stavamo facendo trekking, sono inciampata in un sasso».

«Da quando ti dedichi al trekking?», chiese Charlie scettico.

«Lavorare dai Newton me ne ha fatto venir voglia: a furia di tessere ai clienti le lodi dei grandi spazi aperti, mi sono incuriosita».

Charlie mi squadrò incredulo.

«Starò più attenta», promisi, incrociando subito le dita sotto il tavolo.

«Non è un problema se restate a La Push, ma non allontanatevi dalla città, d’accordo?».

«Perché?».

«Be’, di recente abbiamo avuto qualche problema con gli animali. Se ne occuperà la Guardia Forestale, ma per il momento...».

«Ah sì, l’orso gigante», replicai al volo. «Lo hanno visto certi escursionisti che bazzicano il negozio. Pensi che là fuori ci sia davvero un enorme grizzly mutante?».

Corrugò la fronte. «Qualcosa c’è. Non allontanatevi dalla città, intesi?».

«Certo, certo», tagliai corto. Non sembrava del tutto soddisfatto.


«Charlie ha fiutato qualcosa», dissi a Jacob quando passai a prenderlo dopo le lezioni del venerdì.

«Forse dovremmo darci una calmata, con le moto». Notò la mia espressione contrariata e aggiunse: «Almeno per una settimana o giù di lì. Così, magari per sette giorni resterai lontana dall’ospedale, no?».

«E cosa facciamo?», brontolai.

Rispose con un sorriso allegro. «Quello che vuoi».

Ci pensai su per un minuto: cosa volevo?

Non sopportavo il pensiero di rinunciare a quei brevi momenti in cui ricordare non era doloroso, quelli che sorgevano da soli, senza che li rievocassi razionalmente. Se non potevo avere le moto, mi sarei messa a cercare per altre vie il pericolo e l’adrenalina, ma avevo bisogno di una buona dose di concentrazione e creatività. Restare inerte, nel frattempo, era una prospettiva triste. E se fossi di nuovo caduta in depressione, malgrado Jake? Dovevo tenermi occupata...

Forse c’era un’altra maniera, un’altra ricetta... un altro luogo.

Rivedere la casa era stato un errore, certo. Ma il marchio della sua presenza doveva essere rimasto impresso da qualche altra parte, oltre che nel mio subconscio. Doveva esistere un punto in cui mi potesse apparire più reale, rispetto ai luoghi affollati di altri ricordi umani.

Solo un luogo aveva quel requisito. Un luogo che sarebbe appartenuto sempre e soltanto a lui, e a nessun altro. Un posto magico, pieno di luce. La bella radura che avevo visto una volta sola in vita mia, illuminata dal sole e dalla sua pelle sfavillante.

L’idea poteva avere conseguenze negative: troppo rischio e troppo dolore. Sentivo una fitta e un vuoto dentro al solo pensiero! Era difficile non tradire emozioni. Ma di sicuro, là, come in nessun altro luogo, sarei riuscita a sentire la sua voce. E a Charlie avevo già detto di essermi data al trekking...

«A cosa pensi tanto intensamente?», chiese Jacob.

«Be’...», balbettai. «Una volta ho trovato un posto, nella foresta... ci sono capitata durante, ehm, un’escursione. Una radura, il posto più bello del mondo. Non so se sarei in grado di tornarci da sola. Penso proprio che ci vorrà qualche tentativo...».

«Potremmo usare una bussola e una mappa a reticolo», disse Jacob, sicuro e premuroso. «Ti ricordi da dove sei partita?».

«Sì, appena sotto il sentiero che inizia al termine della Centodieci. In direzione sud, mi pare».

«Fico. Lo troveremo». Come al solito, Jacob era pronto ad assecondare ogni mio suggerimento, anche quelli più strani.

Perciò, quel sabato pomeriggio, annodai le stringhe dei miei nuovi scarponcini da trekking—comprati la mattina stessa utilizzando per la prima volta lo sconto del venti per cento riservato ai dipendenti dei Newton -, afferrai la mia nuova carta topografica della penisola di Olimpya e partii per La Push.

Non uscimmo immediatamente: prima, Jacob si sdraiò sul pavimento del salotto—lo occupava tutto—e per una buona ventina di minuti tracciò una complessa ragnatela sopra la porzione principale della mappa. Io, appollaiata su una sedia in cucina, parlavo con Billy. Non sembrava affatto preoccupato della nostra escursione. Ero sorpresa che Jacob gli avesse detto dove avessimo intenzione di andare, visto il chiasso che facevano tutti a proposito degli avvistamenti dell’orso. Avrei voluto chiedere a Billy di non farne parola con Charlie, ma temevo che la richiesta potesse sortire l’effetto contrario.

«Magari incontreremo il superorso!», scherzò Jacob, gli occhi fissi sul suo disegno.

Lanciai un’occhiata a Billy, temevo una reazione alla Charlie. Invece Billy scherzò con il figlio. «In tal caso, portatevi un vaso di miele».

Jake sghignazzò. «Spero che i tuoi scarponi siano veloci, Bella. Un solo vaso non lo terrà occupato per molto, se ha fame».

«Mi basta andare più veloce di te».

«Allora buona fortuna!», disse Jacob, alzando gli occhi al cielo, e ripiegò la mappa. «Andiamo».

«Divertitevi», ci salutò Billy, spostandosi verso il frigo.

Non era difficile vivere con Charlie, ma avevo l’impressione che Jacob se la passasse ancora meglio di me.

Giunsi al termine della strada sterrata, fermandomi accanto al cartello che segnalava l’inizio del sentiero. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che ci ero stata e il mio stomaco reagì nervoso. Rischiava di essere un’idea pessima. Ma ne sarebbe valsa la pena, se fossi riuscita ad avvicinarmi a lui.

Scesi dal pick-up e ammirai il muro di densa vegetazione.

«Mi ero diretta da questa parte», mormorai, indicando di fronte a me.

Jake mormorò qualcosa.

«Che c’è?».

Guardò nella direzione che gli mostravo, poi di nuovo il sentiero ben segnalato.

«Pensavo che fossi il tipo di ragazza che segue i sentieri».

«Invece no». Sorrisi senza convinzione. «Sono una ribelle».

Rise ed estrasse la mappa.

«Dammi un secondo». Armeggiava con la bussola da vero esperto e girò la mappa fino a trovare l’angolazione che desiderava.

«Bene: iniziamo dalla prima linea del reticolo. Avanti».

Mi rendevo conto di rallentarlo con il mio passo, ma lui non si lamentava. Cercai di non rimuginare sul mio ultimo viaggio in quella parte di foresta, assieme a un compagno ben diverso. I ricordi più ordinari erano ancora pericolosi. Se ci fossi scivolata sopra, mi sarei ritrovata con le braccia strette al busto e il respiro mozzato, e come l’avrei spiegato a Jacob?

Mantenermi concentrata sul presente non era difficile come immaginavo. La foresta era identica a quella che ricopriva l’intera penisola e Jacob condizionava in positivo il mio umore.

Fischiettava allegro una canzone che non conoscevo, dondolava le braccia e si muoveva con facilità tra gli arbusti selvatici. Le ombre non sembravano scure come al solito. Non se avevo accanto il mio sole privato.

Jacob controllava la bussola ogni cinque minuti, per mantenerci in linea con il percorso disegnato sul reticolo. Sembrava davvero che sapesse il fatto suo. Stavo per fargli un complimento, ma mi trattenni. Non volevo aggiungere altri anni alla sua età ormai esagerata.

Camminavo con la mente sgombra dai pensieri e mi sorse una curiosità. Non avevo dimenticato la nostra conversazione sulla scogliera: mi aspettavo che fosse lui a riaprire il discorso, ma la cosa sembrava poco probabile.

«Ehi... Jake?», balbettai.

«Sì?».

«Come va... con Embry? È tornato normale?».

Per qualche istante Jacob tacque, senza smettere di camminare a grandi passi. A circa tre metri da me, si fermò ad aspettarmi.

«No. Non è tornato normale», disse quando lo raggiunsi, con una smorfia di dispiacere. Non accennava a muoversi. Mi pentii immediatamente di aver sollevato l’argomento.

«Immagino che stia ancora con Sam».

«Già».

Mi cinse le spalle con un braccio e vedendolo così preoccupato evitai di scrollarlo via per scherzo, come avrei potuto fare.

«Ti guardano ancora strano?», sussurrai.

Jacob tenne gli occhi fissi sugli alberi. «Ogni tanto».

«E Billy?».

«Utile come sempre», disse, in un tono amareggiato e furioso che mi disturbava.

«Il nostro divano è sempre disponibile, se vuoi».

Una risata gli spezzò quella tristezza innaturale. «Pensa alla posizione in cui si troverà Charlie... quando Billy chiamerà la polizia per denunciare il mio rapimento!».

Anch’io risi, lieta che Jacob fosse tornato quello di sempre.

Ci fermammo dopo aver percorso, secondo i calcoli di Jacob, dieci chilometri, poi svoltammo brevemente verso ovest e ci congiungemmo a un’altra riga del suo reticolo. Da quando eravamo partiti, intorno a noi tutto sembrava esattamente identico e sentivo che la mia sciocca ricerca era destinata a fallire. Ne fui quasi certa poco prima che calasse l’oscurità, mentre il giorno senza sole lasciava il posto a una notte senza stelle, ma Jacob era più ottimista.

«Se davvero siamo partiti dal punto giusto...». Mi lanciò un’occhiata.

«Sì, ne sono sicura».

«Allora lo troveremo», mi rincuorò prendendomi per mano e aiutandomi a scavalcare un cespuglio di felci. Dall’altra parte c’era il pick-up. Lo indicò, fiero. «Fidati di me».

«Sei bravo. Però la prossima volta ci portiamo le torce».

«Da oggi in poi, dedicheremo la domenica alle escursioni. Non sapevo che fossi così lenta».

Sciolsi la presa della sua mano e corsi verso la portiera del guidatore, tra le sue risate.

«Allora, ti va di riprovarci domani?», chiese, sgusciando sul sedile del passeggero.

«Certo. A meno che tu non voglia andarci da solo per non essere obbligato a seguire il mio passo zoppicante».

«Sopravvivrò. Se ci diamo al trekking, però, forse è meglio che aumenti l’imbottitura degli scarponi. Immagino che, nuovi come sono, ti facciano male».

«Un po’». Avevo la sensazione che sulle piante dei piedi fosse finito lo spazio per le vesciche.

«Spero che domani riusciremo a vedere l’orso. Sono un po’ deluso».

«Sì, anch’io», feci sarcastica. «Forse con un po’ di fortuna riusciremo a farci mangiare, domani!».

«Gli orsi non mangiano le persone. Non gli piace il nostro sapore». Mi sorrise, nell’oscurità dell’abitacolo. «Certo, tu potresti essere un’eccezione. Scommetto che hai un buon sapore».

«Molte grazie», risposi e guardai altrove. Non era il primo a farmi quel complimento.

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