17 Ospite

Innaturalmente statica e pallida, con i grandi occhi neri fissi sul mio volto, l’ospite mi attendeva immobile al centro del corridoio, bella da non credere.

All’istante mi tremarono le ginocchia, quasi caddi a terra. Poi corsi verso di lei. «Alice, oh, Alice!», gridai abbracciandola forte. Avevo dimenticato quanto fosse dura; fu come gettarsi di corsa contro una parete di cemento.

«Bella?». Nella sua voce c’era un curioso misto di sollievo e confusione.

Mi strinsi a lei, respirando a fondo per godermi il più possibile quel profumo meraviglioso. Non somigliava a nient’altro: non ai fiori, né agli agrumi, né al muschio. Non c’era fragranza al mondo capace di reggere il confronto. I miei ricordi non gli rendevano giustizia.

Non mi resi conto che i respiri si erano trasformati in qualcos’altro. Capii di essere scoppiata a piangere soltanto quando Alice mi trascinò sul divano e mi fece sedere in braccio a lei. Era come raggomitolarsi addosso a una roccia fredda, ma modellata a misura del mio corpo. Mi massaggiò la schiena con delicatezza, in attesa che riprendessi il controllo.

«Scusa...», farfugliai. «Sono soltanto... felicissima... di rivederti!».

«Tranquilla, Bella. Va tutto bene».

«Sì», risposi tra le lacrime. Per una volta sembrava fosse proprio così.

Alice sospirò. «Dimenticavo quanto fossi esuberante», disse, critica.

La guardai con gli occhi gonfi di lacrime. Il suo collo era rigido, cercava di starmi lontana, le labbra sigillate. Gli occhi erano neri come il carbone.

«Ah», sospirai e compresi il problema. Aveva sete. E io profumavo di buono. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui avevo dovuto badare a certi particolari. «Scusa».

«È colpa mia. Non vado a caccia da troppo tempo. Non va bene che mi riduca ad avere così sete. Ma oggi ero di fretta». Con uno sguardo mi trafisse. «A proposito, potresti spiegarmi come mai sei ancora viva?».

Quelle parole arrestarono le lacrime e mi fecero rinsavire. Capii subito ciò che doveva essere accaduto e il perché della presenza di Alice.

Deglutii rumorosamente. «Mi hai vista cadere».

«No», ribatté torva. «Ti ho vista saltare».

Incerta, tentai di pensare a una scusa che non mi facesse passare per pazza.

Alice scosse la testa. «Gli ho detto che prima o poi sarebbe successo, ma non mi ha creduto. “Bella me l’ha promesso”». Lo imitò talmente bene da immobilizzarmi in una fitta di dolore. «“E non andare a sbirciare nel suo futuro”», aggiunse, imitandolo ancora. «“Abbiamo già fatto abbastanza danni”. Ma il fatto che io non sbirci non significa che non veda», proseguì. «Non ti stavo tenendo d’occhio, Bella, te lo giuro. Il fatto è che sono talmente in sintonia con te... Quando ti ho vista saltare, non ci ho pensato un attimo e sono salita sul primo aereo. Sapevo che era troppo tardi, ma non potevo restare impassibile. Poi sono venuta qui, pensando che in qualche modo avrei potuto dare una mano a Charlie, e a un certo punto, spunti fuori». Scosse di nuovo la testa, confusa. Nella sua voce c’era un velo di sofferenza. «Ti ho vista buttarti in acqua e ho aspettato a lungo senza vederti riaffiorare. Cos’è successo? E come hai potuto fare una cosa simile a Charlie? Non ti sei fermata a pensare alla conseguenze? E mio fratello? Hai la minima idea di cosa Edward...».

Le feci segno di tacere non appena pronunciò il suo nome. Il fraintendimento era chiaro, ma finora l’avevo lasciata parlare soltanto per sentire l’intonazione perfetta della sua voce. «Alice, non ho tentato il suicidio».

Mi guardò, dubbiosa. «Mi stai dicendo che non ti sei buttata da uno scoglio?».

«No, ma...». Feci una smorfia. «È stato soltanto per svagarmi un po’».

S’irrigidì.

«Ho visto certi amici di Jacob tuffarsi dalla scogliera», insistetti. «Mi sembrava una cosa... divertente, ed ero così annoiata...».

Mi lasciò parlare.

«Non ho pensato che la tempesta potesse influenzare le correnti. Anzi, non ho pensato affatto all’acqua».

Non se la beveva. Era sempre convinta che avessi tentato di suicidarmi. Decisi di cambiare discorso. «Ma se nell’acqua hai visto me, come hai fatto a non notare Jacob?».

Chinò la testa di lato, distratta.

Proseguii. «È vero, probabilmente sarei affogata se lui non si fosse tuffato a prendermi. Anzi, sicuramente. Per fortuna si è tuffato, mi ha tirata fuori e riportata sulla spiaggia, anche se quella parte temo di essermela persa. Mi ha afferrata meno di un minuto dopo il tuffo. Come mai non ci hai visti entrambi?».

Aggrottò le sopracciglia, perplessa. «Qualcuno ti ha tirata fuori?».

«Sì. È stato Jacob a salvarmi».

La guardai, curiosa, mentre una gamma di emozioni enigmatiche scorreva sul suo viso. Qualcosa la preoccupava: le sue visioni imperfette? Non ne ero certa. Poi si chinò ad annusarmi la spalla.

Restai impietrita.

«Non dire stupidaggini», mormorò senza smettere di annusare.

«Che fai?».

Ignorò la mia domanda. «Chi c’era là fuori con te, poco fa? Sembrava stessi discutendo».

«Jacob Black. È... il mio migliore amico, più o meno. Anzi, lo era...». Ripensai all’espressione furiosa e tradita di Jacob e mi chiesi cosa fosse lui per me, a quel punto.

Alice annuì, sembrava preoccupata.

«Che c’è?».

«Non so», rispose. «Non so che senso abbia».

«Be’, se non altro non sono morta».

Alzò gli occhi al cielo. «È stato un folle a pensare che potessi sopravvivere da sola. Sei una calamita che attira disgrazie e incidenti assurdi».

«Sono sopravvissuta», ribadii.

Stava pensando ad altro. «Ma dimmi, se la corrente era troppo forte per te, come ha fatto questo Jacob a cavarsela?».

«Jacob è... più forte».

Si accorse della mia voce traballante e alzò le sopracciglia.

Per un istante restai senza parole. Era un segreto, o no? E ammesso che lo fosse, a chi dovevo restare fedele? A Jacob o Alice?

Mantenere un segreto era troppo difficile. Se Jacob sapeva tutto, perché non parlarne anche con Alice?

«Be’, ecco, lui è una specie di... licantropo», confessai d’un colpo. «I Quileute si trasformano in lupi, in presenza dei vampiri. Conoscono Carlisle da un sacco di tempo. Tu vivevi già con lui?».

Alice restò a fissarmi a bocca aperta per qualche istante, poi si riprese con un rapido battito di ciglia. «Be’, questo di sicuro spiega l’odore», mormorò. «Ma allora, perché non l’ho visto?». Aggrottò le sopracciglia e corrugò la fronte di porcellana.

«L’odore?».

«Hai un odore tremendo», commentò distratta e torva. «Un licantropo? Ne sei sicura?».

«Eccome», confermai, e trasalii al pensiero di Paul e Jacob che litigavano sulla strada. «Immagino che tu non vivessi con Carlisle, l’ultima volta che ci sono stati i licantropi a Forks».

«No. Non l’avevo ancora trovato». Restò persa nei propri pensieri. All’improvviso strabuzzò gli occhi e si voltò a guardarmi, spaventata. «Il tuo migliore amico è un licantropo?».

Annuii, rassegnata.

«Da quanto tempo va avanti?».

«Non da molto», dissi, sulla difensiva. «Si è trasformato poche settimane fa».

Mi fulminò con lo sguardo. «Un licantropo giovane? Ancora peggio! Edward aveva ragione: sei una calamita che attira disgrazie. Non dovevi tenerti alla larga dal pericolo?».

«I licantropi non sono pericolosi», borbottai, stizzita dal suo atteggiamento critico.

«Finché non perdono la calma». Scosse la testa con un movimento secco. «Sono fatti tuoi, Bella. Chiunque altro sarebbe stato felice della fuga dei vampiri. Tu invece decidi di fartela con il primo mostro che passa».

Non volevo litigare con Alice—tremavo ancora di gioia al pensiero che fosse lì, in carne e ossa, che potessi toccare la sua pelle di marmo e sentire lo scampanellio della sua voce—ma non aveva capito nulla.

«No, Alice, i vampiri non se ne sono andati. Non tutti. Questo è il problema. Se non fosse stato per i licantropi, a questo punto Victoria mi avrebbe già uccisa. Anzi, se non fosse stato per Jake e i suoi amici, Laurent l’avrebbe preceduta, credo, perciò...».

«Victoria?», sibilò. «Laurent?».

Annuii, vagamente allarmata dall’espressione dei suoi occhi neri. Indicai il mio petto. «Attiro disgrazie, non dimenticarlo».

Scosse di nuovo la testa. «Racconta... dall’inizio».

Saltai l’inizio, per non dirle delle moto né delle voci, ma le raccontai il resto, fino alla disavventura del pomeriggio. Alice non gradì il mio debole alibi riguardo la noia e gli scogli, perciò mi affrettai a dirle della strana fiamma che avevo visto brillare sul mare, spiegandole cosa pensavo che fosse. A quel punto mi fissò cupa. Era strano vederla così pericolosa... come un vampiro. Nervosa, proseguii il racconto parlandole di Harry.

Mi ascoltò senza interrompermi. Di tanto in tanto scuoteva la testa e aggrottava le sopracciglia tanto da fare apparire una ruga profonda che ne segnava la pelle marmorea. Non aprì bocca finché non tacqui, investita per l’ennesima volta dal lutto per la morte di Harry. Ripensai a Charlie; presto sarebbe tornato. In che condizioni l’avrei trovato?

«La nostra partenza non è stata affatto un bene per te, eh?», mormorò Alice.

Feci una risata, un suono vagamente isterico. «Non è questo il problema. Non ve ne siete andati per fare un favore a me».

Alice abbassò lo sguardo per un istante. «Be’... temo di essere stata troppo impulsiva oggi. Probabilmente avrei dovuto farmi gli affari miei».

Impallidii all’istante e mi si chiuse lo stomaco. «Non andare, Alice», sussurrai. Strinsi con le dita il colletto della sua camicia bianca e andai in iperventilazione. «Per favore, non lasciarmi».

Spalancò gli occhi. «Va bene», disse pronunciando ogni parola con lentezza e precisione. «Stanotte non andrò da nessuna parte. Fai un respiro profondo».

Cercai di obbedire ma non sentivo più i polmoni.

Mi guardò in faccia, mentre mi concentravo sulla respirazione. Attese che mi calmassi, prima di parlare di nuovo.

«Sei conciata male, Bella».

«Ricorda che oggi sono annegata».

«Non è quella la ragione. Sei uno straccio».

Rabbrividii. «Senti, sto facendo del mio meglio».

«In che senso?».

«Non è stato facile. Ci sto lavorando».

«Gliel’avevo detto», mormorò tra sé.

«Alice», sospirai. «Cosa pensavi di trovare? Cioè, nel caso non fossi morta? Speravi che fossi qui a fischiettare spensierata? Sai bene come sono fatta».

«Certo. Ma un po’ ci speravo».

«Allora non ho l’esclusiva delle illusioni stupide».

Squillò il telefono.

«Questo è Charlie», dissi e scattai in piedi. Presi la mano granitica di Alice e la guidai in cucina assieme a me. Non volevo perderla di vista.

«Charlie?», risposi.

«No, sono io», disse Jacob.

«Jake!».

Alice osservava la mia espressione.

«Volevo soltanto assicurarmi che fossi ancora viva», disse acido.

«Sto bene. Te l’ho detto, non...».

«Sì, capito. Ciao».

E riappese.

Con un sospiro, chinai la testa all’indietro e fissai il soffitto. «Sarà un bel problema».

Alice mi strinse la mano. «Non sono entusiasti della mia presenza».

«Proprio no. Ma d’altronde, non sono affari loro».

Mi cinse con un braccio. «E ora, cosa facciamo?». Sembrava parlasse da sola. «Cose da fare, fili da riannodare...».

«Che intenzioni hai?».

Rispose senza sbilanciarsi. «Non so bene... devo parlarne con Carlisle».

Voleva già andarsene? Il mio stomaco protestò.

«Non puoi rimanere?», la implorai. «Per favore... Soltanto per un po’. Mi sei mancata tanto». La voce mi si spezzò.

«Se pensi che sia una buona idea». Non sembrava felice.

«Sì. Puoi stare qui. E Charlie ne sarebbe contento».

«Ho già una casa, Bella».

Annuii, delusa ma rassegnata. Lei, in silenzio, mi studiò.

«Be’, lasciami almeno andare a recuperare il bagaglio».

La abbracciai. «Alice, sei grande!».

«E penso che mi toccherà anche andare a caccia. Subito», aggiunse esausta.

«Ops». Feci un passo indietro.

«Riesci a non cacciarti nei guai per un’ora soltanto?», chiese, scettica. Poi, prima che potessi risponderle, alzò un dito e chiuse gli occhi. Per qualche secondo la sua espressione si fece neutra, rilassata.

Poi riaprì gli occhi: «Sì, te la caverai. Per stanotte, se non altro». Fece una smorfia, ma continuava a somigliare a un angelo.

«Tornerai?», chiesi sottovoce.

«Te lo prometto. Tra un’ora».

Guardai l’orologio sopra il tavolo della cucina. Lei rise e si chinò, svelta, per baciarmi sulla guancia. Poi sparì.

Respirai a fondo. Alice sarebbe tornata, lo sapevo. All’istante mi sentii molto meglio.

Avevo parecchie cose da fare che mi avrebbero tenuta occupata durante l’attesa. In cima alla lista c’era una doccia, senz’altro. Mentre mi svestivo mi annusai le spalle, ma non sentii altro che salsedine e alghe dell’oceano. Chissà quale odoraccio aveva incuriosito Alice.

Una volta ripulita, tornai in cucina. Non c’erano segni recenti del passaggio di Charlie, probabilmente sarebbe rientrato affamato. Mi diedi da fare, canticchiando a bocca chiusa.

Mentre lo stufato del giorno prima girava nel microonde, sul divano preparai le lenzuola e un vecchio cuscino. Alice non ne aveva bisogno, ma era meglio che Charlie lo vedesse. Badai a non guardare l’orologio. Inutile farmi prendere dal panico: Alice aveva promesso.

Mangiai alla svelta, senza sentire il sapore della cena perché il dolore del cibo che sfregava conto la mia gola scorticata era troppo forte. Più che altro, avevo sete; finii per bere un litro e mezzo d’acqua.

Poi pensai di guardare un po’ di TV nell’attesa.

Alice, già tornata, si era seduta sul letto improvvisato. Le sue pupille erano liquide e ambrate. Sorrise e tamburellò sul cuscino. «Grazie».

«Sei in anticipo», dissi, rasserenata.

Mi accomodai vicino a lei e posai la testa sulla sua spalla. Lei mi cinse con le braccia fredde e sospirò.

«Bella. Cosa dobbiamo fare con te?».

«Non lo so neanch’io. Ho davvero cercato di fare del mio meglio».

«Ti credo».

Restammo in silenzio.

«Ma... lui...». Feci un respiro profondo. Pronunciare il suo nome ad alta voce era più difficile, anche se ora riuscivo a nominarlo mentalmente. «Edward sa che sei qui?», non potei trattenermi. Dopotutto, era la fonte del mio dolore. Promisi a me stessa che ci avrei fatto i conti dopo che Alice se ne fosse andata e a quel pensiero fui assalita dalla nausea.

«No».

C’era una sola spiegazione alla sua risposta. «Non vive con Carlisle ed Esme?».

«Va a trovarli di tanto in tanto».

«Ah». Probabilmente si stava distraendo ben bene. Concentrai la mia curiosità su un argomento più rassicurante. «Hai detto di essere venuta in aereo... da dove arrivi?».

«Sono stata a Denali. A trovare la famiglia di Tanya».

«Jasper è là? È venuto con te?».

Scosse la testa. «Non è d’accordo con il mio intervento. Abbiamo promesso...». La sua voce si perse e cambiò tono. «Credi che Charlie accetterà di ospitarmi?», chiese preoccupata.

«Charlie ti considera una ragazza meravigliosa, Alice».

«Be’, lo scopriremo presto».

Infatti, pochi secondi dopo sentii il rumore dell’auto della polizia che parcheggiava sul vialetto. Saltai in piedi e corsi ad aprire la porta.

Charlie si trascinava lento, lo sguardo incollato a terra e le spalle curve. Gli andai incontro; non si accorse di me finché non mi strinsi a lui. Restituì l’abbraccio con vigore.

«Mi dispiace tanto per Harry, papà».

«Mi mancherà, sul serio», mormorò.

«Sue come sta?».

«È fuori di sé, sembra che non se ne sia ancora resa conto. Sam è rimasto da lei...». La sua voce andava e veniva. «Poveri ragazzi. Seth ha quattordici anni, Leah soltanto uno in più di te...». Scosse la testa.

Senza sciogliere l’abbraccio, ci dirigemmo verso la porta.

«Ehm, papà?». Forse era meglio avvertirlo. «Non indovinerai mai chi è venuto a trovarci».

Mi guardò, incerto. Diede una rapida occhiata alla Mercedes parcheggiata, la cui vernice nera metallizzata scintillava alla luce della veranda. Prima che potesse reagire, Alice spuntò in corridoio.

«Salve, Charlie», disse, esitante. «Mi dispiace di essere arrivata nel momento sbagliato».

«Alice Cullen?». Scrutò verso la sagoma slanciata davanti a lui, come se non credesse ai propri occhi. «Alice, sei tu?».

«Sì, sono io. Ero da queste parti».

«E Carlisle?».

«No, sono sola».

Io e Alice sapevamo bene che non era di Carlisle che gli interessava sapere. Charlie mi strinse la spalla.

«Può restare questa notte, vero?», implorai. «Gliel’ho già chiesto».

«Ma certo», fu la risposta meccanica di Charlie. «È un piacere, Alice».

«Grazie Charlie. So che è un momento tremendo».

«No, davvero, tutto a posto. Io sarò occupatissimo a fare il possibile per la famiglia di Harry. Mi fa piacere che ci sia qualcuno a tenere compagnia a Bella».

«La tua cena è in tavola, papà».

«Grazie, Bells». Mi strinse un’ultima volta, prima di sgattaiolare in cucina.

Seguii Alice sul divano. Fu lei, stavolta, a stringermi contro la sua spalla.

«Sembri stanca».

«Sì», risposi e scrollai il capo. «È l’effetto che mi fanno le esperienze di morte apparente... E allora, come ha preso Carlisle la notizia che sei qui?».

«Non lo sa ancora. Lui ed Esme erano fuori a caccia. Ci sentiremo tra qualche giorno, quando torneranno».

«A lui non dirai niente... quando tornerà, vero?». Comprese che non mi riferivo a Carlisle.

«No. Mi staccherebbe la testa a morsi», rispose Alice, cupa.

Feci una risata e un sospiro.

Non volevo dormire. Desideravo restare sveglia tutta la notte a parlare con Alice. Difficile essere stanca dopo il sonno pomeridiano sul divano di Jacob. Ma finire quasi annegata mi aveva svuotato di ogni energia possibile e non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Posai la testa contro la sua spalla marmorea e mi lasciai trascinare da un oblio più piacevole di quanto potessi sperare.

Mi svegliai presto, affiorando da un sonno profondo e senza sogni, riposata ma anche intorpidita. Ero sul divano, sotto le lenzuola preparate per Alice, e la sentivo chiacchierare con Charlie in cucina. A quanto pare, le aveva preparato la colazione.

«È stato un brutto colpo, vero, Charlie?», chiese con dolcezza Alice, e sulle prime pensai che parlassero dei Clearwater.

Charlie sospirò. «Bruttissimo».

«Raccontami, per favore. Voglio sapere cos’è successo dopo che ce ne siamo andati».

Ci fu un momento di silenzio, rotto dal rumore di un’anta che si chiudeva e dell’accensione del forno. Restai in attesa, con il fiato sospeso.

«Non mi sono mai sentito così impotente», disse Charlie, lentamente. «Non sapevo che fare. La prima settimana ho temuto di doverla ricoverare. Non mangiava, non beveva, non si muoveva. Il dottor Gerandy parlava di “catatonia”, ma ho sempre impedito che la visitasse. Temevo di spaventarla».

«Però poi si è tirata su, no?».

«Ho chiesto a Renée di portarla in Florida. Non volevo essere io... se ci fosse stato bisogno di un ricovero o qualcosa del genere. Speravo che la vicinanza della madre potesse aiutarla. Poco prima di fare le valigie, però, ha riacquistato le forze. Non ho mai visto Bella in preda a una collera simile. Non è mai stato da lei lasciarsi andare a certi sfoghi, ma, caspita, che furia. Buttava i vestiti dappertutto, urlava che non potevo costringerla ad andarsene... e alla fine è scoppiata a piangere. Ho sperato che fosse il punto di svolta. Non mi sono opposto quando ha insistito per rimanere qui... e sulle prime è sembrata persino migliorare...». Charlie tacque. Io ascoltavo, tutta orecchi, conscia del dolore che gli avevo provocato.

«Ma?», lo interruppe Alice.

«È tornata a scuola e al lavoro, ha ricominciato a mangiare, dormire e fare i compiti. Quando qualcuno le faceva una domanda, rispondeva. Ma era... vuota. Nei suoi occhi non c’era niente. Lo si capiva dai dettagli: non ascoltava più musica... ho trovato un mucchio di CD rotti nella spazzatura. Non leggeva, non riusciva a sopportare la TV accesa... non che prima ne guardasse molta. Alla fine, ho capito che cercava di evitare qualsiasi cosa potesse ricordarle... lui.

Non parlavamo più, temevo sempre di poter dire qualcosa che l’avrebbe sconvolta. Bastava un dettaglio per farla scattare. E lei non prendeva mai l’iniziativa. Rispondeva soltanto se le si rivolgeva una domanda. Passava il tempo da sola, sempre. Dimenticava di richiamare le amiche e a un certo punto anche quelle hanno smesso di farsi vive.

Era come la notte dei morti viventi. La sento ancora urlare nel sonno...».

Quasi lo vedevo tremare. Anch’io sentii un fremito, ripensando a quei momenti. Poi sospirai. Non ero mai riuscita a ingannarlo, neppure per un istante.

«Mi dispiace tanto, Charlie», disse Alice amareggiata.

«Non è colpa tua». A giudicare dal tono, era sicuro che il responsabile fosse qualcun altro. «Tu sei sempre stata una buona amica».

«Mi sembra che stia meglio, adesso».

«Sì. Da quando ha iniziato a frequentare Jacob Black, ho notato un netto miglioramento. Ha ripreso un po’ di colore, lo sguardo è un po’ più vivo. È più felice». Fece una pausa e riprese con un tono di voce diverso. «Jacob ha un anno in meno di lei, credo; una volta lo considerava un amico, ma penso che a questo punto ci sia qualcosa di più, o potrebbe esserci». Sembrava pronunciasse una dichiarazione di guerra. Era un avvertimento, che Alice avrebbe dovuto riferire. «Jake dimostra più dell’età che ha», continuò, sempre sulle sue. «Si è preso cura dei problemi fisici di suo padre allo stesso modo in cui Bella ha affrontato quelli emotivi della propria madre. È maturato in fretta. E poi, è anche un bel ragazzo: ha preso tutto dalla mamma. Insomma, è perfetto per Bella», insistette Charlie.

«Per fortuna c’è lui, quindi», aggiunse Alice.

Charlie fece un sospiro pesante, pronto ad approfittare della mancanza di opposizione. «Be’, forse l’ho fatta più grande di quanto sia. Non lo so... anche con Jacob, di tanto in tanto le vedo una luce strana negli occhi e temo di non avere mai capito davvero la sua sofferenza. Non è normale, Alice, e... mi fa paura. Non è affatto normale. Non è come quando... ci si lascia, ma come quando muore qualcuno». La sua voce si spense.

, era come se qualcuno fosse morto. Come se fossi morta io. Era stato molto peggio che perdere l’amore più vero, cosa che, da sola, era sufficiente a uccidere. Avevo perso un futuro, una famiglia, la vita che avevo scelto...

Charlie proseguì, senza entusiasmo. «Non so se ce la farà mai a uscirne. Non sono sicuro che la sua natura la possa guarire da una ferita simile. È costante e testarda, da sempre. Non si lascia mai niente alle spalle, non è capace di cambiare idea».

«È davvero unica», aggiunse Alice, secca.

«E poi, Alice...», accennò Charlie. «Ecco, sai quanto bene io ti voglia, e sono sicuro che Bella sia felice di rivederti, ma... sono un po’ preoccupato delle conseguenze di questa visita».

«Anch’io, Charlie, anch’io. Non sarei venuta se avessi sospettato qualcosa. Scusa».

«Non scusarti, piccola. Chi lo sa? Magari si sentirà meglio».

«Spero che tu abbia ragione».

Seguì una lunga pausa in cui le forchette ricominciarono a grattare i piatti, mentre Charlie masticava. Chissà dove nascondeva il cibo Alice.

«Alice, devo farti una domanda», disse mio padre, in imbarazzo.

«Chiedi pure», rispose lei tranquilla.

«Non tornerà anche lui a trovarla, vero?». Nella voce di Charlie sentivo la rabbia soffocata.

La risposta di Alice fu dolce e rassicurante. «Non sa nemmeno che sono qui. L’ultima volta che ci siamo sentiti, era in America Latina».

Rimasi di stucco all’informazione e drizzai le orecchie.

«È già qualcosa», sbuffò Charlie. «Be’, spero per lui che si stia divertendo».

Per la prima volta, la voce di Alice si fece pungente. «Non lo darei per scontato, Charlie». Conoscevo bene la luce che le si accendeva negli occhi quando parlava in quel tono.

Una sedia si allontanò dal tavolo, grattando rumorosa sul pavimento. Probabilmente era Charlie; Alice non avrebbe mai fatto tutto quel chiasso. Qualcuno aprì il rubinetto e sciacquò un piatto.

La discussione su Edward sembrava terminata, perciò decisi di svegliarmi. Mi voltai, saltellando sulle molle per farle cigolare. Poi sbadigliai forte.

La cucina era silenziosa.

Mi stiracchiai con un lamento.

«Alice?», chiesi con tono innocente. La mia voce ancora rauca rendeva più credibile la recita.

«Sono in cucina, Bella», rispose lei. Non sapevo se si era accorta che avevo origliato la conversazione. Era brava a nascondere certe cose.

Charlie fu costretto a uscire: doveva dare una mano a Sue con i preparativi per il funerale. Senza Alice, la giornata sarebbe stata eterna. Ma lei non parlò di ripartire e io badai a non chiederle nulla. Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto, ma cercai di non pensarci.

Parlammo invece della sua famiglia. Di tutti, meno uno.

Carlisle lavorava all’ospedale di Ithaca, di notte, e aveva qualche ora di insegnamento alla Cornell University. Esme stava restaurando una casa del diciassettesimo secolo, un edificio d’epoca, nella foresta a nord della città. Emmett e Rosalie si erano trasferiti per qualche mese in Europa, per il loro ennesimo viaggio di nozze, ma erano già tornati. Anche Jasper frequentava la Cornell, da studente di Filosofia. Alice aveva svolto qualche ricerca a proposito delle informazioni che le avevo rivelato per caso la primavera precedente. Era riuscita a individuare il manicomio in cui aveva trascorso gli ultimi anni della propria vita da essere umano. La vita di cui non aveva alcun ricordo.

«Mi chiamavo Mary Alice Brandon», mi raccontò tranquilla. «Avevo una sorella minore di nome Cynthia. Sua figlia—mia nipote—è ancora viva, abita a Biloxi».

«Hai scoperto perché ti hanno rinchiusa... là?». Non riuscivo a capacitarmi che un padre a una madre facessero una scelta simile. Anche se la figlia avesse visto nel futuro...

Lei scosse la testa, uno sguardo pensieroso nei suoi occhi color topazio. «Non sono riuscita a scoprire granché. Ho spulciato tutti i vecchi quotidiani. Non si parlava della mia famiglia, non facevano parte della classe sociale che finiva sui giornali. Ho trovato solo l’annuncio del loro fidanzamento, e di quello di Cynthia». Pronunciò quel nome incerta. «L’annuncio della mia nascita... e della mia morte. Ho trovato la mia tomba. E rubato ai vecchi archivi del manicomio i miei documenti di ammissione. La data di entrata nell’istituto e quella della mia morte coincidono».

Non sapevo come rispondere e, dopo una breve pausa, Alice passò a un argomento più leggero.

I Cullen erano tornati a vivere tutti assieme, con una sola eccezione, e avevano trascorso le vacanze pasquali della Cornell a Denali, assieme alla famiglia di Tanya. Persino le notizie irrilevanti erano per me fondamentali. Evitò di darmi quella che più mi interessava e gliene fui grata. Mi bastava ascoltare i racconti della famiglia di cui un tempo avevo sognato di fare parte.

Charlie tornò a tarda sera e sembrava ancora più esausto del giorno precedente. Andò a letto presto perché il funerale di Harry si sarebbe svolto di primo mattino, alla riserva. Io restai sul divano con Alice.


Quando scese le scale, prima dell’alba, Charlie era reso irriconoscibile da un vecchio abito che non gli avevo mai visto indosso. Teneva la giacca aperta, probabilmente troppo stretta per allacciare i bottoni. La cravatta era troppo larga, per niente alla moda. Si avvicinò alla porta in punta di piedi per non svegliarci. Lo lasciai passare e finsi di dormire, come Alice, che era sulla poltrona.

Uscito Charlie, Alice si alzò in piedi. Sotto la trapunta, era vestita.

«E allora, che facciamo oggi?», chiese.

«Non so... vedi qualcosa di interessante?».

Sorrise e fece cenno di no. «È ancora presto».

Con tutto il tempo passato a La Push, avevo trascurato parecchio le faccende di casa, perciò cercai di recuperare. Desideravo fare qualcosa, qualsiasi cosa che potesse rendere più facile la vita a Charlie. Forse si sarebbe sentito meglio se rientrando avesse trovato la casa pulita e ordinata. Iniziai dal bagno: la stanza che mostrava i segni più evidenti dell’incuria.

Mentre mi davo da fare, Alice, appoggiata allo stipite della porta, mi chiedeva con naturalezza notizie dei miei... be’, dei nostri compagni di scuola e di cos’avessero combinato da quando era partita. La sua espressione era rilassata e impassibile, ma notai la sua disapprovazione, quando si rese conto che avevo pochissimo da raccontare. O forse mi sentivo in colpa dopo aver origliato la conversazione tra lei e Charlie, il mattino precedente.

Ero letteralmente immersa nel detersivo, intenta a strofinare il fondo della vasca da bagno, quando suonò il campanello.

Il mio sguardo corse ad Alice, perplessa, quasi preoccupata, il che era strano: Alice non si faceva mai cogliere di sorpresa.

«Arrivo!», urlai verso la porta d’ingresso, alzandomi e correndo al lavandino per sciacquarmi le braccia.

«Bella», disse Alice con un’ombra di frustrazione nella voce. «Credo proprio di aver capito chi è e forse è opportuno che me ne vada».

«Credi?», replicai. Da quando Alice aveva dubbi?

«Se si tratta di una replica del buco percettivo che ho avuto ieri, molto probabilmente è Jacob Black, o un suo... amico».

La fissai e capii. «Non riesci a vedere i licantropi?».

Rispose con una smorfia. «A quanto pare, no». Ne era palesemente—anzi, parecchio—irritata.

Il campanello suonò di nuovo: due squilli brevi e impazienti.

«Non devi andare da nessuna parte, Alice. Sei arrivata prima tu».

Scoppiò in quella sua risata cristallina, ma stavolta inquieta. «Credimi. Non è una buona idea che io e Jacob Black ci troviamo nella stessa stanza».

Mi baciò la guancia, svelta, e sparì dietro la porta della stanza di Charlie per uscire, ne ero sicura, dalla finestra.

E il campanello squillò un’altra volta.

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