15 I Cullen

Mi risvegliai alla luce smorzata dell’ennesimo giorno di cielo coperto. Ero sdraiata, con un braccio a nascondermi il viso, intontita. Qualcosa, un sogno che chiedeva di essere ricordato, si faceva largo nella mia coscienza. Sbadigliai e mi girai sul fianco, sperando di riaddormentarmi. E di colpo la mia mente fu inondata dalla consapevolezza del giorno prima.

«Ah!». Mi alzai tanto in fretta da avere le vertigini.

«Il tuoi capelli sembrano una balla di fieno... ma mi piacciono». La sua voce serena giungeva dalla sedia a dondolo, nell’angolo.

«Edward! Sei rimasto qui!». Ero felicissima, e mi buttai immediatamente, senza pensarci un istante, in braccio a lui. Nell’attimo in cui mi resi conto del mio gesto, rimasi impietrita, sbalordita dal mio stesso entusiasmo incontrollato. Alzai lo sguardo, temendo di avere fatto un passo di troppo.

Ma lui rideva.

«Certo». Era stupito, ma apparentemente lieto della mia reazione. Mi accarezzava la schiena.

Posai la testa sulla sua spalla, con delicatezza, per respirare il profumo della sua pelle.

«Ero convinta di averti sognato».

«Non sei tanto creativa».

«Charlie!», mi ricordai all’improvviso, saltando su d’istinto e scattando verso la porta.

«È uscito un’ora fa... dopo aver ricollegato la batteria del pick-up, se proprio vuoi saperlo. Devo ammettere che un po’ mi ha deluso. Basterebbe così poco per bloccarti, se fossi decisa a fuggire?».

Mi fermai a riflettere, però senza spostarmi. Desideravo tornare in braccio a Edward ma temevo di avere l’alito pesante.

«Di solito, la mattina non sei così confusa», mi fece notare lui. Aspettava il mio ritorno a braccia aperte. Un invito quasi irresistibile.

«Ho bisogno di un altro minuto umano».

«Ti aspetto».

Filai in bagno, scombussolata. Non riuscivo a decifrare le mie emozioni, non mi riconoscevo più. Il volto riflesso nello specchio era quello di un’estranea: occhi troppo lucidi, guance colorite, chiazzate di rosso. Dopo essermi spazzolata i denti, mi adoperai per sciogliere il caos di nodi che avevo tra i capelli. Mi lavai la faccia con l’acqua fredda e cercai, senza risultati apprezzabili, di respirare normalmente. Tornai in camera mia quasi di corsa.

Ritrovarlo lì, ancora a braccia aperte, era una specie di miracolo. Mi venne incontro, e il mio cuore impazzì.

«Bentornata», mormorò, abbracciandomi.

Per un po’ mi cullò in silenzio, finché non mi accorsi che i vestiti erano diversi e i capelli più ordinati.

«Te ne sei andato?», lo accusai, indicando il colletto della camicia appena indossata.

«Non potevo certo uscire di qui con gli stessi abiti che avevo quando sono entrato... Cosa avrebbero pensato i vicini?».

Lo guardai, imbronciata.

«Stavi dormendo sodo; non mi sono perso niente». Il suo sguardo si accese. «I discorsi li avevi già fatti».

«Cos’hai sentito?», mi uscì con un tono lamentoso.

I suoi occhi dorati mi sfiorarono con uno sguardo dolce. «Hai detto che mi amavi».

«Lo sapevi già», dissi, chinando la testa.

«Però è stato bello sentirlo».

Affondai la faccia nella sua spalla.

«Ti amo», sussurrai.

«Tu sei la mia vita, adesso».

Non ci restava più nulla da dire. Mi cullò, avanti e indietro, fino a quando la luce del giorno non invase la stanza.

«È ora di fare colazione», disse infine, disinvolto, per dimostrare - ne ero certa - di avere sempre presenti le mie debolezze umane.

Allora portai le mani al collo e spalancai gli occhi fissandolo con terrore. La sua espressione tradì che era scioccato.

«Scherzetto!», ridacchiai. «E poi dici che non sono capace di recitare!».

Fece una smorfia di disapprovazione. «Non è stato divertente».

«Invece sì, tanto, e lo sai anche tu». Esaminai i suoi occhi dorati per accertarmi che mi avesse perdonato. Apparentemente, sì.

«Posso riformulare la frase?», chiese. «È ora di fare colazione, per gli umani».

«Ah, d’accordo».

Mi prese in spalla, con gentilezza, ma anche con una velocità che mi lasciò senza fiato. Le sue spalle erano una roccia. Cercai inutilmente di protestare, mentre mi portava giù per le scale senza sforzo. Riuscì a scaricarmi direttamente su una sedia.

La cucina era luminosa, allegra, quasi uno specchio del mio umore.

«Cosa c’è per colazione?», chiesi con tono amabile.

La domanda lo lasciò interdetto qualche istante.

«Ehm, non saprei. Cosa ti piacerebbe mangiare?». Le sue sopracciglia marmoree erano corrugate.

Sorrisi e mi alzai di scatto.

«Benissimo, posso cavarmela da sola senza problemi. Osservami mentre caccio».

Trovai una tazza e una scatola di cereali. Sentivo i suoi occhi su di me, mentre versavo il latte e afferravo un cucchiaio. Disposi il cibo sul tavolo, in silenzio.

«Vuoi che procacci qualcosa anche per te?», chiesi, per non essere scortese.

Alzò gli occhi al cielo. «Mangia e basta, Bella».

Mi accomodai al tavolo, masticando la prima cucchiaiata senza staccargli gli occhi di dosso. Studiava ogni mio movimento. E la cosa mi metteva a disagio. Mi schiarii la gola per parlare, e distrarlo.

«Cos’abbiamo in programma oggi?».

«Mmm...». Lo osservai cercare la risposta. «Che ne dici di venire a conoscere la mia famiglia?».

Restai senza parole.

«Hai paura, adesso?». Sembrava speranzoso.

«In effetti, sì». Non potevo negarlo: me lo leggeva negli occhi.

«Non preoccuparti. Ti proteggerò io», mi rassicurò con un sorrisetto.

«Non ho paura di loro. Temo che non... gli piacerò. Non credi che saranno sorpresi di vederti arrivare assieme a una... come me... a casa loro, per conoscerli? Sanno quel che so di loro?».

«Sanno già tutto. Ieri hanno persino scommesso», accennò una risata, ma poco convinta, «su quante possibilità io abbia di portarti a casa sana e salva, benché mi sembri una stupidaggine scommettere contro Alice. E in ogni caso, nella mia famiglia non ci sono segreti. Non sarebbe proprio concepibile, con me che leggo nel pensiero, Alice che vede il futuro e tutto il resto».

«E Jasper che ti rende felice, contento ed entusiasta di raccontargli i fatti tuoi, non dimentichiamolo».

«Ah, vedo che quando parlo stai attenta».

«Di tanto in tanto capita anche a me». Feci una linguaccia. «Perciò, Alice mi ha già vista arrivare?».

La sua reazione fu strana. «Qualcosa del genere», disse, senza troppo entusiasmo, voltandosi per non mostrarmi il suo sguardo. Lo fissai, curiosa.

«È buono quel che mangi?», domandò, tornando a osservarmi all’improvviso e adocchiando la mia colazione con sguardo malizioso. «Sinceramente, non mette tanto appetito».

«Be’, di certo non è un grizzly permaloso...», mormorai, ignorando la sua reazione seria. Ancora mi stavo interrogando sul perché avesse reagito in quel modo quando avevo nominato Alice. Mi affrettai a finire i cereali, presa dai miei pensieri.

Lui era in piedi al centro della cucina, di nuovo la statua di Adone, intento a fissare l’orizzonte dalla finestra sul retro.

Poi tornò a guardarmi e riecco il sorriso ammaliatore.

«E immagino che poi toccherà a te, presentarmi a tuo padre».

«Ti conosce già», risposi.

«In quanto tuo ragazzo, dico».

Lo fissai con sospetto: «Perché?».

«Non si usa?», chiese, innocente.

«Ti confesso che non lo so». Le mie vicende sentimentali passate mi offrivano poche pietre di paragone. Non che le normali regole del corteggiamento facessero al caso nostro. «Non è necessario, ecco. Non mi aspetto che tu... Cioè, non sei costretto a fingere per me».

Sorrise paziente. «Non sto fingendo».

Raccolsi gli avanzi di cereali sul bordo della tazza. Ero rimasta spiazzata.

«Dirai o no a Charlie che sono il tuo ragazzo?», insistette.

«Lo sei?». Combattevo contro la mia fuga interiore al pensiero di Edward, Charlie, e delle parole “mio ragazzo” nella stessa stanza e nello stesso momento.

«In effetti l’espressione “ragazzo” è qui intesa in senso lato».

«Avevo l’impressione che fossi qualcosa di più, a dir la verità», confessai, spostando lo sguardo sul tavolo.

«Be’, non so se sia il caso di descrivergli anche i dettagli più sanguinolenti». Si avvicinò e, sfiorandomi il mento con un dito freddo e delicato, mi costrinse ad alzare la testa. «Ma senz’altro dovremo giustificare in qualche modo il fatto che ti girerò attorno tanto spesso. Non voglio che l’ispettore Swan ricorra a misure cautelari per vietarmi formalmente di vederti».

«Ti vedrò spesso?», chiesi, impaziente. «Starai qui spesso, davvero?».

«Per tutto il tempo che vuoi».

«Attento, perché ti vorrò sempre. Per sempre».

Girò lentamente attorno al tavolo e, vicino com’era, allungò una mano per sfiorarmi la guancia con le dita. La sua espressione era indecifrabile.

«Quest’idea ti mette tristezza?».

Non rispose. Mi guardò negli occhi per un istante che parve interminabile.

«Hai finito?», chiese infine.

Mi alzai di slancio. «Sì».

«Vestiti. Ti aspetto qui».

Decidere cosa indossare fu difficile. Dubitavo che esistessero dei manuali di bon ton che consigliavano l’abbigliamento giusto per accompagnare il proprio fidanzato vampiro a casa della sua famiglia di vampiri. Era un sollievo pensare a quella parola, tra me e me. Sapevo di averla sempre evitata intenzionalmente.

Finii per scegliere l’unica gonna che avevo: lunga, color cachi, casual. Le abbinai la camicetta blu scuro, che Edward aveva già mostrato di gradire. Un’occhiata veloce allo specchio chiarì che i miei capelli erano totalmente impossibili, perciò li raccolsi a coda di cavallo.

«Okay». Balzai giù dalle scale. «Sono presentabile».

Mi aspettava ai piedi degli scalini, più vicino di quanto pensassi, e mi ci scontrai in pieno. Mi fermò, mi tenne a distanza di sicurezza per qualche secondo e poi mi strinse a sé.

«Sbagliato», sussurrò al mio orecchio. «Sei assolutamente impresentabile. Nessuno dovrebbe essere così attraente: è una tentazione, non è giusto».

«Attraente come?», chiesi. «Posso cambiarmi...».

Fece un sospiro e scosse la testa: «Sei davvero assurda». Mi posò delicatamente le labbra fredde sulla fronte, e la stanza iniziò a girare. Il profumo del suo respiro mi dava alla testa.

«Mi concedi di spiegarti come mi stai inducendo in tentazione?», disse. La domanda era ovviamente retorica. Le sue dita scorrevano lentamente sulla mia schiena e il suo respiro si avvicinava, veloce, alla mia pelle. Tenevo le mani inerti sul suo petto e sentivo le gambe molli. Piegò lentamente la testa e con le sue labbra fredde toccò le mie per la seconda volta, con estrema delicatezza, dischiudendole appena.

A quel punto crollai.

«Bella?». Sembrava allarmato, mentre mi afferrava e mi sollevava.

«Mi... hai... fatta... svenire». Avevo perso le forze.

«Ma cosa devo fare con te?!», esclamò esasperato. «La prima volta che ti bacio, mi assali! La seconda, mi svieni tra le braccia!».

Mi feci sfuggire una debole risata, lasciandomi custodire dal suo abbraccio, mentre mi girava la testa.

«E meno male che sono bravo in tutto», sospirò.

«Questo è il problema», dissi, ancora intontita. «Sei troppo bravo. Troppo, troppo bravo».

«Ti senti male?», chiese. Mi aveva già vista in quello stato.

«No... non è stato affatto come l’altro svenimento. Non so cosa sia successo». Cercavo di scusarmi, scuotendo la testa. «Penso di aver dimenticato di respirare».

«Non posso portarti da nessuna parte, in queste condizioni».

«Guarda che sto bene. E poi, i tuoi penseranno comunque che sono pazza, perciò... che differenza fa?».

Per un istante rimase a studiarmi. «Ho un debole per come quel colore si sposa con la tua carnagione», commentò, a sorpresa. Arrossii, lusingata, e guardai altrove.

«Ascolta, sto cercando con tutte le mie forze di non pensare a ciò che sto per fare, perciò possiamo andare?», implorai.

«E sei preoccupata, non perché stai per conoscere una famiglia di vampiri, ma perché temi che questi vampiri non ti approveranno, giusto?».

«Giusto», risposi immediatamente, dissimulando la sorpresa per la disinvoltura con cui aveva detto “vampiri”.

Scosse il capo. «Sei incredibile».

Mentre uscivamo dalla città, con Edward al volante del mio pick-up, mi resi conto di non sapere affatto dove vivesse. Oltrepassammo il ponte sul fiume Calawah e proseguimmo lungo le curve della strada che puntava verso nord; le case che ci sfrecciavano accanto si facevano sempre più rare e grandi. Superate le ultime abitazioni, ci ritrovammo in mezzo alla foresta nebbiosa. Ero indecisa se fare domande o essere paziente, quando all’improvviso Edward deviò su una strada sterrata, non segnalata e appena visibile in mezzo ai cespugli. Si inoltrava nella foresta, tra la vegetazione che consentiva una visibilità di pochi metri appena, e serpeggiava in mezzo agli alberi secolari.

Poi, dopo qualche chilometro, il bosco iniziò a diradarsi, e ci ritrovammo in una piccola radura, o forse addirittura un giardino. L’oscurità della foresta, però, non veniva meno, perché l’intrico dei rami di sei antichissimi cedri faceva ombra su un acro intero. L’ombra protettiva degli alberi giungeva fino alle mura della casa che svettava in mezzo e rendeva inutile l’ampia veranda che circondava il primo piano.

Non avevo pensato prima a cosa mi aspettasse, ma rimasi comunque sorpresa. La casa era senza tempo, decorosa, probabilmente vecchia di un secolo. Era dipinta di un bianco leggero, stinto, alta tre piani, rettangolare e ben proporzionata. Le finestre e le porte erano originali, oppure perfettamente restaurate. Il mio pick-up era l’unica auto in vista. Sentivo il fiume scorrere nei dintorni, nascosto nell’oscurità della foresta.

«Accidenti».

«Ti piace?».

«Ha... un certo fascino».

Mi tirò per la coda e fece un risolino.

«Pronta?», chiese, aprendomi la portiera.

«Nemmeno un po’. Andiamo». Mi sforzai di ridere, ma la voce mi restò in gola. Mi aggiustai i capelli, nervosa.

«Sei molto carina». Mi prese la mano con disinvoltura, senza pensarci.

Attraversammo l’ombra scura fino alla veranda. Sapevo che percepiva la mia tensione; con il pollice, disegnava cerchi sul dorso della mia mano.

Aprì la porta e mi fece entrare.

L’interno della casa fu ancora più sorprendente, meno prevedibile dell’esterno. Era molto luminoso, arioso e ampio. Probabilmente in origine si trattava di una casa con molte stanze, ma le pareti divisorie del primo piano erano state quasi tutte abbattute per renderlo uno spazio unico. Sul retro si apriva una enorme vetrata, e oltre l’ombra dei cedri il sentiero procedeva scoperto fino all’ampio fiume. Sul lato occidentale della sala spiccava una massiccia scalinata curvilinea. Le pareti, il soffitto a volta, il pavimento di legno e i grossi tappeti erano tutti di diverse tonalità di bianco.

Ad accoglierci, alla nostra sinistra, in piedi su un rialzo occupato da uno spettacolare pianoforte a coda, trovammo i genitori di Edward.

Certo, avevo già conosciuto il dottor Cullen, ma non potevo non essere sorpresa dal suo aspetto giovanile, dalla sua sfacciata perfezione. Al suo fianco c’era Esme, dedussi: era l’unica tra i familiari di Edward che non avessi mai visto. Aveva gli stessi tratti pallidi e bellissimi di tutti loro. Qualcosa, nel suo viso a cuore, negli sbuffi di capelli soffici, color caramello, mi ricordava le svampite dei film muti. Era minuta, esile, ma non per questo ossuta, anzi, pareva più rotonda dei suoi figli. Entrambi erano vestiti in maniera informale, con colori chiari che si accompagnavano bene alle tinte della casa. Ci diedero il benvenuto con un sorriso, ma non si avvicinarono. Probabilmente non volevano terrorizzarmi.

Fu la voce di Edward a spezzare il breve silenzio: «Carlisle, Esme, vi presento Bella».

«Benvenuta, Bella». Carlisle mi venne incontro a passi misurati, attenti. Mi offri una mano, e feci un passo avanti per stringerla.

«È un piacere rivederla, dottor Cullen».

«Chiamami pure Carlisle».

«Carlisle». Gli sorrisi, stupita della mia improvvisa sicurezza. Edward, al mio fianco, si rilassò.

Esme sorrise e si avvicinò anche lei, offrendomi la mano. La sua stretta fredda e forte era proprio come me l’aspettavo.

«È davvero un piacere fare la tua conoscenza», disse, sincera.

«Grazie. Anch’io ne sono lieta». E lo ero. Era come conoscere i protagonisti di una fiaba... Biancaneve in carne e ossa.

«Dove sono Alice e Jasper?», chiese Edward ma nessuno rispose, perché i due erano appena apparsi in cima all’ampia scala.

«Ehi, Edward!», esclamò Alice, entusiasta. Scese le scale di corsa, un lampo di capelli neri e pelle bianca, arrestandosi con grazia di fronte a me. Carlisle ed Esme le lanciarono occhiate di avvertimento, ma io la trovavo divertente. Era naturale, per lei, se non altro.

«Ciao, Bella!», disse, e si sporse per baciarmi sulla guancia. Se poco prima Carlisle ed Esme mi erano sembrati scrupolosi, ora erano impietriti. Anch’io ero sbalordita, ma non meno contenta di avere ricevuto tanta approvazione. Fu una sorpresa sentire Edward irrigidirsi al mio fianco. Gli lanciai uno sguardo, ma la sua espressione era illeggibile.

«Hai davvero un buon odore, non me ne ero mai accorta», commentò lei, con mio grande imbarazzo.

Nessun altro sapeva bene cosa dire, finché non apparve Jasper, alto e leonino. Mi sentii invadere dalla tranquillità, e un istante dopo mi trovavo a mio agio, malgrado l’ambiente così strano. Edward guardò Jasper, perplesso, e ricordai di cos’era capace suo fratello.

«Ciao Bella», disse Jasper. Restò a distanza e non mi offrì la mano. Ma era impossibile sentirsi a disagio se c’era lui nei paraggi.

«Ciao Jasper». Accennai un sorriso timido, prima a lui e poi agli altri. «Sono felice di conoscervi... la vostra casa è bellissima», aggiunsi, poco originale.

«Grazie», rispose Esme. «Siamo davvero contenti che tu sia venuta». Parlò con convinzione e intensità; capii che mi riteneva una ragazza coraggiosa.

Mi accorsi anche che Rosalie ed Emmett non si facevano vedere, e ricordai l’innocenza forzata di Edward nel negare che qualcuno dei suoi fratelli non gradisse la mia presenza.

L’espressione di Carlisle mi distolse da quei pensieri: fissava Edward intensamente come se alludesse a qualcosa. Con la coda dell’occhio scorsi Edward annuire.

Guardai altrove, nel tentativo di comportarmi da persona educata. Tornai al bellissimo strumento sistemato su quella specie di palco, accanto alla porta. Ricordavo d’un tratto una mia fantasia infantile, quando intendevo comprare un pianoforte a coda per mia madre, se mai avessi vinto alla lotteria. Non era mai stata veramente una brava musicista - suonava solo per sé, sul nostro piano verticale di seconda mano - ma mi piaceva starla a guardare. Era felice, assorta: in quei momenti mi sembrava un essere nuovo e misterioso, diverso dal personaggio di “mamma” che davo per scontato. Ovviamente cercò di farmi prendere qualche lezione ma, come la maggior parte dei bambini, mi lagnai fino a convincerla che non era il caso.

Esme notò il mio sguardo assorto.

«Suoni?», chiese, inclinando la testa verso il piano.

Feci cenno di no. «No, per niente. Ma è bellissimo. È tuo?».

Rise. «No. Edward non ti ha detto che è un musicista?».

«No». Sorpresa, mi voltai a scrutarlo: la sua espressione si era fatta improvvisamente innocente. «Immagino che avrei dovuto saperlo».

Esme alzò le sopracciglia delicate, confusa.

«Edward è capace di fare tutto, vero?», dissi.

Jasper soffocò una risata, ed Esme lanciò a Edward un’occhiata di rimprovero.

«Spero che tu non ti sia vantato troppo, non è educato», disse lei.

«Soltanto un po’», si lasciò scappare lui, insieme a una risata. Esme si tranquillizzò, e i due si scambiarono un’occhiata che non riuscii a interpretare, a parte il compiacimento nello sguardo di lei.

«Per la verità, è stato fin troppo modesto», precisai.

«Be’, dai Edward, suona per lei», lo incoraggiò.

«Hai appena detto che è maleducazione», replicò lui.

«Ogni regola ha un’eccezione».

«Mi piacerebbe sentirti suonare», proposi io.

«Siamo d’accordo, allora», ed Esme lo spinse verso il piano. Lui mi trascinò con sé e mi fece accomodare sul seggiolino, al suo fianco.

Prima di abbassare gli occhi sui tasti, mi rivolse uno sguardo esasperato.

Poi le sue dita iniziarono a correre veloci sui tasti d’avorio, e il salone si riempì del suono di una composizione tanto complicata, tanto rigogliosa, da non poter credere che a suonarla fosse un solo paio di mani. Restai a bocca aperta, sorpresa, mentre alle spalle sentivo le risatine di chi si era accorto della mia reazione.

Edward mi guardò di sfuggita, mentre la musica ci avvolgeva senza pause, e mi strizzò l’occhio: «Ti piace?».

«L’hai scritta tu?». Ero senza fiato.

Annui. «È la preferita di Esme».

Chiusi gli occhi e scossi il capo.

«Cosa c’è che non va?».

«Mi sento estremamente insignificante».

La musica rallentò, si trasformò in qualcosa di più morbido, e con grande sorpresa, tra le ondate di note, colsi la melodia della sua ninna nanna.

«Questa l’hai ispirata tu», disse, a bassa voce. La musica si riempì di una dolcezza insostenibile.

Ero senza parole.

«Piaci a tutti, lo sai? Soprattutto a Esme».

Guardai alle mie spalle, ma l’ampio salone era vuoto.

«Dove sono andati?».

«Immagino che, con molto buon senso, ci abbiano concesso un po’ di privacy».

Sospirai. «A loro piaccio. Ma Rosalie ed Emmett...». Non terminai la frase, incapace di esprimere bene i miei dubbi.

Lui aggrottò le sopracciglia. «Non preoccuparti di Rosalie», disse, tentando di convincermi. «Prima o poi si farà vedere».

Lo fissai, scettica: «Emmett?».

«Be’, secondo lui, in effetti, sono pazzo, ma non ce l’ha affatto con te. Sta cercando di far ragionare Rosalie».

«Cos’è che la innervosisce?». Non ero sicura di voler sentire la risposta.

Fece un respiro profondo. «Rosalie è quella più problematica, non si dà pace rispetto a... ciò che siamo. Non è facile per lei pensare che qualcuno di esterno alla famiglia conosca la verità. In più è un po’ gelosa».

«Rosalie è gelosa di me?», chiesi, incredula. Cercai di immaginare un universo in cui una ragazza mozzafiato come Rosalie potesse avere una ragione sensata per sentirsi gelosa di una come me.

«Sei umana». Si strinse nelle spalle. «Vorrebbe esserlo anche lei».

«Ah», mormorai, ancora del tutto sconvolta. «Anche Jasper, però...».

«Quella è colpa mia, in realtà. Te l’ho detto, è stato l’ultimo a convertirsi al nostro stile di vita. L’ho avvertito di mantenere le distanze».

Pensai al motivo di tale esortazione e rabbrividii.

«Esme e Carlisle?», chiesi rapidamente, cercando di procedere con la conversazione perché non badasse alle mie reazioni.

«Sono felici che io sia felice. Anzi, credo che Esme ti apprezzerebbe anche se avessi tre occhi e i piedi palmati. In tutti questi anni si è preoccupata per me, ha sempre temuto che alla mia essenza originale mancasse qualcosa, che fossi troppo giovane quando Carlisle mi ha cambiato... È felicissima. Ogni volta che ti sfioro, gongola di soddisfazione».

«Anche Alice sembra molto... entusiasta».

«Alice ha un modo tutto suo di vedere le cose», disse a labbra strette.

«E tu non hai intenzione di parlarmene, vero?».

Il silenzio con cui rispose era denso di sottintesi. Edward capì che sapevo che mi nascondeva qualcosa. E io intuii che non era disposto a rivelarmelo. Non in quel momento.

«E cosa ti stava dicendo Carlisle, prima?».

Alzò gli occhi di scatto. «Ah, te ne sei accorta?».

Mi strinsi nelle spalle. «Certo».

Mi osservò per qualche secondo, prima di rispondere: «Aveva una notizia per me... e non sapeva se avrei gradito condividerla».

«E?».

«Sono obbligato a condividerla, perché nei prossimi giorni - o settimane - sarò un po’... iperprotettivo nei tuoi confronti e non voglio che tu pensi a me come a un despota».

«Qual è il problema?».

«Nessun problema, per ora. Alice, però, ha visto che presto riceveremo ospiti. Sanno che siamo qui e sono curiosi».

«Ospiti?».

«Sì... be’, ovviamente non sono come noi... quanto ad abitudini di caccia, intendo. Probabilmente non entreranno a Forks, ma non sono intenzionato a perderti di vista finché non se ne saranno andati».

Rabbrividii.

«Finalmente una reazione normale! Iniziavo a temere che non fossi dotata di istinto di sopravvivenza».

Lasciai correre, distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare per il vasto salone.

Edward seguì il percorso dei miei occhi: «Non ti aspettavi questo, eh?». Sembrava compiaciuto.

«In effetti, no».

«Niente bare, niente teschi ammucchiati negli angoli; credo che non ci siano nemmeno ragnatele... chissà che delusione, per te», proseguì, sarcastico.

Evitai di stare al gioco: «È così luminosa... così ariosa».

«È l’unico posto in cui non siamo costretti a nasconderci», rispose in tutta serietà.

La canzone che stava ancora suonando, la mia canzone, veleggiò verso gli ultimi accordi, più malinconici. L’eco dell’ultima nota fu enfatizzata dal silenzio della casa.

«Grazie», sussurrai. Avevo gli occhi lucidi. Li asciugai, imbarazzata.

Avvicinò la punta di un dito alla mia palpebra, catturando una lacrima che mi era sfuggita. Osservò la goccia intrappolata sul polpastrello. Poi, con un gesto rapido, invisibile, la assaggiò.

Lo fissavo, perplessa, e lui mi restituì lo sguardo, immobile per un lunghissimo istante, prima di illuminarsi di un sorriso.

«Vuoi vedere il resto della casa?».

«Niente bare?». Il sarcasmo nella mia voce non mascherava del tutto la leggera, ma sincera, ansia che sentivo.

Rise, prendendomi per mano e allontanandosi dal pianoforte assieme a me.

«Niente bare, te lo prometto».

Salii le scale massicce assieme a lui, sfiorando con le dita il corrimano liscio come la seta. Il lungo corridoio del primo piano era contornato di pannelli di legno color miele, identici a quelli del pavimento.

«La stanza di Rosalie ed Emmett... lo studio di Carlisle... la stanza di Alice...», indicava ogni porta con un gesto.

Avrebbe proseguito, ma io mi arrestai in fondo al corridoio, fissando incredula la decorazione appesa al muro sopra la mia testa. Edward ridacchiò della mia espressione sbalordita.

«Puoi anche ridere», disse. «È ironico, in un certo senso».

Non ci riuscivo. Alzai automaticamente una mano, tentando di sfiorare con un dito la grossa croce di legno, la cui tinta scura contrastava con quella più morbida della parete. Non la toccai, benché fossi curiosa di sentire se quel legno invecchiato fosse liscio come appariva.

«Dev’essere antichissima».

Edward si strinse nelle spalle. «Anni Trenta del diciassettesimo secolo, più o meno».

Distolsi gli occhi dalla croce per guardare lui.

«Perché la conservate qui?».

«Nostalgia. Apparteneva al padre di Carlisle».

«Era un collezionista?».

«No. L’ha costruita lui. Stava sopra il pulpito della chiesa di cui era pastore».

Non sapevo se nei miei occhi si leggesse lo sbalordimento, ma a scanso di equivoci tornai a osservare la croce, antica e disadorna. Mi ci volle poco per fare i conti: aveva più di trecentosettant’anni. Il silenzio ci avvolse, mentre mi sforzavo di immaginare un tempo tanto lungo.

«Tutto bene?», sembrava preoccupato.

«Quanti anni ha Carlisle?», chiesi piano, ignorando la sua domanda, i miei occhi ancora fissi sulla croce.

«Ha appena festeggiato il suo trecentosessantaduesimo compleanno», rispose Edward. Mi voltai, con un milione di domande nello sguardo.

Parlò senza staccarmi gli occhi di dosso.

«Carlisle è quasi certo di essere nato a Londra, negli anni Quaranta del diciassettesimo secolo. All’epoca le date non erano registrate con cura, non per la gente comune. Fu poco prima dell’avvento di Cromwell».

Cercai di mantenere un’espressione composta, mentre ascoltavo. Il che era possibile solo se non mi sforzavo di credergli.

«Era l’unico figlio di un pastore anglicano. Sua madre morì di parto. Suo padre era un uomo intollerante. Quando i protestanti presero il potere, fu molto attivo nella persecuzione dei cattolici e dei seguaci di altre religioni. Credeva anche molto nell’esistenza delle incarnazioni del male. Guidava le cacce alle streghe, ai licantropi... e ai vampiri». La parola mi lasciò impietrita. Edward se ne accorse certamente, ma proseguì senza pause.

«Furono bruciate parecchie persone innocenti: di sicuro le vere creature di cui andavano a caccia non erano così facili da stanare.

Diventato anziano, il pastore cedette il ruolo di guida dei cacciatori al figlio devoto. Sulle prime, Carlisle fu una delusione: non era abbastanza pronto nel condannare, nel vedere demoni dove non ce n’erano. Ma era testardo, e più intelligente del padre. Scoprì un rifugio di veri vampiri, che abitavano le fogne della città e uscivano solo di notte per cacciare. Molti vivevano così, in un’epoca in cui i mostri non erano ritenuti soltanto mito e leggenda.

La folla raccolse le forche e le torce, ovviamente», la sua risata si fece breve e cupa, «e attese, nel punto in cui Carlisle aveva visto che i mostri uscivano. Finché uno di loro non emerse dal sottosuolo».

Parlava a voce molto bassa; per ascoltarlo dovevo tendere l’orecchio.

«Probabilmente era una creatura antica e sfiancata dalla fame. Carlisle lo sentì chiamare gli altri in latino, quando si accorse dell’odore della folla. Iniziò a correre per le strade, e Carlisle - che a ventitré anni era molto veloce - guidava l’inseguimento. La creatura avrebbe potuto agevolmente seminarli, ma era troppo affamata, perciò si voltò e li attaccò. Si avventò su Carlisle, ma dovette difendersi dal resto della folla. Uccise due uomini, scappò con un terzo e lasciò Carlisle a terra, sanguinante».

Fece una pausa. Sentivo che mi stava risparmiando una parte del racconto, per nascondermi qualcosa.

«Carlisle sapeva quale destino gli avrebbe riservato il padre. Avrebbe fatto bruciare i corpi: tutto ciò che il mostro aveva infettato sarebbe stato distrutto. Perciò agì d’istinto, per salvarsi la vita. Strisciò via dal vicolo mentre la folla inseguiva il mostro e la sua vittima. Si nascose in una cantina e restò sepolto per tre giorni sotto dei sacchi di patate andate a male. Fu un miracolo se riuscì a rimanere in silenzio, a non farsi scoprire.

A quel punto era finita, e lui si rese conto di ciò che era diventato».

Si arrestò di colpo, di fronte a chissà quale reazione che mi lesse sul volto.

«Come va?», chiese.

«Bene». Malgrado mi fossi morsa un labbro tradendo un’esitazione, la mia curiosità gli risultò più che evidente.

Sorrise. «Immagino che tu abbia qualche altra domanda in serbo».

«Qualcuna».

Sfoderò un sorriso luminoso. Mi fece strada lungo il corridoio, prendendomi per mano. «Vieni, allora. Ti faccio vedere».

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