24 Impasse

Aprii gli occhi e vidi una luce bianca, abbagliante. Ero in una stanza che non conoscevo, bianca anch’essa. La parete al mio fianco era occupata da lunghe veneziane a stecche, il neon accecante era sopra la mia testa. Mi avevano sistemata su un letto duro e irregolare: un letto con le sbarre. I cuscini erano piatti e bitorzoluti. Da qualche parte, accanto a me, sentivo un fastidioso e continuo bip. Speravo che ciò significasse che ero ancora viva. La morte non poteva essere così scomoda.

Le mie mani erano coperte di tubicini trasparenti, e sentivo qualcosa appiccicato sotto il naso. Cercai di strapparlo.

«Ferma lì». Una mano fredda mi bloccò.

«Edward?». Mi voltai un poco e vidi il suo volto squisito a pochi centimetri dal mio, il mento appoggiato al cuscino. Mi resi conto di essere davvero viva, e stavolta ero felice e grata. «Oh, Edward, mi dispiace tanto!».

«Sssh... adesso è tutto a posto».

«Cos’è successo?». Ricordavo poco, e la mia mente si rifiutava di ricostruire l’accaduto.

«Era quasi troppo tardi. Stavo per arrivare troppo tardi», sussurrò, con voce tormentata.

«Sono stata una stupida, Edward. Pensavo avesse preso mia madre».

«Ci ha imbrogliati tutti».

«Devo chiamare Charlie e la mamma», la consapevolezza si fece strada attraverso la nebbia.

«Li ha chiamati Alice. Renée è qui... be’, è in ospedale. È andata proprio ora a mangiare qualcosa».

«Qui?». Cercai di sedermi, ma la testa iniziò a girarmi più veloce, e le mani di Edward mi riaccompagnarono sul cuscino.

«Tornerà presto, stai tranquilla. Non muoverti».

«Ma cosa le avete detto?», chiesi, nel panico. Non mi interessava essere consolata. Mia madre era lì e io mi stavo riprendendo dall’assalto di un vampiro. «Che cosa le avete raccontato?».

«Che sei caduta da due rampe di scale e hai sfondato una finestra. Devi ammettere che ne saresti capace».

Feci un sospiro, e sentii il dolore. Osservai il mio corpo sotto le coperte, il fardello che avevo al posto della gamba.

«Quanto male mi sono fatta?».

«Hai una gamba rotta, quattro costole incrinate, un trauma cranico, ferite superficiali e contusioni dappertutto, e hai perso molto sangue. Ti hanno fatto qualche trasfusione. Non ho gradito, per un po’ hanno alterato il tuo odore».

«Dev’essere stato un bel fuori programma, per te».

«No, il tuo odore mi piace».

«Come hai fatto?», chiesi a mezza voce. Capì subito a cosa mi riferivo.

«Non lo so nemmeno io». Distolse lo sguardo, prese la mia mano fasciata dal letto e la strinse con dolcezza per non staccare uno dei fili che mi collegavano ai monitor.

Attesi con pazienza la spiegazione.

Sospirò, senza tornare ai miei occhi. «Era impossibile... trattenersi», mormorò. «Impossibile. Ma ce l’ho fatta». Finalmente alzò lo sguardo, accennando un sorriso: «È evidente che ti amo».

«Il sapore non è buono come il profumo?», risposi, sorridendo. Sentii male al viso.

«È anche meglio, meglio di quanto immaginassi».

«Scusa», mi pentii subito della battuta.

Alzò gli occhi al soffitto: «Come se di questo dovessi scusarti».

«E per cosa dovrei scusarmi?».

«Per avere rischiato di sparire dalla mia vita per sempre».

«Scusa», ripetei.

«So perché l’hai fatto», cercò di confortarmi. «È stata comunque una decisione irrazionale, va da sé. Avresti dovuto aspettarmi, avresti dovuto dirmelo».

«Non mi avresti lasciata andare».

«In effetti no», si rabbuiò, «non ti avrei lasciata».

Certi ricordi molto sgradevoli iniziavano a riaffiorare. Tremai, poi ebbi un sussulto.

Edward scattò all’istante, inquieto: «C’è qualcosa che non va?».

«Che fine ha fatto James?».

«Dopo che te l’ho tolto di dosso, se ne sono occupati Emmett e Jasper». Nella sua voce si leggeva una decisa nota di rimpianto.

Non capivo. «Ma non ho visto né Emmett né Jasper, lì».

«Sono stati costretti a uscire dalla stanza... troppo sangue».

«Ma tu sei rimasto».

«Sì».

«E Alice, e Carlisle...», aggiunsi, meravigliata.

«Ricorda che anche loro ti vogliono bene».

Una sequenza di immagini del mio ultimo incontro con Alice mi ricordò una cosa. «Alice ha visto il nastro?», chiesi, agitata.

«Sì». Una sfumatura di odio puro era sopraggiunta a incupire la sua voce.

«Era rimasta confinata sempre al buio, perciò non ricorda nulla».

«Lo so. Ora ha capito». Manteneva la voce composta, ma il viso era fosco, furioso.

Cercai di accarezzarlo con la mano libera, ma qualcosa mi bloccò. Abbassai lo sguardo e vidi l’ago della flebo.

«Ugh...».

«Cosa c’è?», chiese, di nuovo in ansia. L’avevo distratto, ma non abbastanza. L’ombra non aveva abbandonato del tutto il suo sguardo.

«Aghi», risposi, distogliendo lo sguardo da quello infilato sul dorso della mia mano. Mi concentrai su una piastrella della parete che mancava e cercai di respirare a fondo malgrado il male alle costole.

«Ha paura di un ago», mormorò fra sé, scuotendo il capo. «Finché si tratta di un vampiro sadico intenzionato a torturarla, nessun problema, scappa a conoscerlo. Una flebo, invece...».

Alzai gli occhi al cielo. Era l’unica reazione che potessi concedermi senza sentire male. Decisi di cambiare discorso.

«E tu, cosa ci faresti, qui?».

Mi fissò, prima confuso, poi imbarazzato. Aggrottò le sopracciglia. «Vuoi che me ne vada?».

«No!», protestai, terrorizzata al solo pensiero. «No... volevo dire, come hai giustificato a mia madre la tua presenza? Devo preparare un alibi prima che torni».

«Ah», tirò un sospiro e rilassò la fronte, che tornò liscia come il marmo. «Sono venuto a Phoenix per farti ragionare e convincerti a tornare a Forks». I suoi occhioni erano talmente candidi e sinceri che riuscì quasi a darla a bere anche a me. «Tu hai accettato di incontrarmi, sei uscita per raggiungere l’albergo in cui alloggiavo assieme a Carlisle e Alice, ovviamente sono venuto qui con il permesso e la guida dei miei genitori...», disse per sottolineare la sua virtù irreprensibile. «Ma salendo le scale per raggiungere la mia camera hai messo un piede in fallo, e... be’, il resto lo sai. Non c’è bisogno che ricordi altri dettagli: hai un’ottima scusa per essere un po’ confusa sui particolari».

Ci pensai per qualche istante. «Ma c’è qualcosa che non torna. Per esempio, nessuna finestra rotta».

«Non proprio», rispose. «Alice si è lasciata un po’ prendere la mano, mentre fabbricava le prove. Ci siamo occupati di tutto con molto scrupolo; se volessi, potresti addirittura denunciare l’albergo. Non devi preoccuparti di nulla». Mi sfiorò la guancia con la più leggera delle carezze. «Devi badare soltanto a guarire, ora».

Non ero così annebbiata dal dolore e dai tranquillanti da non reagire al suo tocco. Il bip del monitor accelerò frenetico: adesso anch’io potevo sentire le bizze del mio cuore.

«Sarà davvero imbarazzante», mormorai tra me e me.

Lui soffocò una risata e mi rivolse uno sguardo pensieroso. «Mmm, chissà se...».

Si chinò lentamente; le pulsazioni iniziarono a divenire più veloci ancor prima che mi sfiorasse le labbra. Ma quando le sue premettero sulle mie, con il massimo della dolcezza, il bip si arrestò del tutto.

Si allontanò di scatto, e l’ansia sparì dal suo viso soltanto quando il monitor accertò che il mio cuore aveva ripreso a battere.

«A quanto pare dovrò prestare molta più attenzione del solito», si lamentò.

«Io non avevo finito di baciarti», protestai. «Non costringermi ad alzarmi».

Sorrise, e si chinò di nuovo leggero sulle mie labbra. Il monitor impazzì.

Poi si irrigidì e si staccò da me.

«Credo di aver sentito tua madre», disse, con un nuovo sorriso.

«Non andartene», strillai, colta da un’ondata di panico irrazionale. Non volevo che si allontanasse, non volevo che sparisse di nuovo.

In un istante si accorse del terrore nei miei occhi. «Non me ne andrò», promise, serio, poi ammiccò: «Farò un sonnellino».

Dalla seggiola di plastica dura accanto al letto, si spostò sulla poltroncina reclinabile di finta pelle che stava ai miei piedi, abbassò lo schienale e chiuse gli occhi. Era perfettamente immobile.

«Non dimenticarti di respirare», bisbigliai, sarcastica. Lui fece un respiro profondo, a occhi chiusi.

Riuscivo anch’io a sentire mia madre. Stava parlando con qualcuno, forse un’infermiera, e sembrava stanca e fuori di sé. Avrei voluto saltare giù dal letto e correre da lei per calmarla e giurarle che andava tutto bene. Ma non ero in condizione di muovermi, perciò attesi, impaziente.

La porta si aprì appena e lei sbirciò nella stanza.

«Mamma!», sussurrai, con voce piena d’amore e sollievo.

Vide la sagoma immobile di Edward sulla poltrona e si avvicinò al mio letto in punta di piedi.

«Non se ne va mai, eh?», mormorò tra sé.

«Mamma, che bello vederti!».

Si chinò ad abbracciarmi delicatamente, e sentii il calore delle lacrime sulle mie guance.

«Bella, ero cosi agitata!».

«Mi dispiace, mamma. Adesso è tutto a posto, tutto okay».

«Sono contenta di vedere che apri gli occhi, finalmente». Si sedette sul bordo del letto.

All’improvviso mi resi conto di aver perso la cognizione del tempo. Non avevo idea di quando fosse successo tutto. «Quanto a lungo sono rimasti chiusi?».

«È venerdì, cara, non sei stata in te per un bel po’».

«Venerdì?». Ero sbalordita. Cercai di ricordare in che giorno... ma non volevo pensarci.

«Hanno dovuto riempirti di sedativi, piccola... eri piena di ferite».

«Lo so». Le sentivo ancora.

«Per fortuna il dottor Cullen era lì. È davvero un brav’uomo... anche se è molto giovane, certo. E somiglia più a un modello che a un medico...».

«Hai conosciuto Carlisle?».

«E Alice, la sorella di Edward. Che cara ragazza».

«Lo è davvero», risposi, con tutta sincerità.

Diede un’occhiata a Edward sprofondato nella poltroncina, sempre con gli occhi chiusi. «Non mi avevi detto di avere amici così cari, a Forks».

Cercai di muovermi e lanciai un gemito.

«Cosa ti fa male?», chiese lei ansiosa, voltandosi di nuovo verso di me. Sentii lo sguardo di Edward sul viso.

«Tutto bene. Devo solo ricordarmi di restare immobile». Edward tornò al suo falso sonnellino.

Sfruttai la distrazione momentanea di mia madre per tenere il discorso lontano dal mio comportamento tutt’altro che limpido: «Dov’è Phil?».

«In Florida. Ah, Bella, non indovinerai mai! Proprio quando stavamo per andarcene è arrivata la buona notizia!».

«Ha firmato un contratto?».

«Sì, come hai fatto a indovinare? Con i Suns, ci credi?».

«Grande», risposi con tutto l’entusiasmo che potevo, malgrado non avessi la minima idea di cosa ciò significasse.

«E vedrai che Jacksonville ti piacerà», aggiunse, mentre la seguivo con sguardo vacuo. «Mi ero preoccupata un po’, quando Phil aveva iniziato a parlare di Akron, con la neve e tutto il resto, perché sai quanto odio il freddo... ma Jacksonville! C’è sempre il sole, e l’umidità, in fondo, non è così tremenda. Abbiamo trovato una casetta bellissima, gialla con le finiture bianche, una veranda come quelle dei vecchi film, una quercia enorme, e poi è a pochissimi minuti dal mare, e in più avrai un bagno tutto per te...».

«Aspetta, mamma!». Edward teneva gli occhi chiusi, ma era troppo teso per sembrare addormentato. «Cosa stai dicendo? Non verrò in Florida. Io vivo a Forks».

«Ma non c’è più motivo, sciocca», disse ridendo. «Phil sarà molto più presente, d’ora in poi. Ne abbiamo parlato molto e abbiamo deciso che nelle trasferte faremo un compromesso: passerò metà del tempo con te e metà con lui».

«Mamma». Ero incerta su quale fosse il modo più diplomatico per parlarle. «Io voglio vivere a Forks. A scuola mi sono ambientata, ho un paio di amiche...», la parola “amiche” la fece immediatamente voltare verso Edward, perciò provai a cambiare direzione, «...e Charlie ha bisogno di me. È tutto solo, lassù, e non sa neanche cucinare».

«Vuoi restare a Forks?», chiese, sbigottita. L’idea, per lei, era inconcepibile. Poi i suoi occhi scivolarono di nuovo su Edward: «Perché?».

«Te l’ho detto... la scuola, Charlie. Ahi!». Mi ero stretta nelle spalle. Cattiva idea.

Si affannò in cerca di una zona del mio corpo che potesse sfiorare senza farmi male. Si accontentò della fronte, lì non c’erano bende né cerotti.

«Bella, piccola mia, tu odi Forks», provò a rammentarmi.

«Non è così male».

Scura in viso, stavolta guardò apertamente prima me, poi Edward.

«È per lui?», sussurrò.

Ero pronta a dirle una bugia, ma da come mi osservava capivo che non sarei riuscita a dissimulare.

«C’entra anche lui». Inutile raccontarle quanto. «Sei riuscita a parlarci un po’?».

«Sì». Restò in silenzio ad ammirare la sua sagoma perfettamente immobile. «E vorrei discuterne con te».

Accidenti. «Di cosa?».

«Penso che quel ragazzo sia innamorato di te», dichiarò, badando a tenere la voce bassa.

«Lo penso anch’io».

«E tu, cosa provi per lui?». Nascondeva piuttosto male la curiosità che l’attanagliava.

Sospirai e abbassai lo sguardo. Per quanto volessi bene a mia madre, non era questo il tipo di conversazione che desideravo sostenere con lei. «Direi che sono pazza di lui». Ecco... l’adolescente tipo che descrive il suo primo amore.

«Be’, sembra un bravo ragazzo, e santo cielo, è incredibilmente bello. Ma sei così giovane, Bella...». La sua voce era insicura: a memoria mia, era la prima occasione, da quando avevo otto anni, in cui si esprimeva con un tono che potesse suonare autorevole, quasi degno di un genitore. Riconobbi l’atteggiamento ragionevole-ma-deciso che aveva quando si parlava di uomini.

«Lo so, mamma. Non preoccuparti. È soltanto una cotta», la blandii.

«Va bene». Si accontentava di poco.

Poi sospirò e lanciò uno sguardo colpevole alle sue spalle, verso il grosso orologio da muro.

«Devi andare?».

«Phil dovrebbe chiamare tra poco... Non sapevo che ti saresti svegliata:..».

«Non c’è problema, mamma». Cercai di non farle sentire il sollievo nella mia voce per evitare di ferirla. «Non sarò sola».

«Torno presto. Ho dormito qui, sai», annunciò, fiera di sé.

«Oh, mamma, lascia perdere! Puoi dormire a casa, non me ne accorgerei neppure». I tranquillanti in circolo rendevano ancora difficile al mio cervello mantenere la concentrazione, malgrado avessi dormito per giorni interi, a quanto pareva.

«Ero troppo nervosa», ammise allora a capo chino. «Sono successe brutte cose nel quartiere e non sto tranquilla a casa da sola».

«Brutte cose?».

«Qualcuno ha fatto irruzione nella scuola di danza dietro casa nostra e l’ha incendiata: non è rimasto niente! E di fronte hanno lasciato un’auto rubata. Ti ricordi quando andavi a lezione lì, tesoro?».

«Ricordo». Sentii un brivido e trasalii.

«Se c’è bisogno di me, posso restare».

«No, mamma. Andrà tutto bene. Edward starà qui con me».

Pareva questa la ragione per cui anche lei desiderava rimanere. «Torno stasera», scandì lanciando l’ennesima occhiata a Edward. Sembrava più un avvertimento che una promessa.

«Ti voglio bene, mamma».

«Anch’io, Bella. Cerca però di stare più attenta a dove metti i piedi, non voglio perderti».

Gli occhi di Edward erano chiusi, ma sulle sue labbra passò un ampio sorriso.

Poi apparve un’infermiera, pronta a controllare i tubi e i fili. Mia madre mi baciò sulla fronte, mi sfiorò la mano bendata e se ne andò.

L’infermiera controllava il tabulato del cardiogramma.

«Sei un po’ agitata, piccola? Qui vedo un bell’aumento di intensità».

«No, tutto bene».

«Dirò alla caporeparto che ti sei svegliata. Tra un minuto verrà a controllarti».

Non aveva neanche chiuso la porta che Edward era già al mio fianco.

«Hai rubato un’auto?», indagai, alzando un sopracciglio.

Sogghignò, sfacciato. «Era una bella macchina, molto veloce», «Dormicchiato bene?».

«Sì. È stato interessante». Strinse gli occhi.

«Che cosa?».

Abbassò lo sguardo. «Sono sorpreso. Pensavo che la Florida... e tua madre... be’, pensavo fosse ciò che volevi».

Lo fissavo senza capirlo. «Ma a te toccherebbe restare chiuso in casa tutto il giorno. Potresti uscire soltanto di notte, come un vero vampiro».

Quasi sorrise, ma si trattenne. Poi tornò serio: «Sarei rimasto a Forks, Bella. O in un posto del genere. Ovunque, pur di non farti più soffrire».

Non capii subito. Stavo a guardarlo, inespressiva, mentre il mio cervello incasellava le sue parole, una dopo l’altra, come tessere di un inquietante puzzle. Mi accorgevo appena del bip del mio cuore che accelerava. Il dolore alle costole, invece, lo sentii bene, perché ero andata in iperventilazione.

Lui non disse nulla. Mi osservava guardingo, mentre un dolore molto più intenso, che non c’entrava nulla con le ossa rotte, minacciava di distruggermi.

Poi arrivò spedita un’altra infermiera. Edward rimase pietrificato, mentre lei mi osservava con occhio esperto e passava a controllare i monitor.

«Prendiamo un po’ di tranquillanti, piccola?», chiese gentile, picchiettando sul flacone della flebo.

«No, no», mormorai, cercando di cacciare via la sofferenza dalla voce. «Sto bene così». Non potevo permettermi di chiudere gli occhi proprio in quel momento.

«Non è il caso di essere coraggiosi, cara. È meglio che non ti stressi troppo: hai bisogno di riposo». Restò in attesa, ma io ribadii di no con un cenno.

«D’accordo», sospirò. «Suona il campanello quando ti senti pronta».

Lanciò un’occhiataccia a Edward e osservò per un’ultima volta i monitor con un filo d’apprensione, prima di andarsene.

Lui mi pose le sue mani fredde sul viso, io lo guardavo piena di agitazione.

«Sssh, Bella... calmati».

«Non lasciarmi», lo implorai, senza voce.

«No, te lo prometto. Adesso rilassati, così chiamo l’infermiera con i tranquillanti».

Ma il mio cuore non rallentava.

«Bella», mi accarezzò le guance, nervoso, «non andrò da nessuna parte. Sarò al tuo fianco ogni volta che avrai bisogno di me».

«Giura che non mi lascerai», bisbigliai. Cercavo almeno di controllare l’affanno. Sentivo le costole pulsare.

Avvicinò il mio viso al suo, tenendolo tra le mani. Il suo sguardo era aperto e serio. «Lo giuro».

Il profumo del suo respiro mi tranquillizzò. Riusciva a placare il dolore che sentivo respirando. Edward sostenne il mio sguardo fino a quando il mio corpo non iniziò a rilassarsi, lentamente, e il ritmo del cuore tornò normale. Aveva gli occhi scuri, più neri che dorati.

«Va meglio?», chiese.

«Credo di sì».

Scosse il capo e mormorò qualcosa. Mi sembrava di aver colto le parole “reazione esagerata”.

«Perché hai detto una cosa del genere, prima?», sussurrai, cercando di mantenere salda la voce. «Sei stanco di dovermi salvare in continuazione? Vuoi davvero che me ne vada?».

«No, non voglio stare senza te, Bella, certo che no. Sii razionale. Neanche doverti salvare è un problema. Ma il fatto è che sono io stesso a metterti in pericolo... in fondo è colpa mia se sei qui».

«Sì, se non fosse stato per te non sarei qui... viva».

«A malapena». La sua voce era un sussurro. «Coperta di bende e cerotti, nemmeno in grado di muoverti».

«Non parlo dell’ultima volta in cui ho rischiato di morire», sbottai, irritata. «Ce ne sono altre, scegline una. Se non ci fossi stato tu, sarei finita a marcire nel cimitero di Forks».

Le mie parole lo fecero sussultare, ma lo sguardo tormentato non se ne andava dai suoi occhi.

«Non è questa la parte peggiore, comunque», proseguì. Era come se non avessi parlato. «Non è stato averti vista là, sul pavimento... sottomessa e picchiata». La sua voce era soffocata. «Non è stato temere che fossi arrivato davvero troppo tardi. Nemmeno sentirti urlare di dolore... o tutti quei ricordi insopportabili che porterò con me per l’eternità. No, la parte peggiore è stata sentire... sapere che non sarei riuscito a fermarmi. Essere convinto che sarei stato io a ucciderti».

«Ma non l’hai fatto».

«Avrei potuto. Senza sforzo».

Dovevo mantenere la calma... ma stava cercando di convincersi a lasciarmi, e il panico che mi aveva riempito i polmoni voleva uscire.

«Prometti», mormorai.

«Cosa?».

«Lo sai, cosa». A quel punto stavo per arrabbiarmi. Era testardamente determinato a battere sul tasto del pessimismo.

Sentì cambiare il mio tono di voce. Mi guardò torvo. «A quanto pare non sono abbastanza forte da poterti stare lontano, perciò immagino che alla fine farai a modo tuo... anche a costo di farti uccidere». Aggiunse quelle ultime parole in tono sgarbato.

«Bene». Non aveva promesso però, e la cosa non mi era sfuggita. Trattenevo a stento il panico; non mi era rimasto un briciolo di forza per controllare la rabbia. «Hai detto che ti sei fermato... adesso voglio sapere perché».

«Perché?».

«Perché l’hai fatto. Perché non hai lasciato che il veleno entrasse in circolo? A quest’ora sarei uguale a te».

I suoi occhi diventarono neri e opachi, e ricordai che lui non aveva mai voluto che scoprissi certi particolari. Alice, probabilmente, era occupata a mettere ordine in ciò che aveva scoperto della propria vita... oppure aveva trattenuto i pensieri in presenza di Edward. In ogni modo, era chiaro: lui non sospettava affatto che la sorella mi avesse spiegato la meccanica delle trasformazioni vampiresche. Era sorpreso e infuriato. Dilatò le narici, la sua bocca sembrava incisa nella pietra.

Non intendeva degnarmi di una risposta, era evidente.

«Sono la prima ad ammettere di non essere esperta di relazioni», dissi io, «ma mi sembra quantomeno logico... tra un uomo e una donna deve esserci una certa parità... per esempio, non può toccare sempre a uno solo dei due salvare l’altro. Devono potersi salvare a vicenda».

Seduto sul bordo del letto, incrociò le braccia e ci affondò il mento. Sembrava più tranquillo, tratteneva la sua furia. Evidentemente aveva deciso di arrabbiarsi con qualcun altro. Speravo di poter avvertire Alice prima che la incrociasse.

«Ma tu mi hai salvato», disse piano.

«Non posso essere sempre Lois Lane. Voglio essere anche Superman».

«Non sai cosa mi stai chiedendo». Parlava in tono pacato. Fissava il bordo della federa.

«Invece credo di sì».

«Bella, non te ne rendi conto. Ci penso da quasi novant’anni e non mi sono ancora fatto un’idea».

«Vorresti che Carlisle non ti avesse salvato?».

«No, non è così». S’interruppe qualche istante. «Ma la mia vita era giunta al termine. Non stavo rinunciando a niente».

«La mia vita sei tu. Soffrirei davvero soltanto se perdessi te». Stavo migliorando. Era facile ammettere a che punto avessi bisogno di lui.

Ma Edward restava calmo. Deciso.

«Non posso farlo, Bella, e non lo farò».

«Perché no?». Avevo la gola secca, le parole non uscivano chiare come desideravo. «E non dirmi che è troppo difficile! Dopo oggi, o qualche giorno fa, quando è stato... be’, dopo tutto questo, dovrebbe essere una passeggiata!».

Mi squadrò.

«E il dolore?», chiese.

Sbiancai. Non potei impedirmelo. Ma cercai di non far trapelare quanto bene ricordassi quella sensazione... il fuoco nelle vene.

«È un problema mio. Posso cavarmela».

«A volte capita di trascinare il coraggio fino al punto in cui diventa pazzia».

«Poco importa. Tre giorni. Cosa vuoi che siano».

Edward reagì con una smorfia alle mie parole: dimostravo di essere più informata di quanto lui avrebbe desiderato. Lo vidi reprimere la rabbia e tornare a riflettere.

«E Charlie?», chiese all’improvviso. «Renée?».

Restai in silenzio, cercavo disperatamente una risposta, e i minuti passavano. Aprii la bocca, senza emettere suono. La richiusi. Lui aspettava, con espressione trionfante, perché sapeva che non avevo una risposta degna di questo nome.

«Senti, nemmeno quello è un problema», bofonchiai infine; il mio tono di voce era poco convincente, come ogni volta che mentivo. «Renée ha sempre scelto ciò che le sembrava più giusto; non si opporrebbe se mi comportassi nello stesso modo. E Charlie si riprenderebbe, è flessibile, e si era abituato a stare da solo. Non posso badare a loro per sempre. Io voglio vivere la mia vita».

«Appunto. E non sarò io a farla terminare».

«Se aspettavi che fossi sul letto di morte, sappi che ci sono stata eccome!».

«Sì, però ti rimetterai».

Respirai a fondo per tranquillizzarmi, senza badare alla fitta nelle costole. Lo fissai, e lui mi restituì lo sguardo. La sua espressione non ammetteva compromessi.

«Invece no», risposi, piano.

Aggrottò le sopracciglia. «Certo che sì. Al massimo ti resteranno un paio di cicatrici...».

«Ti sbagli. Morirò».

«Sul serio, Bella». Si era innervosito. «Tra qualche giorno ti dimetteranno. Due settimane al massimo».

Lo inchiodai con uno sguardo: «Forse non morirò subito... ma prima o poi succederà. Ogni giorno, ogni minuto, quel momento si avvicina. E diventerò vecchia».

Si rabbuiò quando capì cosa intendevo, chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «È così che succederà. Come dovrebbe succedere. Come sarebbe successo se io non fossi esistito... e io non sarei dovuto esistere».

Sbuffai. Lui aprì gli occhi, sorpreso.

«Che stupidaggine. Mi sembra di sentire il vincitore di una lotteria che, dopo avere riscosso il premio, dice: “Ehi, torniamo indietro alla normalità, è meglio così”. Non me la dai a bere, sai».

«Sono tutt’altro che il premio di una lotteria».

«È vero. Sei molto meglio».

Alzò gli occhi e strinse le labbra. «Bella, non voglio più parlarne. Mi rifiuto di condannarti a un’eternità di notti e buio, punto e basta».

«Se pensi che possa finire qui, vuol dire che non mi conosci bene. Non sei l’unico vampiro che conosco». Il mio era un avvertimento.

I suoi occhi ridiventarono neri. «Alice non oserebbe».

E per un istante mi spaventò a tal punto da essere costretta a credergli: non riuscivo a immaginare nessuno tanto coraggioso da mettersi contro di lui.

«Alice ha già visto tutto, vero? Per questo ce l’hai con lei. Sa che un giorno... diventerò come te».

«Si sbaglia. Se è per questo, ti ha anche vista morta, ma non è accaduto».

«Per quel che mi riguarda, non scommetterò mai contro di lei».

Ci squadrammo a lungo. Il silenzio era rotto soltanto dal ronzio delle macchine, dai bip, dal gocciolare della flebo e dai rintocchi dell’orologio a muro. Finalmente, il suo viso si rilassò.

«Dunque la conclusione è...?», domandai.

Lui sorrise amaro. «Mi sembra che si chiami impasse».

Feci un sospiro ed emisi un gemito di dolore.

«Come ti senti?», chiese Edward, lanciando un’occhiata verso l’interfono.

«Bene». Mentivo.

«Non ti credo», rispose lui, delicato.

«Non ho intenzione di rimettermi a dormire».

«Hai bisogno di riposo. Tutto questo discutere non ti fa bene».

«Allora arrenditi».

«Bel colpo». Schiacciò l’interruttore.

«No!».

Non mi ascoltava.

«Sì?», gracchiò l’altoparlante dal muro.

«Credo che siamo pronti per un’altra dose di tranquillanti», disse Edward calmo, ignorando la mia espressione infuriata.

«Mando un’infermiera». La voce sembrava molto annoiata.

«Non li prendo».

Lui guardò il sacchetto di liquido che penzolava sopra il mio letto. «Non credo che ti chiederanno di ingoiare nulla».

Il mio cuore iniziò ad accelerare. Vide la paura nei miei occhi e sbuffò, spazientito.

«Bella, tu stai male. Hai bisogno di rilassarti per guarire. Perché sei così ostinata? Non serviranno altri aghi né cose del genere».

«Non ho paura degli aghi», mormorai, «ho paura di chiudere gli occhi».

Lui sfoderò il suo sorriso sghembo e mi prese la testa tra le mani. «Ti ho detto che non andrò da nessuna parte. Non avere paura. Fino a quando lo vorrai, io starò qui».

Sorrisi, ignorando il dolore nelle guance: «Stai parlando dell’eternità, lo sai».

«Oh, te la farai passare... è soltanto una cotta».

Scossi la testa incredula, e mi vennero le vertigini. «Quando Renée se l’è bevuta ci sono rimasta quasi male. Sai bene che non è così».

«È il bello di essere umani», rispose lui. «Le cose cambiano».

Socchiusi gli occhi: «Non trattenere il respiro, mentre aspetti che accada».

Quando entrò l’infermiera, con la siringa in mano, Edward rideva.

«Mi scusi», gli disse lei brusca.

Lui si alzò, attraversò la stanza e si appoggiò al muro. Incrociò le braccia in attesa. Io non gli staccavo gli occhi di dosso, ancora in apprensione. Lui ricambiava con uno sguardo rilassato.

«Ecco fatto, cara», disse l’infermiera sorridente, mentre iniettava il medicinale nel tubo. «Adesso starai meglio».

«Grazie», bofonchiai senza entusiasmo. L’effetto fu immediato. Sentii subito il torpore nelle vene.

«Così dovrebbe andare», mormorò l’infermiera, mentre le mie palpebre cedevano.

Capii che se ne era andata quando qualcosa di freddo e liscio mi sfiorò le guance.

«Resta», biascicai.

«Si, te lo prometto». La sua voce era bellissima, come una ninna nanna. «Come ho detto, finché lo desideri... finché è la cosa migliore per te».

Cercai di scuotere la testa, ma era troppo pesante. «... ’n è la stessa cosa», farfugliai.

Lui rise. «Non preoccuparti di questo adesso, Bella. Possiamo ricominciare a discutere quando ti svegli».

Sorrisi, forse. «...’a bene».

Sentii le sue labbra vicino all’orecchio.

«Ti amo», sussurrò.

«Anch’io».

«Lo so», e rise, sottovoce.

Voltai la testa lentamente... in cerca. Sapeva di cosa. Le sue labbra sfiorarono le mie, con delicatezza.

«Grazie», mormorai.

«Di niente».

Non ero più tanto presente. Combattevo stancamente contro lo stordimento. Mi restava una sola cosa da dirgli.

«Edward?». Pronunciare il suo nome correttamente era una faticaccia.

«Sì?».

«Io scommetto su Alice».

E la notte si chiuse su di me.

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