21 Telefonata

Stavo lentamente iniziando a confondere il giorno con la notte, perché, ancora una volta, quando riaprii gli occhi era troppo presto. Sotto le coperte, ascoltavo le voci basse di Alice e Jasper nell’altra stanza. Era strano che riuscissi a sentirle. Rotolai fino a posare i piedi a terra e mi trascinai nel salotto.

L’orologio sul televisore diceva che erano passate da poco le due del mattino. Alice e Jasper stavano seduti sul divano, lei disegnava, lui osservava i suoi schizzi. Quando entrai non si accorsero di me, erano troppo concentrati.

Sgattaiolai a fianco di Jasper per sbirciare.

«Ha visto altro?», chiesi, a bassa voce.

«Sì. Qualcosa l’ha fatto tornare nella stanza del videoregistratore, che adesso è illuminata».

Alice disegnava una stanza quadrata, con travi scure sul soffitto. Le pareti erano rivestite di pannelli di legno scuro, fuori moda. Sul pavimento, un tappeto scuro con decorazioni geometriche. Verso sud si apriva un’ampia finestra e a ovest si vedeva l’accesso a un salotto. Un lato dell’accesso era fatto di pietra: era un camino di pietra marrone che dava su entrambe le stanze. Il punto di fuga della prospettiva, il televisore e il videoregistratore, ammassati su un tavolo di legno troppo piccolo, erano nell’angolo più lontano della stanza. Un vecchio divano ad angolo stava di fronte al televisore e in mezzo si trovava un tavolino basso.

«Lì sopra c’è il telefono», mormorai indicando il tavolino.

Due paia di occhi immortali mi fissarono.

«È casa di mia madre».

Alice balzò immediatamente dal divano con in mano il telefono. Io restai con gli occhi sbarrati sulla prospettiva perfetta del salotto di casa mia. Jasper, contrariamente alle sue abitudini, mi si avvicinò. Mi sfiorò piano la spalla, e il contatto aumentò la sua influenza benefica. Il panico divenne sfocato e nebuloso.

Le labbra di Alice vibravano, snocciolando parole velocissime, in un ronzio basso impossibile da decifrare. Non riuscivo a concentrarmi.

«Bella», disse Alice. Io seguitai à guardarla, confusa.

«Bella, Edward sta venendo a prenderti. Lui, Emmett e Carlisle ti porteranno via, per tenerti nascosta».

«Edward sta arrivando?». Quelle parole furono il salvagente che mi teneva a galla nel diluvio.

«Sì, con il primo volo da Seattle. Abbiamo appuntamento all’aeroporto, dopodiché te ne andrai via con lui»,

«Ma, mia madre... sta cercando mia madre, Alice!». Malgrado la presenza di Jasper, l’isteria trabordò nella mia voce.

«Jasper e io resteremo qui a proteggerla».

«Non posso cavarmela, Alice. Non potete restare a guardia di tutti i miei cari per sempre. Capite cosa sta facendo? Non segue soltanto le mie tracce. Appena ne avrà l’occasione, farà del male a qualcuno a cui voglio bene... Alice, non posso...».

«Lo prenderemo, Bella».

«E se accade qualcosa a uno di voi, Alice? Pensate che ne sarei contenta? Pensate che possa colpirmi soltanto facendo del male alla mia famiglia umana?».

Alice lanciò uno sguardo d’intesa a Jasper. Una nebbia di letargia profonda e pesante mi avvolse e chiusi gli occhi contro la mia volontà. Mi resi conto di ciò che stava accadendo e cercai di restare lucida malgrado la nebbia. Mi costrinsi ad aprire gli occhi e mi alzai, allontanandomi dal contatto con la mano di Jasper.

«Non voglio dormire!».

Sbattendo la porta rientrai in camera, per essere libera di crollare in privato. Alice non mi seguì. Per tre ore e mezzo restai rannicchiata nel letto a dondolarmi e a fissare la parete. La mia mente girava in tondo, cercando inutilmente una via di uscita da quell’incubo. Non c’era scampo, non c’erano soluzioni. Nel futuro vedevo la luce sbiadita di una sola conclusione possibile. La sola incertezza riguardava il numero di persone che nel frattempo ci sarebbero andate di mezzo.

L’unico sollievo, l’unica speranza che mi era rimasta, era la consapevolezza che presto avrei rivisto Edward. Forse il suo viso mi avrebbe ispirato la soluzione che in quel momento mi sfuggiva.

Quando il telefono squillò, tornai nel salone, vergognandomi un po’ del mio comportamento. Speravo di non averli offesi e che capissero quanto gli fossi grata dei sacrifici che facevano per il mio bene.

Alice parlava, rapida come sempre, ma ciò che attirò la mia attenzione fu che, per la prima volta, Jasper non c’era. L’orologio segnava le cinque e mezzo del mattino.

«Stanno per salire sull’aereo», disse Alice. «Atterreranno alle nove e quarantacinque». Ancora qualche ora da sopportare, prima dell’arrivo di Edward.

«Dov’è Jasper?».

«È andato a pagare il conto».

«Non restate qui, voi?».

«No, ci trasferiamo in un posto più vicino a casa di tua madre».

A quelle parole, mi si strinse lo stomaco.

Ma fui distratta da un altro squillo del cellulare. Alice sembrava sorpresa, io mi feci immediatamente avanti, fiduciosa.

«Pronto?... No, è qui accanto». Alice mi passò il telefono, dicendomi sottovoce che era mia madre.

«Pronto?».

«Bella? Bella?». Era la sua voce, mi chiamava con un tono familiare che da piccola avevo sentito migliaia di volte, quando mi avvicinavo troppo al bordo di un marciapiede o mi perdeva di vista in un posto affollato. Era la voce del panico.

Feci un sospiro. Me lo aspettavo, malgrado avessi cercato, nel mio messaggio, di risultare il meno allarmata possibile, senza però sminuire l’urgenza.

«Calmati, mamma», risposi, cercando di rassicurarla, allontanandomi piano da Alice. Non ero sicura che con i suoi occhi addosso sarei riuscita a mentire senza tradirmi. «Va tutto bene, okay? Dammi solo un minuto e ti spiego tutto, te lo prometto».

Feci una pausa, sorpresa che non mi avesse ancora interrotta.

«Mamma?».

«Bada a non aprire bocca finché non te lo dirò io». La voce che sentii era inattesa e sconosciuta. Era un tenore, piacevole quanto anonimo, il genere di voce maschile che si sente fuori campo nelle pubblicità delle auto di lusso. Parlava molto in fretta.

«Ora, non è il caso che io faccia del male a tua madre, perciò ti prego di fare esattamente ciò che dico e non le torcerò un capello». Restò zitto per qualche istante, mentre io tacevo, terrorizzata. «Molto bene, complimenti. Adesso ripeti ciò che dico, e cerca di farlo con naturalezza. Per favore, di’: “No, mamma, resta dove sei”».

«No, mamma, resta dove sei». La mia voce era poco più che un respiro.

«Accidenti, temo che sarà una bella impresa». Sembrava divertito, spiritoso e amichevole. «Perché non cambi stanza, così nessuno ti vede in faccia? Non c’è ragione di far soffrire tua madre. Mentre ti allontani, di’: “Mamma, ti prego, ascoltami”. Dillo ora».

«Mamma, ti prego, ascoltami». Mi diressi molto lentamente in camera da letto, con lo sguardo di Alice addosso. Chiusi la porta cercando di restare lucida, malgrado il terrore mi attanagliasse il cervello.

«Brava. Adesso sei sola? Rispondi soltanto sì o no».

«Sì».

«Ma di certo riescono a sentirti».

«Sì».

«Molto bene», proseguì quella voce gradevole. «Di’: “Mamma, fidati di me”».

«Mamma, fidati di me».

«È andata molto meglio di quanto pensassi. Prevedevo una lunga attesa, ma tua madre è tornata a casa in anticipo. Così è più facile, no? Meno tensione, meno ansia per te».

Restai in ascolto.

«Ora voglio che tu mi stia bene a sentire. Desidero che ti allontani dai tuoi amici. Pensi di poterci riuscire? Rispondi sì o no».

«No».

«Che peccato. Speravo fossi un po’ più fantasiosa. Pensi che riusciresti ad allontanarti da loro se da ciò dipendesse la vita di tua madre? Rispondi sì o no».

Doveva esserci un modo. Ricordai che stavamo per andare all’aeroporto. Aeroporto internazionale di Sky Harbor: affollato, caotico...

«Sì».

«Così va meglio. So che non sarà facile, ma se ho il minimo sospetto che hai compagnia, be’, sarà un bel guaio per tua madre, te lo assicura. A questo punto dovresti conoscerci a sufficienza per renderti conto di quanto impiegherei a sapere se stai cercando di portare qualcuno con te. E quanto velocemente potrei agire, se decidessi di prendermela con tua madre. Capisci? Rispondi sì o no».

«Sì». Ero senza voce.

«Molto bene, Bella. Questo è ciò che devi fare. Voglio che torni a casa di tua madre. Accanto al telefono troverai un numero. Chiamalo, ti risponderò io e ti dirò dove andare». Sapevo già dove sarei andata e dove tutto sarebbe finito. Ma ero decisa a seguire le istruzioni. «Puoi farcela? Rispondi sì o no».

«Sì».

«Prima di mezzogiorno, per favore. Non ho tutta la giornata a disposizione», disse educato.

«Dov’è Phil?».

«Ah, stai attenta, Bella. Aspetta che ti dia il permesso, prima di parlare».

Attesi.

«Ora, è importante che, quando torni di là, i tuoi amici non sospettino niente. Digli che tua madre ti ha chiamata e che l’hai convinta a rimandare il ritorno. Adesso, ripeti con me: “Grazie, mamma”. Dillo ora».

«Grazie, mamma». Stavo per mettermi a piangere, ma riuscii a trattenere le lacrime.

«Di’: “Ti voglio bene, mamma, ci vediamo presto”. Ora».

«Ti voglio bene, mamma», la mia voce era fioca. «Ci vediamo presto».

«Ciao, Bella. Non vedo l’ora di incontrarti di nuovo». Riattaccò.

Restai con il telefono all’orecchio, immobilizzata dal terrore, nemmeno in grado di mollare la presa.

Dovevo pensare a un piano, ma la voce di mia madre nel panico mi riempiva la testa. I secondi passavano e mi sforzavo di riprendere il controllo.

Molto, molto lentamente, iniziai a fare breccia nel muro di terrore. A ragionare. Perché ormai non avevo altra scelta: dovevo andare nella stanza degli specchi, a morire. Non avevo garanzie che non facesse del male a mia madre e non avevo nulla da offrire per salvarla, nulla se non me stessa. Potevo soltanto sperare che a James bastasse vincere la partita con Edward. Ero schiacciata dallo sconforto: venire a patti con lui, offrirgli qualcos’altro che potesse soddisfarlo o trattenerlo era impossibile. Non avevo scelta. Dovevo provarci.

Soffocai il terrore meglio che potevo. La decisione era presa. Non valeva la pena sprecare tempo a riflettere sulle conseguenze. Dovevo restare lucida: Alice e Jasper mi aspettavano, e liberarmi di loro era assolutamente indispensabile, e assolutamente impossibile.

Per fortuna Jasper era lontano. Se avesse percepito il mio tormento, in quegli ultimi cinque minuti, come avrei potuto impedirgli di sospettare? Dovevo mettere a tacere ansia e paura. Non potevo permettermele. Non sapevo quando sarebbe tornato.

Mi concentrai sulla fuga. Dovevo sperare che la mia familiarità con l’aeroporto giocasse a mio favore. Dovevo riuscire in qualche modo a tenere lontana Alice...

Proprio lei che, in ansia, mi attendeva nell’altra stanza. Ma prima del ritorno di Jasper occorreva risolvere un’altra piccola questione in privato.

Dovevo accettare che non avrei mai più rivisto Edward, che non avrei potuto portare con me, nella stanza degli specchi, nemmeno il ricordo di un ultimo rapido sguardo al suo volto. Stavo per ferirlo e non potevo neppure dirgli addio. Mi lasciai torturare dalle ondate di sofferenza. Poi soffocai anche quelle, e tornai di là ad affrontare Alice.

L’unica espressione che riuscii a fare fu uno sguardo spento, morto. La vidi allarmata e non aspettai nemmeno che facesse domande. La sceneggiatura era pronta e non c’era posto per l’improvvisazione.

«Mia madre era preoccupata, voleva tornare a casa. Ma va tutto bene, l’ho convinta a rimandare». La mia voce era priva di vita.

«Penseremo noi alla sua sicurezza, Bella, non preoccuparti».

Mi voltai, non potevo mostrarmi a viso aperto.

Il mio sguardo cadde su un foglio bianco di carta intestata dell’albergo. Lo afferrai lentamente, pensando a un piano. C’era anche una busta. Molto bene.

«Alice», chiesi esitante, senza voltarmi, a voce bassa. «Se scrivo una lettera a mia madre, gliela consegnerete? Voglio dire, potete lasciarla a casa sua?».

«Certo, Bella». Parlava con cautela. Aveva capito che stavo per crollare. Dovevo controllarmi meglio.

Tornai in camera e m’inginocchiai al tavolino.

Mi tremava la mano, la grafia si leggeva a malapena.

Edward,

ti amo. Mi dispiace tanto. Ha preso mia madre, devo provarci. So che potrebbe non funzionare. Mi dispiace, mi dispiace tanto.

Non prendertela con Alice e Jasper. Se riuscirò a scappare da loro sarà un miracolo. Per favore, ringraziali da parte mia. Soprattutto Alice.

E per favore, per favore, non venire a cercarlo. Credo sia proprio ciò che vuole. Non posso sopportare che qualcun altro si faccia del male per colpa mia, soprattutto se quel qualcuno sei tu. Ti prego, questa è l’unica cosa che ti chiedo. Falla per me.

Ti amo. Perdonami.

Bella

Piegai la lettera per bene e la imbustai. Prima o poi l’avrebbe trovata. Speravo solo che potesse capirmi e che per una volta mi desse ascolto.

Così, con cura, sigillai anche il mio cuore.

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