17 La partita

Aveva appena cominciato a scendere una pioggerella invisibile, quando Edward imboccò la strada di casa mia. Fino a quel momento, avevo creduto di poter trascorrere qualche ora nel mondo reale assieme a lui.

Ma poi vidi l’auto nera, una Ford stagionata, parcheggiata sul vialetto, e lo sentii borbottare qualcosa di incomprensibile in tono cupo e irritato.

A ripararsi dalla pioggia sotto la bassa veranda c’erano Jacob Black e, di fronte a lui, suo padre, sulla sedia a rotelle. Billy era impassibile, immobile, e non riusciva a staccare gli occhi da Edward che stava parcheggiando sul ciglio della strada. Jacob guardava in basso, mortificato.

Edward era furioso: «Stavolta hanno passato il segno».

«È venuto a mettere in guardia Charlie?», chiesi, più in ansia che arrabbiata.

Edward rispose soltanto con un cenno di assenso verso di me e uno sguardo torvo verso Billy, nascosto dalla nuvola di pioggia.

Grazie al cielo, Charlie non era in casa.

«Lascia fare a me», suggerii. Lo sguardo nero di Edward stava per gettarmi nel panico.

Con mia grande sorpresa, fu d’accordo. «Probabilmente è la scelta migliore. Però fai attenzione. Il bambino non sa nulla».

Rimasi perplessa di fronte alla parola “bambino”. «Jacob non è tanto più piccolo di me», gli feci presente.

Mi guardò, e la sua rabbia svanì all’istante. «Sì, lo so», mi assicurò con un sogghigno.

Prima di scendere, lo guardai sospirando.

«Falli entrare, così potrò andarmene. Tornerò al tramonto».

«Vuoi che ti lasci il pick-up?», gli proposi, ma intanto pensavo a come giustificare con Charlie l’assenza del mezzo.

«Ricorda che io a piedi sono molto più veloce del tuo pick-up».

«Non sei obbligato ad andartene», dissi mestamente.

Sorrise della mia espressione malinconica: «Invece sì. Dopo che ti sarai liberata di loro», e lanciò un’occhiata truce verso i Black, «ti toccherà preparare Charlie a conoscere il tuo nuovo ragazzo». Sfoderò un sorriso a trentadue denti.

«Tante grazie, che bella notizia».

Ed ecco di nuovo il sorriso sghembo che amavo tanto. «Tornerò presto, lo prometto». Lanciò un’altra occhiata alla veranda e si avvicinò per baciarmi, appena sotto il mento. Il mio cuore rimbalzò frenetico, e anch’io schizzai con gli occhi alla veranda. Billy non era più impassibile, si stringeva forte alla sedia a rotelle.

«Presto», ripetei con forza. Poi scesi dal pick-up, sotto la pioggia.

Sentivo il suo sguardo addosso, mentre correvo verso la veranda sotto la pioggerella insistente.

«Ehi, Billy. Ciao, Jacob». Racimolai un po’ di entusiasmo per salutarli. «Charlie è fuori fino a stasera... Spero che non abbiate aspettato troppo».

«Non tanto», disse Billy, a mezza voce, inchiodandomi con i suoi occhi neri. «Volevo solo portare questo». Indicò il sacchetto di carta che teneva in grembo.

«Grazie», risposi, anche se non avevo idea di cosa fosse. «Perché non entrate un minuto ad asciugarvi?».

Mi sforzai di ignorare il suo sguardo indagatore, aprii la porta e li invitai in casa.

«Faccio io», dissi voltandomi per aprire le ante della porta. Mi concessi un ultimo sguardo a Edward. Aspettava, perfettamente immobile, con aria solenne.

«Devi metterlo in frigo», suggerì Billy mentre mi passava il sacchetto. «È un po’ di frittura casereccia e tutto l’accompagnamento, l’ha preparato Harry Clearwater. È la preferita di Charlie». Si strinse nelle spalle. «Al freddo resta asciutta».

Ringraziai di nuovo, un po’ più spontanea di prima: «Ero a corto di idee per cucinare il pesce, e probabilmente stasera ne porterà a casa altro».

«Va ancora a pesca?», chiese Billy, e il suo sguardo si accese appena. «Giù al solito posto? Magari faccio un salto a trovarlo».

«No. Ha detto che avrebbe provato un posto nuovo... ma non ho idea di dove sia andato», mentii subito per tagliare corto. Si accorse del mio cambiamento di espressione e restò perplesso.

«Jake», disse al figlio, senza smettere di osservarmi, «perché non vai a prendere quella foto nuova di Rebecca, in macchina? Voglio lasciarla a Charlie».

«Dov’è?», chiese Jacob, senza troppo entusiasmo. Gli lanciai un’occhiata, ma lui, accigliato, fissava il pavimento.

«Mi sembra di averla vista sul cruscotto», disse Billy. «Comunque se cerchi bene la trovi».

Con passo pigro Jacob si diresse di nuovo sotto la pioggia.

Billy e io restammo uno di fronte all’altra, in silenzio. I secondi scorrevano e quel silenzio cominciava a mettermi a disagio, perciò schizzai in cucina. E lui mi seguì, cigolando con le ruote umide sul linoleum.

Infilai il sacchetto nell’affollato scomparto superiore del frigo e mi voltai ad affrontare Billy. Il suo volto rugoso era indecifrabile.

«Charlie tornerà molto tardi». Il mio tono di voce sfiorava la maleducazione.

Lui annuì senza aggiungere nulla.

«Grazie ancora per la frittura».

Continuava ad annuire. Feci un sospiro e incrociai le braccia.

Probabilmente capì che avevo desistito dall’idea di buttarla in chiacchiere.

«Bella», mi chiamò, e tacque.

Restai in attesa.

«Bella», riprese, «Charlie è uno dei miei migliori amici».

«Sì».

Pronunciava con cura ogni singola parola, nella sua voce tonante. «Vedo che passi parecchio tempo in compagnia di uno dei Cullen».

«Si».

Socchiuse gli occhi. «Forse non sono affari miei, ma non penso sia una buona idea».

«Sì, hai ragione. Non sono affari tuoi».

Aggrottò le sopracciglia grigie, meravigliato. «Probabilmente non lo sai, ma la famiglia Cullen gode di cattiva reputazione nella riserva».

«A dire la verità, lo so eccome». La durezza della mia voce lo sorprese. «Ma non se la sono affatto meritata, no? Dal momento che, a quanto mi risulta, i Cullen non mettono mai piede nella riserva, o sbaglio?». Il mio accenno poco velato al patto che impegnava e proteggeva la sua tribù lo zittì all’istante.

«È vero», ammise guardingo. «Sembri... ben informata, a proposito dei Cullen. Più di quanto mi aspettassi».

Lo fissai, sprezzante: «Forse anche meglio informata di te».

Ci pensò sopra, serio e perplesso. «Può darsi». Mi lanciò un’occhiata pungente. «Anche Charlie ne è informato?».

Ecco, aveva scoperto il mio punto debole.

«A Charlie i Cullen piacciono molto». Capì subito che cercavo di restare sul vago. Non ne sembrò contento, ma neppure sorpreso.

«Non sono affari miei», disse. «Ma forse di Charlie sì».

«E penso che sia affar mio, decidere se sono suoi, o sbaglio?».

Abbozzai quella risposta confusa sforzandomi di non dire niente di compromettente. Probabilmente aveva capito ciò che intendevo. Ci pensò su mentre la pioggia iniziava a picchiettare contro il tetto, unico suono a riempire il silenzio.

Alla fine si arrese. «Sì. Immagino che anche questo sia affar tuo».

Sospirai di sollievo. «Grazie, Billy».

«Però stai attenta a quello che fai, Bella».

«Certo».

Mi fissò torvo: «Quel che voglio dirti è: non fare ciò che stai facendo».

Lo guardai negli occhi: erano pieni di preoccupazione per me, e restai senza parole.

In quel momento qualcuno bussò forte alla porta, facendomi sobbalzare.

«Non c’è nessuna foto in macchina». Era la voce arrabbiata di Jacob, che lo precedeva; qualche istante dopo, comparve con le spalle zuppe di pioggia e i capelli fradici.

Billy bofonchiò qualcosa, fece girare la sedia a rotelle su se stessa e con voce più serena e distaccata si diresse incontro al figlio. «Magari l’ho lasciata a casa».

Jacob alzò gli occhi al cielo, esasperato. «Fantastico».

«Be’, Bella, dillo a Charlie», prima di aggiungere qualcosa, Billy fece una pausa. «Che siamo passati».

«Certo», mormorai.

Jacob rimase sorpreso: «Ce ne andiamo già?».

«Charlie arriva tardi», spiegò Billy, spingendosi verso il figlio.

Jacob sembrava deluso. «Be’, allora alla prossima, Bella».

«Certo».

«Mi raccomando», disse Billy. Non risposi.

Jacob aiutò suo padre a uscire di casa. Accennai un saluto, lanciai un’occhiata fulminea al pick-up, vuoto, e mi chiusi la porta alle spalle prima ancora che fossero partiti.

Per qualche istante restai in corridoio, in attesa del rumore dell’auto che faceva retromarcia e si allontanava. Immobile, cercai di placare l’irritazione e l’ansia. Quando la tensione diminuì, salii in camera a cambiarmi.

Avevo bisogno di indumenti più pratici, perciò provai un paio di top; mi chiedevo che genere di serata mi aspettasse. Più mi concentravo sul futuro, più la visita appena ricevuta diventava insignificante. Lontana dall’influenza che sapevano esercitare Jasper ed Edward, però, il terrore a cui fino a poco prima ero sfuggita iniziava a tentarmi. Rinunciai subito a scegliere i vestiti: optai per una vecchia camicia di flanella e un paio di jeans, sicura che tanto non sarei riuscita nemmeno a togliere l’impermeabile.

Il telefono squillò, mi precipitai al piano di sotto per rispondere. C’era una sola voce che desideravo sentire, chiunque altro sarebbe stato una delusione. Ma sapevo che se lui avesse desiderato parlare con me si sarebbe semplicemente materializzato nella stanza.

«Pronto?», risposi, senza fiato.

«Bella? Sono io». Jessica.

«Oh, ciao Jess». All’istante cercai di tornare con i piedi per terra. Sembravano passati mesi dall’ultima volta che ci eravamo parlate, anziché qualche giorno. «Com’è andato il ballo?».

«Divertentissimo!», esclamò Jessica, entusiasta. Senza fare troppi complimenti, si lanciò in un resoconto della serata precedente minuto per minuto. Io risposi con tutti gli “mmm” e gli “aah” del caso, ma dovevo sforzarmi per mantenere la concentrazione. Jessica, Mike, il ballo, la scuola: in quel momento tutto mi sembrava assurdamente irrilevante. Non staccavo gli occhi dalla finestra, cercando di misurare a che altezza fosse il sole, dietro le nuvole dense.

«Hai sentito, Bella?», chiese Jess.

«Scusa, no».

«Ho detto che Mike mi ha baciata! Ci credi?».

«È splendido, Jess!».

«E tu, cos’hai fatto, ieri?», ribatté lei, irritata dalla mia scarsa attenzione. O forse delusa, perché non le avevo chiesto altri dettagli.

«Niente di particolare. Ho fatto un giro fuori per godermi un po’ di sole».

Il rombo dell’auto di Charlie risuonò nel garage.

«Edward Cullen non si è più fatto vivo?».

Sentii sbattere la porta d’ingresso e l’armeggiare chiassoso di mio padre che sistemava l’attrezzatura da pesca.

Non trovavo una risposta per Jessica, perché nemmeno io sapevo più cosa fosse la mia storia.

«Ehilà, piccola!», esclamò Charlie entrando in cucina. Lo salutai con la mano.

Lo sentì anche Jess: «Ah, c’è tuo padre. Nessun problema, ne parliamo domani. Ci vediamo in classe».

«A domani, Jess». Riappesi.

«Ehilà, papà». Si stava sciacquando le mani nel lavandino. «Dov’è il pesce?».

«L’ho messo nel freezer».

«Vado a prenderne un po’ prima che congeli: oggi pomeriggio Billy è passato a portare della frittura e delizie varie preparate da Harry Clearwater». Mi sforzai di sembrare entusiasta.

«Davvero?». Lo sguardo di Charlie si accese. «È la mia preferita».

Mentre pulivo e friggevo il pesce, lui riordinava la cucina. Più tardi, eccoci seduti a tavola a mangiare in silenzio. Charlie si godeva la cena. Io ero alla disperata ricerca di una scusa per affrontare l’argomento e portare a termine la missione.

«Tu cos’hai fatto oggi?», chiese lui, svegliandomi dal torpore.

«Be’, oggi pomeriggio ho gironzolato per casa...». Soltanto nell’ultimissima parte del pomeriggio, per la precisione. Mi sforzavo di essere allegra, ma mi sentivo vuota dentro. «E stamattina sono stata dai Cullen».

Charlie mollò la forchetta, che cadde sul tavolo.

«A casa del dottor Cullen?», chiese, sbalordito.

Finsi di non notare la sua reazione: «Sì».

«E cosa ci sei andata a fare?». La forchetta era ancora sul tavolo.

«Be’, avevo una specie di appuntamento con Edward Cullen, stasera, e lui ha insistito per presentarmi ai suoi genitori... Papà?».

Rischiava l’aneurisma.

«Papà, stai bene?».

«Esci con Edward Cullen?», chiese, minaccioso.

Oh-oh. «Pensavo che i Cullen ti piacessero».

«È troppo vecchio per te».

«Siamo entrambi al terzo anno». Non se ne rendeva conto, ma in realtà aveva molta più ragione di quanto pensasse.

«Aspetta... Qual è Edwin?».

«Edward è il più giovane, quello con i capelli castano ramati». Quello bello, bello come un dio...

«Oh, be’, così va... meglio, direi. Quello grosso non mi piace granché. Non ho dubbi che sia un bravo ragazzo e tutto il resto, ma sembra troppo... maturo per te. Questo Edwin è il tuo ragazzo?».

«Si chiama Edward, papà».

«Allora?».

«Più o meno sì».

«Ieri sera hai detto che in città non c’erano ragazzi interessanti». Ma a quel punto riprese la forchetta, segno che il peggio era passato.

«Be’, Edward non vive in città».

A bocca piena, mi lanciò un’occhiata sprezzante.

«E in ogni caso», ripresi, «siamo ancora alle prime fasi. Non mettermi in imbarazzo con discorsi da fidanzati, okay?».

«Quando arriva?».

«Tra qualche minuto dovrebbe essere qui».

«Dove ti porta?».

Stavo per perdere la pazienza. «Spero che abbandonerai presto il tuo metodo da Tribunale dell’Inquisizione. Andiamo a giocare a baseball con la sua famiglia».

Mi rispose sarcastico: «Tu giochi a baseball?».

«Be’, probabilmente resterò a guardare».

«Deve piacerti davvero, eh?», commentò, malizioso.

Mi limitai a sospirare, alzando gli occhi al cielo.

Il rombo di un motore si stava avvicinando. Saltai in piedi e iniziai a lavare i piatti.

«Lascia stare, li faccio domattina. Tu mi coccoli troppo».

Il campanello suonò, e Charlie si affrettò ad aprire. Ero mezzo passo dietro di lui.

Senza che ce ne fossimo accorti, fuori aveva iniziato a diluviare. Edward apparve sotto l’aureola della luce della veranda, sembrava un modello nella pubblicità di un impermeabile.

«Entra, Edward».

Per fortuna Charlie aveva azzeccato il nome.

«Grazie, ispettore», rispose Edward, rispettoso.

«Chiamami tranquillamente Charlie. Dammi il giaccone».

«Grazie, signore».

«Siediti pure, Edward».

Feci una smorfia.

Edward si accomodò con grazia sull’unica sedia, costringendomi a sedermi sul sofà accanto all’ispettore Swan. Gli lanciai un’occhiataccia. Lui rispose con un occhiolino, alle spalle di Charlie.

«E allora, ho sentito che porti mia figlia a vedere una partita di baseball». Solo nello Stato di Washington la pioggia a catinelle non impedisce affatto gli sport all’aperto. «Sì, signore, quello è il programma». Non sembrava sorpreso che avessi detto la verità a mio padre. Probabilmente aveva ascoltato la conversazione.

«Be’, in bocca al lupo, allora».

Charlie rise, ed Edward si unì a lui.

«D’accordo». Mi alzai. «Smettetela di prendermi in giro. Andiamo». Recuperai la giacca a vento in anticamera. Loro mi seguirono.

«Non fare tardi, Bell».

«Non si preoccupi, Charlie. La porto a casa presto», dichiarò Edward.

«Tratta bene mia figlia, d’accordo?».

Sbuffai, esasperata, ma mi ignorarono entrambi.

«Le prometto che con me starà al sicuro, signore».

Era impossibile che Charlie dubitasse di quelle parole: erano intrise di sincerità.

Io sgattaiolai fuori insofferente. Risero entrambi, poi Edward mi seguì.

Uscita in veranda, restai di stucco. Accanto al mio pick-up c’era una jeep mostruosa. Le ruote mi arrivavano alla vita. I fari anteriori e posteriori erano coperti da protezioni di metallo e sul paraurti spiccavano quattro riflettori supplementari. Il tetto era rosso metallizzato.

Charlie commentò con un fischio.

«Allacciate le cinture», disse, ridendo sotto i baffi.

Edward mi seguì e aprì la portiera. Calcolai l’altezza del sedile e mi preparai al salto. Lui sbuffò e mi sollevò con una mano sola. Speravo che Charlie non avesse visto.

Mentre lui si dirigeva, a passo umano, lento, dalla parte del guidatore, cercai di allacciare la cintura. Ma c’erano troppe fibbie.

«E questa cos’è?».

«Un’imbracatura da fuoristrada».

«Mamma mia».

Cercai di trovare il giusto alloggiamento per tutte le fibbie, ma ero lenta e impacciata. Edward, spazientito, si sporse su di me per aiutarmi. Fortunatamente Charlie era invisibile, sotto la veranda e dietro la pioggia fitta. Questo significava che non poteva accorgersi di come le mani di Edward indugiassero sul mio collo e mi sfiorassero le spalle. Rinunciai ad aiutarlo e cercai di non andare in iperventilazione.

Edward girò la chiave e il motore prese vita. Ci lasciammo la casa alle spalle.

«Questa jeep è davvero... grossa, non c’è che dire».

«È di Emmett. Immaginavo che non ti andasse di fartela tutta di corsa».

«Dove tenete questo coso?».

«Abbiamo trasformato in garage uno degli edifici accanto alla casa».

«Non ti allacci la cintura?».

Mi guardò come se stessi scherzando.

Poi ci feci caso e mi riecheggiarono le sue parole.

«Tutta di corsa? Nel senso che dovremo anche camminare?». La mia voce salì di alcune ottave.

Rise sotto i baffi: «Tu non correrai».

«Io starò di nuovo male».

«Se chiudi gli occhi andrà tutto bene».

Strinsi i denti, per combattere il panico.

Si avvicinò a baciarmi la fronte, e poi fece una smorfia. Lo guardai perplessa.

«Il tuo odore con la pioggia è buonissimo».

«In senso buono o cattivo?».

Sospirò. «In entrambi i sensi, come sempre».

Non so come riuscisse a orientarsi, al buio e sotto quell’acquazzone, ma svoltò in una strada secondaria che era molto poco strada e molto più sentiero di montagna. Parlare era impossibile, perché rimbalzavo su e giù come un martello pneumatico. Edward invece si godeva il viaggio e sorrise per tutto il tragitto.

Infine giungemmo al termine della strada: tre pareti di alberi verdi circondavano la jeep. Il temporale era diventato una pioggerella, sempre più debole, e dietro le nubi il cielo si schiariva.

«Scusa, Bella, ma ora ci tocca procedere a piedi».

«Sai una cosa? Ti aspetto qui».

«Dov’è finito il tuo coraggio? Stamattina sei stata straordinaria».

«Non ho ancora dimenticato l’ultima volta». Possibile che fosse passato soltanto un giorno?

In un lampo, eccolo al mio fianco. Iniziò a slacciarmi l’imbracatura.

«Ci penso io, tu vai avanti», protestai.

«Mmm...». In un secondo aveva già terminato. «A quanto pare mi toccherà metter mano alla tua memoria».

Prima che potessi reagire, mi sollevò dal sedile e mi costrinse a scendere. Era rimasto solo un filo di nebbia: le previsioni di Alice si stavano avverando.

«Mettere mano alla mia memoria?», chiesi nervosamente.

«Qualcosa del genere». Mi guardava intensamente, con attenzione, ma nel profondo dei suoi occhi c’era dell’ironia. A quel punto ero costretta tra la portiera della jeep, alle mie spalle, ed Edward di fronte a me, che mi chiudeva ogni via d’uscita appoggiandosi al finestrino con entrambe le mani. Si fece ancora più vicino, il suo viso era a pochi centimetri dal mio. Sentivo il suo respiro addosso, e bastava semplicemente il suo odore a mettere in crisi la mia razionalità. «Dimmi di cos’hai paura», alitò.

«Be’, ecco, di sbattere contro un albero... e di morire. E poi, di avere la nausea».

Soffocò una risata. Poi piegò la testa e avvicinò delicatamente le labbra fredde all’incavo del mio collo.

«Adesso hai ancora paura?», sussurrò, sfiorandomi la pelle.

«Si». Faticavo a mantenere la concentrazione. «Di sbattere contro gli alberi e di avere la nausea».

Con la punta del naso disegnò una linea, dal collo al mento. Il suo respiro freddo mi faceva il solletico.

«E adesso?», sussurrò, con le labbra vicinissime alle mie.

Mi mancava il fiato. «Alberi... Nausea da movimento».

Si avvicinò a baciarmi sulle palpebre. «Bella, non dirmi che credi davvero che potrei sbattere contro un albero».

«Tu no, ma io sì». Non c’era un filo di convinzione nella mia voce. Edward pregustava una vittoria certa.

Mi baciò dolcemente la guancia, a un centimetro dalle labbra.

«Pensi che permetterei a un albero di farti del male?». La sua bocca sfiorò leggerissima la mia.

«No», dissi senza voce. Ero soltanto a metà della mia brillante arringa, ma già avevo dimenticato come proseguiva.

«Vedi», disse, senza allontanare le labbra di un millimetro. «Non c’è niente di cui avere paura, no?».

«No», sospirai, rassegnata.

Poi, con foga, prese la mia testa fra le mani e mi diede un vero bacio, muovendo le sue labbra con decisione sopra le mie.

Non avevo scuse per comportarmi così. A quel punto avrei dovuto saperla lunga. Eppure, non riuscii a trattenermi dal reagire esattamente come la prima volta. Anziché restare tranquilla e immobile, mi allacciai stretta alle sue spalle e mi ritrovai avvinghiata al suo petto roccioso. Con un gemito dischiusi le labbra.

Lui si allontanò di scatto, liberandosi senza difficoltà dalla mia presa.

«Accidenti, Bella!», sbottò ansimante. «Tu mi vuoi morto, altroché!».

Mi piegai in avanti, appoggiandomi alle ginocchia per non perdere l’equilibrio.

«Tu sei indistruttibile», sussurrai, senza fiato.

«Lo credevo anch’io, prima di conoscerti. Adesso andiamocene da qui, prima che io combini qualche grossa stupidaggine», ringhiò.

Mi prese in spalla con uno strattone, nonostante si stesse evidentemente sforzando di non essere troppo irruento Strinsi le gambe attorno ai suoi fianchi e le braccia attorno alle spalle, in una presa soffocante.

«Ricorda di non guardare», disse severo.

Allora intrufolai il viso tra il braccio e la sua scapola, serrando gli occhi.

Pareva che fossimo rimasti immobili. Sentivo Edward scivolare via dolcemente, come se passeggiasse su un marciapiede. Avevo la tentazione di sbirciare per controllare che stesse davvero volando in mezzo alla foresta, ma riuscii a resistere. Non valeva la pena rischiare quelle tremende vertigini. Mi accontentai di ascoltare il suo respiro regolare.

Capii che ci eravamo fermati soltanto quando sentii un suo buffetto sui capelli.

«Ci siamo, Bella».

Osai aprire gli occhi e, in effetti, eravamo arrivati. Allentai la presa con cautela e mi lasciai scivolare giù, atterrando di sedere.

«Ohi!», esclamai, rovinando gambe all’aria sulla terra umida.

Mi fissò incredulo, evidentemente incerto se restare arrabbiato o prendermi in giro. Ma di fronte alla mia espressione sbalordita si lasciò andare a una risata fragorosa.

Mi alzai senza badargli, togliendomi di dosso il fango e le felci. E lui rise ancora più forte. Seccata, iniziai a camminare a grandi passi verso la foresta.

Sentii il suo abbraccio attorno ai fianchi.

«Dove vai, Bella?».

«A vedere una partita di baseball. Non mi sembra che tu abbia più tanta voglia di giocare, ma sono certa che gli altri si divertiranno anche senza di te».

«Stai andando dalla parte sbagliata».

Mi voltai senza degnarlo di uno sguardo e scattai nella direzione opposta. Mi riacchiappò.

«Non arrabbiarti, è stato più forte di me. Avresti dovuto vederti in faccia». Si lasciò scappare una risatina.

«Ah, l’unico a cui è permesso di arrabbiarsi sei tu?».

«Non ero arrabbiato con te».

«“Bella, tu mi vuoi morto”?!», lo citai acida.

«Quello è un semplice dato di fatto».

Cercai nuovamente di scappare, ma mi teneva stretta.

«Eri arrabbiato».

«Sì».

«Ma se hai appena detto...».

«Non ero arrabbiato con te. Non capisci, Bella?». Si era improvvisamente rabbuiato, sul suo viso non c’era più traccia di divertimento. «Non capisci?».

«Che cosa?». Ero confusa dalle sue parole e dal suo cambiamento di umore.

«Non sono mai arrabbiato con te. Come potrei esserlo? Sei sempre così coraggiosa, fiduciosa... calorosa».

«E allora, perché?», sussurrai, ricordando gli accessi di umor nero che talvolta lo allontanavano da me e che avevo sempre interpretato come frustrazione, giustificata da quanto fossi debole, lenta, imprevedibile nelle mie reazioni umane...

Mi accarezzò le guance con delicatezza. «Ciò che mi fa infuriare», disse gentile, «è l’impossibilità di proteggerti dai rischi. La mia stessa esistenza è un rischio, per te. A volte mi odio dal profondo. Dovrei essere più forte, capace di...». Gli chiusi la bocca con le dita.

«No».

Prese la mano con cui l’avevo zittito e se la posò sulla guancia.

«Ti amo», disse. «È una giustificazione banale per quanto faccio, ma sincera».

Era la prima volta che lo sentivo dire che mi amava con così tante parole. Forse lui non se ne era reso conto, ma io sì.

«Adesso, per favore, cerca di comportarti bene», aggiunse, e si avvicinò per baciarmi con delicatezza.

Restai immobile, come dovevo. Poi feci un sospiro.

«Hai promesso all’ispettore Swan che mi avresti portata a casa presto, ricordi? È meglio che ci muoviamo».

«Sissignora».

Sorrise malizioso e mi liberò dalla presa. Tenendomi per mano, mi guidò per qualche metro attraverso le felci alte e umide e il muschio spesso, poi attorno a un massiccio abete canadese, per sbucare infine al bordo di un enorme campo aperto, ai piedi dei Monti Olimpici. Era due volte più grande di uno stadio di baseball.

Gli altri erano già lì: Esme, Emmett e Rosalie, seduti su una roccia che spuntava dal terreno, a un centinaio di metri da noi. A quasi mezzo chilometro di distanza, Jasper e Alice erano impegnati a lanciare qualcosa avanti e indietro, anche se non vedevo nessuna palla. Carlisle sembrava intento a marcare le basi, ma era possibile che fossero così lontane?

Quando ci videro, i tre che erano seduti si alzarono. Esme si avvicinò a noi. Emmett la seguì dopo aver indugiato con lo sguardo verso Rosalie, che dandoci le spalle si era diretta al prato senza degnarci di un’occhiata. Il mio stomaco reagì con un sussulto.

«Veniva da te il rumore che abbiamo sentito, Edward?», chiese Esme.

«Sembrava un orso che tossiva», precisò Emmett.

Accennai un sorriso a Esme. «Era lui».

«Senza volerlo, Bella mi ha fatto ridere», spiegò Edward, per chiudere il discorso alla svelta.

Alice aveva lasciato la sua posizione e veniva di corsa, ovvero a passo di danza, verso di noi. Con una frenata fluida si arrestò ai nostri piedi. «È il momento», annunciò.

Non appena aprì bocca, un tuono cupo e profondo proveniente da ovest, dalla città, fece tremare la foresta alle nostre spalle.

«Inquietante, eh?», mi stuzzicò Emmett e, prendendosi fin troppa confidenza, mi fece l’occhiolino.

«Andiamo». Alice afferrò la mano di Emmett, e insieme sfrecciarono attraverso il campo sovradimensionato. Lei correva come una gazzella; lui era altrettanto aggraziato e veloce, ma somigliava a ben altro animale.

«Sei pronta per una bella partita?», chiese Edward, con uno sguardo raggiante e impaziente.

Cercai di rispondere con il dovuto entusiasmo: «Forza ragazzi!».

Lui rise sotto i baffi e, dopo avermi scompigliato i capelli, corse verso gli altri due. La sua corsa era più aggressiva, somigliava a un ghepardo, e li superò facilmente. Tanta grazia e potenza mi toglievano il fiato.

«Scendiamo anche noi?», chiese Esme, con la sua voce morbida e melodiosa, mentre io fissavo Edward rapita, a bocca aperta. Mi ricomposi alla svelta e annuii. Esme si manteneva di fianco a me, ma a distanza di qualche metro, forse temeva ancora di spaventarmi. Adattò il suo passo al mio, senza dare segni di impazienza.

«Non giochi con loro?», chiesi, timida.

«No, preferisco fare da arbitro: voglio che rispettino le regole».

«Perché, di solito barano?».

«Oh sì, e dovresti sentire che litigate! Anzi, meglio di no, penseresti che sono stati allevati da un branco di lupi!».

«Mi sembra di sentire mia madre», risi, sorpresa.

Anche lei rise. «Per me sono come figli veri. Non potrei mai vincere il mio istinto materno... Edward ti ha detto che ho perso un bambino?».

«No», mormorai basita, mentre tentavo di capire a quale esistenza si riferisse.

«Sì, il mio primo e unico figlio. Morì pochi giorni dopo il parto, povero piccolo». Fece un sospiro. «Mi si spezzò il cuore... Fu per questo motivo che mi lanciai dallo scoglio», aggiunse, come niente fosse.

«Edward mi ha detto che eri... caduta».

«Il solito gentiluomo», rise. «Edward è stato il primo dei miei nuovi figli. L’ho sempre considerato tale, benché per un verso sia più vecchio di me». Mi rivolse un sorriso caloroso. «Ecco perché sono così contenta che ti abbia trovata, cara». Tutto quell’affetto non stonava sulle sue labbra. «Ha vissuto in solitudine troppo a lungo; vederlo così isolato mi ha sempre fatto soffrire».

«Perciò non è un problema che io sia... così... sbagliata?», chiesi, esitante.

«No». Era pensierosa. «Tu sei ciò che vuole. In un modo o nell’altro, funzionerà», disse, ma la sua fronte tradiva che era tutt’altro che fiduciosa. Giunse il rombo di un altro tuono.

Esme mi fece segno di fermarmi: eravamo giunte a bordo campo. I giocatori erano divisi in due squadre. Edward era il più distante, nella metà sinistra del campo, Carlisle stava tra la prima e la seconda base e Alice teneva la palla, in piedi sopra quello che evidentemente era il monte di lancio.

Emmett faceva roteare una mazza di alluminio, sibilava nell’aria, quasi invisibile. Mi aspettavo che si avvicinasse alla casa base, ma poi mi resi conto, quando si mise in posizione, che già ci stava, più lontano dal lanciatore di quanto potessi credere. Jasper, catcher della squadra avversaria, era parecchi metri più dietro, alle sue spalle. Ovviamente, nessuno indossava guanti.

«D’accordo», disse Esme con voce squillante, e sapevo che persino Edward, lontano com’era, riusciva a sentirla. «Prima battuta».

Alice restava ferma, immobile, per non avvantaggiare il battitore. Sembrava pronta a un lancio diretto, anziché a un colpo effettato. Teneva la palla stretta in grembo, e poi, come un cobra, la sua mano destra scattò e la palla finì dritta tra le mani di Jasper.

«Era uno strike?», bisbigliai a Esme.

«Se il battitore non la colpisce, è strike».

Jasper restituì la palla ad Alice. Lei si concesse un mezzo sorriso e lanciò di nuovo.

Stavolta, la mazza riuscì chissà come a colpire la palla invisibile. Il fragore dell’impatto fu esplosivo, rintronante; echeggiò tra le montagne, e capii all’istante perché avessero scelto di giocare sotto il temporale.

La palla schizzò come una meteora sopra il campo e si infilò nella foresta.

«Fuori campo», mormorai.

«Aspetta», rispose Esme, in ascolto con una mano alzata. Emmett era un fulmine sulle basi, Carlisle la sua ombra. Mi accorsi che mancava Edward.

«Out!», strillò Esme. Sbalordita, vidi Edward uscire dal limite degli alberi, mostrandoci la palla e un gran sorriso che persino io potevo scorgere.

«Emmett è il battitore più forte», spiegò Esme, «ma Edward è il corridore più veloce».

L’inning proseguì, sotto il mio sguardo incredulo. Era impossibile seguire la velocità della palla, il ritmo a cui i giocatori correvano attorno al campo.

Scoprii un altro motivo per cui avevano aspettato il temporale quando Jasper, nel tentativo di evitare le prese infallibili di Edward, lanciò una palla bassa verso Carlisle. Lui corse verso la palla e inseguì Jasper verso la prima base. Si scontrarono, e il suono dell’impatto somigliava allo schianto di due grandi rocce. Balzai in piedi, preoccupatissima, ma nessuno dei due si era fatto un graffio.

«Salvo», disse Esme, calma.

Con la squadra di Emmett in vantaggio di un punto - Rosalie era riuscita a fare un giro completo delle basi sfruttando una delle lunghissime ribattute di Emmett -, venne il turno di battuta di Edward. Corse al mio fianco, lo sguardo sfavillante di entusiasmo.

«Che te ne pare?».

«Di sicuro non riuscirò più a sopportare la vecchia e noiosa Major League».

«Sembra quasi che tu ne fossi fanatica, prima», rispose ridendo.

«Sono un po’ delusa», dissi, provocandolo.

«Perché?».

«Be’, sarebbe carino se mi mostrassi almeno una cosa che non sei capace di fare meglio di chiunque altro al mondo».

Sfoderò il suo speciale sorriso sghembo, e mi tolse il fiato.

«Eccomi», disse, preparandosi a battere.

Giocò con intelligenza, tenendo la palla bassa, fuori dalla portata di Rosalie che giocava da esterna, e guadagnò fulmineo due basi prima che Emmett rimettesse la palla in gioco. Dopo di lui, Carlisle ne ribatté una tanto lontano - con un tuono che mi spezzò i timpani - da riuscire a chiudere il punto assieme a Edward. Alice, soddisfatta, batteva il cinque a entrambi.

Mano a mano che la partita procedeva, il punteggio continuava a cambiare, e ogni volta che una delle due squadre andava in vantaggio iniziavano gli sfottò, come in una qualsiasi partita tra amici, per strada. Di tanto in tanto Esme li richiamava all’ordine. Tornarono i tuoni, ma non ci bagnammo, come Alice aveva previsto.

Carlisle stava per battere, ed Edward si preparava a ricevere, quando Alice ebbe un sussulto. Come al solito io ammiravo Edward, e mi accorsi solo della sua testa che scattava verso di lei. I loro sguardi si incrociarono, e in un istante qualcosa passò tra loro e corse dall’una all’altro. Prima ancora che gli altri riuscissero a parlare con Alice, eccolo al mio fianco.

«Alice?», chiese Esme, nervosa.

«Non ho visto... non sono riuscita a distinguere», sussurrò la ragazza.

A quel punto, tutti si erano raccolti attorno a lei.

«Cos’è, Alice?», chiese Carlisle, con la voce calma dell’autorità.

«Si spostano molto più velocemente di quanto pensassi. Ho capito soltanto ora di avere sbagliato prospettiva», mormorò.

Jasper si avvicinò a lei, protettivo: «Cos’è cambiato?».

«Ci hanno sentiti giocare e hanno fatto una deviazione», disse lei mortificata, come se si sentisse responsabile di quella sorpresa indesiderata.

Sette paia di occhi mi fissarono all’istante.

«Tra quanto?», disse Carlisle, voltandosi verso Edward.

Sul suo viso apparve uno sguardo intenso e concentrato.

«Meno di cinque minuti. Stanno correndo... vogliono giocare». Si rabbuiò.

«Puoi farcela?», gli chiese Carlisle rivolgendomi un rapido sguardo.

«No, non portandola...», tagliò corto. «Inoltre, la cosa peggiore che ci possa capitare è che sentano la scia e inizino a cacciare».

«Quanti?», chiese Emmett ad Alice.

«Tre».

«Tre! Allora lascia che arrivino». I fasci di muscoli d’acciaio si flettevano sulle sue braccia massicce.

In pochi ma interminabili istanti, Carlisle decise il da farsi. Solo Emmett restava imperturbabile; gli altri osservavano ansiosi Carlisle.

«Continuiamo a giocare», decise infine. Era tranquillo, pacato. «Alice ha detto che sono soltanto curiosi».

Quello! che si dicevano era un torrente di parole che si rovesciò in fretta, in pochi secondi. Avevo ascoltato con cura e capito quasi tutto, ma non sentii ciò che Esme stava chiedendo a Edward con una vibrazione muta delle labbra. Notai solo che lui scosse il capo, e l’aria rassicurata sul viso di lei.

«Ricevi tu, Esme», disse Edward. «Io mi fermo qui». E rimase impalato di fronte a me.

Gli altri tornarono al campo, scrutando la foresta con la loro vista straordinariamente acuta. Alice ed Esme restavano voltate verso di me.

«Sciogliti i capelli», disse Edward, lentamente e sottovoce.

Obbedii, sciolsi l’elastico e agitai la testa.

Feci l’osservazione più ovvia: «Gli altri stanno per arrivare».

«Sì, rimani immobile, stai zitta e non allontanarti da me, per favore». Nascondeva bene la tensione, ma riuscivo a sentirla. Mi coprì il viso con i capelli.

«Non servirà», disse Alice a mezza voce. «Il suo odore si sente fin dall’altro lato del campo».

«Lo so». La sua voce era velata di frustrazione.

Carlisle prese posizione, e il resto dei giocatori lo seguì senza entusiasmo.

«Cosa ti ha chiesto Esme?», sussurrai.

Rispose soltanto dopo qualche secondo. «Se sono assetati», bisbigliò controvoglia, a labbra strette.

I secondi passavano; la partita continuava, apatica. Mantenevano per prudenza le ribattute smorzate; Emmett, Rosalie e Jasper non si allontanavano dall’interno del campo. Di tanto in tanto, malgrado la paura che mi annebbiava il cervello, sentivo addosso gli occhi di Rosalie. Erano inespressivi, ma qualcosa nella tensione delle sue labbra mi diceva che era in collera.

Edward non prestava alcuna attenzione alla partita, scrutava la foresta con gli occhi e con la mente.

«Mi dispiace, Bella», mormorò. Era furioso. «È stato stupido, irresponsabile esporti a questo rischio. Mi dispiace tanto».

Il suo respiro si arrestò e con gli occhi fissò un punto alla sua destra. Fece mezzo passo, frapponendosi tra me e ciò che stava arrivando.

Carlisle, Emmett e gli altri si voltarono nella stessa direzione, attirati da rumori troppo deboli per le mie orecchie.

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