19 Addii

Charlie era rimasto sveglio ad aspettarmi. Le luci di casa erano tutte accese. Non avevo la più pallida idea di cosa raccontargli per convincerlo a lasciarmi andare. Non sarebbe stata affatto una cosa piacevole.

Edward accostò lentamente, attento a non sbarrare la strada al pick-up. I miei tre compagni di viaggio erano all’erta, rigidi sui sedili, intenti ad ascoltare ogni minimo rumore del bosco, a osservare ogni ombra, a sentire ogni odore, controllando che niente fosse fuori posto. A motore spento, mentre loro ascoltavano, io restavo seduta, immobile.

«Non è qui», disse nervoso Edward. «Andiamo».

Emmett si avvicinò per aiutarmi a uscire dall’imbracatura. «Non preoccuparti, Bella», mi parlò piano, fiducioso, «ce ne sbarazzeremo in fretta».

Lo guardavo, e mi sentii gli occhi lucidi. Ci conoscevamo appena, ma l’idea di non sapere quando ci saremmo rivisti mi colmava di angoscia. Era soltanto un assaggio di tutti gli addii che mi sarebbero toccati nell’ora successiva, al cui solo pensiero iniziai a piangere.

«Alice, Emmett». Le parole di Edward erano un ordine. I due sparirono all’istante, assorbiti nell’oscurità. Edward aprì la portiera e mi prese per mano, proteggendomi nel suo abbraccio. Mi accompagnò svelto di fronte a casa, con lo sguardo vigile nel buio della notte.

«Quindici minuti», ribadì, con un filo di voce.

«Ce la posso fare», dissi tra i singhiozzi. Le lacrime mi avevano dato l’ispirazione.

Mi fermai sulla soglia della veranda e gli presi il viso tra le mani. Lo guardai negli occhi, fiera.

«Ti amo», dissi, e la mia voce era profonda e decisa. «Ti amerò sempre, succeda quel che succeda».

«Non ti succederà niente, Bella», disse lui con altrettanta convinzione.

«L’importante è che tu segua il piano. Proteggi Charlie, per favore. Dopo stasera ce l’avrà sicuramente con me, e voglio avere la possibilità di scusarmi, quando tutto sarà finito».

«Entra, Bella. Dobbiamo sbrigarci», disse, impaziente.

«Una cosa ancora», lo implorai sottovoce. «Non ascoltare una sola parola di ciò che sto per dire!». Mi si era avvicinato, perciò mi bastò alzarmi in punta di piedi per baciargli le labbra, sorprese e ghiacciate, con tutta la forza di cui ero capace. Poi mi voltai e con un calcio aprii la porta.

«Vattene, Edward!», urlai, correndo in casa e sbattendogli la porta in faccia, come se la sorpresa non fosse già abbastanza.

«Bella?». Charlie, rimasto ad aspettarmi in salotto, era scattato subito in piedi dal divano.

«Lasciami stare!», gridai, in lacrime. Salii le scale di corsa e chiusi a chiave la porta della mia stanza, sbattendola. Raggiunsi il letto e mi gettai a terra, in cerca della mia sacca da viaggio. Poi frugai tra il materasso e la rete, dove nascondevo la vecchia calza che custodiva i miei risparmi segreti.

Charlie bussava forte alla porta.

«Bella, stai bene? Che succede?». Sembrava impaurito.

«Me ne torno a casa», urlai, con voce rotta dal pianto nel momento perfetto.

«Ti ha trattata male?». Dalla paura, stava passando alla rabbia.

«No!», il mio strillo salì di parecchie ottave. Mi voltai verso l’armadio, ed ecco spuntare Edward, che in silenzio ne estraeva bracciate di vestiti a caso, per lanciarmele.

«Ti ha lasciata?», Charlie era perplesso.

«No!», urlai, con un po’ meno fiato, mentre affannata infilavo tutto nella sacca. Edward mi lanciò il contenuto di un altro cassetto. La borsa era già piena.

«Cos’è successo, Bella?», gridò Charlie da dietro la porta, senza smettere di bussare.

«Io ho lasciato lui», risposi, mentre mi accanivo sulla zip della sacca. Le mani capaci di Edward spinsero via le mie e la chiusero senza difficoltà. Me la sistemò per bene in spalla.

«Ti aspetto sul pick-up... Vai!», sussurrò, e mi spinse verso la porta. Svanì, uscendo dalla finestra.

Aprii la porta, scansai bruscamente Charlie e scesi le scale di slancio, attenta che il peso della borsa non mi sbilanciasse.

«Ma cos’è successo?», urlò lui. Mi era alle spalle. «Mi sembrava che ti piacesse».

In cucina mi raggiunse e mi trattenne per una spalla. Malgrado lo sbalordimento, la sua presa era forte.

Con uno strattone mi costrinse a voltarmi, e capii subito che non aveva nessuna intenzione di lasciarmi andare. Riuscii a escogitare soltanto una maniera per fuggire, e questa implicava ferirlo a tal punto che mi sarei odiata. Ma non avevo più tempo e dovevo mettere Charlie al sicuro.

Lo fissai con lo sguardo pieno di lacrime appena spuntate.

«Il problema è proprio che mi piace. Non ce la faccio più. Non posso mettere radici qui. Non voglio finire intrappolata in questa noiosa stupida cittadina, come la mamma! Non intendo ripetere il suo stesso errore idiota. Odio Forks... non voglio sprecarci più neanche un minuto del mio tempo!».

Mi lasciò la spalla come se avesse sentito una scossa elettrica. Voltai le spalle a Charlie, attonito e ferito, e puntai dritta verso la porta.

«Bells, non puoi andartene ora. È notte», sussurrò alle mie spalle.

Non mi voltai. «Se mi stanco dormirò nel pick-up».

«Aspetta almeno una settimana», mi implorò, ancora intontito dalla sorpresa. «Lascia almeno che Renée torni a casa».

«Cosa?». Quello fu un fulmine a ciel sereno.

Rincuorato dalla mia incertezza, continuò balbettando: «Ha chiamato mentre eri fuori. Le cose non stanno andando granché bene in Florida, e se Phil non trova un contratto entro la fine della settimana torneranno in Arizona. Il vice allenatore dei Sidewinders dice che forse hanno bisogno di un altro interbase».

Scossi il capo, cercando di riordinare le idee, peggio che confuse. Più aspettavo, più Charlie rischiava.

«Ho la chiave», mormorai, girando la maniglia. Era troppo vicino, con una mano allungata verso di me e l’espressione sconvolta. Non potevo perdere altro tempo a discutere. Ero obbligata ad affondare il coltello nella piaga.

«Lasciami andare, Charlie, per favore». Le ultime parole di mia madre, poco prima di attraversare quella stessa soglia, molti anni prima. Le pronunciai con tutta la rabbia che potevo e spalancai la porta. «Non ha funzionato, punto e basta. Odio Forks, la odio!».

Le mie parole crudeli fecero effetto: Charlie rimase sulla porta, impietrito e frastornato, mentre io fuggivo nella notte. Ero schifosamente terrorizzata dal giardino vuoto. Corsi a perdifiato verso il pick-up e notai un’ombra scura alle mie spalle. Lanciai la borsa sul pianale e spalancai la portiera. La chiave era già nel quadro.

«Ti chiamo domani!», gli urlai. Non so cosa avrei dato per potergli spiegare tutto in quel momento, ma sapevo che non ne sarei stata neppure capace. Accesi il motore e partii a mille.

Edward mi prese la mano.

«Accosta», disse, non appena la casa e Charlie sparirono dalla nostra visuale.

«So guidare», dissi con il viso coperto di lacrime.

A sorpresa, le sue lunghe mani mi strinsero i fianchi e con un piede mi tolse il controllo dell’acceleratore. Mi sollevò, spostandomi dal posto di guida, e in un secondo eccolo al volante. Il pick-up non deviò di un centimetro.

«Non saresti capace di ritrovare la casa», si giustificò.

All’improvviso un paio di fari si accesero alle nostre spalle. Mi sporsi dal finestrino, terrorizzata.

«Non preoccuparti, è Alice». Mi prese di nuovo la mano.

Davanti agli occhi avevo ancora l’immagine di Charlie sulla porta di casa. «E il segugio?».

«Ha assistito all’ultima parte della tua esibizione», disse Edward, torvo.

«E Charlie?», chiesi, angosciata.

«Il segugio ha seguito noi. È alle nostre spalle in questo momento».

Mi sentii ghiacciare.

«Possiamo seminarlo?».

«No». Eppure Edward accelerò. Il motore del pick-up lanciò un gemito di protesta.

All’improvviso, il piano non mi sembrava più tanto brillante.

Fissavo i fari di Alice dietro di noi, quando il pick-up scartò e fuori dal finestrino apparve un’ombra scura.

Il mio urlo agghiacciante durò una frazione di secondo, prima che Edward mi tappasse la bocca.

«È Emmett!».

Lasciò la presa e mi strinse con un braccio.

«Va tutto bene, Bella. Ti portiamo al sicuro».

Sfrecciavamo per la città addormentata, verso l’autostrada diretta a nord.

«Non immaginavo che fossi così annoiata dalla vita di provincia», attaccò Edward, e sapevo che stava cercando di distrarmi. «Mi sembrava che ti ci stessi abituando molto bene... - soprattutto negli ultimi tempi. Ma forse mi sono solo illuso di averti reso la vita un po’ più interessante».

«Non sono stata carina», confessai, abbassando gli occhi e ignorando il tentativo di cambiare discorso. «Ho ripetuto le stesse parole che disse mia madre quando se ne andò. È stato un colpo davvero basso».

«Non preoccuparti. Saprà perdonare». Accennò un sorriso, senza convincermi.

Lo fissai disperata, e nei miei occhi vide il panico.

«Bella, andrà tutto bene».

«Non quando sarai lontano», sussurrai.

«Ci rivedremo tra qualche giorno», rispose, stringendo la presa attorno ai miei fianchi. «Non dimenticare che l’idea è stata tua».

«Era l’idea migliore... per forza è stata mia».

Il sorriso che mi rivolse era vuoto e scomparve immediatamente.

«Perché è successo tutto questo?», chiesi, senza voce. «Perché io?».

Edward fissava la strada inespressivo e cupo. «È colpa mia. È stato stupido esporti in quella maniera». Ovvio, era arrabbiato con se stesso.

«Non è ciò che intendevo. Ero li, certo. Ma non ho infastidito gli altri due. Perché questo James avrebbe deciso di uccidere me? Con tutta la gente che c’è, perché proprio io?».

Prima di rispondere attese qualche istante.

«Stasera ho analizzato bene la sua mente», disse Edward a voce bassa. «Temo che in ogni caso non sarei riuscito a impedire tutto questo. In un certo senso, è anche colpa tua». Era beffardo. «Se il tuo odore non fosse così straordinariamente delizioso, forse non ne sarebbe stato toccato. Ma quando ti ho difesa... be’, ho peggiorato le cose, e di molto. Non è abituato a essere ostacolato, e non importa quanto insignificante sia la preda. Non si ritiene altro che un cacciatore. La sua esistenza è fatta soltanto di pedinamenti, è sempre alla ricerca di nuove sfide. All’improvviso, gliene abbiamo fornita una su un piatto d’argento: un folto clan di forti guerrieri che proteggono l’unico elemento vulnerabile del gruppo. Non puoi immaginare quanto lui sia euforico in questo momento. È il suo gioco preferito, e lo abbiamo appena invitato a una partita più eccitante del solito». Aveva la voce piena di disgusto.

Fece una pausa.

«D’altro canto, se fossi rimasto impassibile ti avrebbe uccisa seduta stante», disse. Era abbattuto, disperato.

«Pensavo... che sugli altri il mio profumo non avesse lo stesso... effetto che ha su di te», balbettai.

«Infatti non ce l’ha. Ma ciò non significa che tu non sia comunque una tentazione. Se il segugio - o uno degli altri due - si fosse sentito attratto da te come lo sono io, sarebbe stato inevitabile battersi immediatamente».

Fui scossa da un tremito.

«A questo punto credo di non avere altra scelta. Sarò costretto a ucciderlo», mormorò, «e a Carlisle non piacerà».

Sentivo il rumore delle ruote che percorrevano il ponte, benché il fiume al buio fosse invisibile. Stavamo per arrivare a destinazione. Dovevo chiederglielo adesso.

«Come si uccide un vampiro?».

Mi lanciò un’occhiata indecifrabile e la sua voce si fece subito nervosa. «L’unica maniera possibile è farlo a pezzi e bruciarne i resti».

«Gli altri due combatteranno con lui?».

«La donna sì. Non sono sicuro di Laurent. Il loro legame non è così forte... si è unito a loro soltanto per convenienza. L’atteggiamento di James, nel prato, lo metteva in imbarazzo».

«Ma James e la donna... cercheranno di ucciderti?», chiesi, rauca.

«Bella, non osare perdere tempo a preoccuparti per me. Ora devi soltanto badare a proteggerti e - per favore, per favore - tenta di non essere troppo temeraria».

«Ci segue ancora?».

«Sì. Però non attaccherà in casa. Non stanotte».

Svoltò nel sentiero invisibile, seguito a ruota da Alice.

Giungemmo a casa dei Cullen. Le luci erano tutte accese, ma non riuscivano a contrastare l’oscurità della foresta che circondava l’edificio. Emmett aprì la mia portiera prima ancora che il pick-up si arrestasse; mi estrasse dal sedile, mi strinse al petto come una palla da football e mi portò dentro di corsa.

Facemmo irruzione nel grande salone bianco, affiancati da Edward e Alice. Erano tutti lì, e sentendoci arrivare, si erano alzati. In mezzo a loro c’era anche Laurent. Emmett mi depose accanto a Edward, con un ringhio cupo.

«È sulle nostre tracce», annunciò Edward e inchiodò Laurent con uno sguardo.

Laurent non se ne mostrò affatto felice: «Era ciò che temevo».

Alice danzò fino a raggiungere Jasper e gli disse qualcosa all’orecchio; le sue labbra vibravano veloci e silenziose. Salirono spediti le scale, assieme. Rosalie li guardò e si portò svelta a fianco di Emmett. I suoi occhi bellissimi lanciarono uno sguardo intenso e poi - quando sfiorarono casualmente il mio viso - furioso.

«Cosa farà?», chiese Carlisle a Laurent, con una voce da mettere i brividi.

«Mi dispiace», rispose. «Temevo proprio che tuo figlio, difendendo la ragazza, l’avrebbe scatenato».

«Lo puoi fermare?».

Laurent scosse il capo. «Quando James si mette all’opera, niente può fermarlo».

«Lo fermeremo noi», promise Emmett. Le sue intenzioni erano inequivocabili.

«Non ci riuscirete. In trecento anni non ho mai visto nessuno come lui. È assolutamente letale. Per questo mi sono unito alla sua cricca».

La sua. Certo. Quella a cui avevamo assistito nel prato era stata soltanto una sceneggiata.

Laurent scuoteva il capo. Mi guardò perplesso e si rivolse di nuovo a Carlisle: «Sei sicuro che ne valga la pena?».

Il ruggito infuriato di Edward riempì la stanza. Laurent fece un passo indietro.

Carlisle guardò Laurent, severo. «Temo che sia il momento di fare una scelta».

Laurent capì. Rimase per qualche istante a pensare. Scrutò i nostri volti e poi il salone luminoso.

«Sono affascinato dallo stile di vita che conducete qui. Ma non mi ci voglio immischiare. Non vi sono ostile, ma non voglio mettermi contro James. Penso che mi dirigerò a nord, verso il clan di Denali». S’interruppe qualche istante, poi riprese a parlare: «Non sottovalutate James. È dotato di un cervello brillante e sensi impareggiabili. Sa muoversi bene quanto voi nel mondo degli umani, e non vi attaccherà mai a testa bassa... Mi dispiace per ciò che abbiamo scatenato. Mi dispiace davvero». Chinò il capo, ma mi accorsi di un’altra occhiata di sconcerto verso di me.

«Vai in pace», fu la risposta formale di Carlisle.

Laurent si guardò un’ultima volta attorno e raggiunse svelto la porta.

Il silenzio durò meno di un secondo.

«Quanto è vicino?». Carlisle guardava Edward.

Esme era già all’opera: con la mano sfiorò i tasti di un pannello segreto sul muro, e con uno stridio un’enorme paratia d’acciaio iniziò a sigillare la vetrata sul retro della casa. Restai a bocca aperta.

«Circa cinque chilometri al di là del fiume. Ci sta girando attorno per incontrare la femmina».

«Qual è il piano?».

«Noi lo porteremo fuori strada, Jasper e Alice accompagneranno Bella a sud».

«E poi?».

La voce di Edward era quella di un assassino: «Non appena Bella sarà al sicuro, gli daremo la caccia».

«Immagino che non ci sia altra scelta», rispose Carlisle, cupo.

Edward si rivolse a Rosalie.

«Portala di sopra e scambiatevi i vestiti», le disse in tono perentorio. Lei lo fissò irritata e incredula.

«Perché dovrei?», sibilò. «Cos’è lei per me? Nient’altro che una minaccia... un pericolo a cui tu hai deciso di esporre tutti noi».

Il suo tono avvelenato mi fece trasalire.

«Rose...», mormorò Emmett, posandole la mano su una spalla. Lei se la scrollò via.

Io non staccavo gli occhi da Edward, conoscevo il suo temperamento ed ero preoccupata di come avrebbe reagito.

Mi sorprese. Distolse lo sguardo come se Rosalie non avesse nemmeno aperto bocca, come se non esistesse.

«Esme?», chiese senza scomporsi.

«Certo», rispose lei in un sussurro.

In un batter d’occhio Esme fu al mio fianco, mi prese con facilità tra le braccia e mi portò su per le scale prima ancora che potessi sorprendermi.

«Cosa facciamo?», chiesi, senza fiato, appena mi ebbe deposta davanti a una stanza buia che dava sul corridoio del secondo piano.

«Cerchiamo di confondere l’odore. Non durerà tanto, ma potrebbe esserci d’aiuto per farti scappare». Sentivo i suoi vestiti cadere a terra.

«Non credo che mi andranno bene...», esitai, ma all’istante le sue mani mi sfilarono la camicia. Mi liberai da sola, in fretta, dei jeans. Mi diede qualcosa che somigliava a una camicetta. Con qualche difficoltà, riuscii a infilare le braccia nei buchi giusti. Poi mi passò un paio di pantaloni sportivi. Li indossai, ma erano troppo lunghi, i piedi non uscivano. Riuscii a mantenere l’equilibrio solo dopo avere arrotolato più volte gli orli. Lei, nel frattempo, era già dentro i miei abiti. Mi riportò alle scale, dove ci aspettava Alice che stringeva una borsa di pelle. Le due donne mi presero per i gomiti e mi trascinarono di corsa giù per la scalinata.

Al piano di sotto i preparativi erano a buon punto. Edward ed Emmett erano pronti a partire. Emmett portava in spalla uno zaino dall’aria pesante. Carlisle stava porgendo un piccolo oggetto a Esme. Si voltò e ne passò uno identico ad Alice: era un microscopico telefono cellulare argentato.

«Esme e Rosalie prenderanno il tuo pick-up, Bella», disse rivolto a me. Annuii, scrutando Rosalie con la coda dell’occhio. Fissava Carlisle, risentita.

«Alice, Jasper: prendete la Mercedes. A sud i finestrini scuri vi saranno necessari».

Anche loro annuirono.

«Noi prendiamo la jeep».

Fu una sorpresa scoprire che Carlisle avrebbe seguito Edward. Mi accorsi all’istante, con un brivido di paura, che la loro era la squadra dei cacciatori.

«Alice», domandò Carlisle, «abboccheranno?».

Tutti si voltarono verso la ragazza, che chiuse gli occhi e restò immobile, pietrificata.

Infine li riaprì. «Il segugio pedinerà voi tre. La donna seguirà il pick-up. A quel punto noi dovremmo avere via libera». Sembrava convinta.

«Andiamo». Carlisle si diresse verso la cucina.

Ma al mio fianco si materializzò Edward. Mi strinse nella sua presa d’acciaio, fino quasi a soffocarmi. Incurante della presenza dei suoi familiari, mi alzò da terra e avvicinò le labbra alle mie. Le sentii, fredde e dure, per il più breve degli istanti. Poi mi posò a terra accarezzandomi il viso, gli occhi ardenti fissi nei miei.

Quando si voltò, aveva il vuoto, la morte, nello sguardo.

E se ne andarono.

Gli altri furono tanto rispettosi da distogliere gli occhi da me, mentre il mio volto si rigava di lacrime mute.

Il silenzio si trascinò fino a quando il telefono vibrò nella mano di Esme. In un lampo lo portò all’orecchio.

«Ora», disse. Rosalie si affrettò verso l’uscita senza degnarmi di uno sguardo; Esme, invece, mi sfiorò una guancia.

«Stai attenta». Sentii il suo sussurro dietro di me, mentre le due donne già si dileguavano fuori di casa. Udii il motore del pick-up rombare e poi allontanarsi.

Jasper e Alice attendevano. Alice aveva già portato il telefono all’orecchio prima ancora che iniziasse a vibrare.

«Edward dice che la femmina è sulle tracce di Esme. Vado a prendere la macchina», riferì, e sparì nell’ombra, come Edward poco prima.

Io e Jasper ci guardammo. Restava dall’altra parte del corridoio, a distanza... e attento.

«Lo sai che ti sbagli, vero?», disse piano.

«Cosa?», chiesi senza fiato.

«Sento ciò che stai provando adesso, e ti dico che sono sicuro che ne vali la pena».

«No», bofonchiai. «Stanno rischiando per niente».

«Ti sbagli», ribadì, sorridendomi gentile.

In silenzio, Alice entrò e mi si avvicinò, con le braccia tese.

«Posso?».

«Sei la prima che chiede il permesso», accennai ironicamente, con un mezzo sorriso.

Mi prese tra le braccia snelle con la stessa facilità di Emmett, facendomi da scudo, e schizzammo fuori dalla porta lasciandoci alle spalle le luci di casa.

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