10 Interrogatori

Il mattino dopo, fu davvero difficile persuadere la parte di me che credeva di avere sognato tutto. Né la logica né il buonsenso erano dalla mia parte. Cercavo un appiglio nei particolari che non potevo avere sognato: il suo profumo, ad esempio. Ero sicura che quello non potesse essere soltanto una mia invenzione.

Fuori dalla finestra il panorama era scuro e nebbioso, assolutamente perfetto. Non aveva scuse per non presentarsi a scuola. Indossai abiti pesanti, visto che - ricordai - ero rimasta senza giubbotto. Ulteriore prova che la memoria non m’ingannava.

Scesa al piano di sotto, non trovai Charlie: ero molto più in ritardo di quanto pensassi. Ingoiai una barretta di cereali in tre morsi, la innaffiai con un po’ di latte, bevendolo direttamente dal cartone, e mi affrettai a uscire. Con un po’ di fortuna, avrei trovato Jessica prima che iniziasse a piovere.

C’era molta più nebbia del solito; l’aria sembrava densa di fumo. La foschia aderiva ghiacciata sulla faccia e sul collo. Non vedevo l’ora di accendere il riscaldamento del pick-up. La visibilità era talmente scarsa che percorsi alcuni metri sul vialetto senza accorgermi che un’auto lo occupava: un’auto grigia, metallizzata. Il mio cuore iniziò a martellare, incespicò, e riprese raddoppiando il ritmo dei battiti.

Non capivo da dove fosse spuntato, ma di colpo eccolo lì che mi apriva lo sportello e m’invitava a salire.

«Hai bisogno di un passaggio?», chiese, divertito dalla mia espressione, consapevole che per l’ennesima volta mi aveva colta di sorpresa. Non sembrava troppo convinto della sua proposta. E non stava tentando di convincermi: ero libera di rifiutare, e forse una parte di lui sperava lo facessi. Speranza vana.

«Sì, grazie». Cercai di non tradire l’agitazione. Al caldo dell’abitacolo, notai il giaccone di pelle appeso al poggiatesta del passeggero. La mia portiera si chiuse e, prima di quanto ritenessi possibile, Edward si sedette al mio fianco e mise in moto.

«Ti ho portato questo. Non volevo che ti prendessi un raffreddore o qualcosa del genere». Stava sulla difensiva. Indossava soltanto una maglia leggera grigia a maniche lunghe, con scollo a V. Il tessuto aderiva al suo torace muscoloso e perfetto. Che io riuscissi a distogliere lo sguardo dal suo corpo era la dimostrazione della bellezza inaudita del suo viso.

«Non sono così delicata», risposi, ma accettai la giacca e la tenni in grembo, infilando le braccia nelle maniche troppo lunghe, curiosa di verificare se il profumo fosse davvero buono come lo ricordavo. Era anche meglio.

«Ah, no?», ribatté con una voce tanto bassa che non capii se volesse farsi sentire.

Percorrevamo le strade della città sature di nebbia, velocissimi come sempre, e impacciati. Io, perlomeno, lo ero. La sera prima, tutti i muri erano caduti...quasi tutti. Non sapevo se quel giorno saremmo stati altrettanto sinceri. Questo mi lasciava interdetta, incapace di parlare. Attesi che fosse lui a farlo.

Si voltò e mi rivolse un sorrisetto: «Ehi, oggi niente questionario?».

«Le mie domande ti innervosiscono?», chiesi, confortata.

«Non quanto le tue reazioni». Sembrava scherzasse, ma non ne ero sicura.

«Reagisco male?». Tornai seria.

«No, è proprio lì il problema. Sei sempre così tranquilla... È innaturale. Mi chiedo cosa ti passi per la testa».

«Ti dico sempre ciò che mi passa per la testa».

«Ma lo censuri».

«Non granché».

«Abbastanza da farmi impazzire».

«Sei tu che non vuoi sentirlo», borbottai, con un filo di voce. Un istante dopo me ne ero già pentita. Speravo non si fosse accorto del tormento nella mia voce.

Il suo silenzio mi fece temere di avergli rovinato l’umore. Mentre entravamo nel parcheggio della scuola, la sua espressione era ancora indecifrabile. In ritardo, mi accorsi di un particolare.

«Ma i tuoi fratelli dove sono?». Ero più che felice di essere sola con lui, ma ricordavo che di solito i posti della sua auto erano tutti occupati.

«Hanno preso la macchina di Rosalie». Si strinse nelle spalle, parcheggiando accanto a una cabriolet rossa fiammante con il tettuccio chiuso. «Appariscente, eh?».

«Uh, caspita», dissi in un fiato. «Se lei ha quella, perché si fa scarrozzare da te?».

«Come ho detto, è appariscente. Noi ci sforziamo di passare inosservati».

«Non ci riuscite». Scesi dall’auto ridendo e scuotendo la testa. Non ero più in ritardo, grazie alla sua guida da pazzo eravamo in perfetto orario. «Ma allora, perché Rosalie oggi ha preso la sua macchina, se è così vistosa?».

«Non te ne sei accorta? Sto infrangendo tutte le regole». Mi venne incontro e mi accompagnò all’ingresso della scuola camminando vicinissimo al mio fianco. Desideravo colmare quella poca distanza, farmi avanti e toccarlo, ma temevo che non avrebbe gradito.

«Ma perché comprate macchine del genere, se siete gelosi della vostra privacy?».

«Un capriccio», ammise, con un sorriso malizioso. «Ci piace andare veloce».

«Ovviamente», mormorai tra me.

Al riparo del portico della mensa, Jessica mi stava aspettando e aveva gli occhi fuori dalle orbite. Tra le braccia, grazie al cielo, stringeva il mio giubbotto.

«Ehi, Jessica», dissi, a pochi metri da lei. «Grazie per essertene ricordata». Mi allungò il giubbotto in silenzio.

«Buongiorno, Jessica», disse Edward, educato. Non era colpa sua, in fondo, se aveva la voce tanto irresistibile. O uno sguardo capace di ipnotizzare.

«Ehm... ciao». Lei mi lanciò un’occhiata sbalordita, mentre cercava di riordinare le idee. «Be’, ci vediamo a trigonometria». Lo sguardo era stato eloquente. Cercai di non farmi prendere dal panico. Che diamine le avrei raccontato?

«D’accordo, ci vediamo dopo».

Se ne andò, ma per due volte si fermò a sbirciare verso di noi.

«Cosa le racconterai?», mormorò Edward.

«Ehi, ma allora mi leggi nel pensiero!».

«No», rispose lui, sorpreso. Poi capì, e il suo sguardo si accese. «Però riesco a leggere nel suo: ti prenderà d’assalto appena entri in classe».

Sbuffai, levandomi il suo giaccone per indossare la mia giacca a vento. Glielo restituii, e lui lo tenne piegato sottobraccio.

«Perciò, cosa le racconterai?».

«Mi dai un aiutino?», supplicai. «Cosa vuole sapere?».

Scosse il capo e sorrise, beffardo: «Non è corretto».

«No, non è corretto che tu non metta a disposizione certe informazioni».

Meditò per qualche istante, finché non giungemmo alla porta della mia classe.

«Vuole sapere se usciamo assieme di nascosto. E vuole che tu le dica ciò che provi per me», disse, infine.

«Oddio. E io cosa dovrei rispondere?». Cercavo di mantenere un’aria innocente. Probabilmente eravamo l’attrazione principale per gli studenti che entravano in aula, ma ci badavo a malapena.

«Mmm». Si fermò per catturare una ciocca ribelle che mi sfiorava il mento e rimetterla al suo posto. Il mio cuore iniziò a scoppiettare, iperattivo. «Penso che potresti rispondere di sì alla prima domanda... se non è un problema per te: è la spiegazione più facile da dare».

«Non è un problema», risposi, con un filo di voce.

«Quanto all’altra... be’, anch’io sarò curioso di sentire la risposta». Da un angolo della sua bocca spuntò il sorriso sghembo che preferivo. Non feci nemmeno in tempo a prendere fiato per controbattere. Se ne stava già andando.

«Ci vediamo a pranzo», disse, voltandosi. Tre ragazzi intenti a entrare in aula si fermarono a osservarmi.

Entrai di corsa, seccata e rossa di vergogna. Che imbroglione. Adesso ero doppiamente preoccupata di ciò che avrei detto a Jessica. Occupai il mio solito posto, lasciando cadere a terra lo zaino di colpo, per l’irritazione.

«’Giorno, Bella», disse Mike, dal banco accanto al mio. Lessi sul suo volto un’espressione strana, quasi rassegnata. «Com’è andata a Port Angeles?».

«È andata...», non ero in grado di fornire un resoconto sincero. «Benone», aggiunsi, goffa. «Jessica ha comprato un vestito davvero carino».

«Ha detto qualcosa a proposito di lunedì sera?», chiese lui, illuminandosi. La piega che aveva preso la conversazione mi fece sorridere.

«Ha detto che si è divertita molto», dissi, per rassicurarlo.

«Davvero?». Era impaziente.

«Certo».

Il professor Mason riportò la classe all’ordine e ci chiese di consegnare i compiti. Inglese ed educazione civica passarono in un lampo, mentre io non pensavo ad altro che alle spiegazioni da dare a Jessica, sentendomi sulle spine per la possibilità che Edward potesse davvero ascoltare le mie parole attraverso i pensieri di Jess. Un potere come quello poteva essere davvero molesto, quando non serviva a salvarmi la vita.

Alla fine della seconda ora, la nebbia si era dissolta quasi del tutto, ma il cielo era ancora scuro, coperto di nuvole basse e opprimenti. Lo guardai e sorrisi.

Ovviamente, Edward aveva ragione. Quando entrai in classe per la lezione di trigonometria, Jessica era seduta in ultima fila, tanto agitata da rischiare di cadere dalla sedia. Mi accomodai di malavoglia accanto a lei, rassegnata e desiderosa di farla finita il più presto possibile.

«Dimmi!», ordinò, senza nemmeno aspettare che mi sedessi.

«Cosa vuoi sapere?».

«Cos’è successo ieri sera?».

«Mi ha portata a cena, poi mi ha accompagnata a casa».

Puntò uno sguardo torvo e scettico su di me. «Come hai fatto a tornare a casa così presto?».

«Guida come un pazzo. Ero terrorizzata». Speravo che lui fosse in ascolto.

«È stato una specie di appuntamento? Eravate d’accordo?».

Non ci avevo pensato. «No: sono stata molto sorpresa di incontrarlo».

Corrugò le labbra, delusa dalla palese onestà nella mia voce.

«Ma oggi ti ha accompagnata a scuola, no?».

«Sì... ma anche questa è stata una sorpresa. Ieri sera si è accorto che ero rimasta senza giacca».

«Perciò, uscirete ancora?».

«Si è offerto di accompagnarmi a Seattle, sabato, perché è convinto che il mio pick-up non ce la farà. Vale come un appuntamento?».

«Sì», annuì.

«Be’, allora sì».

«W-o-w». Gonfiò in tre sillabe quell’esclamazione, con tutta l’enfasi possibile. «Edward Cullen».

«Lo so». “Wow” era ancora poco.

«Aspetta!». Alzò le mani come un vigile. «Ti ha baciata?».

«No», mormorai, «non è come pensi».

Sembrava delusa. Anch’io, di sicuro.

«Pensi che sabato...», e mi guardò, curiosa, inarcando le sopracciglia.

«Ne dubito fortemente». Riuscii a stento a dissimulare il malcontento.

«Di cosa avete parlato?», sussurrò, esortandomi a darle altre informazioni. La lezione era iniziata, ma il professor Varner non badava a noi, le uniche due che ancora parlavano.

«Non so, Jess, un sacco di cose», risposi sottovoce. «Abbiamo parlato del saggio di inglese per un po’». Per poco, molto, molto poco. Due parole in croce.

«Ti prego, Bella», implorò lei, «qualche particolare in più».

«Be’... d’accordo, uno solo. Avresti dovuto vedere la cameriera: gli ha fatto una corte spietata. Ma lui non se l’è filata!». E se lui stava ascoltando, fatti suoi.

«Buon segno. Era carina?».

«Molto. E avrà avuto diciannove o vent’anni».

«Meglio ancora. Vuol dire che gli piaci».

«Penso di sì, ma è difficile dirlo. È sempre così criptico», aggiunsi a beneficio di Edward, con un sospiro.

«Non so dove trovi il coraggio di restare sola con lui», disse Jess a mezza voce.

«Perché?». Ero sorpresa, ma lei non comprese la mia reazione.

«Mette così... in soggezione. Io non saprei cosa dirgli». Fece una faccia strana, probabilmente ripensando a quella mattina o alla sera precedente, quando Edward l’aveva investita con la forza irresistibile del suo sguardo.

«A dire la verità, anch’io ho qualche problema di lucidità quando è nei paraggi».

«Oh, be’. È bello da non crederci, non c’è dubbio». Jessica fece spallucce, come se ciò giustificasse qualsiasi altro difetto. Perlomeno, secondo i suoi parametri.

«E poi, in lui, c’è molto altro».

«Davvero? Per esempio?».

Quanto avrei voluto restare zitta. Tanto quanto desideravo che Edward avesse scherzato, a proposito del leggere nella mente di Jessica.

«Non so come spiegarlo... Ma dietro la facciata è ancora più incredibile». Il vampiro che voleva essere buono, che andava in giro a salvare la vita alle persone per non sentirsi un mostro... Puntai lo sguardo verso la cattedra.

«Davvero?», ridacchiò.

La ignorai, fingendo di stare attenta al professor Varner.

«Perciò ti piace?». Non era intenzionata a desistere.

«Sì», tagliai corto.

«Voglio dire, ti piace davvero?».

«Sì», ripetei, e stavolta arrossii, sperando che i suoi pensieri non registrassero quel dettaglio.

Ne aveva abbastanza dei monosillabi. «Quanto ti piace?».

«Troppo», bisbigliai. «Più di quanto io piaccia a lui. Ma credo proprio di non poterci fare niente». Ormai arrossivo a ogni parola che mi sfuggiva.

Poi, grazie al cielo, il professor Varner rivolse una domanda a Jessica.

Per il resto della lezione non ebbe più possibilità di riprendere il discorso, e al suono della campanella cercai un diversivo.

«Durante inglese Mike chiedeva se tu mi avessi raccontato qualcosa di lunedì sera».

«Stai scherzando! E tu?», disse quasi boccheggiando. L’avevo presa totalmente alla sprovvista.

«Gli ho risposto che ti sei divertita parecchio... sembrava compiaciuto».

«Ripetimi tutto quello che vi siete detti, parola per parola!».

Passammo il resto del tragitto verso la lezione successiva a sezionare la struttura delle frasi, e dedicammo la maggior parte di spagnolo a descrivere nei particolari le espressioni sul viso di Mike. Non mi sarei prestata a quel terzo grado, se non fosse servito a tenere il discorso ben lontano da me.

Infine la campana dell’intervallo suonò. Il balzo che feci dalla sedia, la fretta con cui ficcai i libri nello zaino e la mia espressione entusiasta insospettirono Jessica.

«Oggi non mangi assieme a noi, vero?», chiese.

«Non penso». Non ero del tutto certa che non avrei avuto l’ennesima sorpresa.

Invece, ad aspettarmi fuori dalla porta della classe, appoggiato al muro - la cosa più simile a un dio greco che avessi mai visto -, c’era Edward. Jessica lanciò un’occhiata prima a me, poi al cielo, e si allontanò.

«A dopo, Bella». Il suo tono di voce era denso di sottintesi. Probabilmente avrei dovuto spegnere la suoneria del cellulare.

«Ciao». Edward sembrava divertito e irritato al tempo stesso. Era evidente, aveva ascoltato tutto.

«Ciao».

Non riuscii ad aggiungere altro, e lui non parlò - immagino che stesse prendendo tempo - fino alla mensa. Camminando al fianco di Edward in mezzo alla folla dell’ora di pranzo mi sembrava di tornare al primo giorno di scuola: ero al centro dell’attenzione.

Mi precedette nella coda, sempre zitto, ma senza smettere di lanciarmi occhiate pensierose. Sembrava che sul suo volto l’espressione irritata stesse cancellando quella divertita. Giocherellavo nervosamente con la zip della giacca a vento.

Si avvicinò al bancone e riempì un vassoio di cibo.

«Cosa fai? Non starai prendendo tutta quella roba per me?».

Scosse il capo e avanzò verso la cassa.

«Metà è per me, ovviamente».

Alzai un sopracciglio. Non me la dava a bere.

Lo seguii fino allo stesso tavolo a cui ci eravamo seduti la volta precedente. All’altro capo, alcuni studenti dell’ultimo anno ci squadravano stupiti. Edward non sembrava curarsene.

«Scegli pure», disse, porgendomi il vassoio.

«Sono curiosa...», dissi, prendendo una mela e rigirandomela tra le dita. «Come reagiresti se qualcuno ti sfidasse a mangiare del cibo?».

«Curiosa come al solito». Fece una smorfia e scosse il capo. Mi guardò di sottecchi, mentre prendeva un trancio di pizza dal vassoio e lo mordeva soddisfatto, masticandolo e ingoiandolo in un baleno. Io lo guardavo, incredula.

«Se qualcuno ti sfidasse a mangiare spazzatura potresti farlo, no?», chiese, con un filo di arroganza.

Mi si arricciò il naso dal ribrezzo. «Una volta è successo... una scommessa. Non era così male».

Rise. «La cosa non mi sorprende più di tanto». Fu distratto da qualcosa alle mie spalle.

«Jessica sta analizzando tutti i miei movimenti... più tardi ti farà un resoconto dettagliato». Mi offrì il resto della sua pizza. Il pensiero di Jessica riportò a galla un pizzico dell’irritazione che avevo letto sul suo viso.

Posai la mela e addentai il trancio di pizza, guardando altrove. Sapevo che stava per parlare.

«Perciò, la cameriera era carina?», chiese, ingenuamente.

«Non te ne sei accorto?».

«No, non ci ho fatto caso. Avevo altro per la testa».

«Poveretta». A quel punto potevo concedermi di essere magnanima.

«Una delle cose che hai detto a Jessica... be’, mi infastidisce un po’». Rifiutava di cambiare discorso. Sembrava quasi sgarbato, da sotto le ciglia mi rivolse uno sguardo inquieto.

«Non mi sorprende che tu abbia sentito qualcosa di spiacevole. Sai quel che si dice di chi origlia...».

«Ti ho avvertita che sarei rimasto in ascolto».

«E io ti ho avvertito che non avresti gradito conoscere tutti i miei pensieri».

«In effetti, mi avevi avvertito», la sua voce non si era addolcita. «Però, non credo tu abbia ragione fino in fondo. Voglio sapere sì ciò che pensi, e tutto. Soltanto, mi piacerebbe... che non pensassi certe cose».

Lo guardai, imbronciata. «Bella differenza».

«Ma non è questo il problema, al momento».

«E quale sarebbe?». Ci stavamo entrambi sporgendo sul tavolo, l’uno di fronte all’altra. Lui teneva le grandi mani bianche sotto il mento; io mi coprivo il collo con la destra. Mi sforzai di ricordare che eravamo in una sala mensa affollata, probabilmente piena di occhi curiosi. Era troppo facile cedere alla tentazione di lasciarci avvolgere dalla nostra piccola e lucida bolla privata.

«Sei davvero convinta di piacermi meno di quanto io piaccia a te?», mormorò facendosi più vicino e inchiodandomi con i suoi occhi intensi e dorati.

La mia mente si svuotò, non ricordavo neppure come si respira. Mi tornò il fiato soltanto dopo aver posato lo sguardo altrove.

«Lo stai rifacendo», dissi fra i denti.

Sgranò gli occhi, sorpreso. «Cosa?».

«Stai cercando di incantarmi», ammisi, tornando ad ammirarlo. Dovevo restare lucida.

«Ah», rispose, accigliato.

«Non è colpa tua», sospirai. «Non ci puoi fare niente».

«Mi vuoi rispondere?».

Abbassai lo sguardo. «Sì».

«Sì mi vuoi rispondere, o sì ne sei davvero convinta?». Riecco l’irritazione.

«Sì ne sono convinta». Tenevo il capo chino verso il tavolo, gli occhi fissi sulle false venature di legno stampate sul laminato. Il silenzio iniziava a pesare. Mi rifiutavo di essere io la prima a romperlo e resistevo con tutte le forze alla tentazione di sbirciare per cogliere l’espressione sul suo volto.

Infine fu lui a parlare, a bassa voce: «Ti sbagli».

Non sembrava affatto infuriato, anzi, era gentile.

«Non puoi esserne sicuro», sussurrai. Scossi il capo, ero piena di dubbi, il mio cuore batteva a singhiozzo, e non sapevo cos’avrei dato per credere alle sue parole.

«Cosa te lo fa pensare?». Mi squadrò con il suo sguardo liquido, color topazio, probabilmente nel vano tentativo di prelevare la verità direttamente dalla mia testa.

Lo fissai a mia volta, sforzandomi di restare lucida malgrado quel viso, ansiosa di spiegarmi con le parole giuste. Lo vedevo sempre più impaziente, cominciava a diventare scuro in volto per il mio silenzio. Alzai il dito della mano destra.

«Ci devo riflettere», insistetti. Soddisfatto dalla risposta promessa, si rilassò. Posai la mano sul tavolo, la congiunsi all’altra. Intrecciavo e scioglievo le dita, ma infine parlai.

«Be’, ovvietà a parte, a volte... non mi sento sicura - non sono capace di leggere nel pensiero, io - e ogni tanto ho la sensazione che mentre mi dici certe cose in realtà tu stia cercando di lasciarmi perdere». Era il riassunto migliore dell’inquietudine che talvolta le sue parole mi scatenavano dentro.

«Perspicace», sussurrò. Riecco l’angoscia, a confermare i miei timori. «Purtroppo, è proprio qui che ti sbagli», cercò di spiegarsi, ma all’improvviso strizzò le palpebre. «Cosa intendi per “ovvietà”?».

«Be’, guardami», dissi, ed era superfluo, perché già mi stava guardando. «Sono una ragazza assolutamente normale... Certo, a parte difetti come gli incidenti quasi mortali e una goffaggine degna di una disabile. E guarda te». Indicai lui e la sua stupefacente perfezione.

Alzò un sopracciglio, irritato, ma si rilassò all’istante e nei suoi occhi apparve uno sguardo intelligente. «Credo che tu non abbia una buona percezione di te stessa. Devo ammettere che quanto ai difetti ci hai azzeccato», rise sarcastico, «ma tu non hai sentito cos’hanno pensato tutti gli studenti maschi di questa scuola quando ti hanno vista la prima volta».

Sgranai gli occhi, stupita. «Non ci credo...», dissi, tra me e me.

«Per una volta fidati, se ti dico che sei l’esatto contrario della normalità».

Fui molto più imbarazzata che lusingata dall’occhiata con cui accompagnò le sue parole. Cercai di riprendere il filo originale del discorso.

«Ma io non sono intenzionata a lasciarti perdere», rimarcai.

«Non capisci? È la dimostrazione che ho ragione io. Ci tengo più di te, perché se ci riuscissi», e scosse il capo, come per accettare l’idea controvoglia, «se andarmene fosse la scelta migliore, sarei disposto a danneggiare me stesso, pur di non ferirti, pur di proteggerti».

Lo guardai, torva: «E non credi che sia lo stesso per me?».

«Non è a te che spetta questa scelta».

All’improvviso, il suo umore imprevedibile cambiò per l’ennesima volta: sfoderò un sorriso beffardo, devastante. «Certo, darti protezione sta diventando un lavoro a tempo pieno che richiede la mia presenza costante».

«Oggi nessuno ha cercato di farmi fuori». Gli ero grata per avere cambiato argomento. Non volevo più parlare di abbandono. Pur di averlo accanto, sarei stata disposta a mettermi spontaneamente in pericolo... Ma cancellai quel pensiero prima che potesse leggermelo negli occhi. Sarebbe stato un bel guaio.

«Non ancora», aggiunse.

«Non ancora». Avrei anche voluto controbattere, ma a quel punto desideravo che si aspettasse un’altra catastrofe.

«Ho un’altra domanda». Mostrava un certo contegno.

«Spara».

«Hai davvero bisogno di andare a Seattle, questo sabato, o era soltanto una scusa per evitare di dire no a tutti i tuoi ammiratori?».

Il ricordo mi fece storcere la bocca. «Guarda, non ti ho ancora perdonato per la faccenda di Tyler. È colpa tua se continua a illudersi di potermi invitare al ballo di fine anno».

«Oh, avrebbe trovato l’occasione per chiedertelo anche se non ci fossi stato io: morivo soltanto dalla voglia di vedere la tua reazione», disse, sghignazzando. Mi sarei arrabbiata, se vederlo ridere non fosse stato così affascinante. «Se te l’avessi chiesto io, avresti scaricato anche me?», domandò, senza smettere di ridere.

«Probabilmente no», confessai. «Ma all’ultimo momento avrei cancellato l’invito... avrei finto una malattia o una caviglia slogata».

«E perché mai?».

Scossi il capo mesta. «Immagino che tu non mi abbia mai vista in palestra, ma pensavo che avresti capito».

«Ti riferisci al fatto che non sei in grado di camminare su una superficie piana e solida senza inciampare?».

«Ovviamente».

«Non sarebbe un problema». Sembrava molto sicuro di sé. «Dipende tutto da chi guida». Sapeva che stavo per ribattere e non me ne lasciò il tempo. «Non mi hai ancora risposto: vuoi davvero andare a Seattle, o ti andrebbe se facessimo qualcos’altro?».

Finché il soggetto della frase era “noi”, avrei accettato qualsiasi alternativa.

«Sono aperta a tutte le proposte, ma devo chiederti un solo favore».

Sembrava allarmato, come sempre di fronte alle mie richieste vaghe. «Cosa?».

«Posso guidare io?».

Aggrottò le sopracciglia. «Perché?».

«Be’, prima di tutto perché quando ho detto a Charlie che sarei andata a Seattle, lui mi ha chiesto se fossi da sola, e visto che così era l’ho rassicurato. Se me lo chiedesse di nuovo non potrei mentirgli, ma non credo che lo farà: lasciare il pick-up a casa, però, lo porterebbe a sollevare la questione. In secondo luogo, la tua guida mi terrorizza».

Alzò gli occhi al cielo. «Con tutto ciò che in me potrebbe terrorizzarti, ti preoccupi di come guido». Scosse il capo, disgustato, e poi tornò serio. «Non vuoi dire a tuo padre che passerai la giornata con me?». La sua domanda sottintendeva qualcosa che non riuscivo a capire.

«Con Charlie, meno si dice, meglio è». Non intendevo discuterne. «E comunque, dove andremmo?».

«Ci sarà bel tempo, perciò dovrò restare lontano da sguardi indiscreti... e se ti va, puoi venire con me». Ancora una volta, la scelta era mia.

«Mi mostrerai quel che dicevi a proposito della luce solare?», chiesi, eccitata all’idea di scoprire un altro dei suoi misteri.

«Sì». Sorrise, e tacque. «Ma anche se non vuoi restare... sola con me, preferirei che tu non te ne andassi a Seattle per conto tuo. Tremo al solo pensiero dei guai in cui potresti cacciarti in una città così grande».

Mi stizzii. «Phoenix è tre volte Seattle, e solo quanto a popolazione. Le dimensioni...».

«Ma a quanto pare», mi interruppe, «a Phoenix non era ancora giunta la tua ora. Perciò preferirei che mi stessi accanto». Mi scoccò un’altra delle sue occhiate fiammeggianti.

Non ero in grado di ribattere né a quella né alle sue ragioni, e non ne avevo comunque motivo. «Si dà il caso che restare sola con te non mi dispiaccia affatto».

«Lo so», sospirò, rassegnato. «Però dovresti dirlo a Charlie».

«E perché mai dovrei?».

Il suo sguardo si fece severo. «Così avrò un briciolo di motivazione in più per riportarti a casa».

Ero imbarazzata. Ma dopo qualche istante di riflessione ero decisa: «Penso che correrò il rischio».

Sbuffò e guardò altrove, nervoso.

«Parliamo d’altro», suggerii.

«Di cosa vuoi parlare?». Era ancora irritato.

Diedi un’occhiata attorno per controllare che nessuno ci potesse udire. Mentre perlustravo la sala, incrociai lo sguardo di Alice, sua sorella, fermo su di me. Gli altri osservavano Edward. Tornai a lui in un baleno e gli rivolsi la prima domanda che mi passò per la testa.

«Perché sei andato a Goat Rocks, lo scorso fine settimana, a caccia? Charlie dice che ci sono gli orsi, non è un gran posto per fare trekking».

Mi fissò come se mi fosse sfuggito qualcosa di ovvio.

«Orsi?». Esitai, e lui fece un sorrisetto. «Be’, non è la stagione degli orsi», aggiunsi, per nascondere il turbamento.

«Le leggi sulla caccia regolano solo quella con le armi, se vuoi controlla pure».

Mi studiava divertito, mentre digerivo lentamente le sue parole.

«Orsi?», ripetei, con una certa difficoltà.

«Emmett va matto per il grizzly». Non si era scomposto più di tanto, ma pareva attentissimo alle mie reazioni. Cercai di darmi un tono.

«Mmm», dissi, addentando un altro trancio di pizza per poter distogliere gli occhi da lui. Masticai piano e presi un lungo sorso di Coca coprendomi il viso con il bicchiere.

«Allora», dissi dopo un istante, incontrando finalmente il suo sguardo ansioso, «il tuo preferito, qual è?».

Mi guardò di sbieco, e sulle sue labbra apparve una smorfia di disapprovazione. «Il puma».

«Ah», risposi, in tono educato e disinteressato, riafferrando la mia bibita.

«Ovviamente», continuò, con un tono di voce che scimmiottava il mio, «dobbiamo stare attenti all’impatto ambientale e cacciare con un certo giudizio. Di solito ci concentriamo sulle aree sovrappopolate di predatori, a qualunque distanza si trovino. Da queste parti c’è abbondanza di alci e cervi, e tanto basta, ma dov’è il divertimento?». Sorrise, malizioso.

«Eh, già, dove?», mormorai, dando un altro morso alla pizza.

«A Emmett piace andare a caccia di orsi all’inizio della primavera: appena usciti dal letargo sono più irritabili». Sorrise ripensando a qualche loro vecchia battuta.

«Non c’è niente di più divertente di un grizzly irritato, in effetti».

Sorrise e scosse il capo. «Per favore, dimmi quel che pensi veramente».

«Sto cercando di immaginare... ma non ci riesco. Come fate a cacciare gli orsi senza armi?».

«Be’, qualche arma l’abbiamo». Con un sorriso fulmineo e minaccioso mi mostrò i denti luccicanti. Mi sforzai di reprimere un brivido che potesse smascherarmi. «Non il genere di strumenti che i legislatori prendono in considerazione quando stendono i regolamenti di caccia. Se hai visto un documentario su come attaccano gli orsi, dovresti essere in grado di visualizzare Emmett».

Non riuscii a trattenere un altro brivido lungo la schiena. Sbirciai dall’altra parte della mensa, verso Emmett, lieta che non mi stesse osservando. Adesso i vigorosi fasci di muscoli che sfoggiava sul busto e sulle braccia avevano un’aria ancora più minacciosa.

Edward seguì il mio sguardo e soffocò una risata. Io lo fissai, nervosa.

«Anche tu somigli a un orso?», chiesi, a bassa voce.

«Più a un leone, così dicono», rispose piano. «Forse i nostri gusti rispecchiano il modo in cui cacciamo».

Cercai di sorridere. «Forse», gli fed eco. Avevo la testa piena di immagini inconciliabili tra loro. «Avrò mai il permesso di assistere?».

«Assolutamente no!». Il suo colorito si fece ancora più pallido del solito, e il suo sguardo divenne improvvisamente furioso. Io arretrai, stupita e - benché non volessi ammetterlo di fronte a lui - spaventata da quella reazione. Anche lui si era ritratto, incrociando le braccia.

«Troppo spaventoso per me?», chiesi, quando fui di nuovo in grado di controllare la mia voce.

«Se fosse questo, ti porterei con me stanotte», disse, con voce tagliente. «Quel che ti serve è una salutare dose di paura. Non vedo cosa potrebbe darti più beneficio».

«Ma allora, perché?», insistetti, senza badare alla sua espressione infuriata.

Per un minuto interminabile mi guardò, torvo.

«Più tardi», rispose, infine, e con un movimento leggiadro si alzò. «Siamo in ritardo».

Mi guardai attorno, sorpresa: aveva ragione, la mensa era quasi deserta. In sua compagnia, il tempo e lo spazio erano talmente sfocati da sfuggire alla mia percezione. Mi alzai di scatto dalla sedia, afferrando lo zaino che penzolava dallo schienale.

«D’accordo, più tardi». Non intendevo dimenticarmene.

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