10

«Non sta succedendo niente. Sono sempre a terra, in salvo, al sicuro. Non sta succedendo niente».

Hasson osservò la parte inferiore dell’Hotel Chinook fiorire e dispiegarsi come un fiore carnivoro. L’edificio circolare diventava sempre più enorme ai limiti della sua visuale. Cominciò a distinguere i particolari della struttura; la raggiera di travi a sbalzo, la ragnatela di nervature e paramezzali, le aperture gemelle per gli ascensori una delle quali era accesa d’una violenta luce rossa, come se si spalancasse sull’inferno.

«È semplicissimo, capisci. Le fondamenta della colonna di sostegno si trovavano in una zona geologicamente irrequieta, forse una palude, e adesso tutto l’edificio sta scendendo giù come un pistone. lo sono sempre a terra, sano e salvo, e guardo l’hotel che si abbassa al mio livello».

La sua traiettoria lo portò più vicino alla sezione inferiore dell’hotel, e per la prima volta udì il ruggito del fuoco. Per il momento le fiamme non riuscivano a scendere in basso (solo poche ferite aperte nel metallo indicavano che le travi portanti e le lastre erano torturate dal calore e dalle tensioni termiche), però il fuoco e i gas di combustione risalivano agli altri piani attraverso le trombe delle scale e i pozzi di ventilazione. La loro avanzata era contraddistinta da violente esplosioni di legname, vetro e barattoli di vernice. Il vento trascinava via nubi di fumo disseminate di faville ardenti.

«È davvero affascinante, quasi un privilegio, per quanto spaventoso, potersi trovare qui a terra e vedere con tanta chiarezza quello che succede all’hotel. Mi viene in mente la distruzione dell’Hindenburg. Comunque, anche se sono a terra sano e salvo, quella finestra al secondo piano è proprio vicinissima, e se voglio fare un salto dentro, così, soltanto per dare un’occhiatina, sarà meglio che pensi a come…»

Hasson colpì a piena forza la finestra. La sua ascesa a proiettile gli fece superare il campo d’interferenza gravitazionale del muro praticamente senza diminuzione di velocità. Afferrò la maniglia dell’intelaiatura da cui mancavano sei pannelli, i suoi piedi trovarono un appoggio instabile sull’orlo del nulla, e d’improvviso si trovò dentro l’hotel, col fiato grosso, su un pavimento a piastrelle pieno di detriti. Il rumore del fuoco era molto più forte, e il calore gli risaliva nel corpo dalle suole delle scarpe. Forse i pavimenti di quel piano non avrebbero retto per molti minuti.

Scrutò l’ambiente, senza badare troppo all’operatore televisivo che veleggiava fuori della finestra, al sicuro nel cielo, e distinse la sagoma di una vicina scalinata. All’interno dell’hotel erano stati completati solo i muri portanti, ed Hasson ebbe l’impressione di una poderosa immensità, di trovarsi su un campo di battaglia immerso nella notte, dove bagliori e lampi improvvisi tra foreste di colonne contrassegnavano dozzine di piccole scaramucce. Corse alla scalinata e cominciò a salire.

La lancia termica assicurata alla cintura riposava tranquilla contro il suo fianco sinistro, ma la pistola stava sfilandosi a causa dei movimenti del suo corpo. La prese in mano. Era quasi certo che Lutze e Theo Werry avessero seguito lo stesso percorso, per cui riteneva di essere al sicuro dalle bombe e dalle loro spolette di prossimità. Però era giunta l’ora di prepararsi a un incontro con Barry Lutze.

Quando aveva sparato ad Al Werry, il ragazzo si trovava al quarto piano, ma la salita verso il tetto doveva procedere a rilento per le ferite di cui soffriva e, presumibilmente, per la lentezza di Theo nel fare strada. Hasson stimò che poteva riuscire a raggiungerli all’ottavo piano. Si accertò che la pistola non avesse la sicura e comincio a contare i piani., procedendo in quel buio rotto da bagliori.

«Ci sono quattro rampe di scale fra ogni piano, il che significa che mi trovo al… oppure sono solo tre rampe? Forse sono più in alto di quanto…»

Hasson e Barry Lutze si videro nello stesso istante.

Lutze era fermo su un ampio pianerottolo e guardava in su. Più in alto, la figura china di Theo Werry avanzava piano su una rampa di scalini, pericolosissimi per l’assenza della ringhiera. Non appena Lutze si accorse della presenza di Hasson, si buttò in ginocchio e cominciò a sparare con la pistola rubata a Henry Corzyn. Hasson, che si era appena fermato, non aveva un posto per nascondersi, non aveva il tempo di gridare o di impostare una strategia. Era possibile solo una reazione istintiva.

Alzò la pistola e schiacciò il grilletto alla massima velocità possibile. Capiva benissimo di essere finito in quello che alcuni chiamavano “duello all’ultimo sangue”, una classica posizione di stallo, e che il risultato finale sarebbe stato determinato dai giri ciechi della ruota della fortuna, oltre che dall’abilità dei due avversari. La pistola rinculava di continuo contro la sua mano, ma mai con la velocità necessaria; sembravano trascorrere secoli fra un colpo e l’altro.

Successero contemporaneamente due cose. Una bomba scoppiò a uno dei piani inferiori, lanciando fiammate rosse e ambra lungo uno dei muri centrali; e nello stesso istante, come colpito dall’esplosione, Lutze cadde sulla schiena. Onde d’urto si trasmisero per tutto l’edificio, raggiungendo le travi portanti del pavimento e dando il via a una serie di esplosioni minori, ma Lutze non si mosse. Hasson corse al pianerottolo, la pistola pronta a sparare. Lutze giaceva con entrambe le mani contratte sulla fronte: i suoi occhi non vedevano più, la sua bocca era spalancata in un’espressione di sorpresa immobile.

Hasson voltò la testa e vide che Theo Werry era caduto in ginocchio. Il ragazzo era lontano solo pochi centimetri dall’orlo di quell’abisso artificiale che scendeva giù di parecchi piani, e si stava rimettendo in piedi a fatica. Hasson aprì la bocca per lanciargli un urlo d’avvertimento, ma ebbe l’improvvisa visione di quello che poteva accadere se avesse spaventato Theo. Allora balzò sulle scale, abbracciò Theo e lo allontanò dal baratro. Il ragazzo prese a divincolarsi.

— È tutto a posto, Theo — gli disse con voce ferma. — Sono Rob Hasson.

Theo smise di lottare. — Il signor Haldane?

— È quello che volevo dire. Vieni, adesso usciamo. Hasson afferrò una cinghia del corpetto del ragazzo e lo spinse verso il pianerottolo che aveva appena lasciato. Lo guidò oltre il corpo di Lutze, lontano dalla bocca spalancata della tromba delle scale, sino a una finestra del muro opposto. Fuori, il mondo buio sembrava tranquillo, normale e invitante. Hasson infilò in tasca la pistola, tolse dalla cintura la lancia termica e aggiustò i comandi.

— Non capisco — disse Theo, girando il viso da una parte all’altra. — Come ha fatto ad arrivare qui?

— Come te, figliolo.

— Ma credevo che non potesse volare.

— Ai miei tempi ho combinato qualcosa anch’io. — Hasson accese la lancia, trasformandola in una spada magica, d’un bianco accecante.

A quella luce, il viso sporco di Theo rivelò tutta la sua tensione. — Cos’è successo a Barry?

— Aveva una pistola. Ha cominciato a spararmi, e io ho dovuto rispondere al fuoco. — Sperando che Theo non si spingesse oltre con le domande, Hasson si voltò verso la finestra e appoggiò la punta della lancia al pannello più vicino. Il vetro non offrì nessuna resistenza alla fiamma. Si sciolse in una pioggerellina di gocce rosate che scivolarono lungo la finestra.

— Qualche minuto fa ho sentito mio padre che mi gridava qualcosa — disse Theo, alzando la voce per superare i rumori di sottofondo. — Adesso dov’è?

— Ne parleremo dopo, Theo. Adesso dobbiamo preoccuparci solo di…

— Barry gli ha sparato?

— Io… Mi dispiace, è proprio andata così. — Hasson spostò la punta della lancia termica e cominciò a tagliare un incrocio di sbarre. — Senti, Theo, sto aprendo un foro in una finestra, e tra un paio di minuti saremo fuori di qui. Voglio che tu ti tenga pronto a volare.

Theo cercò il suo braccio e lo strinse. — È morto, vero?

— Mi spiace… Sì. — Incapace di guardare il ragazzo, Hasson concentrò tutta l’attenzione sulla finestra, e restò solo leggermente perplesso quando vide che su un pannello vicino alla sua faccia era apparso un minuscolo foro circolare. Il ribollire di pensieri (Al Werry, suo figlio, la necessità di uscire dall’hotel in fiamme) era così grande che l’improvvisa presenza del foro nel vetro era irrilevante, un fenomeno marginale di scarsa importanza. Forse era il calore della lancia che alterava la struttura del vetro e creava…?

Nel vetro apparve un secondo foro, e Hasson ebbe un’idea incredibile.

Si voltò e vide Barry Lutze in piedi sul pianerottolo. Lutze teneva ancora una mano premuta sulla fronte, il suo viso era una maschera orribile di sangue, e stava usando la pistola, quella pistola che Hasson non aveva allontanato dal suo corpo. Per puro istinto, girandosi, Hasson lanciò la lancia termica. L’oggetto compì una serie di giravolte eccentriche, come un sole binario che ruotasse attorno al suo invisibile compagno, toccò il fianco di Lutze, cadde sul pavimento in una fontana di scintille e scomparve nel pozzo spalancato delle scale.

Lutze, già in equilibrio instabile, scivolò a terra. Un’unica convulsione scosse simultaneamente i suoi quattro arti, poi il suo corpo rimase immobile: in un attimo, da essere umano che era, si era trasformato in qualcosa che non aveva più nessun rapporto con la vita. Hasson, convinto che la lancia non avesse colpito Lutze, gli corse vicino. Il contatto con la lancia e con la fiamma arroventata aveva aperto nel petto di Lutze un taglio diagonale, fumante, disastroso. Era chiaro che ormai non c’era più nessun bisogno di togliergli la pistola.

Respingendo le reazioni più naturali, Hasson si avvicinò alla scala e guardò giù, in cerca della lancia, ma non riuscì a scorgerla. Vedeva solo un complicato tunnel di prospettive che scendevano in basso, oscurato dal fumo e illuminato a tratti da luci infernali. Bestemmiando, corse da Theo ancora fermo accanto alla finestra, stupefatto e impaurito.

— Abbiamo perso la lancia termica — disse, cercando di soffocare il panico nella voce. — Conosci la strada per uscire di qui?

Theo scosse la testa. — Sul tetto c’è una porta, ma io non l’ho mai trovata. C’era sempre qualcuno a farmi entrare e uscire.

Hasson soppesò le probabilità, immaginò le possibili morti che li attendevano, e giunse ad una decisione. — Avanti, figliolo, scendiamo giù. E dobbiamo scendere in fretta.

Prese Theo per mano e lo spinse verso le scale. Il ragazzo cercò di resistergli, ma Hasson era molto più forte di lui. Pochi secondi dopo iniziavano il pericoloso viaggio verso i piani inferiori dell’hotel, crepitanti di fiamme. Theo, dopo essersi arreso, fece del suo meglio per reggere il passo di Hasson, ma era uno sforzo impossibile per un cieco.

La discesa si trasformò in una serie di continue collisioni, di cadute, di storte alla caviglia. Solo la ringhiera, che per fortuna li era già stata installata, li salvò da un disastroso volo nel pozzo centrale.

A ogni pianerottolo il calore, il fumo e il crepitio del fuoco si facevano più intensi, e quando finalmente raggiunsero il secondo piano, Hasson restò terrorizzato nel vedere che aveva cominciato a disintegrarsi. Alcune piastrelle si erano incurvate come dune di sabbia, e avevano i bordi incandescenti. Violenti tremiti agitavano l’edificio, accompagnati da paurosi ruggiti a bassa frequenza. Il pavimento avrebbe ceduto da un secondo all’altro.

Hasson spinse Theo verso l’apertura nella finestra. Afferrò il ragazzo per le spalle e lo girò verso di sé, accendendo il suo corpetto AG. La spia sul pannello di controllo restò spenta. Hasson scrutò con sguardo esperto il corpetto di Theo, e si arrestò, stupefatto, al morsetto che avrebbe dovuto contenere la batteria.

Lo choc gli contorse il viso.

— Theo! — urlò, stravolto dalla sconvolgente portata di quella scoperta. — La tua batteria! Dov’è la tua batteria?

La mano di Theo sfiorò il morsetto. — L’ha presa Barry… Me n’ero scordato.

— Non importa, va tutto bene. — Hasson piegò le labbra in un sorriso inutile davanti a quelle parole senza senso, poi staccò la sua batteria e la collegò al corpetto del ragazzo.

— Me n’ero scordato — ripeté Theo. — Quando ho saputo di papà… Cosa facciamo?

— Usciamo di qui come avevamo deciso — rispose Hasson. — Tu vai per primo e io ti raggiungo appena trovo un’altra batteria.

Il viso di Theo si girò verso l’inferno di fiamme, cieco, ma consapevole. — Come farà…?

— Non discutere — ordinò Hasson, completando il collegamento e riuscendo finalmente a far accendere la lampadina sul fianco di Theo.

— Potremmo provarci assieme — disse Theo. — Ho sentito parlare di gente che vola in coppia.

— Bambini. — Hasson lo spinse nell’apertura rettangolare. — Non persone adulte come noi, Theo. In due supereremmo la massa modulare di base. E una persona come te, così appassionata di volo, dovrebbe sapere tutto della massa modulare di base e del collasso di campo.

— Ma…

— Fuori! Ho sistemato i comandi appena sotto il limite di immobilità per il tuo peso, per cui quando esci lasciati fluttuare in giù e arriverai a terra. Adesso… Via!

Hasson spinse Theo con tutta la sua forza, mandandolo a cadere nel cielo notturno, buio. Theo, sentendosi muovere, aggiunse la spinta delle sue gambe e balzò fuori dalla finestra in una specie di lungo tuffo che lo trascinò oltre il campo d’interferenza gravitazionale del muro, al di sopra degli edifici ingioiellati della città. Prese a nuotare in un mare d’aria, morbidissimo.

Hasson restò a guardarlo scomparire, poi si accorse che la mattonella sotto i suoi piedi aveva cominciato a muoversi e inarcarsi come una cosa viva. Si avviò verso la scala, più incuriosito che spaventato, e in quel momento la mattonella esplose in una serie di frammenti.

Alcuni pezzi ricaddero al piano di sotto, altri volarono in alto sulle ali di un fuoco che illuminò a giorno il pianerottolo e disseccò gli occhi di Hasson. Lui si precipitò su per le scale e cominciò a correre, aspettando di sentir cedere gli scalini da un secondo all’altro. Altri rombi spaventosi, associati a un aumento della luminosità generale, gli dissero che l’intera struttura dell’hotel stava per soccombere al fuoco.

Cercò di aumentare la velocità, costringendo le gambe a superare uno spazio sempre maggiore a ogni passo, e il suo respiro cominciò a uscire in rantoli boccheggianti, straziati. Dopo avere corso per quello che gli parve un periodo lunghissimo, una nuova paura s’impossessò di lui: la paura di aver involontariamente superato il pianerottolo dove giaceva il corpo di Lutze. Oppure, oppure… E se Lutze fosse riuscito a sopravvivere anche alla seconda ferita mortale, magari per poco tempo, e non si trovasse più sul pianerottolo? Alzando gli occhi, Hasson vide che stava per raggiungere il punto in cui la ringhiera di metallo terminava, e identificò la propria posizione.

Si allontanò dal muro, spingendosi sul pavimento, ed ebbe un attimo di profondo sollievo quando vide la forma inerte di Lutze nello stesso identico punto in cui l’aveva lasciata.

Saltò il corpo, s’inginocchiò e prese a frugare attorno, sperando di trovare la massa oblunga della batteria di Theo, o addosso a Lutze o per terra. Non la trovò. Alzò la testa e ampliò il suo raggio d’osservazione, solo per scoprire che in quella luce irregolare, incerta, ogni pezzo di maceria, ogni detrito sembrava una batteria, e invece era sempre qualcosa d’altro.

In uno dei piani che aveva appena superato scoppiò una bomba, dando vita alle solite fiammate e a cumuli orizzontali di polvere e fumo. Dopo la pioggia di frammenti di carta e plastica, il pavimento ondeggiò, gli diede l’orribile sensazione di perdere l’equilibrio.

Hasson comprese che anche in quei momenti di pericolo estremo aveva obbedito a un certo lato della propria natura: si era concesso il lusso di trovare ripugnanti alcune cose. Fece girare su se stesso il corpo di Lutze, vide l’oscena ferita dalle labbra nere, e staccò la batteria dal corpetto del cadavere. Corpetto e impianto elettrico erano sporchi di sangue scuro. Hasson si sollevò stringendo la batteria al corpo, e balzò stancamente verso la scala.

Adesso la salita era più complicata perché mancava la ringhiera. La corsa prolungata, faticosa, gli aveva reso le gambe deboli, difficili da guidare. Le ginocchia tendevano a piegarsi, i piedi a sbagliare la mira di qualche centimetro, ma al suo fianco non c’era ringhiera, per cui cadere avrebbe significato precipitare nell’inferno del primo piano.

Oltre tutto, al momento si trovava in una parte dell’hotel che, a quanto gli risultava, nessuno aveva più percorso da quando Morlacher aveva sistemato le bombe, e questo comportava rischi ulteriori di essere spazzato nel nulla da una mano invisibile. La poca capacità di connettere che gli restava gli disse che bisognava correre il rischio: per sfuggire all’hotel doveva salire fino al tetto e scoprire l’uscita che Barry Lutze e gli altri ragazzi usavano. Era una prospettiva lugubre e pericolosa, ma non aveva altre possibilità.

Era riuscito a proiettare i suoi pensieri un poco in là nel futuro. Vincendo i dolori lancinanti alle gambe e l’affannosità estrema del respiro, cominciò a chiedersi se le scale che stava salendo terminassero in una porta sul tetto.

Erano previsti giardini a terrazze e piscine sulla sommità dell’edificio, per cui era probabile che il tetto si potesse raggiungere anche attraverso le scale, oltre che con l’ascensore. Sorretto dalla speranza di riuscire a trovare, all’improvviso e senza difficoltà, una via d’uscita, puntò gli occhi verso l’alto. Si chiese se sarebbe riuscito a identificare l’ultimo piano.

Quando ci arrivò, non ebbe difficoltà a riconoscerlo. L’ultimo piano dell’hotel era invaso da una spessa, impenetrabile cortina di fumo e gas di combustione che si estendeva quasi dal pavimento all’invisibile soffitto.

Hasson ricadde, sconvolto, sugli scalini che dovevano portarlo all’ultimo piano. Osservò l’ambiente e si sentì assediato da ogni lato. Il limite inferiore della cortina di fumo, alta qualche metro, era delineato con nettezza sorprendente. Sobbalzava e tremava e si gonfiava come la superficie di un brodo a fuoco lento osservato alla lente d’ingrandimento. Tra il fumo e il pavimento si stendeva un sottile strato d’aria pulita. Scrutando attraverso quel sandwich traslucido, riuscì a scorgere l’inizio di un’altra rampa di scale, dalla parte opposta del pianerottolo. Gli scalini erano più stretti degli altri, e lui si convinse che portassero direttamente a una porta che dava sul soffitto.

Si sforzò di riposare per qualche secondo, respirando ossigeno a pieni polmoni, poi si alzò, si tappò la bocca, e corse verso gli scalini. I suoi piedi li trovarono automaticamente, e lui si lanciò alla cieca verso l’alto, correndo alla massima velocità. Sapeva che una sola inspirazione del fumo che lo circondava poteva essergli fatale. E subito si affacciò un nuovo pensiero: come faceva a essere sicuro che quegli scalini avessero la stessa disposizione degli altri?

Come faceva a sapere che non sarebbe precipitato da un punto senza ringhiera? Respinse l’idea e continuò a correre, lasciando scorrere la mano sul muro scabro, finché raggiunse un piccolo pianerottolo e una porta di metallo. La porta era sprangata da un catenaccio, inamovibile.

Quasi grato che la porta, così solida, non lo spingesse a perdere tempo nel tentativo di forzarla, si girò e rifece la corsa all’indietro. Arrivò al punto di partenza proprio quando i polmoni stavano per scoppiargli, e si abbatté sugli scalini.

Residui di fumo acre gli tormentavano le narici e la gola, scatenando un attacco di tosse. Si aggrappò ai gradini fino al termine delle convulsioni. Una parte del suo cervello non voleva lasciarsi coinvolgere. Utilizzò quei momenti di distacco astrale per analizzare la situazione.

Da che era entrato all’Hotel Chinook, la sua vita dipendeva dall’interazione di diverse forze. Alcuni dei fattori contro cui aveva lottato erano umani, altri puramente materiali, e non tutti avevano giocato a suo sfavore. La forma e la topografia dell’edificio, ad esempio, gli avevano concesso un po’ di respiro, un po’ di tempo per agire.

Un incendio era come un primitivo motore a getto: aveva bisogno di risucchiare aria e di canali di sfogo prima di raggiungere tutto il suo mortale splendore. Il fatto che il tetto dell’hotel fosse ancora intatto, come dimostrava il fumo intrappolato all’ultimo piano, aveva impedito al fuoco di salire in alto, ne aveva rallentato il percorso, ne aveva modificato lo sviluppo naturale. Se quello strato di fumo e gas non si fosse temporaneamente fermato, lui, Rob Hasson, sarebbe già scomparso, distrutto e incenerito da parecchio tempo. Era spiacevole, anche se ovviamente il mondo delle leggi fisiche non aveva nessuna colpa, che ora quella nube tossica gli rendesse impossibile superare l’unica via d’uscita sull’universo esterno…

Molto più in basso, un cataclisma travolse parte della struttura di scalini su cui era adagiato. Ci fu un sommovimento gigantesco, un rumore di tuono: intere rampe di scala cedevano, precipitavano giù come carte da gioco distrattamente sparpagliate. Correnti di gas caldi salirono dalla tromba centrale al suo fianco, agitando la cortina di fumo.

Hasson uscì in un gemito involontario quando gli scalini su cui era seduto ebbero un primo tremito. Strisciò fino al pavimento, schiacciandosi a terra per rimanere entro la fascia di aria pulita, trattenendo il fiato ogni volta che la nube di fumo si abbassava fino ad avvilupparlo. Ormai l’aria era contaminata anche a livello del pavimento, tanto da bruciargli il tessuto dei polmoni, e lui cominciò a tossire piano. Macchie rosse presero a pulsare davanti ai suoi occhi.

Strizzò gli occhi, cercando di vedere meglio attraverso quel continuum bidimensionale, e scoprì che la luce rossa non era un fenomeno soggettivo, bensì qualcosa che aveva origine nel mondo esterno. Guidato da impulsi incomprensibili, strisciò avanti, verso la fonte di quella luminosità intermittente. Alla fine, dopo un tempo incalcolabile, si trovò sdraiato sulla riva di un lago circolare.

Scosse la testa: doveva ristabilire il senso delle proporzioni, la capacità di studiare l’ambiente.

Quello che vedeva non era un lago, o una palude, o una pozzanghera. Era… una tromba d’ascensore. Guardò giù, socchiudendo gli occhi a fessura per combattere il calore che saliva dal basso. Guardò quelle sezioni telescopiche sempre più piccole, quei centri concentrici ora bui, ora illuminati dal fuoco arancione, e vide sul fondo lontano un occhio piccolo, nero, immobile.

L’occhio lo ipnotizzò, lo affascinò, lo sedusse.

Hasson se ne liberò con uno sforzo. Rivolse l’attenzione alla massa oblunga della batteria, ancora chiusa nella sua sinistra. Rotolò di fianco e poi, lavorando con la precisione languida di un uomo in trance, inserì la batteria nel morsetto vuoto. Si accorse che l’intelaiatura metallica della batteria era segnata dal fuoco, il che significava che forse era stata colpita dalla lancia termica che aveva ucciso Barry Lutze. Tolse un’incrostazione nera dai poli e li collegò al generatore di antigravità della sua cintura.

Adesso doveva solo girare il comando d’avvio per dare energia all’apparecchio, infilarsi nella tromba dell’ascensore e volare giù, verso la salvezza. Si concesse un attimo di preparazione.

Naturalmente era un metodo molto poco ortodosso per decollare, un metodo che nessuno dei numerosi manuali di volo raccomandava. Dentro la tromba dell’ascensore il campo antigravità non avrebbe funzionato per la vicinanza delle pareti, il che significava che sarebbe precipitato per quattordici piani e più, che sarebbe piombato ben oltre l’estremità inferiore dell’hotel, prima che il campo lo sollevasse in alto. Complessivamente si trattava di una caduta libera d’una sessantina di metri, e siccome il suo corpo offriva scarsa resistenza all’aria avrebbe percorso la distanza in quattro secondi circa.

Era senz’altro un modo scomodo e spiacevole per iniziare un volo, il tipo di cosa che avrebbe sconvolto una persona nervosa o un principiante; ma non era niente, proprio niente, per un poliziotto che una volta, durante un’azione, era precipitato per tremila metri…

Hasson girò il comando sul pannello della cintura, e uscì in un sorriso tremulo, incredulo, quando vide che la spia non si accendeva. Il messaggio, se lo accettava, era che il suo corpetto non funzionava, che non gli restavano vie di fuga.

«Adesso ti racconto i tre significati che questa faccenda potrebbe avere» si disse, calmandosi con quella pedanteria da libro di testo. «Poi ti racconterò l’unica cosa che significa sul serio. Potrebbe significare che non ricevi corrente, ma la cosa non è certa. Forse la corrente arriva, però il microcircuito del monitor potrebbe aver deciso che la batteria non è in condizioni perfette. Il microcircuito non sa proprio cosa sia un’emergenza. Per lui ogni decollo è l’inizio di un volo dimostrativo di otto ore.

«Potrebbe significare che hai danneggiato il generatore AG quando hai colpito quella finestra al secondo piano, ma non è molto probabile. Questi apparecchi sono in grado di sopportare sforzi ben peggiori.

«Potrebbe significare che è saltata la spia. A volte è successo, anche se non molto spesso».

Ci fu un rombo più forte, più vicino e più minaccioso. Veniva dagli scalini che aveva appena abbandonato. La cortina di fumo entrò in agitazione, si schiacciò sulla sua testa come un diaframma. Sempre girato di fianco, Hasson alzò le ginocchia e chiuse gli occhi.

«E l’unica cosa che significa sul serio, Rob, signor Hasson, eccellenza, è che preferiresti rimanertene qui a soffocare piuttosto che fare quel salto. E chi potrebbe rimproverarti? Chi, sano di mente, deciderebbe di precipitare per quattordici piani di un edificio in fiamme… per poi uscire in aria più in alto dell’Empire State Building… con tanto spazio sotto i piedi, spazio per cadere… senza nemmeno sapere se il corpetto AG funziona o no? È impossibile. Irragionevole. Eppure… Eppure…»

Hasson si scosse, si avvicinò all’orlo della tromba e guardò giù in quella profondità sempre più remota. Fissò il grande disco centrale, nero, oltre il quale lo aspettava il mondo, e capì che non era affatto un occhio, che suo padre non lo stava guardando, che nessuno lo stava guardando.

Era solo. Toccava soltanto a lui decidere se preferiva morire, o nascere una seconda volta.

Decise rilassando i muscoli, lasciandosi cadere in avanti, precipitando nell’ignoto come se si trattasse di un sogno.


Quattro secondi.

Stando alla normale scala cronologica dell’uomo, quattro secondi sono un periodo brevissimo, ma Hasson riceveva impressioni sensoriali incomparabilmente vivide a velocità accelerata, e per lui tutti gli orologi si fermarono, i cieli smisero di ruotare.

Ebbe tutto il tempo di scrutare i campi di battaglia fiammeggianti che erano i piani dell’hotel, di udire i rumori possenti generati dal fuoco di piano in piano, di sopportare il senso di vuoto allo stomaco, sempre più forte, che gli diceva che la sua velocità andava aumentando in risposta al richiamo mortale e silenzioso della Terra, di provare l’alternarsi di luce e ombra, di caldo e freddo relativo, di pensare, di progettare, di sognare, di gridare…

E quando, finalmente, nell’oscurità trafitta dal mormorio del vento, con l’hotel che si allontanava sopra la sua testa come un sole nero, sentì che il corpetto antigravitazionale lo risollevava, riportava ordine in quel caos gemebondo, era davvero nato per la seconda volta.

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