5

Si svegliò in una stanza invasa dalla luce del sole, e senza dover guardare l’orologio seppe che aveva dormito fino a tardi. La testa gli pulsava con tanta forza che poteva sentire i battiti intermittenti alla tempia premuta contro il cuscino, e la lingua gli sembrava fatta di pelle di camoscio. Aveva anche la vescica gonfia, come conseguenza del surplus alcolico sui processi diuretici del corpo.

«Un mal di testa no» protestò con il mattino. «L’ultima cosa di cui ho bisogno è un mal di testa». Rimase un po’ immobile, riabituandosi alla stanza, chiedendosi cos’era stato, il giorno prima, a mettere in moto l’eccitazione nervosa che percepiva ai limiti della coscienza. C’entrava il piacere, quello lo sapeva, il piacere di… Chiuse un attimo gli occhi quando l’immagine di May Carpenter si mise a fuoco nella sua mente, subito seguita da tutte le recriminazioni e obiezioni scatenate dalla sua età, condizione e temperamento. May era troppo giovane, lui lavorava di fantasia come un adolescente, lei era il suo tipo, era altamente improbabile che May nutrisse il minimo interesse per lui… Però, però, lo aveva guardato in un certo modo, e gli aveva detto: — Siamo fortunati tutti e due — e gli aveva detto anche: — Forse è meglio così — e il fatto di non aver mai comunicato con lei, di non conoscerla come persona, non era molto importante, perché aveva davanti tanto tempo in cui…

Un improvviso ritorno di pressione all’addome riportò Hasson alla ragione, facendogli capire che lo attendeva il compito di rimettersi in piedi dopo tutte le ore trascorse a letto. Il primo stadio dell’operazione era quello di trasferirsi, ancora in posizione orizzontale, dal letto al pavimento: aveva di fronte un lavoro d’ingegneria meccanica degno d’un gigante, e il primo requisito era una base solida, immobile. Cominciò col trasportare, a ma, no, le gambe su un lato del materasso, poi rotolò su se stesso, afferrò le coperte e scese sul pavimento in una sorta di caduta libera controllata. L’inevitabile flessione della schiena e il brusco cambiamento di temperatura diedero il via a un periodo di tormenti che sopportò in silenzio quasi perfetto, scrutando il soffitto a occhi socchiusi. Quando gli spasmi si fecero meno forti rotolò di nuovo su se stesso fino a trovarsi in posizione prona, per poi dare il via al lentissimo processo, per tentativi ed errori, di mettersi a sedere; il tutto eseguito con la cura di un muratore che dovesse puntellare una massa ribelle di detriti, sforzando sempre più lo scheletro fino alla posizione verticale.

Due minuti dopo aver preso la decisione di alzarsi, era in piedi col fiato corto, distrutto dalla prova appena superata, ma ormai capace di muoversi. Girò nella stanza, indossò una vestaglia e raccolse gli articoli di toilette, poi rimase in ascolto alla porta della camera: voleva essere sicuro che aprendola non sarebbe stato costretto a parlare con degli estranei. Il pianerottolo era deserto e tutto il primo piano sembrava abbandonato, anche se dal pianterreno giungevano i rumori di un’attività smorzata. In bagno si lavò i denti e fece una scoperta deprimente: due ulcere alla bocca che credeva in via d’estinzione erano più rigogliose che mai. Tornato nella sua stanza, si baloccò con l’idea di infilarsi ancora sotto le coperte e accendere il televisore, ma il suo corpo era talmente disidratato da fargli prepotentemente desiderare caffè o tè, senza via di scampo. Si vestì e scese in cucina, chiedendosi come avrebbe reagito se avesse trovato May da sola. Bussò piano alla porta, entrò e scorse Theo Werry seduto tutto solo al tavolo circolare. Stava mangiando un piatto di cereali. Il ragazzo indossava calzoni sportivi e un maglione rosso, e sul suo bel viso c’era un’espressione pensierosa.

— ’Giorno, Theo — disse Hasson. — Oggi non vai a scuola?

Theo scosse la testa. — È sabato.

— Me n’ero scordato. I giorni non hanno più molto significato per me, adesso che… — Hasson si controllò e gettò un’occhiata nella stanza. — Dove sono tutti?

— Papà è fuori a spalare neve. Le altre due sono andate in città. — La scelta di vocaboli di Theo, e una certa freddezza di tono, gli fecero capire che non andava pazzo per May e sua madre.

— In questo caso mi farò un po’ di caffè — disse Hasson. — Immagino che non dispiacerà a nessuno.

— Glielo preparo io, se vuole. — Theo fece per alzarsi dalla sedia, ma Hasson lo convinse a proseguire la colazione. Mentre eseguiva il rituale quotidiano di prepararsi il caffè, raccontò al ragazzo i suoi gusti e le sue abitudini, arrivando a scoprire che la conversazione con Theo non era faticosa come lo scambio di battute con gli adulti. Parlarono un po’ di musica, e la faccia di Theo si animò quando scoprì che anche Hasson amava Chopin e Liszt, oltre ad alcuni compositori moderni che utilizzavano i toni più acuti del pianoforte.

— Immagino che sentirai spesso la radio — disse Hasson, accomodandosi col suo caffè. Capì subito di avere commesso un errore.

— È quello che immaginano tutti. — La voce di Theo si era fatta glaciale. — Essere ciechi è divertente, se si ha una radio.

— Nessuno lo pensa.

— Però dovrebbe essere un grande sollievo, no? Ovunque io vada la gente accende la radio per me, e io non l’ascolto mai. Non mi piace essere cieco, privo della vista come dicono a scuola, e non permetterò a nessuno di far credere che mi piace.

— Una logica bizzarra — disse Hasson, dolcemente, ben conscio dei propri cedimenti alla malattia fisica.

— Forse. D’altra parte un onisco non è una creatura molto logica.

— Un onisco? Non ti seguo, Theo.

Il ragazzo uscì in un sorriso amaro che rattristò Hasson. — Kafka ha scritto un racconto in cui parla di un tizio che una mattina si sveglia e scopre di essersi trasformato in uno scarafaggio gigantesco. Fa orrore a tutti, l’idea di diventare uno scarafaggio. Ma se Kafka avesse davvero voluto spaventare la gente, lo avrebbe trasformato in un onisco.

— E perché?

— Sono ciechi e si agitano tanto. Ho sempre odiato quelle creature perché sono cieche e si agitano tanto. Poi mi sono svegliato una mattina e ho scoperto di essere diventato un onisco gigante.

Hasson fissò il caffè nero nella tazzina, che emanava vapore. — Theo, accetta un consiglio da uno che è campione mondiale del prendersi a bastonate in testa da solo: non farlo.

— La mia testa è l’unica che riesco a colpire.

— Anche tuo padre ne ha sofferto molto, lo sai. Non si diverte nemmeno lui.

Theo piegò la testa di lato e meditò un attimo sull’osservazione di Hasson. — Signor Haldane — disse poi, cauto — lei non conosce affatto mio padre. Io non credo che lei sia suo cugino, e non credo che sia un assicuratore.

— Buffo — disse Hasson — è quello che mi diceva il capo ogni mese, quando controllava il mio lavoro.

— Non sto scherzando.

— Lo diceva sempre anche lui, ma io l’ho sorpreso inventando una nuova polizza d’assicurazione contro il fatto di non essere assicurati.

Theo contrasse le labbra. — Una volta ho letto la storia di un tipo che si chiamava Nemo l’Innominato. Hasson sogghignò, impressionato dalla velocità con cui il ragazzo aveva catalogato le sue assurdità, e trovò la risposta giusta. — Mi sembri un personaggio di Stephen Leacock.

— No, non credo di averne mai sentito parlare.

— Ma era un umorista canadese! Il più bravo! — Hasson fu lievemente sorpreso di scoprire che poteva entusiasmarsi per argomenti letterari. Da mesi non riusciva nemmeno ad aprire un libro.

— Cercherò di ricordarmi il nome — disse Theo.

Hasson gli diede un colpetto sul dorso della mano. — Senti, ormai è ora che mi rilegga un po’ di Leacock. Se riesco a trovare un paio di libri, potrei leggerteli, magari. Che cosa ne dici?

— Per me va bene. Se lei ha tempo, naturalmente…

— Ho un sacco di tempo, per cui è deciso — rispose Hasson, riflettendo sul fatto che appena aveva pensato di fare qualcosa per qualcun altro, il suo stato d’animo era migliorato. Gli sembrava una lezione significativa. Sorseggiò il caffè, di tanto in tanto sobbalzando quando il liquido caldo gli sfiorava una delle ulcere alla bocca, e incoraggiò tacitamente Theo a raccontargli tutto quello che gli veniva in mente, purché non si parlasse del passato di Hasson e della sua parentela fasulla con Al Werry. L’interesse di Theo per il volo balzò presto in primo piano: parlò quasi subito di Barry Lutze e di una banda locale di fora-nuvole, i Falchi. Come il giorno prima, ad Hasson diede un grande fastidio la nota di ammirazione incondizionata che spuntò nella voce di Theo.

— Ci scommetto — commentò, decidendo di mettere in pericolo l’amicizia col ragazzo — che il capo della banda si chiama Falco Nero.

Theo parve sorpreso. — Come fa a saperlo?

— O è Falco Nero, o è Aquila Rossa. Tipi del genere devono sempre nascondersi dietro un’etichetta, ed è sorprendente quanto sia limitata la loro immaginazione. Tutte le città in cui sono stato hanno un Falco Nero o un’Aquila Rossa che di notte vola in giro a terrorizzare i ragazzi più giovani, e la cosa più buffa è che tutti, dal primo all’ultimo, credono di essere persone speciali.

Theo si alzò. Prima di rispondere gettò il piatto vuoto nel riciclatore e sedette di nuovo a tavola. — Se uno vuole volare sul serio deve tenere nascosto il proprio nome.

— Non è questa l’impressione che mi danno le pagine sportive dei giornali e la tivù. Qualcuno diventa ricco e famoso proprio perché vola sul serio. — Hasson capì, dall’espressione sul viso di Theo, che le sue parole non ottenevano effetto. La frase “volare sul serio”, stando a come l’usavano i giovani, significava volare in maniera illegale e pericolosa, lasciare da parte la legge e volare solo con l’istinto, volare di notte senza luci, giocare a nascondino aereo fra i canyon degli edifici urbani. L’inevitabile conseguenza di quel “volare sul serio” era una pioggia di cadaveri al suolo, quando le batterie non funzionavano più, ma è una caratteristica della giovinezza ritenersi immuni dai disastri. Gli incidenti capitano sempre a qualcun altro.

Una delle difficoltà che Hasson aveva incontrato, negli anni di lavoro con la polizia, era che tutti gli argomenti si basavano sull’emozione, non sull’intelligenza. Ormai aveva perso il conto delle volte che aveva parlato coi membri di un gruppo che avevano visto uno dei loro fracassarsi contro il fianco d’un edificio, o finire tagliato in due su un pilastro di cemento. Aveva sempre riscontrato una sensazione sotterranea simile alle superstizioni più antiche e alle credenze magiche dei primitivi: il morto aveva attirato su di sé la sfortuna perché aveva violato, in un modo o nell’altro, il codice di comportamento del gruppo. Aveva sfidato il capo, oppure tradito un amico, oppure dimostrato di avere perso l’autocontrollo.

La morte non veniva mai attribuita al fatto che il giovane volatore avesse infranto la legge, perché ammetterlo avrebbe significato spalancare le porte all’idea che i regolamenti erano necessari. Il volatore notturno votato alla morte, l’Icaro oscuro, era l’eroe popolare del secolo. In occasioni del genere Hasson aveva cominciato a chiedersi se il concetto stesso di polizia aerea, l’assumersi responsabilità per gli altri fosse ancora valido. Il corpetto AG, oltre a sobillare chi lo indossava a sfidare l’autorità, era utile perché regalava l’anonimato e una mobilità estrema. Un Falco Nero e la sua corte aerea potevano sorvolare in una sola notte migliaia di chilometri quadrati e poi scomparire senza lasciare tracce, come una pioggerellina sparsa caduta nell’oceano della società. In quasi tutti i casi, l’unico modo per riportare alla ragione un volatore irrequieto era inseguirlo e dargli letteralmente la caccia in cielo, attività difficile e pericolosa. Per di più, a quanto pareva, il numero dei cacciatori sarebbe sempre stato ridottissimo. E quando si trovava di fronte a un giovane innamorato del cielo come Theo, automaticamente predisposto a venerare l’eroe sbagliato, ad Hasson sembrava di avere sprecato tutta la vita.

— … Non gli sembra niente salire su di seimila o settemila metri e restarsene lì per ore — stava dicendo Theo. — Ma ci pensi. Arriva a sette chilometri di altezza e non gli sembra niente.

Hasson aveva perso il filo della conversazione, ma pensò che si stesse parlando di Barry Lutze. — Deve sembrargli qualcosa, se no non si sarebbe preso il disturbo di parlartene.

— E perché non dovrebbe esserne orgoglioso? È più di quello… — Theo s’interruppe, modificò la frase. — È più di quello che ha fatto tanta gente di qui.

Hasson ripensò al suo breve soggiorno ai margini dello spazio, a trenta chilometri d’altezza, ma non provò il desiderio di parlarne. — Non gli sembra un po’ infantile farsi chiamare Falco Nero?

— Chi ha detto che Barry è Falco Nero?

— Avete due grandi volatori dalle vostre parti? Barry Lutze e il misterioso Falco Nero? Non si scontrano mai? — Come faccio a saperlo? — chiese Theo con espressione di rimprovero, e cercò la caffettiera.

Hasson non lo aiutò. Sapeva che la sua colpa, agli occhi del ragazzo, era quella di essersi intromesso in cose che un adulto non avrebbe mai capito. Per la prima volta nella storia, i giovani potevano sfuggire alla sorveglianza degli anziani, ed era un privilegio cui non avrebbero mai rinunciato. La totale mobilità personale aveva reso più piccolo il mondo e ingrandito enormemente lo stacco fra le generazioni. Barrie aveva avuto una brillante intuizione quando aveva capito che non poteva esistere comunicazione fra Peter Pan e alcun membro del mondo adulto.

Hasson osservò un silenzio contrito mentre Theo, aiutato solo dalla memoria e dal sottile raggio di un anello a sensori sulla mano destra, trovava la caffettiera e si versava un po’ di caffè. Stava chiedendosi quale fosse il modo migliore per aprire un negoziato di pace quando Al Werry, in un turbine d’aria fredda, entrò in cucina dalla porta sul retro. Respirava affannosamente, probabilmente perché aveva spalato la neve. Hasson fu un po’ stupefatto nel vedere che si era messo l’uniforme anche per quei lavori casalinghi, ma scordò la propria idiosincrasia quando si accorse che Werry era stranamente agitato.

— Vai di sopra, Theo — disse il poliziotto, senza preamboli. — Sta arrivando gente per parlare d’affari. Theo piegò la testa con aria interrogativa. — Non posso finire la mia…?

— Di sopra — urlò Werry. — Muoviti.

— Vado. — Theo stava cercando il suo bastone a sensori, appoggiato al tavolo, quando si udì spalancare la porta d’ingresso. Subito dopo risuonarono passi pesanti. Un istante più tardi si aprì la porta della cucina, e apparvero nella stanza Buck Morlacher e Starr Pridgeon. Indossavano entrambi tute da volo e corpetti che rendevano più voluminosi i corpi e che facevano apparire estranea, ostile, la loro presenza nell’ambiente domestico. Macchie rosse risplendevano minacciose sulle guance paffute di Morlacher che avanzava verso Werry, mentre alle sue spalle Pridgeon esaminava il contenuto della stanza con interesse divertito, quasi fosse lui il proprietario. Hasson provò un insieme di rabbia, tristezza e panico.

— Voglio parlarti — disse Morlacher a Werry, dandogli forti colpi sul petto con l’indice guantato. — Li. — Indicò con la testa il soggiorno e si avviò, senza girarsi a guardare se Werry lo seguiva. Werry, dopo un’occhiata sgomenta al figlio, gli andò dietro, abbandonando in cucina Pridgeon con Hasson e Theo.

— Lo sai perché sono qui. — La voce di Morlacher era gonfia di rabbia, riempiva tutte e due le stanze.

Werry, per contrasto, si udiva a stento. — Se è per quella CA di ieri, Buck, non vorrei che tu pensassi…

— Uno dei motivi per cui sono qui è che tu non sei mai in quel tuo maledetto ufficio dove dovresti essere, e l’altro è il delitto di ieri all’imbocco est. Non è stata una CA, come dici tu, è stato un maledetto omicidio, e voglio sapere cosa hai concluso.

— Non possiamo fare molto di più di quello che stiamo facendo — rispose Werry, cercando di placarlo.

— Non possiamo fare molto di più — lo scimmiottò Morlacher. — Arriva in città un VIP per un viaggio d’affari, un idiota testa di merda lo uccide, e non possiamo fare molto di più!

Hasson, guidato dall’espressione di Theo, si alzò con l’intenzione di chiudere la porta del soggiorno. Si girò senza aver preso le precauzioni necessarie e s’immobilizzò: era come se gli avessero infilato un pugnale di cristallo fra le vertebre. Si piegò sul tavolo per un secondo, poi tese cautamente la mano verso la maniglia della porta.

— Andiamo, Buck, non era un VIP — disse Werry nell’altra stanza.

— Quando dico che quel figlio di puttana era un VIP — ruggì Morlacher — vuol dire che quel figlio di puttana era un VIP. Era venuto qui per…

Hasson chiuse la porta, riducendo le due voci a un ronzio in sottofondo, e fece del suo meglio per mettersi in piedi. Pridgeon, che passeggiava in cucina raccogliendo oggetti e rimettendoli giù, lo fissò con una specie di bonario disprezzo.

— Ragazzo, sei davvero conciato male, tu, il cugino d’Inghilterra di Al — disse, sorridendo sotto i baffi. I suoi denti avevano il colore quasi verde che deriva dal continuo accumulo di residui di cibo; e sotto le gengive, fra gli incisivi, c’erano punti marci, color carbone. — Un incidente di macchina, no?

— Esatto. — Hasson lottò per non regalargli un sorriso propiziatorio.

Pridgeon scosse la testa ed emise un sibilo. — Non dovevi andare in giro in macchina, cugino d’Inghilterra di Al. Dovevi sguazzare in cielo come un uomo vero. Guarda quel ragazzino di Theo! Theo gliela farà vedere a tutti, appena ci riesce. Non è vero, Theo?

Theo Werry serrò le labbra, rifiutandosi di rispondere.

— Theo stava tornando in camera sua — disse Hasson. — Credo che abbia terminato la colazione.

— Col cavolo! Non ha nemmeno assaggiato il caffè. Bevi il tuo caffè, Theo. — Pridgeon schiacciò l’occhio ad Hasson, si portò un dito alle labbra per ordinargli il silenzio e versò nella tazza del ragazzo un’enorme dose di zucchero. Mescolò la poltiglia e guidò la tazza nella mano del ragazzo. Theo, col viso attento e pieno di sospetto, afferrò la tazza ma non la portò alla bocca.

— Credo che lei abbia messo troppo zucchero — disse allegramente Hasson, sconvolto dalla sua stessa codardia. — Non vogliamo che Theo ingrassi.

L’aria di giocosa complicità scomparve immediatamente dalla faccia di Pridgeon. Fece il solito trucchetto intimidatorio, lo fissò d’improvviso con sguardo severo, da stregone che lancia una maledizione, poi gli si avvicinò a testa bassa, muovendosi silenzioso sulle piante dei piedi. «Non può succedere a me» pensò Hasson, e si scoprì ad annuire, sorridere, scrollare le spalle, uscire dalla cucina, incapace di sopportare l’idea che l’altro invadesse il suo spazio personale.

Ancora sotto lo sguardo minaccioso di Pridgeon, arrivò all’inizio della scala e appoggiò la mano sulla ringhiera. — Chiedo scusa — disse, morbosamente affascinato alla prospettiva della frase che le sue labbra stavano per pronunciare. — Un bisognino.

Salì le scale con l’intenzione di tornare in camera e chiudersi dentro, ma aveva proprio davanti la porta del bagno, e spinto dall’idea di far vedere che aveva sul serio bisogno di scaricarsi entrò in bagno e schiacciò il pulsante concavo dello sciacquone. Il silenzio che venne dopo gli rimbombò dentro.

— Un bisognino — sussurrò. — Dio! Un bisognino! Si portò il dorso della mano alle labbra per impedire che tremassero, poi sedette su una sedia di giunco verniciata in bianco. Ricordò, con una sensazione di perdita estrema, il tesoro di capsule verde-oro di Serenix che così stupidamente aveva gettato via. «Andrò da un medico e me le farò prescrivere» pensò. «Prenderò quelle pillole meravigliose e qualche cassetta per il televisore e andrà tutto benissimo». Abbassò la testa fra le mani: si sentiva come quando era sospeso sulla soglia color porpora della stratosfera, freddo, lontano, abbandonato. Entrò in un periodo senza tempo.

Quello stato di stupore catatonico cessò quando al piano di sotto si aprì una porta, e contemporaneamente aumentò l’irrequieto, sbuffante suono della rabbia di Morlacher. Hasson aspettò qualche secondo e spalancò la porta di quel tanto che gli consentiva una visuale verticale sull’ingresso. C’erano Morlacher e Pridgeon che si allacciavano le tute, preparandosi al volo. I loro corpi occupavano quasi tutto il locale. La porta che dava sul soggiorno era chiusa, e non c’era traccia di Al Werry. Pridgeon spalancò la porta dell’ingresso, facendo entrare la luce bianca riflessa dalla neve, e uscì. Morlacher stava per seguirlo quando ci fu un altro movimento: il trapezio di luce sul pavimento dell’ingresso si oscurò, e May Carpenter entrò in casa. Reggeva una borsa da spesa e indossava un vestito tradizionale di tweed, giacca e gonna orlate di pelo, che le conferiva un aspetto stranamente pudico. Morlacher la scrutò compiaciuto.

— May Carpenter — disse, con un sorriso libertino del tutto diverso dalle sue espressioni che Hasson conosceva già — ti fai più bella ogni volta che ti vedo. Com’è che ci riesci?

— È la vita pulita, immagino — rispose May, sorridente, per niente turbata dal fatto che lui le stesse tanto vicino nel piccolo ingresso.

— Questa sì che è buona — sghignazzò Morlacher. — Sempre a sistemare fiori e sferruzzare coperte al club dei genitori, eh?

— Non dimenticare le gare culinarie. Dovresti vedere cosa so fare con una siringa per dolci.

Morlacher rise forte, mise le mani sulla vita di May e abbassò la voce. — Sul serio, May, perché non sei venuta a trovarmi da quando sei tornata in città?

Lei scrollò le spalle. — Ho avuto da fare. E poi, non è la ragazza che deve farsi avanti con l’uomo, no? Cosa direbbe la gente?

Morlacher gettò un’occhiata alla stanza in cui aveva parlato con Al Werry, poi attirò a sé May e la baciò. Lei si abbandonò per un attimo all’abbraccio, e Hasson vide il leggero sfregamento di fianchi che la sera prima aveva messo in funzione tutti gli interruttori organici del suo corpo. Rimase immobile al suo punto d’osservazione, timoroso di essere colto a spiare ma del tutto incapace di spostarsi.

— Adesso devo andare — disse Morlacher quando si separarono. — Ho affari urgenti in città.

May lo fissò da sotto le sopracciglia tremule. — Forse è meglio così.

— Ti chiamo — sussurrò Morlacher. — Combiniamo qualcosa. — Si girò e scomparve nel bianco accecante dell’universo esterno. May lo guardò scomparire, chiuse la porta, e senza fermarsi a togliersi la giacca salì le scale a due gradini per volta, in direzione del bagno. Hasson stava quasi per chiudere la porta con un colpo deciso, poi capì che lei avrebbe notato la cosa. A gola secca, pieno di timore, si allontanò dalla porta e si piegò sul lavandino, fingendo di lavarsi le mani. May oltrepassò il bagno ed entrò in una camera da letto più avanti.

Hasson, camminando con la cautela esagerata di uno scassinatore da film, abbandonò il bagno e si tuffò nel suo rifugio personale, chiudendo piano la porta a chiave. Scoprì che il suo cuore sbuffava come una vecchia automobile da museo e decise definitivamente di restare in camera il più a lungo possibile, evitando contatti diretti col resto dell’umanità. Sedette sull’orlo del letto, accese il televisore e cercò di entrare a far parte di quel mondo in miniatura, praticabile.


Era solo da una trentina di minuti quando bussarono alla porta. Andò ad aprire e vide Al Werry fermo sul pianerottolo. Smessa l’uniforme, indossava calzoni di stoffa grezza e un maglione nero, e quell’abbigliamento lo faceva sembrare più giovane.

— Hai un minuto, Rob? — gli chiese a voce bassa, in tono da cospiratore. — Vorrei dirti una parola. Hasson spalancò completamente la porta e fece cenno a Werry di entrare. — Di che si tratta?

— Non lo immagini?

Hasson evitò lo sguardo dell’altro. — Io sono qui solo di passaggio, Al. Non c’è bisogno che…

— Lo so, ma mi farebbe bene parlare con qualcuno. Che ne dici di andarci a bere un paio di birre?

Hasson guardò il televisore; ancora una volta, a causa dei diversi fusi orari, i programmi non erano quelli che lui desiderava. — I negozi di elettrodomestici sono aperti? Devo comperare un po’ di cassette.

— Possiamo fare anche questo, non c’è problema. Che ne dici d’una birra?

— Da ieri sera ho la gola secca — confessò Hasson, afferrando il soprabito. Werry gli diede una pacca sulla spalla, in un gesto che ricordava la sua consueta bonomia, e si avviò giù per le scale, agitando rumorosamente i tacchi. Un minuto dopo erano sull’auto della polizia, correvano lungo una strada, e l’asfalto nero sembrava un canale scavato nel mezzo di un campo di neve.

Coll’aumentare della velocità, le incrostazioni di neve accumulate sul tettuccio si staccarono e scivolarono, senza spezzare il silenzio, lungo il parabrezza. Hasson dedusse che la neve era piuttosto compatta e asciutta, diversa da quella che cadeva in Inghilterra. La macchina svoltò sulla strada principale e risalì un lieve pendio. Adesso aveva sotto gli occhi la città, pura come il ghiaccio artico e idilliaca sotto il sole generoso. I colori si erano fatti più vivaci, in contrasto al bianco che dominava il paesaggio, e le finestre delle case sembravano rettangoli nerissimi. A sud, il fantastico pilastro dell’Hotel Chinook svettava come un enorme spillo che tenesse uniti terra e cielo.

Hasson, già abbastanza pratico della topografia di Tripletree, studiava le sculture aeree della rete di controllo traffico e le usava come guida per rintracciare altri punti di riferimento. Tra un ammasso di edifici più bassi spiccava anche il negozio d’arredamento coi vetri marrone che il giorno prima Theo aveva utilizzato per indirizzarlo alla circonvallazione. Sul tetto del negozio, scintillante nonostante la concorrenza del sole, spiccava l’enorme proiezione bilaser di un letto matrimoniale. Hasson corrugò la fronte, e una stella color ambra prese ad accendersi sul pannello del computer che era la sua memoria.

— Proprio una bella insegna — disse, indicando il palazzo a Werry. — Ieri era una poltrona.

Werry sorrise. — È l’ultimo giocattolo del vecchio Manny Weisner. Cambia l’immagine due o tre volte la settimana, tanto per divertirsi.

— Allora non lo ha da molto?

— Tre mesi, o giù di lì. — Werry girò la testa e scrutò Hasson con una certa curiosità. — Perché me lo chiedi?

— Oh, così — rispose Hasson, cercando di spegnere la stella color ambra. Il giorno prima, l’insegna rappresentava una poltrona, e Theo Werry, che era cieco, aveva detto che rappresentava una poltrona. La spiegazione più ovvia era che in precedenza qualcuno gli avesse descritto l’insegna, quando l’immagine era quella della poltrona, senza dirgli che il proprietario aveva l’abitudine di cambiarla continuamente. Le poltrone sono fra gli articoli più comuni in tutti i negozi di mobili, per cui il fatto che Theo avesse indovinato non implicava un grado di coincidenza elevato. Hasson abbandonò quella linea di pensiero, irritato per la perenne abitudine di aggrapparsi a minuscoli brandelli d’informazione e cercare di costruirne enormi mosaici. Di più immediato interesse e importanza era sapere di cosa voleva parlargli Werry. Sperava di non dover udire il racconto di una corruzione. In passato aveva conosciuto altri poliziotti che si erano legati troppo strettamente a uomini come Buck Morlacher, e le storie di tutti loro ignoravano il lieto fine. Il pensiero di Morlacher gli portò, per associazione, il ricordo dell’umiliante incontro con Starr Pridgeon, e gli venne in mente che Morlacher e Pridgeon formavano una coppia stranamente assortita. Passò l’interrogativo a Werry.

— Un bell’esempio di criminale incallito che non è mai stato in galera — disse Werry. — Starr si è trovato coinvolto in ogni tipo di delitto, dallo stupro alla rapina a mano armata, ma le accuse della polizia avevano sempre qualche difetto legale. Oppure c’era un’epidemia di amnesia fra i testimoni. Ha un laboratorio per la riparazione di elettrodomestici giù a Georgetown, lavatrici, frigoriferi, roba del genere, ma passa quasi tutto il suo tempo in giro con Buck.

— E Morlacher cosa ne guadagna?

— La compagnia, immagino. Buck ha un carattere terribile, specie quando alza il gomito, e ha l’abitudine di sottolineare i suoi dispiaceri tirando colpi nelle palle agli altri. Se vedi in giro per Tripletree qualcuno che cammina a gambe larghe, non vuol dire che sia un cowboy. Lavorava per Buck, ecco tutto. In genere la gente gli sta lontano più che può, ma Starr va piuttosto d’accordo con lui.

Hasson annuì, leggermente perplesso dall’abitudine di Werry di chiamare tutti, anche uomini che aveva motivo di odiare o disprezzare, per nome. Dava l’impressione di considerare ogni difetto umano, dal più banale al più serio, con la stessa tolleranza indifferente, ed era una caratteristica che Hasson trovava difficile associare alla professione di poliziotto. Restò tranquillamente seduto, alle prese con dolorini alla schiena e ai fianchi, finché Werry fermò la macchina davanti a un bar nei pressi del centro commerciale di Tripletree.

— Il negozio d’olotronica di Ben è dietro l’angolo — disse. — Vai a prendere le tue cassette, intanto io ordino un paio di birre. — S’incamminò nella semioscurità grigiastra del bar: camminava con la straripante agilità di un pugile in forma perfetta. Non dava segno di avere tormenti spirituali. Hasson lo guardò scomparire e poi risalì la strada, nel chiarore riflesso della luce solare. Di secondo in secondo, quando un volatore si abbassava e atterrava sui tetti lisci degli edifici attorno, un’ombra gli attraversava la strada. I tetti lisci erano una caratteristica standard delle città moderne, perché i campi antigravità si spezzavano quando un oggetto consistente, ad esempio un muro, intersecava le loro linee di forza. Era per quel motivo che non esistevano aerei a propulsione antigravitazionale, ed era per quel motivo che gli edifici pubblici possedevano tetti lisci oppure erano circondati da ampie aree d’atterraggio. Ogni volatore che si avvicinasse troppo a un muro scopriva di non essere più un volatore: ridiventava un comune mortale, fragile e spaventato, e precipitava al suolo con un’accelerazione di circa mille centimetri al secondo quadrato. Lo stesso effetto si verificava quando due campi AG interferivano tra loro, ed era per quel motivo che il sergente della polizia dell’aria Robert Hasson era disastrosamente precipitato dall’alto della zona di pattuglia di Birmingham, aveva compiuto il volo interminabile e terrificante che per poco…

Riportando i pensieri al presente, localizzò il negozio dove aveva acquistato il televisore ed entrò. Il proprietario, Ben, lo salutò di malumore, ma s’illuminò quando seppe che Hasson non era tornato per sporgere lamentele. Aveva un buon assortimento di cassette registrate da sei ore, e fornì ad Hasson una notevole quantità di registrazioni integrali di commedie e spettacoli musicali inglesi. Alcune risalivano appena all’anno prima.

Hasson, come un alcolizzato davanti a un bicchiere colmo, sentì un dolce calore interiore quando uscì dal negozio con una borsa di plastica rigonfia. Adesso era autodifeso, autosufficiente, equipaggiato per vivere la propria esistenza. Gli giunse alle narici l’aroma evocativo del luppolo essiccato e del malto, e un impulso incontrollabile lo spinse a gettare un’occhiata curiosa nella vetrina del negozio accanto. Il proprietario, che portava il bizzarro nome di Oliver Fan, era un tipo interessante e simpatico, e faceva discorsi inconsueti, per un commerciante. «In lei c’è qualcosa che non va»: indubbiamente vero, rifletté Hasson. Come diagnosi su due piedi era perfetta al cento per cento, ma forse si trattava di una delle solite frasi buone per tutti gli usi, come quelle che avevano sempre in bocca i falsi indovini, studiate per far apparire particolare quello che era generico. Forse era altrettanto adatta a tutte le altre persone che entravano nel negozio di Oliver. «Mi creda, posso aiutarla». Un ciarlatano lo avrebbe detto? Non sarebbe stato portato a servirsi di un giro di frasi più ambiguo per avere la possibilità, in caso di complicazioni legali, di cambiare le carte in tavola? Hasson esitò per un lungo momento e poi, pieno d’una curiosa timidezza, entrò nel negozio.

— Buongiorno, signor Haldane — disse Oliver da dietro il banco di vetro. — È bello rivederla.

— Grazie. — Hasson, incerto, vagò con gli occhi lungo gli scaffali traboccanti di merce, respirò la miscela di aromi inebrianti e si trovò senza parole, quasi fosse entrato a chiedere un filtro d’amore. — Io… io mi chiedevo se…

— Sì, intendevo quello che ho detto. Posso aiutarla. — Oliver regalò ad Hasson un sorriso di comprensione, di partecipazione, poi si alzò dello sgabello e si spostò lungo il banco. Era piccolo e di mezza età; possedeva esattamente le stesse dimensioni, corporatura e colorito di milioni di altri asiatici, eppure emanava un’individualità che ad Hasson sembrava robusta quanto la muraglia cinese. I suoi occhi, in contrasto, erano dolci, chiari e spiritosi come quelli di Laurel e Hardy o di Mark Twain.

— È un’affermazione alquanto decisa — disse Hasson, tastando il terreno.

— Davvero? Allora mettiamola alla prova. — Oliver tolse un paio d’occhiali color viola dal taschino della giacca e li inforcò. — So già che è rimasto gravemente ferito in un incidente automobilistico, e lei con ogni probabilità sa che lo so, per cui diamolo per scontato. Non le dirò che uso poteri speciali o che sono capace di vedere la sua aura, come sostengono certi buffoni che praticano la medicina alternativa. Però mi basta osservare come cammina e come sta in piedi per capire che la schiena le procura forti dolori. Inoltre direi che nell’incidente si è fracassato il ginocchio sinistro, ma quello sta già guarendo, ed è la schiena che le dà dei guai. Ho ragione?

Hasson annuì, rifiutando di lasciarsi impressionare.

— Fin qui tutto bene, ma c’è di più, non è vero? Le ferite fisiche sono brutte, il ricovero in ospedale è stato brutto, la convalescenza è lunga e dolorosa e noiosa, ma un tempo lei sarebbe riuscito a sopportare tutto. Adesso no. Le sembra di non essere più l’uomo che era. Ho ragione?

— È ovvio che abbia ragione — ribatté Hasson. — Chi mai è l’uomo che era? Lei lo è?

— Troppo generico, eh? Troppo vago? D’accordo, lei conosce i suoi sintomi meglio di chiunque altro, ma io gliene passerò in rassegna qualcuno. Ci sono le depressioni, le paure irrazionali, l’incapacità di concentrarsi su cose semplici come la lettura, la memoria scarsa, il pessimismo per il futuro, l’agitarsi come una lucertola durante il giorno seguito dall’incapacità di dormire bene la notte, a meno di non avere ingoiato pillole o alcol. Ho ragione?

— Ecco…

— Le è difficile incontrare estranei? Le è difficile, adesso, parlare con me? — Oliver si tolse gli occhiali come per rendere più facile la confessione, per smantellare le barriere.

Hasson esitò, incerto fra una cauta riservatezza e il bisogno di liberarsi dei propri pesi con un estraneo che sembrava capace di essergli più amico di qualsiasi amico. — Ammesso che tutte queste cose siano vere, cosa potrebbe farci?

Oliver parve rilassarsi un po’. — La prima cosa da comprendere è che lei e il suo corpo siete un’unità. Lei è uno. Non esiste un male fisico che non abbia riflessi sulla mente, e non esiste un male mentale che non abbia riflessi sul corpo. Se l’uno o l’altra non stanno bene, stanno male tutti e due.

Hasson provò una punta di delusione. Aveva udito discorsi simili dal dottor Colebrook e da una serie di terapeuti, e nessuno di loro sembrava capire che lui aveva perso la capacità di maneggiare concetti astratti, che le parole che non avevano una corrispondenza netta, univoca, con realtà concrete, per lui erano del tutto prive di significato.

— E questo a cosa ci porta? — chiese. — Ha detto di potermi aiutare. Cosa può fare perché la mia mente smetta di sentire dolori alla schiena?

Oliver sospirò e gli lanciò un’occhiata di scusa. — Mi spiace, signor Haldane, forse questa volta ho sbagliato. Penso di averla delusa dicendo le cose sbagliate.

— Per cui non può fare nulla.

— Posso darle queste. — Oliver prese due scatole di cartone (una piccola, con simboli cinesi in oro su sfondo rosso, l’altra grande e piatta) dagli scaffali che aveva alle spalle e le appoggiò sul banco di vetro.

«E così mirava a questo» pensò Hasson, completamente disilluso. «Il Famoso Rimedio Alle Erbe Del Dottor Dobson Che Ringiovanisce Il Fegato». — Cosa sono?

— Radice di ginseng e normale lievito di birra in polvere.

— Vedo. — Hasson s’interruppe, chiedendosi se doveva acquistare i prodotti per compensare Oliver della perdita di tempo, poi scosse la testa e si avviò alla porta. — Senta, forse tornerò un’altra volta. C’è qualcuno che mi aspetta. — Aprì la porta e uscì in fretta dal negozio.

— Signor Haldane! — La voce di Oliver aveva toni urgenti, ma non indicava la minima irritazione per la perdita di un affare.

Hasson guardò Tomino. — Sì?

— Oggi come vanno le ulcere alla bocca?

— Mi fanno male — rispose Hasson, accorgendosi stupefatto che Oliver aveva deliberatamente e scientificamente compiuto un’azione che lo toccava da vicino; aveva scelto parole collegate a una realtà oggettiva per l’unica ragione che lui aveva bisogno di udirle. — Come fa a saperlo?

— Dopo tutto dovrei scegliere la via del mistero e dell’imperscrutabilità. Oliver gli rivolse un sorriso obliquo. Pare che dia risultati migliori.

Hasson chiuse la porta e ripercorse il cammino fino al banco. — Come fa a sapere che ho ulcere alla bocca?

— Un vecchio segreto orientale del mestiere, signor Haldane. La domanda importante è: le piacerebbe liberarsene?

— Cosa devo fare? — chiese Hasson.

Oliver gli porse le due scatole che erano rimaste sul banco. — Dimentichi tutto quello che le ho detto sull’unità del corpo e della mente. Questa roba, il lievito in particolare, curerà le sue ulcere in un paio di giorni, e se continuerà a prenderla come si deve non avrà mai più noie del genere. Questo è qualcosa, no?

— Dovrebbe esserlo. Quanto le devo?

— Prima provi la mia roba, veda se funziona. Può tornare a pagare quando le pare.

— Grazie. — Hasson scrutò pensieroso il negoziante. — Mi piacerebbe proprio sapere come ha fatto a indovinare che ho ulcere alla bocca.

Oliver sospirò, dolcemente esasperato. — Gli ospedali non imparano mai. Nemmeno ai nostri giorni imparano. Innaffiano i pazienti di antibiotici ad ampio raggio e distruggono i batteri intestinali che producono le vitamine B. Uno dei sintomi più comuni della mancanza di vitamine B è l’apparizione di disordini in bocca, come quelle piccole ulcere così dolorose, e allora cosa fanno gli ospedali? Ci crederebbe che alcuni ospedali le spalmano ancora di permanganato potassico? Che è del tutto inutile, ovviamente. Dimettono gente che sembra aver bevuto alla fontana sacra d’Ippocrene, con la bocca tutta sporca di rosso, incapace di mangiare, incapace di digerire quello che mangia. Carente d’energia. Depressa. Questi sono altri sintomi della mancanza di vitamine B, sa, però adesso sto tornando allo stesso tipo di discorso che prima le ha fatto infilare la porta.

— No, m’interessa. — Hasson passò qualche altro minuto a parlare con Oliver dei rapporti fra dieta e salute, impressionato e stranamente confortato dal fervore evangelico dell’altro, poi cominciò a pensare ad Al Werry che lo aspettava, solo, al bar. Infilò le due scatole nella borsa di plastica, sopra le cassette televisive, e lasciò il negozio dopo aver promesso a Oliver che sarebbe tornato all’inizio della settimana successiva. Al bar trovò Werry seduto a un separé d’angolo, con due boccali pieni di birra davanti, e parecchi altri vuoti.

— Mi piace bere all’ora di pranzo — disse Werry. — Fa un effetto quadruplo. — La sua voce era leggermente confusa, e Hasson capì d’improvviso che era stato lui a svuotare tutti quei boccali da mezzo litro in un tempo brevissimo.

— Si risparmiano soldi. — Hasson bevve dal boccale che Werry gli porse. La birra non gli sembrava un gran che, ma era fresca e dissetante, e questo gli fece molto piacere. Scrutò Werry da sopra l’orlo del boccale chiedendosi di cosa volesse parlare, sperando che non si aspettasse da lui risposte precise. Aveva l’impressione che, dopo l’arrivo a Tripletree, ogni conversazione non avesse fatto altro che aumentare i suoi stress, e quel processo non poteva continuare all’infinito, o per molto ancora.

Werry bevve una lunga sorsata di birra e si piegò in avanti, con un’espressione solenne in faccia. — Rob — disse, e la sua voce traboccava di sincerità — io t’invidio sul serio.

— Per i miei soldi o per la faccia? — ribatté Hasson, genuinamente sorpreso.

— Non sto scherzando, Rob. T’invidio perché sei un essere umano.

Hasson fece un sorriso storto. — E tu no?

— Esattamente. — Werry parlava con convinzione estrema, come un predicatore che tentasse di operare una conversione. — Io non sono un essere umano.

Hasson, per quanto perplesso, comprese dolorosamente che il tête-à-tête con Werry non sarebbe stato una faccenda facile. — Al, ti assicuro che sembri proprio un essere umano.

— Ma è l’unica cosa che faccio. Sembro un essere umano.

— Parlando da un punto di vista retorico — disse Hasson, augurandosi che Werry chiarisse l’idea in maniera più diretta.

Werry scosse la testa. — Può essere retorica, e può non esserlo. È giusto considerarsi umani se non si possiede nessun sentimento umano? Umano non significa “che possiede umanità”?

— Scusa, Al. — Hasson decise di mostrare una certa impazienza. — Non ho la più pallida idea di che diavolo stai parlando. Qual è il problema?

Werry bevve altra birra. I suoi occhi erano fissi su Hasson, e chissà come trasferivano a lui il peso della responsabilità. — Hai visto cos’è successo a casa mia, stamattina. Buck è entrato come se fosse lui il padrone e ha cominciato a insultarmi davanti a mio figlio, e io me ne sono stato quieto e ho accettato tutto. Tu cosa avresti fatto, Rob? Cosa avresti fatto nei miei panni?

— Difficile dirlo — rispose Hasson, giocherellando col boccale.

— D’accordo. Non ti saresti infuriato con Buck?

— Immagino di sì.

— Ecco, vedi. Io non mi sono infuriato perché in me c’è qualcosa che non va. Non provo nessuna sensazione. A volte sento questa vocina che mi dice che dovrei infuriarmi in una situazione del genere, ma non ha peso sul mio comportamento. Non ho paura di Buck, però non c’è nulla a cui io tenga abbastanza da spingermi a mettermi contro di lui. Nemmeno mio figlio.

Hasson si sentiva del tutto incapace di ricevere una confessione come quella.

— Non credo che nessuno di noi sia in grado di autoanalizzarsi come fai tu, Al.

— L’analisi non c’entra. Ti riferisco solo dei fatti — ribatté ostinatamente Werry. — In me c’è qualcosa che non va, qualcosa nel modo in cui sono fatto, e si riflette su tutte le mie azioni, piccole o grandi. Dimmi la verità, Rob. Ieri, quando ci siamo incontrati alla stazione, tu non ti ricordavi affatto di me, vero?

— Non ho una gran memoria — disse Hasson. Gli sembrava di avere perso il filo del discorso.

— Non importa che la memoria sia buona. Il punto è che tu sai benissimo di cosa puoi dimenticarti. Sai cos’è che non conta. lo ho talmente da fare a cercare di convincere la gente che sono uno dei loro, che ricordo tutto quello che succede, per cui posso sempre tirarlo fuori e raccontare a tutti quanto ci siamo divertiti, ma la verità è che io non mi diverto mai molto. Io proprio non esisto, Rob.

Hasson cominciava a sentirsi imbarazzato. — Andiamo, Al, credi che sia questo…?

— È la verità — lo interruppe Werry. — lo proprio non esisto. Vado quasi sempre in giro in uniforme, perché quando l’ho addosso posso convincermi che sono il capo della polizia di qui. Non ho nemmeno il senso dell’umorismo, Rob. Non so cos’è buffo e cosa non lo è. Non faccio altro che ricordare le cose che fanno ridere l’altra gente, e quando le sento mi metto a ridere anch’io, ma la prima volta che mi raccontano una barzelletta non so neanche se è una barzelletta.

«Non posso nemmeno discutere, perché appena sento il punto di vista di un altro quello diventa il mio punto di vista. Poi, quando incontro qualcuno che mi racconta il contrario, passo dalla sua parte.

«Non riesco nemmeno…» Werry s’interruppe per bere un po’ di birra, sempre fissando Hasson con sguardo attento, pensieroso. — Non riesco nemmeno a divertirmi col sesso. Ho letto dell’estasi dell’amore, ma non l’ho mai provata. Quando mi do da fare e si arriva al momento culminante… sai, quando uno dovrebbe sentirsi come se stesse bussando alla porta del paradiso… mi viene solo da pensare che forse ho lasciato la macchina coi fari accesi, oppure che ho freddo alla schiena. Cose del genere.

Hasson provò un improvviso, gelido desiderio di ridere. Prese su il bicchiere e studiò le bollicine che salivano verso la schiuma della birra.

— Questi sono alcuni dei motivi per cui Sybil mi ha lasciato — proseguì Werry. — Abbiamo litigato sulla cura per gli occhi di Theo, perché lei voleva fare subito l’operazione e io non volevo nemmeno sentirne parlare, ma penso che si sia stufata di vivere con qualcuno che non era nessuno. È per questo che vado d’accordo con May. È un’altra nessuno. L’unica ambizione della sua esistenza è andarsene in giro a far vedere quant’è bella, e non fa altro, per cui con lei so con chi ho a che fare.

Ci fu una pausa più lunga, e Hasson capi che Werry aveva terminato il discorso e che adesso toccava a lui trovare una risposta adatta. Gettò un’occhiata alla borsa di plastica che conteneva le cassette dei suoi sogni e desiderò trovarsi chiuso nella sua stanza, nell’oscurità morbida delle tendine tirate, col televisore che gli impartiva una dolce assoluzione. La terribile ingiustizia della situazione, avere di fronte un’altra persona che gli chiedeva cose impossibili, gli torturava il cervello.

— Al — disse alla fine — perché mi racconti questo?

Werry sembrava leggermente imbarazzato. — Pensavo che tu volessi saperlo, dopo quello che hai visto a casa mia, ma probabilmente mi sono sbagliato.

— No, naturale che i problemi di un amico m’interessino. È solo che non ho idea di cosa dirti per esserti d’aiuto.

Werry gli regalò un sorriso debolissimo. — E chi ha detto che voglio aiuto, Rob? Dovrei preoccuparmi di capire perché le cose non vanno, prima di cercare di aggiustarle. — Finì il suo mezzo litro di birra e fece cenno a un cameriere, all’angolo opposto della sala, di portarne un altro.

Hasson lo fissò per un attimo, poi si rifugiò in un classico nonsequitur all’inglese. — Credi che il tempo cambierà?


Appena tornarono a casa, Hasson salì in camera e chiuse la porta a chiave. Il letto era stato rifatto, e qualcuno aveva spalancato le tendine per lasciar entrare la luce del giorno riflessa dalla neve. Depositò i suoi nuovi acquisti su un cassettone, scelse una cassetta e l’infilò in una fessura del televisore. Una musica dolcemente familiare si diffuse nell’aria, e sul palcoscenico dello schermo le minuscole figure presero a recitare un telefilm di una serie che aveva visto in Inghilterra solo dodici mesi prima. Richiuse le tendine, si tolse i vestiti e s’infilò a letto, attendendo stoicamente che gli spasmi della schiena si quietassero. Il mondo artificiale del televisore occupava tutta la sua visuale. Era come aver viaggiato all’indietro nel tempo e nello spazio fino alla sua vita precedente, e questo lo faceva sentire al sicuro.

Aveva trascorso un giorno e mezzo di riposo e recupero fisico, e il pensiero di altri tre mesi di un’esistenza simile era insopportabile. Molto meglio rimanere accucciati nel grembo delle coperte, e affogare il cervello nel sogno di sogni altrui.

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