Il sogno era un sogno familiare: il ricrearsi di un giorno nella vita di Hasson, il rivivere un avvenimento. Un avvenimento speciale.
Aveva continuato per giorni a fare i preparativi senza ammettere, nemmeno con se stesso, cosa aveva in mente. Dapprima c’era stato un giro aereo alle Ebridi, e non c’era nulla di molto insolito nel fatto che avesse scelto di andare da solo. Poi si era verificato l’acquisto di batterie extra e di bombole d’ossigeno speciali, a lunga durata, ma anche quello poteva essere interpretato come una ragionevole misura precauzionale per un volo su una zona remota e scarsamente popolata. E Hasson aveva iniziato la sua ascesa prima ancora di ammettere cosa stava facendo.
È nella natura di alcuni uomini il dover constatare i limiti di una macchina che si trovano a usare. I corpetti AG operavano in maniera da distorcere le linee del campo gravitazionale, facendo sì che chi li indossava potesse cadere “in alto”. L’analogia più calzante era quella con un campo magnetico in cui ogni punto nodale si muovesse verso la zona di maggiore intensità di flusso. Vicino al suolo le batterie eseguivano uno sforzo minimo, ma quando si volava più in alto si scopriva che le riserve d’energia diminuivano a velocità sempre crescente, per compensare i maggiori squilibri nel sistema gravitazionale.
La conseguenza più ovvia era che esisteva un limite all’altezza cui poteva giungere un volatore; però, come sempre succede, quel limite poteva essere modificato da diversi fattori umani e tecnici. Il poliziotto dell’aria Robert Hasson, appena entrato in servizio, nutriva un interesse normalissimo per la meccanica del grande balzo. Tuttavia era continuamente spinto dal bisogno di esplorare i propri parametri psicologici, di scoprire se la maggiore resa operativa era appannaggio dell’uomo o della macchina. Sapeva che si trattava di un’ossessione pura e semplice, non particolarmente strana o insolita, eppure doveva tentare l’esperimento…
Si alzò dalla penisola Eye di Lewis all’alba di un giorno d’estate e regolò la velocità iniziale sui 250 metri al minuto. Era una velocità piuttosto moderata per gli standard antigravità, ma il peso morto di Hasson era aumentato di parecchio per l’aggiunta di tre batterie extra, e lui voleva sovraccaricare il meccanismo da cui dipendeva la sua vita. Il peso massimo che un corpetto AG poteva tollerare era limitato dal fatto che, oltre un certo punto, il peso cominciava a creare un notevole campo gravitazionale, interferendo con la delicata ragnatela di linee di forza creata dal meccanismo. La massa ideale, stando ai manuali, era di 137,2 chilogrammi; superandola si verificava l’effetto conosciuto col nome di “collasso di campo”, che conferiva al volatore tutte le proprietà aerodinamiche di una macina da mulino.
Per non sacrificare nemmeno un briciolo d’energia con l’introduzione di un vettore orizzontale, Hasson lasciò che un leggero vento in direzione ovest lo trasportasse sopra le acque del North Minch. Sotto di lui, da ogni lato, sfilavano complesse visuali di terra e acqua, e le coste della Scozia si delinearono una sessantina di chilometri a est. Nel sole del primo mattino, la vegetazione delle isole e della terraferma aveva sfumature accese: strisce di terreno d’un giallo pallido sfumavano in zone coperte di muschio verde. Le linee costiere erano delimitate dal bianco, si stagliavano contro il blu dell’oceano, nostalgicamente lindo come in un vecchio cartellone pubblicitario, e l’aria che Hasson respirava sembrava preistorica, tanto era pulita.
Venti minuti dopo il decollo aveva raggiunto un’altezza di cinque chilometri, molto al di sopra del consueto livello di volo singolo. Abbassò la visiera del casco e cominciò a respirare con la bombola d’ossigeno. Sotto le suole dei suoi stivali, la Terra rotolava immensa, iniziava a mostrare i primi segni di curvatura, e Hasson cominciò a sentirsi solo. Non vedeva più uccelli, idrovolanti, segni di abitazioni umane nella terra che scivolava sotto di lui come le pagine di un atlante. E non c’erano suoni. Hasson era solo nelle profondità blu, silenziose, del cielo.
Quaranta minuti dopo il decollo aveva raggiunto un’altezza di dieci chilometri. Stava superando la zona di tropopausa polare. L’aria che lo circondava si era fatta sempre più fredda, la temperatura era diminuita di sei gradi o più ogni chilometro d’altezza; ma adesso, mentre penetrava nella stratosfera, sapeva che sarebbe diventata un poco più calda. Sfortunatamente, la cosa non comportava nessun vantaggio per Hasson. L’impianto di riscaldamento della tuta lottava per equilibrare una temperatura esterna di quasi cinquanta gradi sotto zero, e avrebbe consumato buona parte delle sue risorse d’energia.
Dieci minuti più tardi vide uno strato di nuvole sottili muoversi sotto di lui in direzione est, oscurando la visuale del terreno, e seppe che era giunta l’ora di eseguire l’azione illegale che gli aveva imposto di spiccare il volo in una zona così abbandonata. Controllò la prima batteria, vide che era quasi finita, e mise in azione la seconda. Per un attimo da fermare il cuore, mentre il circuito elettrico s’interrompeva e si ristabiliva, lui cominciò a sentirsi cadere, ma il corpetto riprese il controllo del suo corpo quasi immediatamente: l’ascesa proseguiva. Hasson slacciò dal supporto la batteria esaurita e, con un breve senso di colpa, la lasciò cadere. Il pesante oggetto scomparve sotto i suoi piedi, precipitando verso un impatto incontrollabile con le acque increspate del Minch.
I piani di Hasson prevedevano di lasciar cadere la seconda batteria, forse anche la terza, ammesso che le condizioni del tempo lo permettessero, per alleggerire il peso contro cui dovevano lottare le altre alzandosi verso regioni a scarsa attrazione gravitazionale. Però uno dei requisiti indispensabili era la perfetta visibilità in basso. Era praticamente impossibile che a quella latitudine geografica un oggetto lasciato cadere procurasse danni a cose o persone, ma un istinto profondo non gli permetteva di lanciare un oggetto pesante attraverso un banco di nubi. Non gli restava altro che accettare i limiti del suo volo.
Arrivare a quell’idea fu meno traumatico di quanto avrebbe immaginato un’ora prima. Era già salito più in alto di quanto sognasse un normale volatore, e la sconosciuta voracità che lo rodeva si stava placando. D’altra parte, aveva raggiunto una zona al di fuori d’ogni dimensione, un tempo regno dei grandi jet, e salire in alto, verso le aree di blu più intenso, era altrettanto logico e naturale che ritornare all’antico regno dell’uomo. La testa rovesciata all’indietro, braccia e gambe abbandonate nel nulla, Hasson continuò l’ascesa. Il suo corpo, inconsciamente, era atteggiato nella stessa posizione che gli artisti medievali usavano per dipingere l’ascesa al cielo dell’anima umana. Un isolato punto di luce, forse Venere, apparve nell’abbagliante splendore sopra di lui, lo chiamò, e Hasson volò in quella direzione.
La velocità di salita diminuiva ogni minuto, in ragione inversamente proporzionale agli sforzi delle batterie, ma un’altra ora di volo lo portò a un’altezza di venticinque chilometri. Il mondo, sotto di lui, si curvava in uno splendore di madreperla. Non si muoveva nulla, a parte gli aghi indicatori sul quadrante del suo corpetto. Hasson continuò a salire.
A trenta chilometri al di sopra del mare controllò gli strumenti e vide che il movimento ascensionale era terminato. Il generatore di campo antigravità, che ormai non aveva più cibo da masticare, produceva energia a velocità vorticosa semplicemente per impedirgli di cadere. L’unico modo per poter salire più in alto sarebbe stato buttare giù le batterie esaurite, ma aveva già rifiutato l’idea, e in ogni caso il risultato non sarebbe stato un gran che. Aveva compiuto quello che si proponeva di compiere.
Immobile in quella solitudine blu e gelida, fermo sulla soglia dello spazio, Hasson si guardò attorno e non sentì nulla. Non c’erano paura, ebbrezza, meraviglia, sensazione di successo, comunione col cosmo: staccato dal contesto dell’umanità, aveva perso la propria umanità.
Scrutò a fondo i cieli, capì di essere estraneo a quell’elemento, poi mosse un comando sulla cintura e iniziò la lunga, solitaria discesa verso la Terra.