Capitolo 13

Lula e io ci addentrammo nella stanza facendoci strada tra la folla e cercando Elwood. Aveva diciannove anni, alto quanto me, magro, con i capelli biondi. Incriminato già due volte. Non volevo che la cattura desse nell’occhio: volevo portarlo fuori di lì molto tranquillamente e poi fargli scivolare le manette ai polsi.

«Ehi» disse Lula «hai visto quel piccoletto vestito da capitano Kirk? Che cosa ne pensi?»

Guardai con attenzione attraverso la stanza. «Potrebbe anche essere Steiger» concordai.

Arrancammo in quella direzione e io mi avvicinai a lui. «Steve?» dissi. «Steve Miller?»

Il capitano Kirk mi guardò. «No. Mi dispiace.»

«Ho un appuntamento al buio» dissi. «Mi ha detto che sarebbe stato vestito da ufficiale.» Tesi la mano. «Io sono Stephanie Plum.»

Lui mi strinse la mano. «Elwood Steiger.»

Tombola.

«Ragazzi, fa davvero caldo qua dentro» dissi. «Vado fuori a prendere un po’ d’aria. Vieni con me?»

Lui si guardò attorno, nervoso, cercando di vedere se si stava perdendo qualcosa. «Non saprei. Non credo. Hanno detto che stanno per proiettare i film.»

Lezione numero uno: cercare di sedurre un fanatico di Star Trek quando stanno per proiettare i film è del tutto inutile. Perciò dovevo scegliere: potevo forzare la mano, oppure aspettare finché non avesse deciso di andarsene. Se fosse rimasto fino alla fine e fosse uscito con tutti gli altri avrebbe potuto essere un problema. Il Luna venne verso di noi. «Accidenti, è bello vedere che voi due andate d’accordo. Elwood ha passato dei brutti momenti, sai. Stava fabbricando roba buona e lo hanno costretto a chiudere. È stato un brutto colpo per tutti noi.»

Gli occhi di Elwood giravano in ogni direzione come se la sua testa fosse un flipper. «Fra poco proietteranno i film, vero?» domandò. «Sono venuto soltanto per questo motivo.»

Il Luna sorseggiò il suo drink. «Elwood stava guadagnando bene, risparmiando per andare al college, quando gli hanno ritirato la licenza. Una vergogna. Una vera carognata.»

Elwood sorrise debolmente. «Non ho mai avuto una licenza» disse.

«Sei stato fortunato a conoscere Stephanie, qui» disse il Luna. «Non so che cosa faremmo io e Dougie senza Steph. Un sacco di cacciatori di latitanti si limiterebbero a trascinare il nostro culo ossuto in galera, ma Steph no, lei…»

Elwood aveva l’aria di uno che ha appena ricevuto una frustata. «Una cacciatrice di latitanti!»

«La migliore che c’è» disse il Luna.

Mi chinai in avanti, in modo da poter parlare a voce bassa ma udibile da Elwood. «Forse sarebbe meglio se andassimo fuori, dove possiamo scambiare due chiacchiere.»

Elwood fece un passo indietro. «No! Non ci vengo! Lasciami in pace.»

Cercai di ammanettarlo ma lui mi allontanò le mani con un colpo.

Lula tirò fuori la scacciacani, Elwood si nascose dietro al Luna e questi crollò come un castello di carte.

«Ops» disse Lula «credo di aver preso lo Star Trek sbagliato.»

«Lo hai ucciso!» strillò Elwood.

«Calmati» disse Lula. «Non strillarmi nelle orecchie.»

Io gli afferrai una mano e gli chiusi le manette attorno al polso.

«Lo hai ucciso. Gli hai sparato!» esclamò Elwood.

Lula teneva le mani sui fianchi. «Hai per caso sentito uno sparo? Io non credo. Non ho neppure una pistola, perché la signorina Nonviolenza, qui, me le ha fatte lasciare tutte nell’auto. Meglio così, comunque, altrimenti potrei spararti solo perché sei un odioso, piccolo coglione.»

Stavo ancora cercando di afferrare l’altra mano per ammanettarla quando la gente cominciò ad affollarsi attorno a noi. «Che cosa succede?» domandavano. «Che cosa state facendo al capitano Kirk?»

«Portiamo il suo inutile culo pallido dietro le sbarre» disse Lula. «State indietro.»

Con la coda dell’occhio vidi qualcosa che volava e colpiva Lula sul lato della testa.

«Ehi!» disse lei. «Che cosa succede?» Si portò una mano alla testa. «Questa è una di quelle palline al formaggio puzzolenti degli stuzzichini. Chi è che tira palline al formaggio?»

«Liberate il capitano Kirk» strillò qualcuno.

«Col cavolo» rispose Lula.

Sbam! Lula si prese in fronte un salatino alla polpa di granchio.

«Aspettate un attimo» disse.

Sbam. Sbam. Sbam. Involtini all’uovo.

Dalla stanza si levò un coro all’unisono: «Liberate il capitano Kirk. Liberate il capitano Kirk».

«Io me ne vado» disse Lula. «Questa gente è pazza. Hanno visto troppi film.»

Sospinsi Elwood in avanti, verso la porta, e venni colpita da uno schizzo di salsa piccante per gli involtini all’uovo, oltre che da un paio di palline al formaggio.

«Prendeteli!» strillò qualcuno. «Vogliono rapire il capitano Kirk.»

Lula e io abbassammo la testa e lottammo per farci strada attraverso una pioggia di stuzzichini trafugati e di orribili minacce. Raggiungemmo la porta principale e ci precipitammo fuori, correndo e trascinandoci dietro Elwood. Lo gettammo sul sedile posteriore e io spinsi l’acceleratore a tavoletta. Qualunque altra macchina sarebbe partita a razzo ma la Buick lasciò gli ormeggi con calma e determinazione e si avviò lungo la strada a forza di muscoli.

«Lo sai, a ripensarci, questi fanatici di Star Trek sono un manipolo di signorine» disse Lula. «Se una cosa simile fosse successa nel mio quartiere quelle palline al formaggio sarebbero state ripiene di proiettili.»

Elwood era sprofondato nel sedile posteriore e non diceva una parola. Era stato colpito per errore da un paio di munizioni al formaggio e di involtini all’uovo, e ora la sua divisa da capitano Kirk non era più all’altezza dello standard della Federazione.

Accompagnai a casa Lula e proseguii verso la stazione di polizia. Jimmy Neeley era di turno alla scrivania. «Gesù» disse «che cos’è questo odore?»

«Palline al formaggio» risposi. «E involtini all’uovo.»

«Sembra che siate stati coinvolti in una sparatoria alimentare.»

«Sono stati i romuliani a cominciare» dissi. «Dannati romuliani.»

«Già» disse Neeley «non ci si può proprio fidare di quei maledetti.»

Presi la ricevuta per la consegna del latitante e tolsi le manette al capitano Kirk, poi me ne andai e passeggiai un po’ all’aperto nella notte. Il cortile della stazione di polizia era illuminato artificialmente da lampioni alogeni. Sotto le luci il cielo era buio e senza stelle. Una leggera pioggia aveva preso a cadere. Sarebbe stata una bella nottata se mi fossi trovata a casa di Morelli con lui e Bob. Così come stavano le cose ero sola sotto la pioggia e puzzavo come un enorme salatino, con addosso la lieve preoccupazione che se qualcuno aveva fatto fuori Cynthia Lotte io avrei potuto essere la prossima della lista. L’unica cosa positiva dell’omicidio della Lotte era che mi aveva temporaneamente distolto i pensieri dalla faccenda di Arturo Stolle.

Non mi sentivo per niente attraente con la camicia sporca di salsa e i capelli pieni di palline maleodoranti, perciò tornai a casa a cambiarmi prima di andare da Morelli. Parcheggiai la Buick vicino alla Cadillac del signor Weinstein e mossi qualche passo verso il palazzo prima di rendermi conto che Ranger era appoggiato contro l’auto di fronte a me.

«Devi stare più attenta, bambina» disse. «Devi guardarti bene in giro prima di scendere dalla macchina.»

«Ero distratta.»

«Una pallottola in testa ti distrarrebbe in modo molto più definitivo.»

Feci una smorfia e gli mostrai la lingua.

Ranger sorrise. «Stai cercando di eccitarmi?» Mi tolse un pezzette di cibo dai capelli. «Involtino all’uovo?»

«È stata una lunga notte.»

«Hai saputo niente da Ramos?»

«Ha detto che hanno un problema a Trenton, che io suppongo essere Junior Macaroni. Ma poi ha aggiunto che ci ha pensato lui e che il problema se ne andrà in nave la prossima settimana. E che con un po’ di fortuna la nave affonderà. Poi i due gorilla sono venuti a prenderlo e hanno detto che non riuscivano a trovare il carico. Tu riesci a capirci qualcosa?»

«Sì.»

«E me lo spieghi?»

«No.»

Cristo. «Sei proprio un bastardo. Non voglio più lavorare per te.»

«Troppo tardi. Ti ho già licenziata.»

«Intendo dire mai più

«Dov’è Bob?»

«Con Morelli.»

«Perciò devo preoccuparmi soltanto della tua sicurezza» disse Ranger.

«È un pensiero carino, ma non è necessario.»

«Che cosa? Mi prendi in giro? Io ti ho detto di starne fuori e di fare attenzione e due ore dopo avevi di nuovo Ramos in macchina.»

«Stavo cercando te e lui è saltato dentro alla Buick.»

«Hai mai sentito parlare di chiusure di sicurezza?»

Alzai il mento cercando di fingermi indignata. «Vado a casa. E per farti contento mi chiuderò dentro.»

«Errore. Ci verrai con me e sarò io a chiuderti dentro.»

«Mi stai minacciando?»

«No. Te lo sto solamente dicendo chiaro e tondo.»

«Stammi a sentire, bello» dissi «siamo nel Ventesimo secolo: le donne non sono oggetti. Tu non puoi andare in giro a rinchiuderle da qualche parte. Se io voglio fare un’incredibile stupidaggine e mettermi in pericolo ho il diritto di farlo.»

Ranger mi ammanettò. «Non credo proprio.»

«Ehi!»

«Sarà soltanto per un paio di giorni.»

«Non riesco a crederci! Mi stai veramente rinchiudendo?»

Lui mi afferrò l’altro polso e io gli strappai di mano le manette e feci un salto indietro.

«Vieni qui» disse.

Mi rifugiai dietro un’auto. La manetta pendeva dal polso e in un certo strano modo, a cui non volevo pensare, tutto ciò era erotico. Ma per un altro verso mi faceva veramente infuriare. Frugai nella borsa e tirai fuori lo spray urticante. «Vieni a prendermi» gli dissi.

Lui mise le mani sull’auto. «Le cose non stanno andando per il verso giusto, vero?»

«Come ti aspettavi che andassero?»

«Già, hai ragione. Avrei dovuto saperlo. Non c’è mai niente di facile con te. La gente salta in aria. Le auto vengono schiacciate da camion dell’immondizia. Ho partecipato ad assalti in grande stile meno pericolosi che incontrare te per prendere un caffè.» Tenne alte le chiavi perché io potessi vederle. «Vuoi che ti tolga le manette?»

«Lancia le chiavi verso di me.»

«Dovrai venire a prenderle.»

«Neanche per sogno.»

«Quello spray urticante funziona solo se me lo spruzzi in faccia. Pensi di essere abbastanza brava da colpirmi?»

«Certamente.»

Un catorcio di auto entrò nel parcheggio. Entrambi gli rivolgemmo tutta la nostra attenzione. Ranger aveva una pistola in mano e il braccio disteso lungo il fianco.

L’auto si fermò e ne scesero Dougie e il Luna. «Ehi, piccola» mi chiamò il Luna. «Bel colpo trovarti qui. Io e Dougie abbiamo bisogno dei tuoi saggi consigli.»

«Devo parlare con queste persone» dissi a Ranger. «Lula e io abbiamo in un certo senso messo a soqquadro la loro casa.»

«Fammi indovinare, forse servivano involtini all’uovo e qualcosa di giallo?»

«Palline al formaggio. E non è stata colpa mia. Hanno cominciato i romuliani.»

Gli angoli della sua bocca si piegarono in un lieve, controllato sorriso. «Avrei dovuto indovinare che si trattava dei romuliani.» Fece un cenno con la pistola. «Va’ a parlare con i tuoi amici. Noi finiremo dopo.»

«La chiave?»

Lui sorrise e scosse la testa.

«Questa è guerra» dissi.

Il sorriso si trasformò in una smorfia. «Sta’ attenta.»

Arretrai e mi avvicinai alla porta posteriore del palazzo, mentre Dougie e il Luna mi seguivano. Non riuscivo a immaginare che cosa volessero. Un risarcimento per danni? Una raccomandazione per permettere a Elwood di diventare il signore della droga? La mia opinione a proposito degli involtini all’uovo?

Attraversai rapidamente l’ingresso e salii le scale. «Possiamo parlare a casa mia» dissi. «Ho bisogno di cambiarmi gli abiti.»

«Mi dispiace per la tua camicia. Quei fanatici di Star Trek erano inferociti. Ti dico una cosa, sembravano mafiosi» disse il Luna. «La Federazione è nei guai, non arriverà da nessuna parte con membri di quel genere. Non hanno avuto alcun rispetto per la casa di Dougie.»

Aprii la porta. «Hanno fatto molti danni?»

Il Luna si gettò sul divano. «All’inizio pensavamo che si limitasse tutto alle palline al formaggio. Ma poi abbiamo avuto problemi con la polizia e abbiamo dovuto interrompere la proiezione.»

«I poliziotti hanno fatto irruzione proprio nel bel mezzo di un filmato e siamo stati fortunati a riuscire ad andarcene vivi» disse Dougie.

«Adesso, come dire, abbiamo paura di tornare là, piccola. Ci stavamo domandando se potevamo passare la notte qui con te e tua nonna.»

«Nonna Mazur è tornata a stare dai miei.»

«Peccato. Era fantastica.»

Diedi loro cuscini e coperte.

«Grazioso braccialetto» disse il Luna.

Guardai le manette che ancora mi pendevano dal polso destro. Le avevo dimenticate. Mi domandai se Ranger fosse ancora nel parcheggio. E mi chiesi se avrei dovuto andare con lui. Feci scattare la serratura della porta e poi mi chiusi a chiave nella camera da letto, raggomitolandomi sotto le coperte con ancora quella robaccia tra i capelli. Mi addormentai all’istante.

La mattina dopo, quando mi svegliai, mi resi conto che mi ero completamente dimenticata di Joe.

Merda.

A casa sua non rispondeva nessuno e stavo quasi per fare un tentativo sul cercapersone quando il telefono squillò.

«Che cosa diavolo sta succedendo?» disse Joe. «Sono appena arrivato in centrale e ho sentito dire che sei stata aggredita da un romuliano.»

«Sto bene. Ho catturato un latitante a una festa dedicata a Star Trek e c’è stata un po’ di confusione.»

«Sfortunatamente ho anch’io delle brutte notizie. La tua amica Carol Zabo è di nuovo in cima al ponte. Sembra che lei e un gruppetto di amiche abbiano rapito Joyce Barnhardt e l’abbiano lasciata nuda e legata a un albero vicino al cimitero degli animali domestici ad Hamilton Township.»

«Mi prendi in giro? Carol arrestata per il rapimento di Joyce Barnhardt?»

«No. Joyce non ha presentato denuncia. È stato un vero spettacolo, però: si è mossa mezza polizia per andare a liberarla. Carol è stata arrestata perché faceva un po’ troppo chiasso in un luogo pubblico. Penso che lei e le altre ragazze stessero semplicemente festeggiando, ed è stata solo ammonita per cattiva condotta, ma nessuno riesce a convincerla che non andrà in galera. Ci stavamo domandando se puoi andare tu a tirarla giù da quel dannato ponte. Sta provocando un ingorgo nel traffico dell’ora di punta.»

«Ci vado immediatamente.» Era tutta colpa mia. Accidenti, quando le cose si mettevano a girare per il verso sbagliato tutto il mondo diventava un cesso.

Ero andata a dormire ancora vestita, per cui non dovetti neppure prepararmi. Passando dal soggiorno strillai al Luna e a Dougie che sarei tornata presto. Quando uscii dalla porta posteriore del palazzo avevo in mano lo spray urticante nel caso Ranger saltasse fuori da dietro un cespuglio.

Non c’era traccia di Ranger. E neppure di Habib o Mitchell, perciò partii in direzione del ponte.

I poliziotti sono fortunati: hanno quelle grandi luci rosse quando devono andare velocemente da qualche parte. Io invece non avevo alcun lampeggiante, perciò, quando il traffico si bloccò, montai con l’auto sul marciapiede.

Cadeva una pioggia insistente. La temperatura si aggirava sui quattro gradi e l’intera popolazione dello Stato era al telefono per informarsi sulle tariffe degli aerei diretti in Florida. A eccezione, naturalmente, della gente che si era radunata sul ponte a osservare perplessa Carol.

Parcheggiai dietro un’auto della polizia e mi feci strada a piedi fino al centro del ponte, dove Carol era appollaiata sul guardrail con un ombrello aperto in mano.

«Grazie per esserti presa cura di Joyce» dissi. «Che cosa stai facendo?»

«Sono stata arrestata di nuovo.»

«Ti hanno semplicemente ammonita per cattiva condotta. Non andrai in galera per questo.»

Carol smontò dal guardrail. «Volevo soltanto essere sicura.» Mi guardò. «Che cos’hai nei capelli? E che cosa sono quelle manette? Sei stata con Morelli, vero?»

«No, da un bel po’ di tempo» dissi ammiccando.

Tornammo ciascuna alla propria auto: Carol andò a casa, e io andai in ufficio.

«Accidenti» disse Lula quando mi vide. «Penso proprio che quella che sta entrando adesso abbia una bella storia da raccontarci. Come mai quelle manette?»

«Mi pareva che si intonassero con le palline al formaggio tra i capelli. Sai com’è, accessori per completare la tenuta.»

«Spero che si tratti di Morelli» disse Connie. «Non mi dispiacerebbe essere ammanettata da lui.»

«Ci sei andata vicina» dissi. «È stato Ranger.»

«Oh-oh» disse Lula. «Mi sto bagnando.»

«Non si trattava di niente di erotico» dissi. «È stato… un incidente. E poi abbiamo perso la chiave.»

Connie si fece aria con una cartellina di cartone. «Sto per avere un colpo di calore.»

Le diedi la ricevuta per la consegna di Elwood Steiger. Tutto considerato erano stati soldi facili. Non uno sparo né qualcuno che cercasse di darmi fuoco.

La porta principale si spalancò e Joyce Barnhardt fece irruzione nell’ufficio. «Me la pagherai» mi disse. «Rimpiangerai di esserti messa contro di me.»

Lula e Connie si girarono di scatto nella mia direzione e mi rivolsero uno sguardo interrogativo.

«Carol Zabo e alcune sue amiche mi hanno dato una mano a liberarmi di Joyce legandola a un albero… nuda.»

«Non voglio sparatorie, qui dentro» disse Connie a Joyce.

«Spararle sarebbe troppo facile» disse Joyce. «Voglio qualcosa di meglio: voglio Ranger.» Mi guardò a occhi stretti. «So che sei in intimità con lui. Bene. Sarà meglio che tu usi questo vantaggio e me lo consegni. Perché se non lo fai entro ventiquattro ore, denuncerò Carol Zabo per rapimento.» Joyce girò sui tacchi a spillo dei suoi stivaletti e sparì fuori della porta.

«Merda» disse Lula. «C’è di nuovo quell’odore di zolfo.»

Connie mi allungò l’assegno per Elwood. «Questo è un bel problema.»

Presi l’assegno e lo infilai nella borsa. «Ho così tanti problemi che non riesco neppure a ricordarmeli tutti.»


L’anziana signora Bestler stava giocando a fare il ragazzo dell’ascensore. «Andiamo su» disse. «Pelletteria da donna, biancheria…» Si chinò in avanti appoggiandosi sul treppiede da passeggio e mi guardò. «Oh santo cielo» disse «il salone di bellezza è al secondo piano.»

«Perfetto» le risposi. «È esattamente dove devo andare.»

Il mio appartamento era silenzioso quando entrai. Le coperte che avevo dato a Dougie e al Luna erano ordinatamente piegate sul divano. Avevano lasciato un biglietto su uno dei cuscini. Sopra c’erano scritte tre sole parole: «A più tardi».

Mi trascinai nel bagno, mi spogliai e mi lavai la testa parecchie volte. Indossai dei vestiti puliti, poi asciugai i capelli con un colpo di phon e li acconciai in una coda di cavallo. Telefonai a Morelli per sapere come andava con Bob e lui disse che il cane stava bene e che il suo vicino gli stava facendo da dog sitter. Poi scesi nel seminterrato e chiesi a Dillan di troncare la catena delle manette in modo da non avere il secondo braccialetto che dondolava al vento.

Dopo di che non mi restava altro da fare. Non avevo latitanti da rintracciare, non avevo un cane da portare a spasso, non avevo nessuno da sorvegliare e nessuna casa in cui penetrare. Avrei potuto andare da un fabbro per far aprire la manetta, ma speravo ancora di ottenere la chiave da Ranger. Avevo intenzione di consegnarlo a Joyce, quella sera: meglio questo piuttosto che correre il rischio che Joyce facesse tornare Carol sul ponte. Recuperare Carol da un possibile annegamento cominciava a diventare una storia vecchia. E sarebbe stato facile consegnare Ranger, tutto quello che dovevo fare era organizzare un incontro, dirgli che volevo che mi togliesse le manette e farlo venire da me. Poi lo avrei stordito con la scacciacani e impacchettato per consegnarlo a Joyce. Naturalmente dopo avrei dovuto inventarmi qualcosa per liberarlo. Non volevo certo che Ranger finisse in galera.

Poiché sembrava che sulla mia agenda non fosse registrato alcun impegno fino a sera, pensai che avrei potuto pulire la gabbia del criceto. E dopo la gabbia del criceto, forse, sarei passata al frigorifero. Diavolo, avrei potuto persino farmi prendere la mano e rimettere a posto il bagno… no, questo era improbabile. Ripescai Rex dalla sua mangiatoia e lo misi nella grande zuppiera che usavo per gli spaghetti, sul piano di lavoro della cucina. Rimase lì seduto a sbattere le palpebre alla luce improvvisa, contrariato per essere stato svegliato in pieno sonno.

«Mi dispiace, piccolo» dissi. «Devo pulire la vecchia fattoria.»

Dieci minuti dopo Rex era di nuovo nella sua gabbia, agitatissimo perché tutti i suoi tesori nascosti ora si trovavano in un grosso sacco di plastica della spazzatura. Gli diedi una noce sgusciata e un chicco d’uva passa. Lui portò il chicco d’uva nella mangiatoia rimessa a nuovo e quella fu l’ultima volta che lo vidi.

Guardai fuori dalla finestra del soggiorno e vidi il parcheggio bagnato. Ancora nessun segno di Habib e Mitchell, tutte le auto appartenevano agli inquilini. Ottimo, potevo andare a gettare la spazzatura senza alcun rischio. Mi avvolsi nella giacca, presi il sacco con la lettiera sporca del criceto e mi avviai lungo il corridoio.

La signora Besder era ancora nell’ascensore. «Oh, hai un aspetto molto migliore adesso, cara» disse. «Non c’è niente che faccia bene come trascorrere un’ora di relax a chiacchierare nel salone di bellezza.» Le porte dell’ascensore si aprirono sull’ingresso e io saltai fuori. «Ora si sale» cantilenò la signora Bestler. «Abbigliamento per uomo, terzo piano.» E le porte si richiusero.

Attraversai l’ingresso fino alla porta sul retro e mi fermai un momento per tirare su il cappuccio. La pioggia era insistente. L’acqua aveva formato pozzanghere sull’asfalto luccicante e perle sulle carrozzerie lucidate di recente degli anziani inquilini. Feci un passo fuori, chinai la testa e mi affrettai ad attraversare il cortile fino alla pattumiera.

Gettai il sacco dentro al cassonetto, mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Habib e Mitchell. Erano bagnati fradici e non avevano un aspetto amichevole.

«Da dove venite?» domandai. «Non ho visto la vostra macchina.»

«È parcheggiata in una strada laterale» disse Mitchell mostrandomi la pistola «ed è lì che andremo. Comincia a camminare.»

«Non credo proprio» dissi. «Se mi sparate Ranger non avrà più nessun motivo di trattare con Stolle.»

«Sbagliato» disse Mitchell. «Solo se noi ti uccidiamo, Ranger non avrà alcun motivo.»

Il cassonetto dei rifiuti si trovava all’estremità posteriore del cortile. Scivolai su un tratto di prato reso viscido dalla pioggia, con le gambe che tremavano, troppo spaventata per riuscire a pensare. Mi domandavo dove si trovasse Ranger in quel momento, proprio quando avevo bisogno di lui. Perché non era lì, a insistere per chiudermi a chiave in un rifugio? Adesso che avevo pulito la gabbia del criceto sarei stata felice di seguirlo.

Mitchell era di nuovo alla guida del furgoncino verde. Immaginai che non fossero riusciti a pulire bene la Lincoln. E forse era meglio che non scegliessi proprio quell’argomento per fare conversazione.

Habib si sedette di fianco a me sul sedile posteriore. Indossava un impermeabile che sembrava completamente intriso d’acqua: dovevano essere rimasti nascosti tra i cespugli che circondavano il palazzo. Lui non portava il cappello e l’acqua gli gocciolava dai capelli giù per la schiena e sul viso. Si passò una mano sulla faccia. Nessuno sembrava preoccuparsi del fatto che stavamo bagnando tutti i rivestimenti interni dell’auto.

«Bene» dissi cercando di tenere un tono di voce normale. «E adesso?»

«Adesso non occorre che tu sappia niente» rispose Habib. «Devi soltanto stare buona, ora.»

Stare buona era la cosa peggiore, perché mi lasciava il tempo di pensare, e pensare non era piacevole. Non c’era da aspettarsi niente di positivo da questo viaggio. Cercai di chiudere la porta alle emozioni, la paura e il rimorso non mi avrebbero portata da nessuna parte. Non volevo neppure lasciar correre libera l’immaginazione. Poteva semplicemente trattarsi di un altro incontro con Arturo, non c’era ragione di perdere la testa prima del tempo. Mi concentrai sul respiro. Profondo e regolare. Inspirare ossigeno. Mentalmente intonai una cantilena di meditazione. Ohhmmm. Lo avevo visto fare in televisione e sembrava che funzionasse sul serio.

Mitchell era diretto a ovest sulla Hamilton, in direzione del fiume. Attraversò Broad e si infilò nelle stradine della zona industriale della città. Il parcheggio in cui entrò era adiacente a una struttura di mattoni a tre piani che era stata una fabbrica di pezzi di ricambio, ma era da tempo in disuso. Un cartello con la scritta VENDESI era stato attaccato alla facciata dell’edificio, ma sembrava che fosse lì da un centinaio d’anni.

Mitchell parcheggiò e scese dall’auto. Aprì la portiera dalla mia parte e mi fece cenno di uscire tenendomi sotto tiro con la pistola. Habib mi seguì. Aprì una porta laterale dell’edificio con una chiave ed entrammo insieme. Era freddo e umido all’interno. L’illuminazione era fioca, proveniente solo dalle porte aperte dei piccoli uffici nei quali il sole filtrava attraverso finestre sudicie. Percorremmo un breve corridoio ed entrammo nell’area di accoglienza. Le piastrelle del pavimento scricchiolavano sotto le suole e tutta la stanza era spoglia a eccezione di due sedie pieghevoli di metallo e di una piccola e rovinata scrivania di legno. C’era una scatola di cartone posata a terra.

«Siediti» mi disse Mitchell. «Prendi una sedia.»

Si tolse il cappotto e lo gettò sulla scrivania. Habib fece lo stesso. Le loro camicie non erano molto più asciutte dei cappotti.

«Bene, questo è il piano» disse Mitchell. «Ora ti daremo una botta in testa con la scacciacani e poi, mentre sarai priva di conoscenza, ti taglieremo un dito con le forbici, queste.» Prese un paio di grosse cesoie dalla scatola di cartone. «In questo modo avremo qualcosa da mandare a Ranger. Poi staremo qui con te a fare la guardia e a vedere quello che succede. Se lui vuole trattare, noi saremo disponibili. Se non vuole, immagino che dovremo ucciderti.»

Sentivo un forte ronzio nelle orecchie e scossi la testa per farlo svanire. «Aspettate un minuto» dissi. «Avrei qualche domanda da fare.»

Mitchell sospirò. «Le donne hanno sempre domande da fare.»

«Forse potremmo tagliarle la lingua» propose Habib. «A volte funziona. Al mio Paese lo facciamo, e con ottimi risultati.»

Cominciavo a sospettare che avesse mentito sulle sue origini pakistane: mi sembrava piuttosto che il suo Paese fosse l’inferno.

«Il signor Stolle non ha detto niente a proposito della lingua» disse Mitchell. «Forse vuole risparmiarla per qualche altra volta.»

«Dove avete intenzione di rinchiudermi?» domandai a Mitchell.

«Qui. Ti chiuderemo nel bagno.»

«Ma come farete con il sangue?»

«In che senso?»

«Potrei morire dissanguata. E allora come farete a servirvi di me per trattare con Ranger?»

Si guardarono l’un l’altro. Non ci avevano pensato. «Questa è una cosa nuova per me» disse Mitchell. «Di solito mi limito a picchiare la gente a morte o a fargli saltare le cervella.»

«Dovreste procurarvi delle bende pulite e un po’ di antisettico.»

«Penso che sia giusto» assentì Mitchell. Guardò l’orologio. «Non abbiamo molto tempo. Devo riportare l’auto a mia moglie perché possa andare a prendere i bambini a scuola. Non voglio che debbano aspettare lì fuori sotto la pioggia.»

«C’è un negozio sulla Broad Street» disse Habib. «Potremmo prendere tutto là.»

«Comprate anche qualche calmante per il dolore» dissi.

In realtà non volevo affatto né le bende né il calmante. Quello che volevo veramente era tempo. È quanto si desidera sempre avere quando capita qualche disastro. Si vuole tempo per sperare che non sia accaduto veramente, tempo perché il disastro se ne vada, tempo per scoprire che era tutto un errore, tempo per permettere a Dio di intervenire.

«D’accordo» disse Mitchell. «Vai nel bagno, laggiù.»

Era una stanza senza finestre, larga circa un metro e mezzo e lunga due. Un water. Un lavabo. E questo era tutto. Sul lato esterno della porta era stata installata una serratura. Non sembrava nuova di zecca, perciò immaginai di non essere la prima persona che veniva tenuta prigioniera lì.

Entrai nella piccola stanza e loro chiusero a chiave la porta. Appoggiai l’orecchio allo stipite.

«Sai una cosa, sto cominciando a odiare questo lavoro» disse Mitchell. «Perché non possiamo mai fare questo genere di cose in una bella giornata? Una volta ho dovuto prendere un tizio, Alvin Margucci: faceva così fottutamente freddo che la pistola si era congelata e abbiamo dovuto picchiarlo a morte con un badile. E poi quando abbiamo cominciato a scavargli la fossa non riuscivamo neanche a scalfire il terreno. È stato un gran casino.»

«Sembra davvero un lavoro duro» disse Habib. «È molto meglio al mio Paese, dove è quasi sempre caldo e il terreno è soffice. Spesso non dobbiamo neppure scavare perché il Pakistan è una terra molto accidentata e possiamo semplicemente gettare il tizio appena morto dentro a un burrone.»

«Già, be’, sai… qui abbiamo i fiumi, ma i cadaveri vengono a galla e questo non va bene.»

«Proprio così» disse Habib. «L’ho sperimentato anch’io.»

Mi sembrò di sentirli uscire, udii la porta all’estremità del salone aprirsi e poi richiudersi. Provai a forzare la porta del bagno. Poi mi guardai attorno. Feci un po’ di respirazione e osservai nuovamente il piccolo locale. Mi imposi di riflettere. Mi sentivo come Winnie the Pooh, che era un orsetto di poco cervello. Si trattava di una orribile stanzetta, con un lavandino e un water sudici e un pavimento di linoleum lurido. La parete accanto al lavandino era macchiata di acqua con una chiazza di umido vicino al soffitto. Probabilmente un problema di tubature al piano superiore. Non ci trovavamo certo in una costruzione di buona qualità. Misi la mano sul muro e lo sentii trasudare, le pareti erano fradicie.

Indossavo un paio di anfibi con grosse suole robuste. Mi misi a sedere sul lavandino, tirai un calcio potente alla parete e il piede la trapassò uscendo direttamente dall’altra parte. Cominciai a ridere, e poi mi resi conto che stavo piangendo. Non c’era tempo per gli isterismi, mi dissi. Dovevo solo andarmene di lì il più velocemente possibile.

Afferrai i bordi del buco nel muro, togliendone via grossi pezzi. Riuscii a ricavare un’apertura sufficientemente grande tra i montanti verticali, e poi mi misi al lavoro sulla parete più esterna. Fu questione di minuti e avevo distrutto entrambe le pareti abbastanza da potermici infilare. Le unghie si erano rotte e le dita sanguinavano, ma ora mi trovavo in un piccolo ufficio e mi ero lasciata il bagno alle spalle. Provai ad aprire la porta. Era chiusa a chiave. Gesù, pensai, non dirmi che devo passare attraverso l’intero edificio facendo buchi nei muri a colpi di stivale! Aspetta un momento, sciocca: l’ufficio ha una finestra. Mi costrinsi a respirare profondamente. Non ero al massimo della lucidità, ero troppo spaventata. Provai ad aprire la vetrata, ma non si mosse. Era rimasta chiusa per troppo tempo, sulla serratura erano state passate troppe mani di vernice. Nella stanza non c’erano mobili. Mi liberai della giacca, la avvolsi attorno alla mano, strinsi il pugno e ruppi la finestra. Tolsi quanti più pezzi di vetro riuscii e guardai fuori. Era un salto piuttosto alto, ma forse potevo farcela. Mi sfilai uno stivale e con quello eliminai tutti i vetri rimasti alla finestra in modo da non tagliarmi più di quanto fosse necessario. Rimisi l’anfibio e con una gamba scavalcai il davanzale. La finestra si affacciava sulla parte anteriore dell’edificio. Per favore, mio Dio, fa che Habib e Mitchell non arrivino proprio mentre sto saltando dalla finestra. Mi calai lentamente, con la schiena verso la strada, in modo da potermi tenere stretta con le mani, lasciandomi penzolare giù, le dita dei piedi puntate contro le fessure tra i mattoni. Arrivata al massimo dell’estensione, mi lasciai cadere e atterrai prima sui piedi e poi sul sedere. Rimasi a terra per un minuto, stordita, sdraiata sul marciapiede, con la pioggia che mi batteva sul viso.

Inspirai profondamente e mi rialzai, poi cominciai a correre. Attraversai la strada, percorsi un lungo vialetto e poi un’altra strada. Non avevo idea di dove stessi andando. Stavo soltanto mettendo della distanza tra me e l’edificio di mattoni.

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