«Pensavo che tu non bevessi caffè» dissi a Ranger. «Che ne è di quella storia che tratti il tuo corpo come un tempio?»
«Fa parte del travestimento. Come il taglio di capelli» spiegò continuando a sorseggiare.
«Li lascerai crescere di nuovo?»
«Probabilmente.»
«E smetterai anche di bere caffè?»
«Fai un sacco di domande» disse Ranger.
«Sto solo cercando di farmi un’idea.»
Era sprofondato nella poltrona, con una gamba tesa, le mani sui braccioli, gli occhi su di me. Posò la tazza sul tavolino, si alzò, e venne a mettersi accanto al divano. Si chinò e mi diede un bacio lieve sulle labbra. «Su alcune cose è meglio lasciare il mistero» aggiunse. Poi si diresse verso la porta.
«Ehi, aspetta un momento» dissi. «Devo continuare a sorvegliare Hannibal?»
«Riesci a tenerlo d’occhio senza farti sparare?»
Gli gettai un’occhiata feroce attraverso l’oscurità.
«Ti ho vista» disse.
«Morelli vuole parlarti.»
«Lo chiamerò domani, forse.»
La porta si aprì e si richiuse. Se n’era andato.
Mi avvicinai allo spioncino e guardai fuori. Non c’era traccia di Ranger. Feci scorrere la catenella di sicurezza e tornai al divano. Sprimacciai il cuscino e mi rannicchiai sotto la coperta.
E pensai al bacio. Che cosa avrei dovuto capire da quel bacio? Amichevole. Era stato amichevole. Niente lingua. Niente palpeggiamenti. Niente digrignare i denti per un’incontrollabile passione. Un bacio amichevole. Solo che non lo sembrava affatto. Sembrava… sexy.
Dannazione!
«Che cosa vuoi mangiare per colazione?» domandò la nonna. «Ti va una bella zuppa d’avena calda?»
Se avessi seguito l’istinto avrei mangiato la torta. «Certo» dissi «la zuppa d’avena andrà benissimo.»
Mi versai una tazza di caffè e sentii bussare alla porta. La aprii e un’enorme cosa arancione fece irruzione.
«Per l’amor del cielo!» dissi. «Che cos’è?»
«Un Golden Retriever» disse Simon. «Per la maggior parte.»
«Non è un po’ troppo grande per essere un Golden Retriever?»
Simon trascinò un sacco da venticinque chili di cibo per cani dentro l’ingresso. «L’ho preso al canile e mi hanno detto così. Golden Retriever.»
«Avevi detto che era piccolo.»
«Ho mentito. Vuoi farmi causa?»
Il cane corse in cucina, ficcò il naso tra le gambe della nonna e annusò.
«Perbacco» disse la nonna. «A quanto pare il mio nuovo profumo funziona davvero. Bisogna che lo provi agli incontri del circolo degli anziani.»
Simon allontanò il cane dalla nonna e mi allungò un sacchetto di carta di quelli dei negozi di alimentari. «Qui c’è la sua roba. Due ciotole, alcuni prodotti per cani, un giocattolo da masticare, una spazzola e la palettina per i suoi bisogni.»
«La palettina? Ehi, aspetta un momento…»
«Devo andare» disse Simon. «Devo prendere un aereo.»
«Come si chiama?» gli strillai mentre se ne andava lungo il corridoio.
«Bob.»
«Non è una cosa magnifica?» disse la nonna. «Un cane che si chiama Bob.»
Riempii d’acqua la ciotola di Bob e la misi sul pavimento, in cucina. «Rimarrà solo un paio di giorni» dissi. «Simon tornerà a prenderlo domenica.»
La nonna diede un’occhiata al sacchetto di cibo per cani. «È una razione parecchio consistente per un paio di giorni.»
«Forse mangia molto.»
«Se mangia tutta quella roba in due giorni non ti servirà la palettina per i bisogni» disse la nonna. «Ti servirà un badile.»
Tolsi il guinzaglio a Bob e lo appesi all’attaccapanni dell’ingresso. «Bene, Bob» dissi «non sarà poi tanto male. Ho sempre desiderato un Golden Retriever.»
Bob scodinzolò e guardò prima la nonna e poi me.
La nonna preparò zuppa d’avena per tutti e tre. Lei e io portammo le nostre scodelle nella sala da pranzo e Bob mangiò in cucina. Quando tornammo, la ciotola di Bob era vuota. Ma anche la scatola di cartone che conteneva la torta era vuota.
«A quanto pare Bob è goloso di dolci» disse la nonna.
Gli mostrai un dito minaccioso. «Questo non è educato. E poi diventerai grasso.»
Bob dimenò la coda.
«Forse non è molto intelligente» disse la nonna.
Abbastanza da mangiarsi la torta.
La nonna aveva appuntamento alle nove per una lezione di guida. «Probabilmente starò fuori tutto il giorno» disse. «Perciò non preoccuparti se non mi vedi. Dopo la lezione vado a fare un giro in centro con Louise Greeber. E poi andremo a vedere qualche altro appartamento. Se vuoi posso fermarmi a prendere un po’ di carne questo pomeriggio. Pensavo che un polpettone sarebbe andato bene per cena.»
Mi feci prendere dal senso di colpa. La nonna stava occupandosi da sola della cucina. «Tocca a me» le dissi. «Lo preparo io.»
«Non credevo che sapessi cucinare il polpettone.»
«Certo che sì» dissi. «Sono capace di cucinare un sacco di cose.» Una bella bugia. Non so cucinare niente.
Allungai a Bob uno stuzzichino per cani e poi la nonna e io ce ne andammo insieme. A metà del corridoio si fermò.
«Che cos’è questo rumore?» domandò.
Ci mettemmo tutt’e due ad ascoltare. Bob ululava dall’altro lato della porta.
La mia vicina d’appartamento, la signora Karwatt, uscì sul pianerottolo. «Che cos’è questo rumore?»
«È Bob» disse la nonna. «Non gli piace restare a casa da solo.»
Dieci minuti dopo guidavo a tutta velocità con Bob che teneva la testa fuori dal finestrino, le orecchie al vento.
«Oh» disse Lula quando entrai in ufficio. «E questo chi è?»
«Si chiama Bob. Gli sto facendo da dog sitter.»
«Davvero? Che razza è?»
«Un Golden Retriever.»
«Sembra che sia rimasto per troppo tempo sotto il casco della parrucchiera.»
Gli lisciai un po’ il pelo. «Ha tenuto la testa fuori dal finestrino.»
«Ah, ecco.»
Tolsi il guinzaglio a Bob e lui corse verso Lula e rifece la scena dell’annusamento tra le gambe.
«Ehi» disse lei «sta’ indietro, mi stai lasciando le impronte del naso sui pantaloni nuovi.» Gli fece una carezza sulla testa. «Se continua così dovremo trovargli una cagnetta.»
Usai il telefono di Connie per chiamare la mia amica Marilyn Truro all’Ufficio immatricolazione auto. «Ho bisogno di verificare una targa» dissi. «Hai tempo?»
«Mi prendi in giro? Ci sono quaranta persone in fila. Se mi vedono parlare al telefono mi linciano.» Abbassò la voce. «È per un caso? È per un omicidio o qualcosa del genere?»
«Potrebbe avere a che fare con l’omicidio di Ramos.»
«Sfotti? Questa è roba grossa.»
Le diedi il numero.
«Aspetta un minuto» disse. Si sentì il ticchettio di una tastiera di computer, poi Marilyn tornò all’apparecchio. «La targa appartiene a Terry Gilman. Non lavora per Vito Grizolli?»
Per un momento rimasi senza parole. Dopo Joyce Barnhardt, Terry Gilman era la persona che disprezzavo di più. Per usare un’espressione gentile, era uscita con Joe alle scuole superiori e avevo la sensazione che non le sarebbe dispiaciuto riprendere la relazione. Terry lavorava per lo zio, Vito Grizolli, cosa che costituiva un ostacolo per i suoi progetti con Joe, visto che il mestiere di Joe consisteva nell’eliminare il crimine e quello di Vito nel produrlo.
«Oh-oh» disse Lula. «Ho sentito bene? Stai ficcando quel tuo grosso naso nel caso Ramos?»
«Be’, mi è capitato di imbattermi…»
Lula spalancò gli occhi. «Stephanie, tu stai lavorando per Ranger!»
Vinnie sbucò fuori dal suo ufficio. «È vero? Stai lavorando per Ranger?»
«No. Non è vero. Non c’è neanche un’ombra di verità.» Be’, diavolo… cosa sarà mai una bugia in più?
La porta principale si spalancò e Joyce Barnhardt fece irruzione nell’ufficio.
Lula, Connie e io ci precipitammo a mettere il guinzaglio a Bob.
«Brutta stronza» mi gridò Joyce. «Mi hai mandata a fare il giro dell’oca. Ranger non ha nessuna sorella che lavora alla fabbrica di rivestimenti Macko.»
«Forse ha smesso» dissi.
«Già, può essere» disse Lula. «La gente si licenzia in continuazione.»
Joyce abbassò lo sguardo su Bob. «Che cos’è quello?»
«È un cane» dissi, accorciando il guinzaglio.
«Perché il pelo gli sta dritto a quel modo?»
Non male, detto da una donna che aggiunge dieci centimetri di altezza all’acconciatura con un’imbottitura.
«E a parte il giro dell’oca, come sta andando la caccia a Ranger?» domandò Lula. «Non lo hai ancora rintracciato?»
«Non ancora, ma gli sono addosso.»
«Ho l’impressione che tu stia barando» disse Lula. «Scommetterei che non hai niente in mano.»
«E io scommetterei che tu non hai un giro vita» disse Joyce.
Lula si protese in avanti. «Oh, davvero? Se io lancio un bastone, tu correrai a prenderlo?»
Bob scodinzolò.
«Magari più tardi» gli dissi.
Vinnie fece di nuovo capolino dal suo ufficio. «Che cosa sta succedendo qui? Non riesco a pensare.»
Lula, Connie e io ci scambiammo un’occhiata e ci mordemmo le labbra.
«Vinnie!» tubò Joyce, puntando i seni prominenti nella sua direzione. «Hai un bell’aspetto, Vinnie.»
«Già, anche tu non sei malaccio» disse lui. Guardò Bob. «Che cos’è questa storia del cane tutto spettinato?»
«Gli sto facendo da dog sitter» risposi.
«Spero che ti paghino molto bene. È una vera schifezza.»
Accarezzai le orecchie di Bob. «A me sembra carino.» In un senso un po’ preistorico.
«Allora, che cosa sta succedendo?» domandò Joyce. «C’è niente di nuovo per me?»
Vinnie ci pensò un momento, osservò prima Connie, poi Lula, poi me e infine si ritirò nel suo ufficio.
«Niente di nuovo» disse Connie.
Joyce guardò a occhi stretti la porta chiusa di Vinnie. «Vaffanculo.»
Vinnie aprì la porta e la fissò.
«Sì, proprio a te» disse Joyce.
Vinnie ritirò la testa dentro l’ufficio, chiuse la porta e girò la chiave nella serratura.
«Fottiti» disse Joyce, con un gestaccio. Si girò sui tacchi a spillo e dondolò il sedere fin fuori della porta.
Tutte noi alzammo gli occhi al cielo.
«E adesso?» domandò Lula. «Tu e Bob avete programmato qualcosa di interessante per oggi?»
«Be’, sai… un po’ di questo, un po’ di quello.»
La porta dell’ufficio di Vinnie si aprì nuovamente. «E che ne diresti di un po’ di Morris Munson?» strillò. «Non faccio mica opere di bene qui, sai?»
«Morris Munson è un pazzo!» gli gridai di rimando. «Ha cercato di darmi fuoco!»
Vinnie rimase in piedi con le mani sui fianchi. «Che cosa vorresti dire?»
«Niente. Va benissimo» dissi. «Andrò a prendere Morris Munson. E poi che succede se mi investe con l’auto? E se mi dà fuoco e mi sfonda la testa con un cric? È il mio lavoro, vero? Perciò ecco: vado a fare il mio lavoro.»
«Questo è lo spirito giusto.»
«Aspetta un momento» disse Lula. «Questa non voglio perdermela. Vengo con te.»
Infilò le braccia in una giacca e prese una borsetta grande abbastanza per contenere una mitragliatrice smontabile. «D’accordo» dissi io, adocchiando la borsa. «Che cos’hai lì dentro?»
«Una Tech-9.»
L’arma delle squadre scelte per l’assalto urbano.
«Hai un porto d’armi?»
«Cioè?»
«Penserai che sono pazza, ma mi sentirei molto meglio se tu lasciassi qui la tua Tech-9.»
«Ragazza, tu sai davvero come rovinare il divertimento» rispose Lula.
«Lasciala a me» le disse Connie. «La uso come fermacarte. Darà all’ufficio un certo tono.»
«Mmm» mugugnò Lula.
Aprii la porta dell’ufficio e Bob si precipitò fuori. Si fermò accanto alla Buick e rimase lì, a scodinzolare, con gli occhi che brillavano.
«Sembra un cane intelligente» dissi a Lula. «Riconosce la mia auto dopo esserci salito una sola volta.»
«Che cosa è successo alla Rollswagen?»
«L’ho restituita al Commerciante.»
Il sole era sempre più alto nel cielo e scacciava la foschia mattutina riscaldando Trenton. Impiegati e negozianti si stavano riversando nel centro della città. I pulmini della scuola erano tornati al parcheggio, in attesa della fine delle lezioni, e le casalinghe erano chine sugli aspirapolvere. La mia amica Marilyn Truro dell’Ufficio immatricolazione auto era già alla sua terza tazza di latte con caffè decaffeinato, si domandava se sarebbe stato utile aggiungere un secondo cerotto alla nicotina a quello che aveva già applicato al braccio, e intanto pensava che si sarebbe sentita molto meglio se avesse potuto picchiare a sangue la prossima persona della fila.
Lula e io restammo in silenzio a pensare mentre procedevamo lungo la Hamilton in direzione della fabbrica di bottoni. Io stavo facendo mentalmente l’inventario dell’equipaggiamento. La scacciacani: nella tasca sinistra. Lo spray urticante: nella tasca destra. Le manette: agganciate al passante posteriore dei jeans. La pistola: a casa, nel barattolo dei biscotti. Il coraggio: a casa, insieme alla pistola.
«Non so tu» disse Lula quando arrivammo all’abitazione di Munson «ma io non ho nessuna intenzione di finire in cenere oggi. Propongo di sfondare la porta di casa di questo tizio e fare irruzione dentro prima che abbia il tempo di accorgersene.»
«Giusto» convenni. Naturalmente sapevo bene dalle passate esperienze che in realtà nessuna delle due era in grado di abbattere una porta. Tuttavia non sembrava una cattiva idea mentre ce ne stavamo lì a far nulla, al bordo del marciapiede, chiuse dentro l’auto.
Girai l’isolato e mi portai sul retro, scesi e guardai dalla finestra del garage di Munson. Non c’erano auto. Cristo, malissimo. Probabilmente Munson non si trovava in casa.
«La macchina non c’è» dissi a Lula.
«Mmm» fece lei.
Girammo di nuovo attorno all’isolato, parcheggiammo e bussammo alla porta principale. Nessuna risposta. Guardammo attraverso le finestre della facciata. Niente.
«Potrebbe essersi nascosto sotto il letto» disse Lula. «Forse dovremmo proprio abbattere la porta.»
Feci un passo indietro e un gesto largo con la mano. «Dopo di lei.»
«Oh» disse Lula. «No, dopo di lei.»
«No, no… insisto.»
«Va’ al diavolo. Io insisto.»
«Va bene» conclusi. «Affrontiamo la questione: nessuna delle due ha intenzione di abbattere la porta.»
«Io potrei se volessi» disse Lula. «È solo che in questo momento non ne ho voglia.»
«Già, certo.»
«Tu non credi che io potrei fare seri danni a questa porta?»
«È quello che volevo dire.»
«Mmm» fece Lula.
La porta della casa adiacente si aprì e ne uscì un’anziana donna. «Che cosa succede?»
«Stiamo cercando Morris Munson» risposi.
«Non è in casa.»
«Oh, davvero? E come lo sa?» disse Lula. «Come fa a essere sicura che non si stia nascondendo sotto il letto?»
«Ero fuori sul retro quando l’ho visto andare via in auto. Stavo portando a spasso il cane e Munson è uscito con una valigia. Ha detto che sarebbe stato via per un po’. Per quello che mi riguarda potrebbe stare via per sempre. È un delinquente. È stato arrestato per aver ucciso la moglie e qualche idiota di giudice lo ha lasciato uscire su cauzione. Ve lo immaginate?»
«Ma pensa un po’» disse Lula.
La donna ci squadrò. «Immagino che voi siate sue amiche.»
«Non esattamente» dissi. «Lavoriamo per l’agenzia che ha garantito la cauzione di Munson.» Le allungai il mio biglietto da visita. «Se dovesse tornare avrei piacere che mi chiamasse.»
«Certamente» disse la donna «ma ho la sensazione che non tornerà tanto presto.»
Bob aspettava paziente in macchina, e fu tutto contento quando aprimmo le portiere e salimmo a bordo.
«Forse Bob ha bisogno di fare colazione» disse Lula.
«Bob ha già fatto colazione.»
«Mettiamola in un altro modo. Forse Lula ha bisogno di fare colazione.»
«Hai qualcosa di particolare in mente?»
«Credo che potrei accontentarmi di uno di quei piatti completi di uova e dolcetti in un fast food. E un frappé alla vaniglia. E patatine fritte.»
Misi in moto la Buick e mi diressi al McDonald’s.
«Come va?» domandò il ragazzo che venne a prendere l’ordinazione direttamente all’auto. «Stai ancora cercando lavoro?»
«Ci sto pensando.»
Prendemmo tre porzioni di tutto e parcheggiammo al margine dello spiazzo per mangiare e starcene un po’ tranquille. Bob mangiò in un solo boccone la sua parte di colazione e le patatine. Lappò il frappé e cominciò a guardare fuori dal finestrino come se desiderasse qualcosa.
«Credo che Bob abbia bisogno di sgranchirsi le gambe» disse Lula.
Aprii la portiera e lo lasciai uscire. «Non allontanarti troppo.»
Bob saltò fuori e cominciò a passeggiare in cerchio, annusando il selciato.
«Che cosa fa?» domandò Lula. «Perché cammina in circolo? Perché sta… oh-oh, non ha un’aria rassicurante. Mi sembra che Bob stia facendo abbondantemente i suoi bisogni nel bel mezzo del parcheggio. Santo cielo, guarda che roba! Quella è una montagna di cacca.»
Bob ritornò alla Buick e si sedette per terra scodinzolando, sorridendo e aspettando di rientrare.
Lo feci salire, e Lula e io sprofondammo nei sedili.
«Pensi che qualcuno lo abbia visto?» domandai a Lula.
«Penso che tutti lo abbiano visto.»
«Dannazione» dissi. «Non ho con me la paletta per i bisogni.»
«La paletta per i bisogni, diavolo! Non mi avvicinerei a quella roba nemmeno con uno scafandro anti-contaminazione e uno scudo protettivo.»
«Non posso lasciarla lì e basta.»
«Forse potremmo passarci sopra con la macchina» disse Lula. «Sai… spiaccicarla.»
Avviai il motore, feci retromarcia e puntai la Buick dritta verso la montagna di cacca.
«Sarà meglio chiudere i finestrini» disse Lula.
«Pronti?»
Lula si tenne stretta. «Pronti.»
Pestai il piede sull’acceleratore e presi la mira.
Squish!
Abbassammo i finestrini e guardammo fuori.
«Allora, che cosa ne pensi? Credi che dovrei fare un altro passaggio?»
«Non sarebbe male» disse Lula. «E credo anche che tu te lo possa scordare quel lavoro qui.»
Mi proposi di passare a fare un controllo veloce a casa di Hannibal e non volevo coinvolgere Lula nei miei affari con Ranger, perciò le dissi una bugia qualsiasi sul fatto che sarei andata tutto il giorno a caccia di latitanti con Bob e la riaccompagnai in ufficio. Accostai al marciapiede, mi fermai e la Lincoln nera si fermò dietro di me.
Mitchell scese e venne ad affacciarsi al mio finestrino. «Ancora al volante di questa vecchia Buick» disse. «Deve essere una specie di record personale per te. E che cosa mi dici del cane e della bella fanciulla, qui?»
Lula diede a Mitchell una rapida occhiata.
«Va tutto bene» dissi a Lula. «Lo conosco.»
«Immagino» fece Lula. «Vuoi che gli spari o qualcosa del genere?»
«Magari dopo.»
«Mmm» disse Lula. Scese indolente dall’auto e andò in ufficio.
«Allora?» domandò Mitchell.
«Allora niente.»
«Che delusione.»
«E così, non vi piace Alexander Ramos?»
«Diciamo semplicemente che non stiamo dalla stessa parte.»
«Devono essere giorni davvero duri per lui, a piangere per il figlio.»
«Quello non era un figlio per il quale piangere» disse Mitchell. «Era un fottuto perdente. Fottuto e fatto di cocaina.»
«E cosa mi dici di Hannibal? Droga anche lui?»
«Nooo, non Hannibal. Hannibal è un maledetto squalo. Alexander avrebbe dovuto mettergli un nome tipo Mandibola d’Acciaio.»
«Be’, adesso devo andare» dissi. «Ho da fare, devo vedere alcune persone.»
«Il beduino e io non abbiamo impegni, perciò pensavamo di seguirti per un po’.»
«Dovreste farvi una vita vostra.»
Mitchell sorrise.
«E non voglio che mi seguiate» dissi.
Sorrise ancora di più.
Lo sguardo mi cadde sul traffico che veniva nella nostra direzione lungo la Hamilton e si concentrò su un’auto blu. Sembrava una Crown Victoria. Sembrava che ci fosse Morris Munson al volante!
«Cristo!» strillai quando Munson sterzò bruscamente passando oltre la riga bianca e mirando direttamente a me.
«Merda!» esclamò Mitchell, in preda al panico, agitandosi senza allontanarsi, come un orso ballerino addestrato.
Munson sterzò per evitare Mitchell solo all’ultimo istante, perse il controllo e si schiantò contro la Lincoln. Per un momento le due auto sembrarono fuse insieme, poi si udì Munson mandare su di giri il motore. La Crown Victoria fece un salto all’indietro di mezzo metro, il paraurti anteriore si staccò e cadde sferragliando per terra, e l’auto schizzò via a tutta velocità.
Mitchell e io corremmo alla Lincoln e guardammo dentro dove si trovava Habib.
«Per l’amor del cielo, chi diavolo era quello?» gridò Habib.
La metà anteriore della fiancata sinistra era accartocciata sulla ruota e il cofano era deformato. Habib sembrava stare bene, ma la Lincoln non avrebbe percorso nemmeno un metro finché qualcuno non avesse raddrizzato il parafango con un piede di porco, disincastrando la ruota. Peggio per loro. E un colpo di fortuna per me: Habib e Mitchell non avrebbero avuto voglia di seguirmi per un pezzo.
«Era un pazzo» disse Habib. «L’ho visto negli occhi. Era un pazzo. Avete preso il numero di targa?»
«È successo tutto troppo in fretta» disse Mitchell. «E, Cristo, mi stava venendo dritto addosso. Ho pensato che mi avesse preso di mira. Ho pensato… Gesù, ho pensato…»
«Eri spaventato come una donnetta» disse Habib.
«Sicuro» dissi «come un figlio di scrofa.»
Ora, questo era il problema. Avrei tanto voluto dir loro chi si trovava al volante dell’auto. Se avessero ucciso Munson io mi sarei tolta il problema: niente più camicie in fiamme, niente più maniaci con il cric. Sfortunatamente, in qualche modo sarei anche stata responsabile della morte di Munson, e questo non mi faceva sentire del tutto a mio agio. Meglio lasciarlo al tribunale.
«Dovreste denunciare tutto questo alla polizia» dissi. «Rimarrei qui ad aiutarvi, ma sapete com’è…»
«Già» disse Mitchell. «Hai da fare. Persone da vedere.»
Era quasi mezzogiorno quando Bob e io passammo accanto alla casa di Hannibal. Parcheggiai all’angolo e composi il numero di telefono di Ranger per riferire alla sua segreteria che c’erano novità. Poi rimasi a mordicchiarmi il labbro inferiore per un po’ mentre raccoglievo il coraggio per scendere dall’auto e andare a spiare Hannibal.
Ehi, non è poi così difficile, mi dissi. Guarda la casa: bella tranquilla. Lui non c’è. Proprio come ieri. Fai il giro sul retro, dai un’occhiata e te ne vai. Niente di faticoso.
Va bene, ce la posso fare. Un respiro profondo. Pensare positivo. Afferrai il guinzaglio di Bob e mi diressi verso la pista ciclabile che passava dietro le case. Quando arrivai al cortile posteriore della casa di Hannibal mi fermai e ascoltai. Molto silenzioso. Inoltre Bob aveva l’aria annoiata: se dall’altro lato della recinzione ci fosse stato qualcuno, Bob sarebbe stato eccitato, giusto? Osservai il muro. Scoraggiante. Specialmente da quando mi avevano sparato l’ultima volta che ero stata lì.
Calma, dissi a me stessa. Niente pensieri negativi. Che cosa farebbe l’Uomo Ragno in una situazione come questa? Che cosa farebbe Batman? Che cosa farebbe Bruce Willis? Bruce prenderebbe la rincorsa, punterebbe le scarpe da ginnastica e scalerebbe il muro. Legai il guinzaglio di Bob a un cespuglio e corsi verso il muro. Puntai le scarpe circa a metà dell’altezza del muro, mi afferrai con le mani alla cima, e rimasi appesa lì. Trassi un profondo respiro, strinsi i denti e cercai di tirarmi su… ma non venne su niente. Dannazione. Bruce sarebbe riuscito ad arrivare in cima. Ma era anche vero che Bruce probabilmente andava in palestra.
Mi lasciai cadere al suolo e rivolsi lo sguardo all’albero. C’era una pallottola conficcata nel tronco. Non avevo nessuna voglia di arrampicarmi lì. Passeggiai avanti e indietro per un po’ facendo scrocchiare le dita delle mani. E Ranger, allora?, mi domandai. Io dovrei aiutarlo. Se la situazione fosse ribaltata Ranger avrebbe scalato l’albero per dare un’occhiata.
«Sì, ma io non sono Ranger» dissi a Bob.
Bob mi guardò a lungo.
«Va bene, d’accordo» conclusi. «Salirò su quello stupido albero.»
Salii rapidamente, diedi un’occhiata in giro, vidi che nella casa e nel cortile non succedeva niente e ridiscesi. Slegai Bob e mi affrettai verso l’auto, dove mi sedetti ad aspettare che il telefono suonasse. Dopo un paio di minuti Bob si trasferì sul sedile posteriore e si sistemò nella posizione giusta per un pisolino.
All’una in punto stavo ancora aspettando che Ranger mi richiamasse e cominciavo a pensare che avevo bisogno di mangiare, quando la porta scorrevole del garage di Hannibal si aprì e la Jaguar verde uscì in retromarcia.
Santo cielo, la casa non era vuota!
La porta si richiuse; la Jaguar svoltò allontanandosi da me e si avviò in direzione della superstrada. Difficile dire chi fosse al volante ma avrei potuto giurare che si trattasse di Hannibal.
Avviai il motore e feci rapidamente il giro dell’isolato, raggiungendo la Jaguar proprio mentre stava uscendo dal comprensorio. Rimasi indietro il più possibile senza perderlo di vista.
Oltrepassammo il centro cittadino, diretti a sud, e poi svoltammo verso est sulla intentatale. Le corse di cavalli a Monmouth non erano ancora cominciate e il parco di divertimenti La grande avventura era ancora chiuso in quella stagione. Questo restringeva di molto il campo delle possibili mete, limitandolo alla casa a Deal.
Bob si stava perdendo la parte eccitante, profondamente addormentato sul sedile posteriore. Io non mi sentivo altrettanto tranquilla: di solito non vado in giro a pedinare mafiosi, sebbene tecnicamente Hannibal Ramos non fosse un «uomo d’onore». Be’, in realtà non ne ero certa, ma mi ero fatta l’idea che la mafia fosse un’organizzazione familiare diversa dal cartello delle armi di contrabbando.
Hannibal lasciò la Route 195 al Parkway, proseguì per altre due uscite in direzione nord, quindi tagliò verso Asbury Park dove svoltò a sinistra, sulla Ocean Avenue, e seguì la strada che conduceva a Deal.
Deal è una cittadina sulla riva dell’oceano dove i giardinieri riescono a far crescere il prato nella inospitale aria salmastra, le governanti fanno le pendolari dalla vicina Long Branch, e la proprietà è un valore che supera qualunque fattore di appartenenza nazionale. Le case sono grandi e a volte poste al termine di viali protetti da cancellate. Gli abitanti sono perlopiù chirurghi plastici e commercianti di tappeti. E l’unico evento davvero memorabile che abbia mai avuto luogo a Deal è stato l’uccisione del boss della malavita Benny «Spinello» Raguchi al motel See Breeze nel 1982.
Hannibal si trovava a due automobili di distanza da me. Rallentò e mise la freccia a destra per svoltare in una proprietà recintata da un muro, con un cancello che conduceva nel viale di accesso. La casa si trovava dietro una duna, perciò dalla strada erano visibili il secondo piano e il tetto, mentre il resto dell’edificio rimaneva nascosto dietro l’intonaco rosa del muro. Il cancello era una bella opera di ferro battuto traforato. Alexander Ramos, trafficante internazionale di armi e noto donnaiolo, viveva in una casa rosa nascosta da un muro rosa: ma pensa un po’, al Burg non sarebbe mai successo. Vivere in una casa di quel colore al Burg sarebbe come essere castrati.
Probabilmente l’intonaco rosa era uno stile molto mediterraneo. E probabilmente in estate, quando i tendoni venivano srotolati e i mobili da giardino scoperti, e quando il sole e il caldo inondavano la costa del New Jersey, la casa avrebbe preso vita. In marzo sembrava che stesse aspettando soltanto una dose di Prozac. Pallida, fredda e insulsa.
Oltrepassando la villa intravidi un uomo che scendeva dalla Jaguar. Aveva la stessa corporatura e lo stesso colore di capelli di Hannibal, perciò doveva trattarsi di lui. A meno che, naturalmente, Hannibal non mi avesse nuovamente vista appostata sull’albero e poi mentre lo osservavo dalla strada, e avesse fatto in modo che un vicino di casa quasi identico a lui sgattaiolasse attraverso il cortile posteriore e prendesse la Jaguar per andare a Deal, soltanto per mettermi fuori strada.
«Che cosa ne pensi?» domandai a Bob.
Bob aprì un occhio, mi rivolse uno sguardo vuoto e tornò a dormire.
La stessa cosa che pensavo io.
Proseguii per circa quattrocento metri lungo la Ocean Avenue, feci inversione di marcia e passai un’altra volta davanti alla casa rosa. Parcheggiai oltre l’angolo, in modo da non essere vista. Raccolsi i capelli sotto un berretto, indossai un paio di occhiali scuri, presi il guinzaglio di Bob e mi diressi a piedi verso la proprietà dei Ramos. Deal era una cittadina molto ordinata con marciapiedi di cemento perfetti, disegnati pensando alle governanti e alle carrozzine. Perfetti anche per spioni mascherati da proprietari di cani a passeggio.
Ero a pochi metri dal cancello quando una Town nera si avvicinò. Il cancello si aprì e la Town entrò. C’erano due uomini all’interno, seduti davanti, ma il lunotto posteriore era oscurato. Giocherellai col guinzaglio di Bob e lasciai che annusasse un po’ in giro. La Town si fermò presso il porticato di ingresso e i due uomini scesero, uno di loro fece il giro dell’auto per prendere le borse dal bagagliaio. L’altro uomo aprì la portiera per il passeggero del sedile posteriore. Quest’ultimo sembrava avere una sessantina d’anni. Altezza media. Magro. Con un completo sportivo. Capelli grigi e ondulati. Dal modo in cui i due gli danzavano attorno per servirlo immaginai che si trattasse di Alexander Ramos. Probabilmente arrivato in aereo per il funerale del figlio. Hannibal uscì per salutare l’uomo anziano. E una versione più giovane e più magra di Hannibal apparve sulla soglia della casa ma non scese le scale. Ulysses, il figlio di mezzo, pensai.
Nessuno sembrava particolarmente felice della riunione. Comprensibile, immaginai, considerate le circostanze. Hannibal disse qualcosa al vecchio. Questi si irrigidì e lo colpì al lato della testa. Non era un colpo forte, non inteso per fare del male. Era piuttosto un’affermazione. Sciocco.
Eppure istintivamente indietreggiai. E anche a quella distanza vidi che Hannibal stringeva i denti.