Capitolo 7

Andai in ufficio con Mitchell e Habib dietro, che mi tallonavano. Quando Bob e io entrammo, Lula guardò fuori dalla vetrina. «Sembra che quei due idioti abbiano una macchina da venditore di tappeti.»

«Già. Sono con me fin dalle prime luci dell’alba. Mi hanno detto che il loro datore di lavoro sta perdendo la pazienza con questa caccia a Ranger.»

«Non è l’unico» disse Vinnié da dentro al suo ufficio. «Joyce non sta cavando un ragno dal buco con Ranger, e io sento che sta per venirmi un’ulcera. E sorvoliamo sul fatto che sono fuori di un sacco di soldi per quella faccenda di Morris Munson. Sarà meglio che tu muova il culo e vada a cercare quella carogna.»

Con un po’ di fortuna ormai Munson doveva essere in Tibet e io non lo avrei mai trovato. «Qualche novità?» domandai a Connie.

«Niente che ti possa interessare.»

«Diglielo comunque. Questa è buona» disse Lula.

«L’altra sera Vinnie ha riconsegnato un tizio di nome Douglas Kruper, il quale aveva venduto un’auto alla figlia quindicenne di uno dei nostri illustri senatori. Tornando a casa la ragazza è stata fermata per non aver rispettato un semaforo e per guida senza patente, ed è saltato fuori che l’auto era rubata. Ora viene il bello. La macchina è stata descritta come una Rollswagen. Per caso tu conosci qualcuno di nome Douglas Kruper?»

«Altrimenti detto il Commerciante» dissi. «Era un mio compagno di scuola.»

«Be’, per un po’ non farà più nessun commercio.»

«Come ha reagito all’arresto?» domandai a Vinnie.

«Piangeva come un bambino» disse Vinnie. «Era disgustoso. Una vergogna per tutta la criminalità.»

Per puro scrupolo consultai l’archivio per vedere se avevamo qualcosa su Cynthia Lotte. Non fui troppo sorpresa di non trovarla.

«Devo fare una commissione giù al centro» dissi. «Va bene se lascio qui Bob? Dovrei tornare entro un’ora.»

«Purché non entri nel mio ufficio privato» disse Vinnie.

«Già, non diresti così se Bob fosse femmina» disse Lula.

Vinnie sbatté la porta e chiuse rumorosamente la serratura.

Dissi a Bob che sarei stata di ritorno in tempo per il pranzo e mi affrettai a tornare all’auto. Al primo sportello automatico feci un prelievo di cinquanta dollari dal mio conto; poi mi diressi a Grant Street. Dougie aveva due confezioni di profumo Dolce Vita che mi erano sembrate un lusso eccessivo quando avevo restituito la Macchina del Vento, ma forse erano in saldo ora che aveva problemi con la legge. Non che io fossi il tipo da approfittare della sfortuna altrui… però, diavolo, stiamo parlando di Dolce Vita.

C’erano tre auto parcheggiate davanti alla casa di Dougie quando arrivai. Riconobbi quella del mio amico Eddie Gazzara. Eddie e io eravamo cresciuti insieme, adesso lui era un poliziotto ed era sposato con mia cugina Shirley la Piagnona. La seconda auto aveva i vetri antiproiettile, e la terza era una Cadillac vecchia di quindici anni con ancora la vernice originale e neppure un’ombra di ruggine. Non volevo pensare a ciò che questo significava, ma somigliava moltissimo all’auto di Louise Greeber: che cosa ci faceva un’amica della nonna lì?

Dentro, la minuscola casetta a schiera era stipata di gente e i commerci fervevano. Dougie passava dall’uno all’altro, con l’aria stupita.

«Devo liquidare tutto» mi informò. «Sto chiudendo la baracca.»

C’era anche il Luna. «Ehi, tutto ciò non è bello, piccola» disse. «Questa persona ha un’attività. Ha diritto ad avere un’attività, giusto? Voglio dire, che fine hanno fatto i suoi diritti? D’accordo, ha venduto un’auto rubata a una ragazzina. Be’, tutti facciamo degli errori. Ho ragione o no?»

«Chi sbaglia paga» disse Gazzara con un mucchio di jeans tra le braccia. «Quanto vuoi per questi, Dougie?»

Presi da parte Gazzara. «Devo parlarti di Ranger.»

«Allen Barnes non fa che cercarlo» disse Gazzara.

«Barnes ha in mano qualcosa contro Ranger, a parte la videocassetta?»

«Non lo so. Non sono nel giro. Non trapela molto su questa faccenda. Nessuno vuole commettere errori con Ranger.»

«Barnes sta cercando altre persone sospette?»

«Non che io sappia. Però, come ho detto, non sono nel giro.»

Un’auto della polizia parcheggiò in doppia fila sulla strada e due uomini in uniforme entrarono. «Ho sentito dire che c’è una liquidazione in corso qui» disse uno dei due. «Per caso sono rimasti dei tostapane?»

Io presi le due bottigliette di profumo e diedi a Dougie un biglietto da dieci. «Che cosa farai adesso?»

«Non lo so. Mi sento un vero perdente» disse Dougie. «Mi va sempre tutto storto. Certa gente non ha proprio fortuna.»

«Sta’ su di morale, amico» disse il Luna. «Verrà fuori qualcos’altro. Fa’ come me. Segui la corrente.»

«Sto per andare in galera!» disse Dougie. «Mi metteranno dentro!»

«Vedi che cosa intendo?» disse il Luna. «In qualche modo si trova sempre una soluzione. Vai in galera e non devi più preoccuparti di niente: niente affitto da pagare, nessuna fatica per guadagnarsi il pane, cure dentistiche gratis. E questa non è cosa da poco, amico. Non ti farà mica schifo farti curare i denti gratis?»

Tutti osservammo il Luna per un minuto, in dubbio se fosse opportuno rispondergli seriamente.

Attraversai la casa e andai a dare un’occhiata nel retro, ma non vidi né la nonna né Louise Greeber. Salutai Gazzara e mi feci strada attraverso la folla fino alla porta.

«Molto carino da parte tua dare una mano al vecchio Dougie» disse il Luna mentre uscivo. «Dannatamente tenero, piccola.»

«Volevo solo il Dolce Vita» risposi.

In strada la Cadillac non c’era più, ma all’angolo era ferma la Macchina dei Tappeti, ad aspettare. Mi sedetti al volante della Buick e mi spruzzai un po’ di profumo per compensare il brufolo sul mento e i jeans lisi e bucati. Pensai che ci voleva qualcosa di più, perciò applicai un altro po’ di mascara alle ciglia e raccolsi i capelli. Meglio sembrare una puttanella con un brufolo che una racchia con un brufolo.

Mi diressi in centro, allo Shuman Building, dove si trovava l’ufficio del mio ex marito, Richard Orr, avvocato e bastardo donnaiolo. Era socio di minoranza di uno studio associato di dottori in legge: Rabinowitz, Rabinowitz, Zeller e Bastardo. Presi l’ascensore per il secondo piano e cercai la porta con il suo nome a lettere dorate. Non andavo spesso da quelle parti, il nostro non era stato un divorzio amichevole, e Dickie e io non ci scambiavamo gli auguri per Natale. Di tanto in tanto i nostri percorsi professionali si incrociavano.

Cynthia Lotte era seduta alla scrivania di fronte all’entrata, e pareva uscita da una pubblicità, con quel suo semplice tailleur grigio e la camicetta bianca. Quando oltrepassai la porta alzò gli occhi allarmata, evidentemente riconoscendomi dall’ultima volta che ero stata lì, quando io e Dickie avevamo avuto un piccolo diverbio.

«Non è in ufficio» disse.

Allora, dopo tutto, esiste un Dio. «Quando pensa che rientrerà?»

«Difficile dirlo. È in tribunale, oggi.»

Non portava anelli al dito. E non sembrava triste. In effetti, aveva l’aria piuttosto allegra, a parte il fatto che l’ex moglie pazza di Dickie era in ufficio.

Finsi di guardarmi in giro con un certo interesse nella stanza della reception. «È carino, qui. Deve essere bello lavorarci.»

«Di solito sì.»

Lo presi come un «quasi sempre, a parte adesso». «Immagino che sia un buon posto per lavorare se si è single. Probabilmente avrà occasione di incontrare un sacco di uomini.»

«Dove vuole arrivare?»

«Be’, stavo solo pensando a Homer Ramos. Sa, mi domandavo se per caso lo avesse incontrato qui in ufficio.»

Per un lungo momento ci fu un silenzio glaciale e avrei giurato di riuscire a sentire il battito del suo cuore. Cynthia non disse niente. E nemmeno io.

Non avrei saputo dire che cosa stesse pensando lei, ma io mi stavo facendo scrocchiare le dita mentalmente. La faccenda di Homer Ramos, in realtà, era venuta fuori un po’ più bruscamente di quanto avevo previsto e mi sentivo a disagio: di solito sono sgarbata con la gente soltanto nei miei pensieri.

Cynthia Lotte si fece forza e mi guardò dritta negli occhi. Parlò con modi estremamente cortesi e con tono premuroso. «Non che voglia cambiare argomento o cose simili» disse «ma ha provato a nascondere col trucco quel brufolo?»

Inspirai profondamente. «Oh, no. Non pensavo proprio che…»

«Deve stare attenta, perché quando i foruncoli diventano così grossi e tutti rossi e pieni di pus possono lasciare cicatrici.»

Le mie dita volarono verso il mento prima che potessi fermarle. Oddio, aveva ragione. Il brufolo sembrava enorme. Stava crescendo. Dannazione! Il mio sistema di allarme interiore scattò e il messaggio che mandava al cervello era: scappa, nasconditi!

«Comunque, ora devo andare» dissi, arretrando verso la porta. «Riferisca a Dickie che non volevo niente di particolare. Ero nei paraggi e avevo pensato di salutarlo.»

Uscii, imboccai le scale e mi precipitai fuori dall’ingresso e dal palazzo. Mi rinchiusi nella Buick e mi avvicinai allo specchietto retrovisore per vedere il brufolo.

Enorme!

Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi. Era già abbastanza brutto avere quel dannato brufolo, ma oltretutto Cynthia Lotte mi aveva messa alla porta e non avevo scoperto niente per Ranger. L’unica cosa che sapevo della Lotte era che il grigio le stava bene e che aveva toccato il mio punto debole: un solo riferimento al mio brufolo ed ero già lontana.

Mi voltai a guardare lo Shuman Building e mi domandai se Ramos avesse relazioni di affari con lo studio di Dickie. E che genere di affari? Era possibile che la Lotte avesse incontrato Ramos in quel modo. Naturalmente, avrebbe anche potuto incontrarlo per strada, l’edificio in cui Ramos lavorava era soltanto a un isolato di distanza.

Misi in moto la Buick e lentamente passai davanti al palazzo Ramos. I nastri di plastica che delimitavano la scena del delitto erano stati tolti e vedevo gente al lavoro nell’ingresso. Il vialetto di servizio che passava sul retro era affollato di furgoni per le riparazioni.

Feci inversione di marcia e riattraversai la città fermandomi al negozio di elettronica sulla Terza strada.

«Ho bisogno di un sistema di allarme» dissi al commesso. «Niente di particolare. Solo qualcosa che avverta quando la porta d’entrata viene aperta. E la smetta di guardarmi il mento!»

«Non le stavo guardando il mento. Davvero! Non avevo neppure notato quel grosso brufolo.»

Mezz’ora dopo ero sulla strada dell’ufficio per andare a riprendere Bob. In un sacchetto posato sul sedile di fianco a me c’era un piccolo apparecchio rivelatore di movimento per la porta del mio appartamento. Mi dissi che era necessario per una questione di sicurezza generale, ma la verità era che aveva un unico intento: avvisarmi ogni volta che Ranger entrava in casa mia. E per quale motivo sentivo il bisogno di un sistema di allarme? C’era forse ragione di aver paura? No. Per quanto alcune volte Ranger potesse davvero mettere paura. C’era forse sfiducia in questo? Niente affatto. Io mi fidavo di Ranger. Il fatto era che avevo comprato il sistema d’allarme perché almeno per una volta volevo trovarmi in vantaggio su di lui. Mi faceva impazzire che riuscisse a entrare nel mio appartamento senza neppure svegliarmi.

Mi fermai a un fast food e presi una confezione di bocconcini di pollo fritti per pranzo. Pensai che fosse la cosa migliore per Bob. Nessun osso che potesse fargli male.

Quando entrai nell’ufficio vidi tutti gli occhi illuminarsi davanti alla mia scatola di bocconcini di pollo.

«Bob e io stavamo giusto pensando al pollo» disse Lula. «Devi averci letto nel pensiero.»

Tolsi il coperchio alla confezione, lo misi sul pavimento e ci appoggiai una manciata di bocconcini per Bob. Ne presi uno per me e allungai il resto a Lula e a Connie. Poi telefonai a mia cugina Bunny, in banca.

«Che cosa sai di Cynthia Lotte?» le domandai.

Dopo un attimo tornò con la risposta. «Non molto» disse. «Di recente ha preso un’auto a noleggio. Paga i conti regolarmente, nessuna richiesta di sicurezza. Vive a Ewing.» Al telefono ci fu silenzio per un paio di secondi. «Che cosa stai cercando?»

«Non lo so. Lavora per Dickie.»

«Oh.» Come se questo spiegasse tutto.

Mi feci dare l’indirizzo e il numero di telefono della Lotte e salutai Bunny.

L’altra persona a cui telefonai fu Morelli. Non rispose a nessuno dei recapiti, perciò gli lasciai un messaggio sul cercapersone.

«Buffo» disse Lula. «Non avevi messo quei bocconcini sul coperchio della confezione? Non riesco a trovare il coperchio.»

Tutte guardammo Bob. Aveva un pezzetto di cartone appiccicato al labbro.

«Caspita» disse Lula. «Mi fa sembrare una dilettante.»

«Allora, non notate niente di strano su di me?» domandai.

«Solo che hai un grosso brufolo sul mento. Sarai in quel periodo del mese, eh?»

«È lo stress!» Ficcai la testa nella borsa e cercai il correttore. Torcia, spazzola, rossetto, gomma da masticare alla frutta, scacciacani, fazzoletti, detergente per le mani, spray urticante. Niente correttore.

«Io ho un cerotto» disse Connie. «Puoi provare a coprirlo con un cerotto.»

Misi il cerotto sul brufolo.

«Così va meglio» disse Lula. «Ora sembra che tu ti sia tagliata facendoti la barba.»

Fantastico.

«Prima che me ne dimentichi» aggiunse Connie «c’è stata una telefonata a proposito di Ranger, mentre parlavi con la banca. C’è un mandato di arresto contro di lui in relazione all’omicidio Ramos.»

«Che cosa dice il mandato?» domandai.

«Ricercato per interrogatorio.»

«È così che è cominciata per O.J. Simpson» disse Lula. «Dovevano solo interrogarlo. E guarda che cosa ne è venuto fuori.»

Volevo fare un controllo a casa di Hannibal, ma non potevo trascinarmi dietro Mitchell e Habib.

«Ho bisogno di un depistiggio» dissi a Lula. «Mi occorre che tu mi liberi di quei due tìzi nella Macchina dei Tappeti.»

«Intendi dire proprio liberartene o semplicemente che non vuoi che ti seguano?»

«Non voglio che mi seguano.»

«Be’, facile.» Prese una calibro .45 dal cassetto della scrivania. «Sparerò solo a un paio di gomme.»

«No! Niente spari!»

«Tu e le tue regole» disse Lula.

Vinnie mise la testa fuori dall’ufficio. «Che cosa ne dite del gioco del sacchetto in fiamme?»

Tutte ci voltammo nella sua direzione.

«Di solito è uno scherzo che si fa alla gente sulla veranda davanti a casa» disse Vinnie. «Metti della cacca di cane in un sacchetto. Poi metti il sacchetto sotto al portico dello sfigato e suoni il campanello. Quindi gli dai fuoco e scappi a gambe levate. Quando la vittima apre la porta, vede il sacchetto in fiamme e lo calpesta per spegnerlo.»

«E?»

«E si sporca tutta la scarpa» disse Vinnie. «Se fate questo scherzetto ai due tizi, avranno il loro da fare con le scarpe e saranno distratti; e tu potrai andartene.»

«Solo che non abbiamo una veranda» disse Lula.

«Metteteci un po’ di fantasia!» disse Vinnie. «Piazzate il sacchetto proprio dietro l’auto. Poi sgattaiolate via e qualcuno qui nell’ufficio strillerà loro che c’è qualcosa che brucia.»

«Suona bene» disse Lula. «L’unica cosa che ci serve è un po’ di cacca di cane.»

Tutti rivolgemmo l’attenzione a Bob.

Connie prese un sacchetto di carta marrone dal cassetto in basso. «Io ho il sacchetto e tu puoi usare la confezione vuota del pollo come paletta.»

Misi il guinzaglio a Bob e uscii con Lula dalla porta sul retro per passeggiare un po’. Bob fece pipì circa quaranta volte, ma non fornì alcun contributo per il sacchetto.

«Non sembra ispirato» disse Lula. «Forse dovremmo portarlo al parco.»

Il parco era a soli due isolati di distanza, perciò accompagnammo Bob e rimanemmo a ciondolare in giro aspettando che rispondesse alla chiamata della natura. Solo che la natura non lo chiamava.

«Hai mai notato che quando non ti serve della cacca di cane sembra essercene ovunque?» disse Lula. «E ora che ne vogliamo un po’…» Poi spalancò gli occhi. «Aspetta un attimo. Cane a ore dodici. Ed è un cane grosso.»

Infatti qualcuno stava portando il cane a passeggio nel parco. La bestia era grande e nera. L’anziana donna dall’altra parte del guinzaglio era minuta e bianca. Indossava scarpe col tacco basso e un grosso cappotto di tweed marrone, i capelli grigi erano nascosti da un berretto di lana fatto a mano. Aveva con sé un sacchetto di plastica e un fazzoletto di carta nella mano. Il sacchetto era vuoto.

«Non che voglia essere blasfema o cose simili» disse Lula. «Ma è il buon Dio che ci manda quel cane.»

Il cane si fermò improvvisamente e si accovacciò. Lula, Bob e io attraversammo il prato. Tenevo Bob al guinzaglio e Lula faceva ondeggiare la confezione del pollo e il sacchetto di carta, e tutti correvamo a gran velocità quando la donna alzò lo sguardo e ci vide. Il colorito sparì dal suo viso mentre arretrava terrorizzata.

«Sono vecchia» disse. «Non ho denaro. Andate via, non fatemi del male.»

«Non vogliamo il suo denaro» disse Lula. «Vogliamo la cacca.»

La donna tirò il guinzaglio. «Non potete prendere la cacca. Devo portarla a casa. È la legge.»

«La legge non dice che lei deve portarla a casa» disse Lula. «Dice solo che qualcuno deve farlo. E noi ci offriamo volontarie.»

Il grosso cane nero finì di fare quel che doveva e annusò Bob incuriosito, il quale restituì l’annusata e poi rivolse lo sguardo alla fessura tra le gambe della donna.

«Neanche per idea» dissi a Bob.

«Non so se sia giusto» disse la donna. «Non ho mai sentito una cosa del genere. Credo di dover essere io a portare la cacca a casa.»

«D’accordo» fece Lula «le pagheremo la cacca.» Lula mi guardò. «Dalle un paio di banconote.»

Frugai nelle tasche. «Non ho soldi con me. Non ho preso il portafogli.»

«Non accetterò niente di meno di cinque dollari» disse la donna.

«Il fatto è che non abbiamo denaro con noi» spiegò Lula.

«Allora la cacca è mia» disse la donna.

«Col cavolo» replicò Lula, spingendo da parte la donna e raccogliendo la cacca con la confezione del pollo. «Ne abbiamo bisogno noi.»

«Aiuto!» strillò la donna. «Mi rubano la cacca! Ferme! Ladre!»

«Ce l’ho» disse Lula. «L’ho presa tutta.» Lula, Bob e io corremmo come il vento e tornammo in ufficio con il sacchetto di cacca.

Ci fermammo alla porta sul retro dell’ufficio. Bob era tutto felice, e saltellava intorno. Ma Lula e io eravamo senza fiato.

«Ragazzi, per un momento ho avuto paura che ci prendesse. Correva piuttosto veloce per essere una donna anziana.»

«Non stava correndo» dissi. «Era il cane che la trascinava, cercando di star dietro a Bob.»

Tenni aperto il sacchetto mentre Lula ci gettava la cacca dentro.

«Sarà divertente» disse Lula. «Non vedo l’ora di gustarmi quei due tizi che calpestano il sacchetto di merda.»

Lula fece il giro fino davanti all’ufficio con il sacchetto e un accendino. Bob e io entrammo dalla porta sul retro. L’auto di Habib e Mitchell era parcheggiata proprio accanto al marciapiede, di fronte all’ufficio, proprio dietro la mia Buick.

Connie, Vinnie e io sbirciavamo dalla vetrina mentre Lula si portava di nascosto dietro la Macchina dei Tappeti. Mise il sacchetto per terra, proprio sotto il parafango posteriore. Vedemmo la fiamma dell’accendino, poi Lula fece un balzo e si precipitò dietro l’angolo.

Connie mise la testa fuori dalla porta. «Ehi!» strillò. «Ehi, voi due nella macchina… C’è qualcosa che brucia dietro di voi!»

Mitchell aprì il finestrino. «Che cosa?»

«C’è qualcosa che va fuoco dietro la vostra auto!»

Mitchell e Habib scesero per dare un’occhiata e tutti noi ci affollammo sulla soglia per unirci a loro.

«È solo spazzatura» disse Mitchell ad Habib. «Buttala via di lì con un calcio in modo che non danneggi l’auto.»

«È in fiamme» disse Habib. «Non voglio dare un calcio con la scarpa a un sacchetto in fiamme.»

«Ecco quello che succede quando si assume un fottuto cammelliere» disse Mitchell. «Voialtri non avete nessun senso del dovere.»

«Non è vero. Io lavoro duro in Pakistan. Nel mio Paese abbiamo una fabbrica di tappeti, e il mio incarico è picchiare i bambini indisciplinati che ci lavorano. È un gran buon lavoro.»

«Accidenti» disse Mitchell. «Tu picchi i bambini che lavorano nella fabbrica?»

«Sì. Con un bastone. È una posizione di grande responsabilità. Bisogna stare attenti a picchiarli senza rompergli quelle dita così piccole altrimenti non riescono più a fare nodi tanto accurati.»

«È disgustoso» commentai.

«Oh no» disse Habib. «Ai bambini piace e fanno un sacco di soldi per le loro famiglie.» Si rivolse a Mitchell e lo ammonì con un dito. «E io lavoro molto duro picchiando i bambini, perciò non devi dire certe cose di me.»

«Scusa» disse Mitchell. «Credo di essermi sbagliato sul tuo conto.» Diede un calcio violento al sacchetto. Il sacchetto si ruppe e una parte degli escrementi gli si appiccicò alla scarpa.

«Che diavolo è?» Mitchell scosse il piede e la merda di cane in fiamme volò ovunque. Un grosso malloppo cadde sul tappeto che copriva l’auto; si sentì il sibilo di qualcosa che prendeva fuoco e le fiamme si sparsero ovunque.

«Cristo santo» disse Mitchell, afferrando Habib e precipitandosi sul marciapiede.

Le fiamme mandavano scintille e crepitavano, e anche le tappezzerie interne si stavano incendiando. Ci fu una piccola esplosione quando arrivarono al serbatoio della benzina, e l’auto fu avvolta da un fumo nero e dal fuoco.

«Suppongo che non si trattasse di uno di quei tappeti ignifughi» disse Lula.

Habib e Mitchell erano appiattiti contro il palazzo a bocca aperta.

«Forse ora puoi andare» disse Lula. «Non credo che ti seguiranno.»

Quando il camion dei pompieri arrivò, la Macchina dei Tappeti era ormai una carcassa e il fuoco si era ridotto a dimensioni da barbecue. La mia Buick si trovava circa tre metri davanti all’auto dei tappeti ma era rimasta intatta. Non c’erano neppure bolle sulla vernice della carrozzeria. L’unica cosa era la maniglia della portiera leggermente più calda del solito.

«Ora devo andare» dissi a Mitchell. «Peccato per la vostra auto. E non mi preoccuperei per le sopracciglia: sono un po’ bruciacchiate, ma probabilmente ricresceranno. Mi è successo già una volta e tutto è tornato a posto.»

«Che cosa… Come…?» disse Mitchell.

Feci salire Bob sulla Buick e mi allontanai dal parcheggio aprendomi la strada tra le auto della polizia e i camion dei pompieri.

Carl Costanza, in uniforme, dirigeva il traffico. «Sembra un destino» disse. «È la seconda auto che mandi arrosto questa settimana.»

«Non è stata colpa mia! Non è neppure la mia auto.»

«Ho sentito dire che qualcuno ha fatto lo scherzetto del sacchetto pieno di merda ai due tirapiedi di Arturo Stolle.»

«Scherzi? Immagino che tu non sappia chi è stato.»

«Buffo, stavo proprio per chiederti se ne sapevi qualcosa tu.»

«L’ho domandato prima io.» Costanza sorrise leggermente.

«No. Non so chi sia stato.»

«Neppure io» dissi.

«Sei un’ingenua» disse Costanza. «Non posso credere che ti sia fatta fregare con questa faccenda del cane di Simon.»

«In un certo senso mi piace.»

«Non lasciarlo da solo nell’auto, però.»

«Vuoi dire perché è contro la legge?»

«No: perché ha divorato il sedile della macchina di Simon. Tutto ciò che ne è rimasto erano brandelli di gommapiuma e qualche molla.»

«Grazie per avermi rivelato il segreto.»

«Immaginavo volessi saperlo.»

Me ne andai, pensando che se Bob avesse divorato il sedile della Buick quello si sarebbe probabilmente rigenerato da solo. A rischio di sembrare la nonna, cominciavo a domandarmi quale fosse il segreto di quell’auto: era come se quell’accidenti fosse impermeabile ai danni, aveva quasi cinquant’anni e la vernice della carrozzeria era in condizioni perfette. Tutto attorno le altre auto venivano ammaccate o distrutte o appiattite come frittelle, ma alla Buick non succedeva mai niente.

«È davvero un mistero» dissi a Bob, che teneva il naso schiacciato contro il finestrino, e non pareva interessarsi minimamente alla cosa.

Ero ancora sulla Hamilton quando il cellulare squillò.

«Ehi, bambina» disse Ranger. «Hai qualcosa per me?»

«Soltanto informazioni di base sulla Lotte. Vuoi sapere dove abita?»

«Passo.»

«Il grigio le sta bene.»

«Questo sì che è vitale.»

«Mmm. Siamo un po’di cattivo umore, oggi?»

«Di cattivo umore non è abbastanza. Ho un favore da chiederti. Ho bisogno che tu vada a dare un’occhiata al retro della villa di Deal. Chiunque altro della squadra sarebbe sospetto, ma una donna che passeggia col cane lungo la spiaggia non apparirà tome una minaccia al servizio di sicurezza dei Ramos. Voglio che tu faccia un inventario della casa. Conta tutte le finestre e le porte.»


C’era una spiaggia pubblica a circa quattrocento metri dalla proprietà dei Ramos.

Parcheggiai sulla strada, e Bob e io attraversammo un breve tratto di dune basse. Il cielo era nuvoloso e l’aria più fresca di come l’avevo lasciata a Trenton. Bob teneva il naso al vento ed era tutto allegro, io mi abbottonai il giubbotto fino al collo e rimpiansi di non aver portato niente di più caldo da indossare.

La maggior parte delle grandi e costose ville sulle dune era chiusa e disabitata. Onde grigie e spumeggianti ci venivano incontro con un forte sciabordio. Qualche gabbiano camminava lungo la battigia, ma niente di più. Soltanto io, Bob e i gabbiani.

Vidi la grande casa rosa, molto più esposta dal lato della spiaggia di quanto lo fosse sulla strada. Gran parte del primo piano e tutto il secondo erano chiaramente visibili. Un portico correva per tutta la lunghezza della costruzione principale e, adiacenti a questa, c’erano altri due corpi di fabbrica. L’ala nord era costituita da un piano terra adibito a garage e, sopra di esso, c’erano probabilmente le camere da letto. L’ala sud aveva due piani e sembrava interamente residenziale.

Continuai ad arrancare sulla sabbia, non volendo apparire eccessivamente curiosa mentre contavo le finestre e le porte. Semplicemente una donna che passeggiava con il suo cane e si congelava il culo. Avevo con me il binocolo ma temevo di usarlo: non volevo destare sospetti, era impossibile dire se mi stessero osservando da qualche finestra.

Bob correva attorno a me, dimentico di tutto se non della gioia di essere all’aperto. Continuai a camminare passando davanti a parecchie case, disegnai uno schizzo su un pezzetto di carta, mi voltai e tornai indietro fino alla rampa di accesso al pubblico dove avevo parcheggiato la Buick. Missione compiuta.

Bob e io salimmo in auto e, lungo la strada, passammo davanti alla casa dei Ramos un’ultima volta. Quando mi fermai all’angolo, un uomo sui sessant’anni scese dal marciapiede e venne verso di me. Indossava una tuta da ginnastica e scarpe da jogging. E agitava le braccia. «Ferma» disse. «Si fermi un momento.»

Avrei potuto giurare che si trattava di Alexander Ramos. No, era ridicolo.

Lui trotterellò dal lato del guidatore e bussò al mio finestrino. «Ha una sigaretta?» domandò.

«Gesù… oh, no.»

Mi fece cenno di dargli ascolto. «Mi accompagni al negozio per comprare delle sigarette. Ci vorrà soltanto un minuto.»

Un accento piuttosto pesante. Il viso simile a quello di un falco. La stessa corporatura e la stessa altezza. Sembrava davvero Alexander Ramos.

«Lei vive da queste parti?» gli domandai.

«Già, vivo in quello schifo mostruoso di casa rosa. Che cosa ne dice? Mi accompagna al negozio o no?»

Mio Dio! Era Ramos. «Di solito non do passaggi agli sconosciuti.»

«Faccia un’eccezione: ho bisogno di una sigaretta. Comunque, lei ha un grosso cane sul sedile posteriore e ha anche tutta l’aria di una che dà passaggi agli sconosciuti. Che cosa crede, che sia nato ieri?»

«Non proprio ieri.»

Lui spalancò la portiera dal lato passeggero e salì in auto. «Davvero buffo. Mi tocca fare la parte di quello che fa l’autostop.»

«Non conosco la zona. Da che parte devo andare?»

«Giri lì all’angolo. C’è un negozio a circa ottocento metri.»

«Se si tratta solo di ottocento metri, perché non ci va a piedi?»

«Ho le mie ragioni.»

«Non dovrebbe fumare, eh? Non vuole che nessuno la becchi mentre va al negozio?»

«Maledetti dottori. Devo sgattaiolare fuori da casa mia solo per trovare una sigaretta.» Fece un gesto rassegnato. «E comunque non sopporto di stare in quella villa. Sembra un mausoleo popolato di cadaveri. Maledetto pezzo di merda rosa.»

«Se non le piace, perché ci vive?»

«Bella domanda. Dovrei venderla. Non mi è mai piaciuta, fin dall’inizio, ma mi ero appena sposato e mia moglie la voleva a tutti i costi. Con lei tutto doveva essere rosa.» Rifletté per un minuto. «Come si chiamava? Trixie? Trudie? Cristo, non me lo ricordo neanche.»

«Non si ricorda il nome di sua moglie?»

«Ho avuto molte mogli. Molte. Quattro. No, aspetti un minuto… cinque.»

«Adesso è sposato?»

Lui scosse la testa. «Ne ho davvero abbastanza del matrimonio. L’anno scorso mi sono operato alla prostata. Un tempo le donne mi sposavano perché avevo le palle e i soldi. Adesso mi sposerebbero soltanto per i soldi.» Scosse nuovamente la testa. «Non è sufficiente. Bisogna avere un limite, sa?»

Mi fermai davanti al negozio e lui saltò fuori dall’auto. «Non vada via. Torno subito.»

Una parte di me voleva scappare a gambe levate. Quella era la parte vigliacca. E una parte di me voleva gridare «Yahoo!» Quella era la parte cretina.

Due minuti dopo lui era di nuovo in auto e accendeva una sigaretta.

«Ehi» dissi «niente fumo in macchina.»

«Le do altri venti dollari.»

«Non voglio neanche i primi venti, e la risposta è no: niente fumo.»

«Odio questo Paese; la gente non sa vivere. Tutti bevono soltanto quella schifezza di latte magro.» Indicò l’incrocio. «Giri lì e prenda la Shoreline Avenue.»

«Dove andiamo?»

«C’è un bar che conosco.»

Proprio quello che mi serviva, che Hannibal venisse fuori a cercare il padre e trovasse me, pappa e ciccia con lui, in un bar. «Non credo che sia una buona idea.»

«Mi lascia fumare nell’auto?»

«No.»

«Allora andiamo da Sal.»

«D’accordo, l’accompagno da Sal, ma non entro.»

«Sicuro che entra.»

«Ma il cane…»

«Può venire anche lui. Gli compro una birra e un sandwich.»

Il bar di Sal era piccolo e buio. Il bancone si estendeva per tutta la lunghezza della stanza. Due vecchi stavano seduti a un’estremità, a bere e a guardare la televisione. Alla sinistra della porta c’erano tre tavoli vuoti. Ramos ne scelse uno e si sedette.

Senza bisogno di chiedere, il barista portò a Ramos una bottiglia di ouzo e due bicchierini. Nessuno parlò. Ramos bevve un bicchierino. Poi si accese una sigaretta e si riempì di fumo i polmoni. «Ahh» fece espirando.

A volte invidio le persone che fumano: sembrano sempre così felici quando inspirano quella prima boccata di catrame. Non mi viene in mente niente che renda me così felice. Forse la torta di compleanno.

Ramos si versò ancora da bere e spinse la bottiglia verso di me.

«No, grazie» dissi. «Devo guidare.»

Lui scosse la testa. «Che Paese da signorine.» Ingollò il secondo bicchierino. «Non mi fraintenda. Alcune cose mi piacciono, d’accordo. Mi piacciono le grandi macchine americane. E mi piace il football americano. E mi piacciono le donne americane con grandi tette.»

Oh, Signore.

«Chiede spesso dei passaggi alla gente?» gli domandai.

«Ogni volta che posso.»

«Non crede che sia pericoloso? Immagini se venisse caricato da un pazzo.»

Lui tirò fuori una calibro .22 dalla tasca. «Gli sparo.» Posò la pistola sul tavolo, chiuse gli occhi e inspirò un’altra boccata di fumo. «Lei vive da queste parti?»

«No. Vengo solo una volta ogni tanto per far passeggiare il cane. Gli piace gironzolare sulla spiaggia.»

«Che cos’è quel cerotto sul mento?»

«Mi sono tagliata facendomi la barba.»

Lui gettò un biglietto da venti sul tavolo e si alzò in piedi. «Tagliata facendosi la barba. Mi piace. Lei è un bel tipo. Può portarmi a casa adesso.»

Lo feci scendere un isolato prima di casa sua.

«Torni domani» disse. «Alla stessa ora. Forse potrei assumerla come autista personale.»

Quando io e Bob rientrammo a casa la nonna stava apparecchiando la tavola per la cena.


Il Luna era sprofondato sul divano a guardare la televisione. «Ehi» disse «come va?»

«Non mi lamento» risposi. «E tu, come va?»

«Non lo so, piccola. È difficile credere che il Commerciante non ci sia più. Pensavo che lui ci sarebbe stato per sempre. Voglio dire, ci faceva comodo. Lui era il Commerciante.» Scosse la testa. «È una cosa che sconvolge il mio mondo, piccola.»

«Deve solo bollire un altro po’ e poi raffreddarsi» disse la nonna. «E dopo faremo una bella cenetta. Mi è sempre piaciuto avere compagnia per cena. Specialmente se si tratta di un uomo.»

Non ero sicura che il Luna potesse essere considerato un uomo. Lui era una specie di Peter Pan, trascorreva un sacco di tempo nell’Isola che non c’è.

Bob uscì dalla cucina, andò dal Luna e lo annusò per bene in mezzo alle gambe.

«Ehi, piccolo, non al primo appuntamento, ragazzo.»

«Mi sono comprata un’auto, oggi» disse la nonna. «E il Luna me l’ha portata a casa.»

Spalancai la bocca per lo stupore. «Ma tu hai già un’auto. Hai la Buick dello zio Sandor.»

«Vero. E non mi dispiace, credo che sia una gran macchina. Ho solo deciso che non era adatta alla mia nuova immagine. Ho pensato che mi serviva qualcosa di più sportivo. Louise è venuta a prendermi: aveva sentito dire della liquidazione del Commerciante, e così, naturalmente, ci siamo sbrigate per fare incetta di Metamucil, quel lassativo che è stato proibito. E poi, mentre eravamo lì, ho comprato l’auto.»

«Hai comprato un’auto da Dougie?»

«Puoi scommetterci. Ed è una bellezza.»

Lanciai al Luna un’occhiata che, nell’intenzione, doveva essere fulminante, ma con lui era sprecata. La gamma emotiva del Luna non andava oltre la tenerezza.

«Aspetta di vedere l’auto di tua nonna» disse. «È una macchina eccellente.»

«È una macchina per pupe» aggiunse la nonna. «Sembro una diva.»

Più che altro, il marito di una diva, pensai. Ma, ehi, se questo faceva felice la nonna allora andava benissimo anche a me. «Che macchina è?»

«È una Corvette» disse la nonna. «Ed è rossa.»

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