Il coniglio scomparve dietro un cespuglio e il cagnolino nero corse come un fulmine al suo inseguimento, poi si fermò di colpo, puntando le zampe in avanti, scivolando per qualche passo sul terreno. Sul sentiero era fermo un lupo, che stringeva tra le fauci il corpo insanguinato e sussultante del coniglio.
Ebenezer rimase immobile, ansando, con la lunga lingua rossa che gli pendeva dalla bocca, quasi si sentì mancare, e avvertì un senso di nausea e di disgusto, alla vista di quello spettacolo.
Era stato un coniglio così grazioso!
Si udì uno scalpiccio sul sentiero, dietro di lui, e Ombra sbucò come una freccia dal cespuglio, e si fermò accanto a Ebenezer, di colpo.
Il lupo spostò il suo sguardo infuocato dal cane al piccolissimo robot, e poi di nuovo al cane. La gialla luce della ferocia lentamente si spense negli occhi della belva.
«Non avresti dovuto fare questo, Lupo,» disse Ebenezer, con dolcezza. «Il coniglio sapeva che io non gli avrei fatto del male e che era tutto un gioco. Ma ti è corso incontro e tu lo hai azzannato.»
«È inutile parlargli,» sibilò Ombra, dall’angolo della bocca. «Non capisce una parola di quello che dici. Tu continua a parlare, e ti ritroverai inghiottito dal lupo.»
«No, con te vicino non lo farà,» disse Ebenezer. «E poi mi conosce. Ricorda l’inverno passato. Faceva parte del branco che abbiamo sfamato.»
Il lupo fece un passo avanti, lentamente, e poi un altro, con infinita prudenza, finché non più di mezzo metro lo separò dal cagnolino. E poi, molto lentamente, molto cautamente, posò il coniglio al suolo spingendolo col muso verso Ebenezer.
Ombra produsse un suono sottile che era quasi un ansito di meraviglia.
«Lo sta dando a te!»
«Lo sapevo,» disse Ebenezer, con calma. «Te l’ho detto che doveva ricordarsi di me. È quello che aveva l’orecchio congelato, e che Jenkins ha curato.»
Il cane avanzò di un passo, muovendo la coda, col naso all’insù. Il lupo si irrigidì, per un istante, poi chinò il suo testone pauroso e fiutò. Per un istante i due nasi, quello del cane e quello del lupo, quasi si toccarono, e poi il lupo indietreggiò.
«Andiamocene da qui,» lo pregò Ombra. «Fatti precedere da lui lungo il sentiero, e io chiuderò la marcia. Se cerca di fare qualcosa…»
«Non cercherà di fare niente,» disse Ebenezer, seccamente. «È un amico nostro. Non è colpa sua, se ha preso il coniglio. Lui non capisce. Lui vive così. Per lui il coniglio è solo un pezzo di carne da mangiare.»
Proprio come un giorno lo era per noi, pensò. Com’era per noi ancor prima che il primo cane sedesse insieme a un uomo davanti al fuoco scoppiettante all’imboccatura di una buia caverna… e per molto tempo, dopo di allora. Perfino adesso un coniglio, qualche volta…
Muovendosi lentamente, con aria quasi di scusa, il lupo avanzò, e raccolse di nuovo il coniglio tra le fauci enormi. La sua coda si mosse… non scodinzolando, non proprio, ma quasi.
«Hai visto!» esclamò Ebenezer, e il lupo fuggì. Le zampe della belva si mossero veloci, e ci fu una grigia macchia veloce che si allontanava e scompariva tra gli alberi… una ombra grigia che si confuse con le verdi ombre della foresta.
«Se l’è ripreso,» disse Ombra, furibondo. «Che razza di sporco…»
«Però me l’aveva dato,» disse Ebenezer, trionfante. «Solo che aveva fame, tanta da non resistere fino all’ultimo. Ha fatto qualcosa che nessun lupo ha mai fatto prima di lui. Per un momento è diventato qualcosa di più di un animale.»
«Che modo di fare un dono,» sbuffò Ombra, disgustato.
Ebenezer scosse il capo.
«Si vergognava, quando se l’è ripreso. Hai visto come scondizolava. In quel modo cercava di spiegarmi… spiegarmi che aveva fame, e che aveva bisogno del coniglio. Ne aveva molto più bisogno di me.»
Il cane si guardò intorno, guardò le cupole verdi degli alberi e i verdi sentieri del bosco, cattedrali silenziose di foglie di una foresta fatata; annusò l’odore delle foglie marcite e delle foglie gialle che tremolavano ancora sospese ai rami, respirò il profumo inebriante degli anemoni e dell’erba umida e del biancospino in fiore, fiutò l’aroma penetrante e pungente delle nuove foglie, delle gemme dischiuse, dei boschi nei primi giorni della primavera.
«Forse, un giorno…» mormorò.
«Sì, lo so,» disse Ombra. «Forse un giorno anche i lupi diventeranno civili. E con loro i conigli e gli scoiattoli e tutte le altre creature selvagge. Se voi cani continuate a gingillarvi con queste idee…»
«Non ci gingilliamo, come tu dici,» rispose Ebenezer. «Sognamo, forse. Gli uomini erano soliti sognare. Sedevano in qualche luogo e pensavano a tante cose, a quelle che c’erano e a quelle che avrebbero potuto esserci. È così che noi cani siamo venuti al mondo. Un uomo che si chiamava Webster ci ha concepiti nei suoi sogni. Poi ha lavorato su di noi, per avverare questi sogni. Ha modificato la nostra gola, in modo che noi potessimo parlare. Ci ha costruito delle speciali lenti di contatto, in modo che noi potessimo leggere. Ci ha…»
«È servito molto, agli uomini, tutto il loro sognare,» disse Ombra, stizzosamente.
E questa è la solenne verità, pensò Ebenezer. Non sono rimasti molti uomini, ormai. Ci sono soltanto i mutanti, chiusi nelle loro torri cupe, intenti alle loro occupazioni che nessuno conosce, che nessuno può immaginare… e c’è la piccola colonia di veri uomini che sopravvive ancora a Ginevra. Gli altri, tanto tempo fa, sono andati su Giove. Sono andati su Giove per trasformarsi in creature che non erano umane.
Lentamente, con la coda bassa e ciondolante, Ebenezer si girò, e cominciò a salire per il sentiero.
Che peccato per il coniglio, pensò. Era stato un coniglio così grazioso. Aveva corso così bene. E non aveva mai avuto paura, in realtà. Gli aveva dato la caccia tante e tante volte, e il coniglio sapeva che lui non l’avrebbe mai preso.
Malgrado ciò, Ebenezer non riusciva a biasimare il lupo. Per un lupo un coniglio non era soltanto un passatempo, un diversivo, una preda cui dare la caccia così, per gioco. Perché il lupo non aveva greggi che gli dessero la carne e il latte di cui aveva bisogno, non aveva campi dorati di grano da mietere per preparare biscotti.
«Sai cosa dovrei fare?» grugnì l’implacabile Ombra, che lo seguiva dappresso. «Dovrei dire a Jenkins che sei venuto qui. Lo sai che dovresti ascoltare, in questo momento.»
Ebenezer non rispose, e continuò a trotterellare per il sentiero. Perché quello che aveva detto Ombra era vero. Invece che dare la caccia ai conigli, lui avrebbe dovuto starsene accucciato nella Casa dei Webster, avrebbe dovuto starsene accucciato ad ascoltare… ad ascoltare le cose che giungevano fino a lui… ì rumori e gli odori e la consapevolezza di qualcosa che era vicino. Era come ascoltare tenendo l’orecchio appoggiato a una parete ciò che accadeva nella stanza vicina, solo che i suoni erano deboli, e i profumi e gli odori fievoli, e a volte molto lontani e difficili da afferrare. Ed era ancora più difficile comprenderli, a volte.
È l’animale che vive dentro di me, pensò Ebenezer. Il vecchio cane, pieno di pulci, quello che masticava un osso succulento e scavava tra le aiuole del giardino, il vecchio cane che non vuole andarsene, che non mi vuole lasciare… che mi spinge a fuggire nel bosco per andare a caccia di conigli, mentre invece dovrei essere in casa ad ascoltare, che mi spinge a respirare l’aria verde della foresta, a esplorare la profondità dei boschi e dei sentieri tra il verde, mentre invece dovrei essere in casa, a leggere i vecchi libri che riempiono gli scaffali della biblioteca dello studio.
Troppo in fretta, si disse. Siamo cresciuti troppo in fretta. Abbiamo dovuto crescere troppo in fretta, ed è stato superiore alle nostre forze.
L’uomo ha impiegato migliaia di anni per trasformare i suoi grugniti rauchi in parole, in un discorso intelligibile, nei primi rudimenti di una lingua, e poi ci sono volute altre migliaia di anni per scoprire il fuoco, e ancora molte altre migliaia di anni per inventare l’arco e la freccia… migliaia di anni per imparare ad arare la terra e a mietere il raccolto per avere del cibo, migliaia e migliaia d’anni ancora per abbandonare la caverna oscura e vivere in una casa costruita con le proprie mani.
E noi? Noi, dopo poco più di mille anni dal giorno in cui abbiamo imparato a parlare, ci siamo ritrovati da soli… da soli, in balia di noi stessi… non proprio, però, perché noi abbiamo avuto Jenkins.
La grande cattedrale della foresta si dissolse, intorno a lui, gli alberi e i cespugli si fecero più radi, apparve un grande prato sul quale si ergevano qua e là grandi querce nodose che si inerpicavano sul fianco della collina, simili a grandi vecchi zoppicanti che si fossero fermati ai bordi del sentiero, incapaci di riprendere l’ascesa, incapaci di ritrovare la strada, fermi là, immobili, stanchi e silenziosi.
La casa sorgeva sulla cima della collina, una forma massiccia e austera che pareva aver messo radici nella terra, che pareva acquattarsi più vicina alla terra per sentirne la calda, umida presenza vitale. Era così antica che aveva acquistato il colore delle cose che la circondavano, dell’erba e dei fiori e degli alberi, del cielo e del vento e delle stagioni. Una casa costruita da uomini che l’avevano amata, avevano amato lei e la terra che la circondava, così come i cani, ora, amavano quella casa e quella terra amica. Costruita, abitata e abbandonata morendo da una famiglia leggendaria che era passata, producendo la scia di una stella cadente, attraverso lunghi secoli della lunga strada del tempo. Da uomini che avevano donato le loro ombre alle storie che si narravano intorno al focolare ardente nelle notti di bufera, quando il vento ululava tempestoso tra le foglie delle querce lontane. Quelle storie parlavano di Bruce Webster e del suo primo cane, Nathaniel; di un uomo di nome Grant che aveva dato a Nathaniel un messaggio, una torcia che brillava nel tempo e che doveva essere passata di cane in cane, nelle generazioni future; di un altro uomo che aveva cercato di raggiungere le stelle e del vecchio che lo aveva aspettato invano, seduto sullo sdraio nel prato verde. E altre storie parlavano dei mutanti, gli orchi crudeli che i cani avevano sorvegliato per lunghi anni.
E adesso gli uomini se ne erano andati e la famiglia era solo un nome e i cani portavano avanti la torcia come Grant aveva detto a Nathaniel, in quel giorno lontano, di continuare a fare per sempre.
Come se voi foste gli uomini, come se i cani fossero gli uomini. Erano queste le parole la cui eco si era spenta da dieci lunghi secoli, erano queste le parole che i cani avevano detto ai cuccioli e i cuccioli avevano trasmesso in tono grave ai loro cuccioli… e alla fine il tempo era venuto.
I cani erano tornati a casa quando gli uomini se ne erano andati, erano venuti dai più lontani angoli della Terra, erano ritornati al luogo dove il primo cane aveva pronunciato la prima parola, dove il primo cane aveva letto la prima riga di scrittura… erano tornati alla Casa dei Webster, dove un uomo, il cui ricordo si confondeva nelle nebbie del passato e della leggenda, aveva sognato un grande sogno nel quale il cane e l’uomo percorrevano insieme il lungo sentiero dei secoli, mano nella zampa.
«Abbiamo fatto del nostro meglio.» disse Ebenezer, come se stesse parlando a qualcuno. «Abbiamo tentato con tutte le nostre forze. Anche adesso lo stiamo facendo.»
Dall’altro fianco del colle venne lo scampanio cristallino dai campanacci, insieme a un coro di guaiti allegri, insieme a un abbaiare frenetico e ansioso. I cuccioli riportavano le vacche dal pascolo, per la mungitura della sera.
La polvere dei secoli giaceva immobile sotto la volta, innumerevoli briciole di polvere, una polvere finissima che non era una cosa estranea, ma faceva parte del luogo stesso… era la parte che era morta con il passare degli anni.
Jon Webster respirò l’odore acre della polvere che dominava la stanza, insieme all’odore di muschio e di cose ingiallite e di cose andate per sempre, Jon Webster ascoltò il silenzio pulsare come una canzone muta dentro di lui. Una fioca lampada al radium ardeva sul pannello, il pannello con la sua ruota e l’interruttore e mezza dozzina di quadranti.
Timoroso di turbare il silenzio che aveva il profumo del sonno e della pace, Webster si mosse quasi in punta di piedi, rispettoso del peso del tempo che pareva scendere su di lui dalla volta. Allungò una mano e col dito toccò l’interruttore scoperto, quasi che avesse pensato di non trovarlo, in realtà, quasi che avesse dovuto sentire il suo contatto sul dito per accettarne la presenza.
E non era illusione, era là, vero e solido. L’interruttore e la ruota e i quadranti, e la luce solitaria che ardeva dolcemente sopra il pannello. E non c’era altro, solo quello. In tutta quella cripta piccola e spoglia, sotto la volta polverosa del tempo, non c’era altro.
Esattamente come l’antica mappa aveva indicato.
Jon Webster scosse il capo, pensando, Avrei dovuto saperlo che ci sarebbe stata. La mappa aveva ragione. La mappa ricordava. Siamo stati noi a dimenticare… a dimenticare, o a non avere mai saputo, o a non averci mai pensato. Forse a non averci mai dato importanza. E sapeva che quest’ultima ipotesi doveva essere quella giusta, perché loro non se ne erano mai curati. Perché loro non ci avevano mai pensato.
Anche se, probabilmente, pochissimi oltre a lui avevano mai saputo dell’esistenza di quella cripta. Non l’avevano mai saputo perché era bene che pochi, pochissimi sapessero. Il fatto che essa non fosse mai stata usata non spiegava il suo abbandono. Doveva esserci stato un giorno, un tempo…
Fissò il pannello, meditabondo. Lentamente, alzò di nuovo la mano e poi la lasciò ricadere sul fianco. Meglio di no, si disse, meglio di no. Perché la mappa non gli aveva offerto alcun indizio sulla funzione della cripta, sulla funzione dell’interruttore.
«Difesa,» aveva detto la mappa, e questo era stato tutto.
Difesa! Certo, avrebbe dovuto esserci una difesa, in quei giorni lontani di mille anni prima. Una difesa della quale mai c’era stato bisogno, ma una difesa necessaria, una difesa contro ogni eventualità che fosse scaturita dall’incertezza, perché anche allora l’amicizia, la fratellanza tra i popoli e tra i singoli uomini erano state cose precarie, costruzioni fragili e traballanti che una sola parola e una sola azione avrebbero potuto sconvolgere, compromettendone per sempre l’equilibrio. Anche dopo dieci secoli di pace, il ricordo della guerra era stato una cosa viva… una possibilità sempre presente alla mente della Commissione Mondiale, una possibilità da temere e da evitare, una possibilità alla quale bisognava essere sempre pronti.
Webster rimase ritto e immobile di fronte al pannello, ascoltando il pulsare lento del cuore della storia, che si udiva vicinissimo in quella stanza silenziosa. La storia, che aveva raggiunto la fine della strada, e aveva scoperto che si trattava di un vicolo cieco… una corrente che si era gettata impetuosa contro una diga e aveva formato uno stagno di poche centinaia di futili vite umane, e che ora era uno stagno torbido e immobile, sulla cui superficie non si agitavano le onde delle lotte e dei trionfi umani.
Allungò la mano, e l’appoggiò alla parete di pietra, e sentì il freddo viscido, lo strisciare sottile della polvere sotto la sua carne.
Le fondamenta dell’impero, pensò. I sotterranei dell’impero. La pietra più nascosta e segreta, la prima pietra della costruzione torreggiante che svettava in tutta la sua forza orgogliosa sulla superficie, sopra di lui, molto in alto… un grande edificio che nei tempi antichi aveva pulsato e brulicato di vita e di lavoro, della vita e del lavoro di un intero sistema solare, un impero non nel senso della conquista, ma un impero di ordinati rapporti umani basati sul rispetto reciproco e sulla comprensione e sulla tolleranza.
La sede del governo umano avrebbe guadagnato fiducia e tranquillità solo in virtù della consapevolezza psicologica dell’esistenza di una difesa adeguata e invalicabile. Perché doveva trattarsi di una difesa adeguata e sicura, era necessario che fosse così. Gli uomini di quei tempi non correvano rischi, non trascuravano nessuna possibilità. Si erano formati a una scuola dura, e sapevano come procedere e dove procedere e quali mezzi impiegare per procedere con più sicurezza.
Lentamente, molto lentamente, Webster si voltò, e abbassò lo sguardo per fissare le orme che i suoi piedi avevano tracciato nella polvere. Silenziosamente, muovendosi con prudenza, seguendo la pista che lui aveva tracciato, Webster lasciò la cripta, chiuse alle sue spalle la porta massiccia e fece scattare la serratura dalla combinazione automatica che aveva conservato per tanti secoli quel riposto segreto.
Salendo per la scala a spirale, pensò, Adesso posso scrivere la mia storia. I miei appunti sono quasi completi, e so come devo procedere, e so quali argomenti trattare. Sarà un’opera brillante ed esauriente, e potrebbe anche essere interessante, se qualcuno volesse leggerla.
Ma sapeva che nessuno l’avrebbe letta. Sapeva che nessuno avrebbe voluto perdere tempo a leggerla. Sapeva che nessuno se ne sarebbe curato.
Per un lungo istante Webster si fermò sull’ampia scalea di marmo che adornava la sua casa, e guardò la strada. Una bella strada, si disse, la più bella strada di tutta Ginevra, con i suoi grandi viali alberati, le sue aiuole fiorite, i marciapiedi che brillavano stupendi, accuditi notte e giorno dai robot che non si stancavano mai di lavorare.
Non si vedeva nessuno per la strada, e questo non era strano. I robot avevano terminato il loro lavoro presto, quel giorno, e c’erano pochi uomini.
Dall’alto di qualche cima d’albero un uccello fece udire la sua canzone, e la canzone era una nota che si fondeva col canto del sole e dei fiori, una canzone felice che sgorgava da una gola ardente, una canzone che vibrava e tremava di una gioia senza confini.
Una grande, bella strada addormentata sotto il sole, e una grande città orgogliosa che aveva perduto il suo scopo. Una strada che avrebbe dovuto essere piena di bambini spensierati e di coppie d’innamorati a passeggio e di vecchi che si riposavano sotto il sole. E una città, l’ultima città della Terra, la sola città della Terra, che avrebbe dovuto essere piena di rumore e di lavoro e di vita.
Un uccello cantava e un uomo indugiava sulla scalea di marmo e guardava i tulipani che chinavano il capo beatamente al passaggio della lieve brezza profumata che accarezzava le strade.
Webster si voltò e aprì la porta, e varcò la soglia.
La sala era silenziosa e solenne, e ricordava una cattedrale, con le sue finestre di vetro colorato e i tappeti soffici. Il legno antico riluceva della patina dei secoli e l’argento e l’ottone mandavano brevi scintille quando la luce che pioveva dalle finestre alte e sottili li toccava. Sopra il grande caminetto era appeso un quadro massiccio, dipinto in colori tenui e sommessi… una casa su una collina, una casa che aveva messo radici nella terra e si aggrappava alla terra con una stretta gelosa e possessiva. Del fumo usciva dal comignolo, strisce sottili di fumo frustato dal vento, fumo tenue che si confondeva in un grigio cielo di tempesta.
Webster attraversò lentamente la stanza e i suoi passi non si udirono nel silenzio. I tappeti, pensò, i tappeti proteggono la quiete di questo luogo. Randall voleva rifare anche questa stanza, anche il mio studio, ma io non gli ho permesso di toccarlo e ne sono lieto. Un uomo deve conservare qualcosa di antico, qualcosa a cui si possa aggrappare, qualcosa che rappresenti un’eredità e una missione e una promessa.
Raggiunse la sua scrivania, sfiorò col dito un soprammobile, e la luce si accese. Lentamente, sedette su una poltrona, allungò la mano per prendere un incartamento di appunti. Lo aprì e lesse la prima pagina, dove figurava il titolo: «Studio dello Sviluppo Funzionale della Città di Ginevra.»
Un bel titolo. Dignitoso ed erudito. E tanto, tanto lavoro. Venti anni di lavoro. Venti anni passati a frugare tra vecchi documenti polverosi, venti anni di studi e letture e confronti, di valutazione del peso e delle parole di coloro che erano venuti prima, di correzioni e di cancellature e di elaborazione dei fatti, venti anni trascorsi a tracciare la strada percorsa non solo dalla città, ma dagli uomini. Nessuna divinizzazione di inesistenti eroi, nessuna concessione al mito, nessuna leggenda, ma soltanto fatti. E i fatti sono difficili da rintracciare.
Qualcosa frusciò. Non furono dei passi, ma un fruscio, la sensazione che qualcuno era vicino. Webster sollevò lo sguardo. Un robot era in piedi, appena fuori del circolo di luce che irradiava dalla scrivania.
«Chiedo scusa, signore,» disse il robot, «Ma mi è stato chiesto di avvertirla. La signorina Sara la sta aspettando sulla Spiaggia.»
Webster rimase lievemente sorpreso.
«La signorina Sara, hai detto? È molto tempo che non viene qui.»
«Sì, signore,» disse il robot. «Mi è parso di ritornare ai vecchi tempi, signore, quando lei è apparsa sulla porta.»
«Grazie, Oscar, per avermelo detto,» fece Webster. «Vado subito. Tu ci porterai qualcosa da bere.»
«La signorina ha portato lei da bere, signore,» disse Oscar. «Qualcosa preparato dal signor Ballentree.»
«Ballentree!» esclamò Webster. «Spero che non sia veleno.»
«Ho osservato la signorina,» gli disse Oscar, «E lei ha bevuto, e sta ancora bene.»
Webster si alzò, attraversò la stanza e percorse lentamente il corridoio, aprì una porta e lo sciacquio delle onde lo raggiunse. Socchiuse gli occhi, per proteggerli dalla luce che brillava sulla sabbia infuocata, la sabbia che si stendeva come una lunga linea bianca fino all’orizzonte. Davanti a lui l’oceano era un diamante azzurro bagnato dal sole, un grande specchio azzurro sul quale si rincorrevano bianchi cappucci di spuma.
La sabbia scricchiolò sotto ai suoi piedi, quando lui si fece avanti, non appena gli occhi si furono abituati alla luce ardente del sole.
Vide che Sara era seduta su una delle sedie a sdraio dai vivaci colori, sotto le palme, e accanto allo sdraio c’era un’anfora dipinta a pastello, molto femminile.
L’aria aveva un profumo salmastro e il vento che spirava dal mare era fresco e alleviava la calura del sole battente.
La donna lo sentì arrivare e si alzò e lo aspettò, tendendo le mani. Lui affrettò il passo, si mise a correre, le strinse le mani tese e la guardò a lungo.
«Non sei invecchiata di un minuto,» le disse. «Bella come il primo giorno che ti ho vista.»
Lei gli sorrise, con gli occhi pieni di luce.
«Anche tu, Jon. Un po’ di grigio sulle tempie. Un po’ più bello di allora. Ecco tutto.»
Lui rise.
«Ho quasi sessant’anni, Sara. La mezza età comincia a farsi sentire.»
«Ti ho portato qualcosa.» disse Sara. «Uno degli ultimi capolavori di Ballentree. Ti farà sentire la metà dei tuoi anni.»
Webster emise un brontolio.
«Mi meraviglio che Ballentree non abbia ancora ucciso mezza Ginevra, con le bevande che prepara.»
«Questa è davvero buona.»
Lo era davvero. Scendeva dolcemente in gola e possedeva un sapore strano, tra il metallico e l’estatico.
Webster prese un altro sdraio, lo spostò vicino a quello di Sara, e sedette, voltandosi a guardare la donna.
«È così bello questo posto,» disse Sara, «È stato Randall a farlo, non è vero?»
Webster annuì.
«Si è divertito più che al circo. Sono stato costretto a mandarlo via a bastonate. E quei suoi robot! Sono più pazzi di lui.»
«Ma fa delle cose meravigliose. Ha creato una stanza marziana per Quentin, ed è una cosa semplicemente stupenda… di un altro mondo!»
«Lo so,» disse Webster. «Voleva ricreare lo spazio profondo, qui. Diceva che sarebbe stato il luogo ideale per riflettere e pensare. Se l’è presa con me, quando non gli ho permesso di farlo.»
Si fregò il dorso della mano sinistra col pollice della destra, meccanicamente, come per una vecchia abitudine, mentre il suo sguardo si perdeva nella lontana nebbia azzurrina che confondeva l’orizzonte tra cielo e mare. Sara si mosse, gli prese la mano con dolcezza, per allontanargli il pollice.
«Hai ancora i porri,» gli dissi.
Lui sorrise.
«Sì. Avrei potuto farmeli togliere, ma non l’ho mai fatto. Sono stato troppo occupato. E adesso, ormai, fanno parte di me.»
Lei gli lasciò andare la mano, e lui ricominciò a sfregare i porri, con la mente perduta lontano.
«Sei stato occupato,» disse Sara. «Non ti si è visto molto in giro. Come va il libro?»
«Sono pronto a scriverlo,» disse Webster. «Ormai l’ho già diviso in capitoli. Oggi ho controllato l’ultimo dato che mi mancava. Dovevo essere sicuro, capisci? Si trattava di un posto nei sotterranei del vecchio Palazzo dell’Amministrazione Solare. Una specie di dispositivo di difesa. La sala di comando. Basta abbassare un interruttore, e…»
«E…?»
«Non lo so,» disse Webster. «Sarà una difesa efficace, immagino. Potrei cercare di scoprirne la natura, ma non ne ho il coraggio. Ho scavato troppo nella polvere del passato, in questi vent’anni, per affrontarne dell’altra.»
«Mi sembri scoraggiato, Jon. Stanco. E non dovresti stancarti, non ne hai alcun motivo. Dovresti muoverti un poco, riscuoterti… Desideri un altro bicchiere?»
Lui scosse il capo.
«No, Sara, grazie. Non sono dell’umore adatto. Ho paura, Sara… ho paura.»
«Paura?»
«Di questa stanza,» disse Webster. «È un’illusione. Specchi che ti danno l’illusone della distanza. Ventilatori che soffiano l’aria attraverso spruzzi di salsedine, pompe che muovono le onde. Un sole artificiale. E se non mi piace il sole, basta che io prema un bottone e avrò la luna.»
«Un’illusione,» disse Sara.
«È proprio così,» fece Webser. «È tutto quello che abbiamo. Non abbiamo nessun vero lavoro, non abbiamo nessun vero compito. Non c’è niente in vista per noi, non c’è nessuno scopo, e non c’è neppure una méta. Io ho lavorato per vent’anni e scriverò un libro che neppure un’anima si degnerà di leggere. Basterebbe che qualcuno passasse un po’ di tempo a leggerlo, ma nessuno troverà il tempo di farlo, nessuno se ne curerà. Basterebbe che qualcuno venisse a chiedermi una copia… e non dovrebbe prendersi neppure il disturbo, perché se sapessi che qualcuno vuole leggere il mio libro, sarei tanto felice da portarglielo io di persona. Ma nessuno si prenderà il disturbo. Il libro andrà a coprirsi di polvere negli scaffali, con tutti gli altri che sono stati scritti. E che cosa ne otterrò? Aspetta… te lo dico io. Venti anni di lavoro, venti anni passati a ingannare me stesso, venti anni di ragione, Sara, venti anni inutili.»
«Lo so,» disse Sara, dolcemente. «Lo so, Jon. Gli ultimi tre quadri…»
Lui sollevò lo sguardo, in fretta.
«Ma, Sara…»
Lei scosse il capo.
«No, Jon. Nessuno li ha voluti. Sono passati di moda. Il naturalismo è superato. Adesso va l’impressionismo. Tutte croste inutili…»
«Siamo troppo ricchi.» disse Webster. «Abbiamo troppo. Ci è rimasto tutto… tutto e niente. Quando l’Umanità è andata su Giove, i pochi che sono rimasti hanno ereditato la Terra, e la Terra era troppo grande per loro. Non sono riusciti a tenerla in pugno. Non l’hanno saputa usare, non hanno saputo che farsene, della Terra. Certo, pensavano di possederla, ma erano loro posseduti. Posseduti e dominati e intimoriti dalle cose che erano venute prima di loro.»
Lei allungò la mano, e gli toccò il braccio.
«Povero Jon,» disse.
«Non possiamo continuare a chiudere gli occhi,» disse. «Un giorno qualcuno di noi dovrà affrontare la verità, dovrà ricominciare da capo… dovrà ricominciare senza niente in mano.»
«Io…»
«Sì? Che c’è, Sara?»
«Sono venuta qui a dirti addio.»
«Addio?»
«Ho deciso di prendere il Sonno.»
Webster balzò in piedi subito, inorridito.
«No, Sara!»
Lei scoppiò a ridere e fu una risata tesa e forzata.
«Perché non vieni con me, Jon? Poche centinaia d’anni. Forse sarà tutto diverso, quando ci sveglieremo.»
«Solo perché nessuno vuole più i tuoi quadri. Solo perché…»
«Solo per quello che hai detto tu poco fa. Jon. Illusioni. Illusioni, Jon. Lo sapevo, lo sentivo, ma non riuscivo ad esprimerlo.»
«Ma anche il Sonno è illusione.»
«Lo so. Ma non mi rendo conto che è illusione. Quando lo provi, ti sembra reale. Non hai più inibizioni e non hai più paure, se non le paure che vengono programmate deliberatamente. È naturale, Jon… più naturale della vita. Sono andata al Tempio e là mi hanno spiegato ogni cosa.»
«E quando ci si sveglia?»
«Si è armonizzati. Si è armonizzati con qualsiasi vita si viva nell’epoca del tuo risveglio. Come se fosse la tua epoca, come se vi avessi vissuto sin dall’inizio. E potrebbe essere un’epoca migliore di questa. Chi può dirlo? Potrebbe essere un’epoca migliore di questa.»
«Non sarà migliore,» le disse Jon, scuro in volto. «A meno che qualcuno non decida di fare qualcosa per cambiare. Fino a quel giorno non cambierà niente. E una persona che si rifugia nel Sonno per nascondersi non potrà sperare di cambiare niente.»
Sara sobbalzò, e improvvisamente Webster provò un po’ di vergogna.
«Mi dispiace, Sara. Non parlavo di te. Né di nessun altro in particolare. Parlavo di tutti noi, nel complesso.»
Le palme stormivano raucamente, mosse da un vento che non era vento. Piccole pozze d’acqua, lasciate dalle ondate che si ritiravano dalla spiaggia, scintillavano debolmente sotto il sole.
«Non cercherò di dissuaderti,» disse Webster. «Tu hai avuto modo di riflettere, tu sai quello che vuoi.»
Ma il genere umano non è sempre stato così, pensò. Un giorno, mille anni or sono, un uomo si sarebbe opposto a una decisione del genere. Avrebbe trovato la forza di discutere, di obiettare, di convincere. Oggi non più. Il juwainismo ha posto fine a tutti i litigi meschini. Il juwainismo ha posto fine a tante, tante cose!
«Ho sempre pensato,» gli disse Sara, dolcemente. «Che se avessimo potuto restare insieme…»
Lui fece un gesto d’impazienza.
«Si tratta di un’altra cosa che abbiamo perduto, un’altra cosa che la razza umana si è lasciata sfuggire. A pensarci bene, abbiamo perduto tante e tante cose… i legami familiari e il lavoro, il commercio e gli scopi di vita…»
Si voltò a guardarla con fermezza.
«Se vuoi tornare da me, Sara…»
Lei scosse il capo
«Non servirebbe a niente, Jon. Sono passati troppi anni.»
Lui annuì. Non aveva senso negare la verità.
Lei si alzò e gli tese la mano.
«Se decidessi mai di prendere il Sonno, controlla la durata del mio. Farò riservare un posto accanto al mio…»
«Non credo che lo farò mai,» le disse.
«Bene, allora. Addio, Jon.»
«Aspetta un momento, Sara. Non hai detto una sola parola su nostro figlio. Una volta lo vedevo spesso, ma…» lei rise, e questa volta fu una risata serena.
«Tom è quasi un uomo, adesso. E la cosa più strana è che lui…»
«Non lo vedo da tanto tempo,» ripeté Webster.
«Non me ne meraviglio. È difficile che venga in città. È il suo passatempo, la sua mania. Una cosa che deve avere ereditato da te. In un certo senso, potrei definirlo un pioniere; è l’unico modo per descrivere la natura del suo passatempo.»
«Intendi parlare di una nuova ricerca, di qualcosa d’insolito?»
«Bene, si tratta di qualcosa d’insolito, sì, ma non è una ricerca. Vedi, lui prende la via dei boschi, va nella foresta e vive con i propri mezzi. Lui, con pochi amici, una borsa di sale, un arco, e una freccia… e niente altro. Lo so, è strano,» ammise Sara. «Ma si diverte moltissimo. Afferma che, così facendo, impara sempre qualcosa. Dice che si tratta di una grande lezione, e tante altre cose del genere. E poi ha un aspetto così sano, così vigoroso. Sembra un lupo. Forte e asciutto e con una luce strana nello sguardo.»
Si voltò, e fece per andarsene.
«Ti accompagno alla porta,» disse Webster.
Lei scosse il capo.
«No. Preferirei che non lo facessi.»
«Dimentichi l’anfora.»
«Tienila tu, Jon. Non ne avrò bisogno, dove vado adesso.»
Webster si infilò la ’cuffia pensante’ di materia plastica, e premette il bottone che la collegava alla macchina per scrivere che si trovava sulla scrivania.
Capitolo Ventiseiesimo, pensò, e la macchina da scrivere ticchettò e gorgogliò e scrisse «Capitolo XXVI.»
Per un istante Webster fece una pausa, per chiarire le idee, per raccogliere mentalmente tutti i dati e ricordare con esattezza il prospetto dell’opera, per avere le idee precise su quanto avrebbe dovuto scrivere. Poi riprese a pensare. La macchina per scrivere ticchettò e gorgogliò, e poi ronzando uniformemente, continuò a scrivere:
Le macchine continuavano a funzionare, accudite dai robot, come già era stato prima, producendo tutte le cose che avevano prodotto in passato.
E i robot lavoravano come sapevano ch’era loro diritto lavorare, loro diritto e loro dovere, facendo tutte le cose per cui erano stati creati.
Le macchine continuavano a funzionare e i robot continuavano a funzionare, producendo ricchezza come se ci fossero stati degli uomini a goderne i frutti, come se ci fossero stati milioni di uomini e non quegli scarsi cinquemila ch’erano rimasti in realtà.
E i cinquemila ch’erano rimasti sul pianeta, volontariamente o perché erano stati abbandonati, si ritrovarono d’un tratto padroni di un mondo che aveva sostenuto milioni di individui, si ritrovarono in possesso della ricchezza e dei servizi che solo pochi mesi prima erano stati indispensabili per garantire ricchezza e servizi a milioni di cittadini umani.
Non c’era governo, ma non ve n’era necessità alcuna, perché tutti i crimini e gli abusi che il governo aveva impedito o punito venivano ora impediti con uguale, se non maggiore, efficacia dall’improvvisa ricchezza che i cinquemila rimasti avevano ereditato. Nessun uomo ruba quando può prendere ciò di cui ha bisogno senza ricorrere al furto. Nessun uomo entra in lite col suo vicino per i diritti di proprietà, quando tutto il mondo è una proprietà a disposizione di chi voglia prenderla. ’Diritto di proprietà’ divenne, dalla sera alla mattina, una frase priva di significato di un mondo che era più che sufficiente per tutti.
La violenza e il delitto erano già stati virtualmente eliminati dalla società umana da molto tempo, e quando la pressione economica venne diminuita al punto in cui il diritto di proprietà cessò di essere un elemento di frizione, la necessità di un governo scomparve completamente. Non ci fu più bisogno, anzi, di gran parte degli ingombri formalistici e tradizionalistici che l’Uomo aveva portato con sé fin dagli inizi del commercio. Non c’era più alcun bisogno di denaro, perché lo scambio non aveva più alcun significato in un mondo dove per ottenere una cosa era sufficiente chiederla o prenderla.
Le pressioni sociali si allentarono insieme alle pressioni economiche. Un individuo non trovava più necessario conformarsi al metro di giudizio e ai canoni di comportamento e alle tradizioni che avevano influito così notevolmente sul mondo pre-gioviano, nel quale il commercio aveva giocato una parte preponderante, condizionando stabilmente il comportamento dei singoli.
La religione, che aveva continuato a perdere terreno per secoli e secoli, scomparve del tutto. Il nucleo familiare, tenuto in vita dalla tradizione e dalla necessità economica del sostentamento e della protezione, si disintegrò del tutto. Uomini e donne vivevano insieme quando e come desideravano. Perché non esistevano motivi né sociali né economici che lo impedissero.
Webster, con l’abilità nata dalla lunga pratica svuotò la mente di ogni pensiero, e la macchina ronzò dolcemente, quasi con aria interrogativa. Lui sollevò le braccia, si tolse la cuffia, e rilesse l’ultimo paragrafo.
Ecco, pensò Ecco la radice di tutto. Se le famiglie fossero rimaste unite. Se Sara e io fossimo rimasti insieme.
Si fregò i porri sul dorso della mano, meditabondo. Chissà se Tom usa il mio cognome o quello di Sara. Di solito i figli prendono il cognome della madre. Anch’io seguii l’usanza, all’inizio, finché mia madre non mi chiese di cambiarlo, di usare il cognome di mio padre. Diceva che questo l’avrebbe reso felice, e a lei non importava. Affermava che mio padre era orgoglioso del nome della famiglia, e che io ero il suo unico figlio. Mentre lei ne aveva degli altri.
Se fossimo rimasti insieme. Bastava questo. Allora ci sarebbe qualcosa per cui vale la pena di vivere. Se fossimo rimasti insieme, ora Sara non prenderebbe il Sonno, non sarebbe immersa in una vasca di fluido, in stato di animazione sospesa, con la ’cuffia dei sogni’ in testa.
Chissà quale sogno ha scelto… che genere di vita artificiale ha deciso di vivere. Avrei voluto chiederglielo, ma non ne ho avuto il coraggio. Dopotutto, non sono cose, queste, che si possano domandare.
Raccolse di nuovo la cuffia, se la infilò sul capo, raccolse di nuovo i propri pensieri. La macchina per scrivere cominciò a ticchettare, pervasa subitaneamente di vita:
L’Uomo rimase attonito, immerso in uno stato di stupore che pareva sommergerlo. Ma non per molto. L’Uomo tentò di ritrovare la strada. Ma non per molto.
Perché i cinquemila rimasti non potevano portare avanti il lavoro dei milioni e milioni di esseri umani che erano andati su Giove, per iniziare una vita migliore in corpi alieni. I cinquemila superstiti non ne avevano le capacità, né i sogni, né i motivi che li spingessero.
E c’erano anche i fattori psicologici. Il fattore psicologico della tradizione che gravava come una cappa di piombo sulla mente di coloro ch’erano stati lasciati sulla Terra. Il fattore psicologico del juwainismo, che costringeva gli uomini a essere onesti con se stessi e con gli altri, che costringeva gli uomini ad avvertire, finalmente quanto fossero disperate le imprese che volevano tentare, quanto fossero inutili le cose che cercavano di fare. Il juwainismo non lasciò più spazio per il falso coraggio. E il coraggio falso, incosciente, quel coraggio che non voleva rendersi conto degli ostacoli da affrontare, dell’impossibilità di una vittoria, era la cosa della quale i cinquemila rimasti avevano più bisogno.
Ogni loro azione era schiacciata dal confronto con ciò che era stato fatto prima di loro, e alla fine essi compresero che il gigantesco sogno di milioni di anime umane era un’impresa troppo grande per cinquemila superstiti.
La vita era facile, era una buona vita. Perché preoccuparsi? C’erano cibo e indumenti e riparo, compagnia umana e lusso e divertimento… c’era tutto quello che si poteva desiderare.
L’Uomo abbandonò la lotta. Rinunciò a riprendere il cammino. L’Uomo decise di godersi la vita. La conquista umana diventò un fattore zero, e la vita umana diventò un insensato paradiso.
Webster si tolse la cuffia, allungò la mano e spense la macchina.
Se qualcuno leggesse il mio libro, quando l’avrò finito, pensò. Se qualcuno lo leggesse e capisse. Se qualcuno riuscisse a comprendere dove sta andando la vita umana.
Potrei parlare, naturalmente. Potrei dirlo agli altri. Potrei uscire dalla mia casa, e prenderli da parte uno per uno, e non lasciarli andare finché non avessi finito di esprimere il mio pensiero. E loro capirebbero, perché il juwainismo li farebbe capire. Ma non mi presterebbero attenzione. Archivierebbero le mie parole in un angolo oscuro della loro mente, come si fa con quei documenti che si pensa sempre di esaminare in futuro, ma che non si trova mai il tempo o la voglia di consultare di nuovo. Le mie parole resterebbero in un angolo della loro mente, e sarebbero dimenticate per sempre.
Loro continuerebbero a fare le cose stupide che stanno già facendo, continuerebbero a dedicarsi agli stupidi passatempi con i quali hanno creduto di sostituire il lavoro. Randall con la sua squadra di ridicoli automi se ne andrebbe in giro a supplicare i vicini per avere il permesso di rinnovare completamente le loro case. Ballentree che passa ore e ore a inventare nuove misture alcoliche. Sì, e Jon Webster che perde vent’anni a scavare nella storia di una sola città.
Una porta fece un lieve cigolio e Webster si voltò. Il robot entrò nella stanza, con il suo passo felpato.
«Sì, Oscar? Che c’è?»
Il robot si fermò, una figura indistinta nella penombra della stanza immersa nel crepuscolo.
«È l’ora di cena, signore. Sono venuto a vedere…»
«Prepara quello che vuoi,» disse Webster. «E, Oscar… prepara la legna nel caminetto.»
«La legna è già nel caminetto, signore.»
Oscar si mosse attraverso la stanza, si chinò sul caminetto. Una fiammella guizzò nella mano del robot, e la legna ben secca cominciò a scoppiettare nel caminetto.
Webster si appoggiò allo schienale della sedia, volgendo lo sguardo al fuoco, e fissò le fiamme che strisciavano crepitando verso i ceppi più grandi, li lambivano mentre il legno cominciava a sibilare e a scoppiettare più forte, e l’aria calda ansava, risucchiata su per la cappa del caminetto.
«È bello, signore, guardare il caminetto acceso,» disse Oscar.
«Piace anche a te?»
«Molto, davvero.»
«Ricordi ancestrali,» disse Webster, con grande serietà. «La memoria della fucina che ti ha forgiato.»
«Lei crede, signore?» domandò Oscar.
«No, Oscar, stavo solo scherzando. Io e te siamo due anacronismi, ecco quello che siamo. Non sono in molti ad accendere il fuoco nel caminetto, ormai… molti non hanno neppure un caminetto. Non ce n’è bisogno. Ma c’è qualcosa nel fuoco, qualcosa di pulito e di confortante.»
Fissò il quadro appeso sopra la mensola del caminetto, illuminato adesso dal riverbero delle fiamme guizzanti. Oscar seguì la direzione del suo sguardo.
«Che peccato per la signorina Sara, signore.»
Webster scosse il capo.
«No, Oscar, era una cosa che lei voleva. Come girare un bottone, spegnere una vita e cominciarne un’altra. Starà immersa nella vasca laggiù, nel Tempio, e dormirà per lunghi anni, e vivrà un’altra vita. E sarà una vita felice, Oscar, perché sarà la vita che lei ha scelto, che lei ha programmato per sé.»
I suoi ricordi tornarono ad altri giorni e ad altri tempi vissuti in quella stessa stanza.
«È stata lei a dipingere quel quadro, Oscar,» disse. «Ha lavorato a lungo, ha passato giorni e giorni cercando di afferrare con i suoi pennelli la cosa che voleva esprimere. Allora rideva di me e diceva che c’ero anch’io nel quadro.»
«Non vedo il signore nel quadro.» disse Oscar.
«No, infatti. Non ci sono. Eppure, forse, ci sono. O almeno c’è una parte di me. Una parte di ciò da cui sono venuto, Oscar, una parte del luogo dal quale sono venuto. Quella casa che vedi sul quadro. Oscar, è la Casa dei Webster, nel Nord America. E io sono un Webster. Ma sono molto lontano da quella casa… sono molto, molto lontano dagli uomini che l’hanno costruita.»
«Il Nord America non è poi tanto lontano, signore.»
«No,» disse Webster. «Non è tanto lontano, per la distanza. Ma è infinitamente lontano, sotto altri aspetti.»
Sentì che il calore del fuoco si diffondeva gentilmente nella stanza, e giungeva a toccarlo.
Lontano. Troppo lontano… e nella direzione sbagliata.
Il robot si mosse silenziosamente, con i passi felpati attutiti dal folto tappeto, e uscì dalla stanza.
Lei ha lavorato a lungo, ha passato giorni e giorni cercando di afferrare la cosa che voleva esprimere. Voleva esserne sicura.
Ed era riuscita? Non gliel’aveva mai chiesto, e lei non gliel’aveva mai detto. Lui aveva sempre pensato, ricordava, che probabilmente si era trattato del modo in cui saliva il fumo, frustato e disperso dal vento nel cielo, che forse si era trattato del modo in cui la casa stava acquattata sul terreno, fondendosi con gli alberi e con l’erba, riparandosi dalla tempesta che infuriava sulla terra.
Ma poteva anche trattarsi di un’altra cosa. Forse c’era qualche simbolismo che non riusciva ad afferrare. Qualcosa che rendeva la casa l’espressione degli uomini che l’avevano abitata e che l’avevano costruita.
Si alzò e si avvicinò al quadro, fermandosi davanti al fuoco, sollevando lo sguardo per vedere meglio. Le pennellate si vedevano bene, e il quadro perdeva parte del suo effetto, se veniva osservato da una distanza minore di quella più adatta. Si trattava di una tecnica particolare… pennellate fondamentali, e sfumature fondamentali che erano servite a creare l’illusione. Il quadro era sembrato una cosa viva. E ora, da vicino, se ne poteva vedere l’anima.
Sicurezza. Sicurezza nel modo in cui la casa si ergeva solida e massiccia. Tenacia, nel modo in cui la casa faceva parte della terra stessa. Rigidità, testardaggine e una certa malinconia.
Sara era rimasta seduta per giorni e giorni davanti al televisore, sintonizzato sulla casa, e aveva tracciato i suoi schizzi, li aveva rifatti, aveva cominciato a dipingere lentamente, e spesso era rimasta seduta a guardare, con gli occhi socchiusi, immobile, senza far nulla. C’erano stati dei cani, gli aveva detto, e dei robot, ma non li aveva messi nel quadro, perché voleva soltanto la casa. Una delle poche case rimaste in piedi nell’aperta campagna. Neglette da secoli innumerevoli, le altre case erano crollate, avevano restituito la terra agli alberi e agli sterpi e alla natura selvaggia.
Ma c’erano dei cani e dei robot in quella casa. Un robot grande, aveva detto Sara, e una legione di piccoli robot.
Webster non le aveva prestato attenzione… era stato troppo occupato.
Si voltò, ritornò lentamente alla scrivania.
Che strano, a pensarci. Robot e cani che vivevano insieme. Un Webster, un tempo, si era occupato dei cani, aveva cercato di metterli sulla strada di una civiltà propria, aveva cercato di creare una civiltà fatta di due razze sorelle, quella dell’Uomo e quella del Cane.
Vaghi frammenti di ricordi gli affollarono la mente… frammenti esili, immagini e parole fuggevoli, delle leggende che erano state tramandate negli anni sulla Casa dei Webster. C’era stato un robot chiamato Jenkins che aveva servito la famiglia fin dai primi giorni. C’era stato un vecchio seduto su una poltrona a rotelle, sul prato che si stendeva davanti alla casa, un vecchio che aveva guardato le stelle e aveva atteso un figlio che non era mai ritornato. E una maledizione era stata sospesa sulla casa, la maledizione di aver fatto perdere al mondo la filosofia di Juwain.
Il visifono era in un angolo della stanza, un mobile che faceva parte dell’arredamento e che era stato quasi dimenticato, un oggetto che non era stato quasi mai usato. Non c’era mai stato bisogno di usarlo, infatti. Tutto il mondo era là, nella città di Ginevra.
Webster si alzò, fece qualche passo in direzione del visifono, poi si fermò e cercò di ricordare. La combinazione di chiamata doveva essere sull’elenco, ma dov’era l’elenco? Probabilmente, era nascosto da qualche parte, nella scrivania.
Ritornò alla scrivania, e cominciò a frugare nei cassetti. Preso da un’ansia improvvisa, cercò in fretta, ansiosamente, come un cane che cerchi di disseppellire un osso.
Jenkins, il robot antico, si grattò il mento metallico con dita metalliche. Era una cosa che faceva quand’era profondamente immerso nei suoi pensieri, un gesto senza significato e irritante che aveva preso a fare nella sua lunghissima associazione con gli esseri umani.
I suoi occhi tornarono a posarsi sul piccolo cane nero che stava seduto sul pavimento, davanti a lui.
«Così il lupo è stato amichevole,» disse Jenkins. «Ti ha offerto il coniglio.»
Ebenezer saltellò di eccitazione, seduto com’era.
«Era uno di quelli che abbiamo sfamato durante l’inverno passato, il branco che è arrivato fino alla casa e che noi abbiamo cercato di addomesticare.»
«Riconosceresti il lupo, se lo rivedessi?»
Ebenezer annuì.
«Ho fiutato il suo odore,» disse. «Lo ricorderei sempre.»
Ombra strusciò i piedi sul pavimento, impaziente.
«Senti, Jenkins, non credi che dovresti dargli una lezioncina? Avrebbe dovuto ascoltare ed è scappato. Nessuno gli aveva permesso di andare a caccia di conigli…»
Jenkins parlò con voce ferma.
«Sei tu che dovresti avere la lezione, Ombra. Per il tuo atteggiamento. Tu sei assegnato a Ebenezer, dovresti essere parte di lui. Tu non sei un individuo singolo. Tu sei soltanto le mani di Ebenezer. Se lui avesse le mani, non avrebbe bisogno di te. Tu non sei né il suo mentore né la sua coscienza. Solo le sue mani. Ricordatelo sempre.»
Ombra strusciò i piedi più forte, recalcitrante.
«Scapperò via,» dichiarò.
«Per unirti ai robot selvaggi, suppongo,» disse Jenkins.
Ombra annuì.
«Saranno felici di avermi con loro. Stanno lavorando, stanno costruendo, e hanno bisogno di tutto l’aiuto che possono ottenere.»
«Ti farebbero a pezzi per utilizzare i rottami,» gli disse Jenkins, acidamente. «Tu non hai nessun addestramento, nessuna capacità, niente che ti possa far diventare uno di loro.»
Si rivolse a Ebenezer.
«Abbiamo degli altri robot.»
Ebenezer scosse il capo.
«Ombra va benissimo. So come trattarlo. Ci conosciamo bene, ormai. Lui mi impedisce di impigrire, mi tiene sempre attivo e dinamico.»
«Questo va bene,» approvò Jenkins. «Voi due continuerete a stare insieme, allora. E se per caso ti capita di tornare a dar la caccia ai conigli, Ebenezer, e ti imbatti di nuovo nel lupo, cerca di educarlo.»
I raggi del sole al tramonto si riversavano dalle finestre, bagnando di luce l’antica stanza, immergendola nel dolce calore di una sera di primavera inoltrata.
Jenkins restò seduto in silenzio sulla poltrona, ascoltando i suoni che giungevano da fuori… lo scampanio tintinnante delle vacche, i guaiti lieti dei cuccioli, il ritmico tonfo sonoro di un’accetta che spaccava i ceppi per il focolare.
Povero piccolo, pensò Jenkins. Scappare così di casa per dare la caccia a un coniglio, quando avrebbe dovuto ascoltare. Troppo lontano… troppo avanti… e troppo in fretta. Devo stare attento. È pericoloso. Devo impedire che il troppo lavoro li faccia crollare. Lasciamo che venga l’autunno, e poi interromperemo il lavoro per una settimana o due. Vacanza per tutti, e caccia al procione per tutto il giorno. Farà loro un mondo di bene.
Eppure verrà un giorno in cui non ci sarà più la caccia, né al procione né ai conigli… il giorno in cui i cani, finalmente, avranno addomesticato tutte le creature… il giorno in cui tutte le creature selvagge diventeranno esseri capaci di pensare, di parlare e di lavorare. Un sogno pazzo e audace e lontano… ma, pensò Jenkins, non è più pazzo e più remoto e più audace di molti sogni degli uomini.
Forse, perfino migliore dei sogni degli uomini, perché in esso non c’era traccia della brutalità spietata dei piani degli uomini, perché in esso non c’era traccia dell’aridità meccanica che costituiva il fine ultimo di certi sogni umani.
Una nuova civiltà, una nuova cultura, un nuovo modo di pensare. Forse mistico, e forse visionario, ma anche l’uomo era stato un visionario. Loro indagavano nei misteri che l’Uomo aveva scartato, sprezzante, pensando che fossero indegni della sua civiltà, superati e perduti nelle nebbie lontane della superstizione, privi di qualsiasi attendibilità scientifica.
E quei misteri che l’Uomo aveva confinato entro i limiti sfumati della leggenda e del mito, quei misteri erano le cose che ora i Cani cercavano.
Cose che si scontrano cupamente nella notte. Forme indistinte. Cose che si aggirano di notte intorno alla casa, e i cani si svegliano e ringhiano spauriti e guaiscono col pelo ritto, e fuori non ci sono orme sulla neve. Cani che ululano quando qualcuno muore.
I cani sapevano. I cani avevano saputo già molto tempo prima di ricevere una lingua per parlare, e delle lenti di contatto per leggere. Non avevano percorso la lunga strada fino al punto in cui l’uomo l’aveva percorsa… non erano cinici e scettici. Credevano nelle cose che vedevano e che udivano. Non avevano inventato la superstizione come una forma di protezione, come uno scudo per proteggersi dalle cose invisibili.
Jenkins ritornò al lavoro. Prese la penna, e si curvò sul grosso quaderno d’appunti. La penna scricchiolò, mentre lui scriveva.
Ebenezer riferisce di avere ravvisato un comportamento amichevole da parte del lupo. Raccomandare al consiglio di esonerare Ebenezer dall’ascolto e assegnarlo al compito di prendere contatto col lupo.
Sarebbe bello, pensò Jenkins, Avere i lupi come amici. Diventerebbero dei magnifici esploratori. Meglio ancora dei cani. Più forti, più veloci, più circospetti. Potrebbero sorvegliare i robot selvaggi al di là del fiume e dare il cambio ai cani. Potrebbero tenere d’occhio anche i castelli dei mutanti.
Jenkins scosse il capo. Non ci si poteva più fidare di nessuno, coi tempi che correvano. I robot parevano onesti. Erano amichevoli, passavano spesso a trovarli, davano una mano in certe occasioni, quando ce n’era bisogno. Bisognava dire che erano degli ottimi vicini, molto socievoli e spesso premurosi. Ma non si poteva mai sapere. E poi, i robot costruivano delle macchine.
I mutanti non davano mai fastidio a nessuno, e anzi era difficile vederli. Ma anche loro dovevano essere sorvegliati. Non si poteva mai sapere a quale diavoleria si stessero dedicando. Bisognava sempre ricordare quello che avevano fatto agli uomini. Quello sporco trucco del juwainismo… che avevano donato all’Uomo nel momento in cui esso avrebbe condannato la razza. Com’era puntualmente accaduto.
Gli uomini. Per noi erano degli dei, e adesso se ne sono andati. Ci hanno lasciati soli. Ce ne sono alcuni a Ginevra, certo, ma non possiamo disturbarli, non si interessano a noi.
Sedette immobile nella penombra del crepuscolo che scendeva come nebbia dalle colline, immerso nei suoi pensieri, pensando ai bicchieri di whisky che aveva portato, alle missioni che aveva eseguito, ai giorni nei quali dei Webster avevano vissuto ed erano morti tra quelle mura.
E adesso… adesso, padre confessore dei cani. Piccoli diavoli gentili e allegri e intelligenti… che lavoravano con tanto impegno, che tentavano di riuscire con tanto impegno in un compito che era così grande.
Un campanello ronzò sommessamente e Jenkins sobbalzò sulla sua poltrona. Il ronzio continuò, prolungato e insistente, e una luce verde ammiccò sul visifono. Jenkins balzò in piedi, e per qualche istante rimase ritto, immobile, incredulo, a fissare la luce ammiccante.
Qualcuno stava chiamando!
Qualcuno stava chiamando dopo quasi mille anni!
Corse barcollando verso il visifono, quasi cadde sulla poltrona, cercò, con dita ansiose, il disco che stabiliva il contatto, lo girò, stabilì la comunicazione.
La parete davanti a lui sì dissolse e lui si trovò seduto davanti a una scrivania, dietro la quale c’era un uomo. Dietro l’uomo le fiamme danzanti di un caminetto rischiaravano una sala dalle finestre alte e strette, dai vetri colorati.
«Tu sei Jenkins,» disse l’uomo, e qualcosa nel suo viso strappò un grido a Jenkins.
«Lei… lei…»
«Io sono Jon Webster,» disse l’uomo.
Jenkins premette le mani sul piano del visifono, rimase diritto e rigido, impaurito dalle emozioni che sgorgavano nel suo corpo metallico, spaventato da sensazioni che non erano le sensazioni di un robot.
«L’avrei riconosciuta comunque e dovunque,» disse Jenkins. «Lei ha il loro aspetto. Sarei capace di riconoscere uno di voi dovunque lo vedessi. Ed è abbastanza naturale. Ho lavorato abbastanza a lungo per voi. Portavo dei liquori e… e…»
«Sì, lo so,» disse Webster. «Il tuo nome è stato tramandato con quello della nostra famiglia. Ti abbiamo sempre ricordato.»
«Lei è a Ginevra, Jon?» E poi, subito, Jenkins ricordò. «Volevo dire signore.»
«Non c’è bisogno di questo,» disse Webster. «Preferirei che mi chiamassi Jon. Sì, sono a Ginevra. Però mi piacerebbe di venirti a trovare. Potrei farlo?»
«Lei intende dire… di venire qui?»
Webster annuì.
«Ma la casa è piena di cani, signore.»
Webster sorrise.
«I cani parlanti?» chiese.
«Sì,» disse Jenkins. «E saranno felici di vederla. Sanno tutto della famiglia. La sera si riuniscono per narrare le storie dei tempi antichi, prima di addormentarsi, e poi… e poi…»
«E poi, Jenkins?»
«Anch’io sarei così felice di vederla. Siamo stati tanto soli, qui!»
Dio era venuto.
Ebenezer rabbrividì a quel pensiero, accucciato nel buio. Se Jenkins sapesse che sono qui, pensò, mi scuoierebbe vivo, questo è sicuro. Jenkins ha detto che dovevamo lasciarlo tranquillo, almeno per un poco.
Ebenezer avanzò silenziosamente sulle sue zampe felpate, col ventre a terra, quasi strisciando. Avanzò ancora, e fiutò la porta dello studio. E la porta era aperta… c’era una fessura sottilissima, ma era aperta!
Si acquattò sul ventre, ascoltò, e non c’era niente da ascoltare. C’era solo un odore, un odore insolito, particolare, che gli faceva rizzare i peli sul dorso, in una serie di ondate d’estasi veloce e quasi insostenibile.
Diede una rapida occhiata dietro di lui, ma non vide nessun movimento. Jenkins era nella sala da pranzo, stava dicendo ai cani come dovevano comportarsi, e Ombra se ne era andato chissà dove, intento a qualche faccenda robotica.
Pianissimo, con infinita cautela, Ebenezer spinse la porta col muso, e la porta cominciò lentamente ad aprirsi. Un’altra spinta, e la porta si aprì per metà.
L’uomo sedeva di fronte al caminetto, nella poltrona, con le lunghe gambe accavallate e le mani giunte sullo stomaco.
Ebenezer si rannicchiò ancor più contro il pavimento, cercò di farsi ancora più piccolo, mentre un involontario guaito gli sfuggiva dalla gola.
Udendo il rumore, Jon Webster si rizzò di scatto.
«Chi c’è?» chiese.
Ebenezer s’appiattì al suolo, gelato dalla paura e da un altro sentimento al quale non riusciva a dare un nome, e sentì il battito del suo cuore, così precipitoso che tutto il corpicino del cane ne pareva pulsare.
«Chi c’è?» ripeté Webster, e poi vide il cane.
Quando parlò di nuovo, la sua voce si era fatta più dolce.
«Vieni, amico. Vieni pure.»
Ebenezer non si mosse.
Webster fece schioccare le dita.
«Non ti farò del male. Vieni. Dove sono tutti gli altri?»
Ebenezer cercò di alzarsi, cercò di muoversi, cercò almeno di strisciare sul pavimento, ma le ossa gli erano diventate di gomma e il sangue gli era diventato acqua. E l’uomo stava avanzando a lunghi passi verso di lui, stava avanzando a lunghi passi sul pavimento.
Vide l’uomo chinarsi su di lui, sentì della mani forti sotto il suo corpo, capì che lo stavano sollevando. E l’odore che aveva fiutato davanti alla porta aperta… l’odore divino al quale lui non poteva resistere… era forte e penetrante nelle sue narici.
Le mani lo tennero stretto contro lo strano tessuto che l’uomo portava al posto del pelo, e una voce lo coccolò… non diceva delle parole, ma era una voce di conforto, era una voce che lo riscaldava e rallentava i battiti del suo cuore impetuoso.
«Così tu sei venuto a vedermi,» disse Jon Webster. «Sei scappato via, e sei venuto a vedermi.»
Ebenezer mosse il muso in un debole cenno d’assenso.
«Non sei arrabbiato, vero? Non lo dirai a Jenkins?»
Webster scosse il capo.
«No, non lo dirò a Jenkins.»
Tornò a sedersi in poltrona ed Ebenezer gli si accucciò in grembo, guardando il suo viso… un viso forte e solcato da molte rughe, rughe approfondite dalla danza guizzante delle luci e delle ombre che le fiamme del caminetto mandavano a rincorrersi per tutta la stanza.
La mano di Webster si mosse e accarezzò la testa di Ebenezer, ed Ebenezer guaì di pura felicità canina.
«È come ritornare a casa,» disse Webster, e non stava parlando al cane. «Come se tu fossi partito per un lungo viaggio, un giorno, e fossi rimasto lontano per tanto, tanto tempo, e poi, finalmente, fossi ritornato a casa. Ma il tempo passato lontano da casa è stato lungo, senza fine, e tu non riconosci più il posto. Non riconosci i mobili, non riconosci il pavimento, non riconosci il soffitto e le pareti e tutte le cose che vedi nella casa. Ma c’è qualcosa nell’aria, c’è qualcosa nei muri e nelle cose, c’è una sensazione, un’atmosfera che tu riconosci, un’atmosfera che ti dice che quel luogo è tuo, è un vecchio posto familiare al quale sei ritornato, e allora sei felice di essere tornato, sei felice di trovarti là.»
«Mi piace stare qui,» disse Ebenezer, e voleva dire che gli piaceva restare in grembo a Webster, ma l’uomo fraintese il senso delle sue parole.
«È naturale che ti piaccia,» disse. «Questa casa è tua quanto è mia. Forse è più tua, perché tu sei rimasto qui e ne hai avuto cura, mentre io l’ho dimenticata.»
Accarezzò il capo di Ebenezer e gli tirò gentilmente l’orecchio.
«Come ti chiami?» chiese.
«Ebenezer.»
«E cosa fai, Ebenezer?»
«Ascolto.»
«Ascolti?»
«Certo, è il mio lavoro. Ascolto le ombre.»
«E riesci a sentire le ombre?»
«Qualche volta. Non sono troppo bravo, però. Penso sempre a dare la caccia ai conigli, e non faccio attenzione alle ombre.»
«E che suoni fanno le ombre?»
«Fanno tanti suoni, suoni diversi. A volte camminano e a volte si scontrano e a volte fanno dei colpi strani. E a volte parlano. Benché il più delle volte pensino soltanto.»
«Ascoltami, Ebenezer; non mi sembra di riuscire a ricordare dove si possono trovare queste ombre.»
«Non sono in nessun luogo,» disse Ebenezer. «Per lo meno, non su questa terra.»
«Non capisco.»
«È come se ci fosse una grande casa,» spiegò Ebenezer. «Una casa molto grande, piena di tante stanze. E tra le stanze ci fossero delle porte. E tu, stando in una di queste stanze, riuscissi a sentire quelli che si trovano nelle altre stanze, ma non potessi andare da loro.»
«È impossibile,» disse Webster. «Certo che potrei andare da loro. Basterebbe passare dalla porta.»
«Ma tu non puoi aprire la porta,» disse Ebenezer. «Tu non sai neppure che la porta esiste. Credi che la stanza nella quale ti trovi sia l’unica dell’intera casa. E anche se sapessi che la porta esiste, non potresti aprirla.»
«Tu parli delle dimensioni.»
Ebenezer corrugò la fronte, in uno sforzo di comprensione.
«Non conosco la parola che hai detto. Dimensioni. Io ti ho detto quello che Jenkins ci ha detto per spiegarci i mondi delle ombre. Lui ha aggiunto che non si trattava di una casa, in realtà, e che non si trattava neppure di stanze, e che le cose che ascoltavamo probabilmente erano diverse da noi.»
Webster annuì, senza parlare. Era così che ci si doveva comportare. Usare il metodo più semplice. Non avere fretta. Non confondere i cani con paroloni difficili. Lasciare che afferrassero per prima cosa il concetto, e poi, a suo tempo, usare una terminologia più esatta e scientifica. E molto probabilmente si sarebbe trattato di una terminologia nuova, fabbricata ad arte. C’era già una parola, in quel nuovo vocabolario… le ombre. Ombre, le cose che vivono dietro le pareti, le cose che si sentono e non si possono identificare… gli abitanti della stanza accanto.
Ombre.
Se non fai il bravo, le ombre verranno a prenderti per portarti via.
Questo sarebbe stato il metodo umano. Non puoi capire una cosa. Non la puoi vedere. Non la puoi esaminare. Non la puoi analizzare. Va bene, allora non c’è. Non esiste. È un fantasma, un folletto, un’ombra.
Le ombre verranno a prenderti per portarti via…
Così è più semplice, più comodo. Hai paura? Certo, ma quando spunta il giorno la dimentichi. Quando accendi la luce, la paura vola via. E non ti perseguita, non ti ossessiona. Pensaci bene, pensaci molto, fai uno sforzo di volontà, e la paura non c’è più. L’hai mandata via. Trasformala in uno spettro, in un fantasma, in un folletto, e potrai riderne… alla luce del giorno.
Una lingua calda e umida lambì il mento di Webster, ed Ebenezer fu percorso da un brivido di piacere.
«Mi piaci,» disse Ebenezer. «Jenkins non mi ha mai tenuto così. Nessuno mi ha mai tenuto così.»
«Jenkins è molto occupato,» disse Webster.
«Puoi dirlo,» ammise Ebenezer. «Scrive molte cose in un libro. Cose che noi cani sentiamo quando ascoltiamo le ombre, e cose che dovremmo fare più avanti.»
«Hai sentito parlare dei Wester?» domandò l’uomo.
«Certo. Sappiamo tutto di loro. Tu sei un Webster. Pensavamo che non ce ne fossero più.»
«Sì che ce ne sono,» disse Webster. «Qui c’è sempre stato un Webster. È rimasto con voi per tutto il tempo. Jenkins è un Webster.»
«Davvero? Lui non ce l’aveva mai detto.»
«Non ha voluto.»
Il fuoco stava morendo e le ombre si erano infittite nella stanza. Le esili fiammelle guizzanti che animavano ancora le braci rossigne traevano strane figure e strane danze di giganti confusi dalle pareti e dal soffitto.
E non solo quello. C’erano delle altre cose. Deboli fruscii, deboli mormorii, come se le stesse pareti parlassero tra loro. Una vecchia casa con lunghi ricordi e tante vite racchiuse nella sua struttura, una casa antica con troppi ricordi e una vita ancora palpitante nei ricordi, una vita che pervadeva ogni cosa. Duemila anni di vita, per l’antica casa, duemila anni di vite che erano passate tra quelle mura. Una casa costruita per durare nel tempo, ed era durata nel tempo. Una casa costruita per essere più che un semplice edificio, più che una semplice costruzione… per essere una vera casa, un nido e una patria a un tempo. Ed era ancora una casa… un luogo solido e sicuro che abbracciava coloro che vi entravano, che li teneva stretti e li riparava e dava loro calore, li cullava, quasi, li faceva diventare parte di sé.
Dei passi si udirono, nella mente di Webster… passi che venivano da tempi lontani, e ormai trascorsi per sempre, passi che erano stati attutiti dalla polvere dei secoli, e dei quali si era spenta l’ultima eco tanto, tanto tempo prima del suo. Il passo dei Webster. La marcia dei Webster, di coloro che erano venuti prima di lui, di coloro che Jenkins aveva servito dal giorno della loro nascita all’ora della loro morte.
La storia, pensò Webster. Ecco la storia. La storia è qui, che si agita tra gli arazzi e striscia silenziosa sul pavimento, siede negli angoli oscuri, mi guarda dalle pareti. Quella storia viva che un uomo può sentire nel sangue e nelle ossa e che può avvertire nella schiena… la pressione degli occhi morti da tanto tempo, degli occhi tornati silenziosamente dalla notte.
Un altro Webster, eh! Non sembra gran cosa. Insignificante. Senza alcun valore. Il buon sangue è diventato acqua, la razza si è consunta, non ha più forza né vigore. Com’è diverso da ciò che eravamo noi, ai nostri tempi. Dev’essere l’ultimo della dinastia. Dev’essere l’ultimo dei Webster.
Jon Webster si mosse, provò l’istintivo desiderio di ribellarsi.
«No, non sono l’ultimo dei Webster,» disse. «Ho un figlio.»
Be’, la differenza non è poi molta. Dice che ha un figlio. Ma non può essere gran cosa…
Webster fece per alzarsi dalla poltrona, ed Ebenezer, con un salto, lasciò il suo grembo.
«Questo non è vero,» esclamò Webster. «Mio figlio…»
E poi tornò a sedersi sulla poltrona.
Suo figlio che andava nei boschi con l’arco e la freccia, giocando un nuovo gioco, divertendosi un mondo.
Un passatempo, aveva detto Sara prima di salire la collina che conduceva a cento anni di sogni.
Un passatempo. Non un lavoro. Non un modo di vivere. Non una necessità.
Un passatempo.
Una cosa artificiale. Una cosa che non aveva principio e non aveva fine. Una cosa che un uomo poteva lasciar perdere in qualsiasi momento, senza che nessuno se ne accorgesse neppure.
Come stare tutto il giorno a preparare nuove misture alcoliche.
Come dipingere dei quadri che nessuno voleva.
Come andarsene in giro con una squadra di robot pazzi, supplicando la gente di lasciarsi rifare la casa.
Come scrivere un libro di storia, una storia che non importava a nessuno.
Come giocare agli indiani o ai cavernicoli o ai pionieri con un arco e le frecce.
Come preparare secoli di sogni per uomini e donne che erano stanchi della vita e bramavano la fantasia.
L’uomo restò seduto, immobile, sulla poltrona davanti al fuoco morente, fissando il nulla senza speranza che si stendeva davanti ai suoi occhi, ricordando il nulla senza speranza che aveva accompagnato gli stanchi giorni della sua vita, aspettando il nulla spaventoso e agghiacciante che si stendeva per tutti i giorni a venire, domani e domani e domani, negli anni senza fine.
Immerso nei suoi pensieri, intrecciò le dita, mosse nervosamente le mani, e il pollice della mano destra cominciò a fregare il dorso della mano sinistra.
Ebenezer si fece avanti, nell’oscurità cupa nella quale danzavano le ultime lingue rossigne del fuoco morente, appoggiò le zampe anteriori sul ginocchio dell’uomo e sollevò il muso per guardarlo negli occhi.
«Ti sei fatto male alla mano?» chiese.
«Come?»
«Ti sei fatto male alla mano? Te la stai fregando.»
Webster rise, una risata secca e breve.
«No, sono soltanto dei porri.» Li mostrò al cane.
«Accidenti, dei porri!» disse Ebenezer. «Tu non li vuoi, vero?»
«No,» Webster esitò. «No, immagino di no. Non ho mai avuto il tempo di farmeli togliere.»
Ebenezer, abbassando il muso, fregò col naso umido il dorso della mano di Webster.
«Ecco fatto,» annunciò, trionfante.
«Ecco fatto… che cosa?»
«Guardati la mano,» lo invitò Ebenezer.
Un ramo cadde nel focolare, e la fiamma guizzò d’un tratto vivida, e nella luce improvvisa Webster alzò la mano e la guardò.
I porri erano spariti. La pelle era liscia e immacolata.
Jenkins stava in piedi nell’oscurità e ascoltava il silenzio, il soffice silenzio strisciante e dormiente che lasciava la casa alle ombre, ai passi ormai quasi dimenticati, alla breve frase pronunciata tanto tempo prima, alle lingue che mormoravano nelle pareti e frusciavano tra le tende e gli arazzi.
Bastava un pensiero, e per lui la notte sarebbe stata come il giorno; una semplice correzione nelle lenti dei suoi occhi avrebbe dato questo risultato, gli avrebbe permesso di vedere nelle tenebre come se esse fossero state rischiarate dai raggi caldi del sole. Ma l’antico robot non volle cambiare la sua vista, perché gli piaceva così, perché quella era l’ora della meditazione, era il momento prezioso, atteso nelle lunghe ore del giorno, nel quale il presente si confondeva e si addormentava, e il passato ritornava e viveva in lui e intorno a lui.
Gli altri dormivano, ma Jenkins non dormiva, perché i robot non dormivano mai, non conoscevano il sonno. Duemila anni di pensieri e di lucidità, venti secoli di tempo pieno e perenne, mai interrotto da un solo istante di riposo, di quiete, di abbandono e di oblio.
Molto tempo, pensò Jenkins, Molto tempo perfino per un robot; perché, ancor prima che l’Uomo se ne andasse su Giove, quasi tutti i robot più antichi erano stati disattivati, era scoccata anche per loro l’ora della morte, erano stati mandati al riposo eterno, giusto e meritato, per venire sostituiti dai modelli più recenti. I modelli più recenti e più perfezionati, che avevano avuto un aspetto più simile a quello degli uomini, che erano stati più efficienti e più gradevoli alla vista, che avevano parlato in maniera più umana, che avevano reagito più rapidamente, con i loro nuovi cervelli di metallo.
Ma Jenkins era sopravvissuto a quell’epoca di cambiamenti, perché Jenkins era stato un servitore vecchio e fedele, perché la Casa dei Webster non sarebbe stata più una casa, senza di lui.
«Mi volevano bene,» disse Jenkins, tra sé. E in quelle tre parole c’era un conforto dolce e caldo… c’era conforto in un mondo che aveva conservato ben poche cose dolci e confortanti, in un mondo nel quale un servo era diventato un capo, e con tutto il suo essere desiderava, desiderava disperatamente di tornare a essere un servo.
Rimase fermo davanti alla finestra e guardò fuori, dove le macchie oscure delle grandi querce antiche si stagliavano sullo sfondo cupo della collina tenebrosa. Oscurità, tenebre. Nessuna luce, neppure un vago riverbero tremolante, un lontano bagliore. E c’era stato un tempo in cui c’erano state tante luci. Finestre che avevano irradiato la luce amica, che avevano rischiarato come fari benevoli la vasta distesa della terra di là dal fiume.
Ma l’uomo se ne era andato e non c’erano più luci. I robot non avevano bisogno di luci, perché loro potevano vedere nel buio, come anche Jenkins avrebbe potuto vedere, se solo lo avesse desiderato. E i castelli dei mutanti erano cupi e oscuri di notte com’erano cupi e spaventosi durante il giorno.
Adesso l’uomo era ritornato, un uomo solo. Era venuto, ma non sarebbe rimasto, forse. Avrebbe dormito per qualche notte nella grande camera da letto del padrone di casa, al primo piano, e poi se ne sarebbe tornato a Ginevra. Avrebbe passeggiato sugli antichi acri dimenticati e avrebbe guardato oltre il fiume e avrebbe sfogliato i libri che tappezzavano la parete dello studio, poi si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato.
Jenkins si mosse. Dovrei andare a vedere come sta, pensò. Dovrei andare a vedere se per caso ha bisogno di qualcosa. Magari potrei portargli un bicchiere di liquore. Ricordo dove ho lasciato il vassoio. Anche se il whisky, temo, sarà tutto andato a male. Mille anni sono molti, troppi, per una bottiglia di buon whisky.
Si mosse, e il suo passo si fece più sicuro, nelle tenebre della stanza, e una pace calda e silenziosa scese sopra di lui, la pace intima e completa dei vecchi tempi, quando lui si era affaccendato qua e là, felice come un terrier, per portare a buon fine i molti compiti che gli erano spettati, per eseguire nel migliore dei modi gli ordini dei suoi padroni.
Ricordò un’altra abitudine umana, mentre le note di una vecchia canzone conosciuta gli salivano alle labbra d’acciaio. Cominciò a mormorarla sottovoce, trovando uno strano piacere in questa usanza, mentre camminava ancor più eretto e sicuro verso le scale.
Avrebbe fatto capolino dalla porta, ecco; si sarebbe affacciato, come se fosse passato di là per caso, e se Jon Webster dormiva, se ne sarebbe andato subito, senza fare rumore; ma se era ancora sveglio, avrebbe detto:
«Il signore si sente a suo agio? Il signore desidera forse qualcosa? Magari un buon grog bollente, signore?»
E Jenkins salì le scale facendo due gradini per volta.
Perché lui era di nuovo al servizio di un Webster.
Jon Webster era disteso sul letto, con le spalle appoggiate ai cuscini. Il letto era duro e scomodo e la stanza era angusta e soffocante… non era come la sua camera da letto di Ginevra, dove ci si poteva distendere sulla riva soffice ed erbosa di un torrente mormorante, e guardare in alto le stelle artificiali che scintillavano in un cielo artificiale, dolce e profumato a mezzanotte. A Ginevra, riposandosi, lui avrebbe potuto sentire il profumo artificiale di un campo di fiori artificiali, di un pergolato di lillà artificiali, che avrebbero continuato a sbocciare e a fiorire più a lungo di quanto un uomo avesse potuto vivere. Là, nella casa antica, non si udiva il mormorio di una cascata nascosta, un mormorio che suggeriva l’idea di muschio umido e grondante e soffice, e non si vedevano balenare intorno i lampi fuggevoli di lucciole prigioniere… c’erano solo un letto e una stanza, semplici e funzionali.
Webster allungò le braccia, allargò le dita sulla coperta, pensando.
Ebenezer aveva semplicemente toccato i porri col naso umido e scuro e i porri erano scomparsi. E non era accaduto per caso… era stato intenzionale. Non era stato un miracolo, ma l’uso di un potere consapevole. Perché a volte i miracoli non si manifestano, a volte i miracoli non si ripetono, ed Ebenezer era stato sicuro, molto sicuro.
Un potere, forse, che veniva dalle stanze vicine, un potere che era stato rubato alle ombre che Ebenezer doveva ascoltare.
Un miracolo. Eppure non era un miracolo. Bastava imporre la mano… o il muso umido, se si trattava di un cane… e il male era guarito. Un potere di risanare che non comportava l’uso di medicine né di ferri chirurgici, ma solo una certa conoscenza, una conoscenza molto particolare.
In epoche antiche, negli anni oscuri dell’ignoranza, certi uomini avevano proclamato di possedere il dono di risanare le ferite, di far scomparire i porri fastidiosi; e avevano venduto questo loro potere per pochi spiccioli, o per ottenere qualcosa di concreto in cambio, ed erano stati chiamati guaritori e praticoni, stregoni e maghi. E dopo le pratiche magiche, al momento giusto, qualche volta, i porri erano scomparsi, la magia aveva funzionato.
Anche quegli strani uomini avevano ascoltato le ombre?
La porta scricchiolò, si aprì una fessura sottilissima e Webster si rizzò di scatto a sedere.
Una voce uscì dall’oscurità:
«Il signore si trova bene, qui? Il signore desidera qualcosa?»
«Jenkins?» domandò Webster.
«Sono io, signore,» disse Jenkins.
La forma oscura del robot entrò silenziosamente nella camera.
«Sì, voglio qualcosa,» disse Webster. «Voglio parlare con te.»
Fissò la nera figura metallica che si era fermata accanto al suo letto.
«Voglio parlare dei cani,» disse Webster.
«Ci mettono tanta buona volontà,» disse Jenkins. «E per loro è così difficile. Perché non hanno nessuno, vede, signore? Non hanno nessuno, non un’anima.»
«Hanno te.»
Jenkins scosse il capo.
«Ma io non basto, signore. Io sono soltanto… bene, una specie di mentore. E loro vogliono gli uomini. Il bisogno degli uomini fa parte della loro natura. Per migliaia d’anni sono stati uomo e cane. Uomo e cane, che andavano a caccia insieme. Uomo e cane, che sorvegliavano insieme il gregge. Uomo e cane, che combattevano insieme i loro nemici. Il cane stava di guardia mentre l’uomo dormiva, e l’uomo dava il suo ultimo boccone di cibo, soffriva la fame, purché il suo cane potesse mangiare.»
Webster annuì.
«Sì, immagino che tu abbia ragione.»
«I cani parlano degli uomini ogni sera,» disse Jenkins, «Prima di addormentarsi. Si riuniscono, siedono in circolo e uno degli anziani narra una delle storie che sono state tramandate, e i cani stanno seduti e ascoltano, stanno seduti e sperano.»
«Ma dove stanno andando? Cosa stanno cercando di fare? Hanno un piano, un’idea generale su quale sarà la loro méta?»
«Riesco a vedere una traccia,» disse Jenkins. «Solo un vago barlume di ciò che potrà accadere. I cani sono medianici, signore. Lo sono sempre stati. Non hanno il senso della meccanica, ed è comprensibile, perché non hanno mani. Là dove l’uomo ha seguito il metallo, i cani seguiranno i fantasmi.»
«Fantasmi?»
«Le cose che gli uomini chiamano fantasmi. Ma non sono fantasmi, in realtà. Ne sono certo. Sono cose che si trovano nella stanza accanto. Forme di vita diverse in un piano diverso d’esistenza.»
«Vuoi dire che sulla Terra possono coesistere diversi piani di vita, simultaneamente?»
Jenkins annuì.
«Comincio a crederlo, signore. Ho un quaderno d’appunti pieno delle cose che i cani hanno visto e sentito, e ora, dopo tanti anni, queste cose cominciano a formare uno schema compiuto.»
Si affrettò a proseguire.
«Potrei sbagliarmi, signore. Perché vede, io non ho avuto istruzione. Ero soltanto un servitore, ai vecchi tempi, signore. Ho cercato di imparare e proseguire io il lavoro, dopo… dopo Giove, ma è stato difficile, per me. Un altro robot mi ha aiutato a fabbricare i primi piccoli robot per i cani, e adesso sono i piccoli a fabbricare altri robot simili a loro, quando ce n’è bisogno, nell’officina.»
«Ma i cani… si limitano a stare seduti ad ascoltare?»
«Oh, no, signore, i cani fanno molte altre cose. Cercano di fare amicizia con altri animali e sorvegliano i robot selvaggi e i mutanti…»
«I robot selvaggi, dici? Ce ne saranno molti.»
«Moltissimi, signore. Sono disseminati per tutto il mondo, in piccoli accampamenti. Sono quelli che furono abbandonati sulla Terra, signore. Quelli dei quali l’uomo non ebbe più bisogno, quando andò su Giove. Si sono radunati in tanti gruppi e lavorano…»
«Lavorano. A qual fine?»
«Non so, signore. Principalmente, costruiscono delle macchine. Tutti i robot selvaggi costruiscono delle macchine. Deve essere la loro mentalità meccanica. Spesso mi domando cosa se ne faranno di tutte le macchine che hanno già costruito. Per quale scopo intendano usarle.»
«Anch’io me lo chiedo,» disse Webster.
E Webster guardò nell’oscurità e cominciò a farsi delle domande… cominciò a chiedersi in qual modo l’uomo, chiuso nel nido caldo e vuoto di Ginevra, avesse potuto perdere contatto con il resto del mondo. Com’era possibile, si chiese, che l’uomo non sapesse quello che facevano i cani, e non sapesse dei piccoli accampamenti di robot affaccendati in un oscuro lavoro, e non sospettasse neppure l’esistenza dei castelli dei mutanti temuti e odiati?
Abbiamo perso il contatto, pensò Webster. Abbiamo chiuso il mondo fuori della nostra porta, e abbiamo dimenticato la chiave. Ci siamo creati una piccola nicchia calda, e ci siamo rifugiati là dentro… nell’ultima città del mondo. E non abbiamo più saputo quello che accadeva fuori della città… avremmo potuto saperlo, avremmo dovuto saperlo, ma non ci importava, non ci importava.
È ora che ci muoviamo di nuovo, pensò. È ora che riprendiamo a essere noi stessi. È ora di ricominciare il cammino.
Ci siamo trovati soli e perduti e sommersi da un mondo troppo grande per noi, e all’inizio abbiamo tentato, ma poi, alla fine, ci siamo fermati, abbiamo deciso di rinunciare.
Per la prima volta, i pochi che erano rimasti si erano resi conto della grandezza della razza, avevano compreso per la prima volta il gigantesco lavoro svolto dalle mani degli uomini. E avevano cercato di portare avanti questo lavoro, e non avevano potuto farlo. E così avevano razionalizzato… com’è abitudine dell’uomo, capace di razionalizzare quasi tutto. Fino al punto di chiudere gli occhi e di illudersi che non esistano i fantasmi, di dare alle cose che si muovono nella notte il pruno termine razionale e rassicurante che possa spiegarne l’esistenza e allontanare l’ombra della paura.
Noi non abbiamo potuto mantenere in movimento la macchina dell’umanità, e così abbiamo razionalizzato, ci siamo rifugiati dietro uno schermo di parole e il juwainismo ci ha aiutati a farlo. Ci siamo avvicinati alla mitizzazione dei nostri antenati, all’adorazione del passato. Abbiamo cercato di glorificare il genere umano. Non siamo stati capaci di portare avanti il lavoro degli uomini, e così abbiamo cercato di glorificarlo, abbiamo cercato di innalzare su un trono divino gli uomini che avevano saputo svolgere quel lavoro. Come tentiamo sempre, fin dall’inizio del tempo, di glorificare e divinizzare tutte le buone cose che muoiono.
Siamo diventati una razza di storici e abbiamo scavato con dita sporche di polvere e di oblio tra le rovine del genere umano, stringendoci al petto qualsiasi piccolo fatto trascurabile, come se esso fosse stato un gioiello prezioso. E questa è stata la prima fase, il passatempo che ci aiutava a vincere la noia e ci aiutava a capire, finalmente, quello che eravamo in realtà… i sedimenti rimasti sul fondo della vuota bottiglia dell’umanità.
Ma abbiamo vinto anche questo. La noia e l’autocommiserazione e l’impotenza. Oh, certo, abbiamo superato questo stadio. Nel giro di una generazione, o poco più. L’Uomo è una creatura adattabile… può sopravvivere a qualsiasi prova. Così, dunque, non potevamo costruire delle grandi astronavi. Così, dunque, non potevamo raggiungere le stelle. Così, dunque, non potevamo frugare tra i misteri della vita. E allora?
Noi eravamo gli eredi, ci era stata lasciata l’eredità, eravamo a un punto migliore di quanto nessuna razza mai fosse stata, di quanto nessuna razza possa sperare di trovarsi in futuro. E così abbiamo razionalizzato, ancora una volta, e ci siamo dimenticati la gloria della razza, perché, pur essendo splendida e meravigliosa, era anche un’idea dolorosa, un ricordo amaro, un concetto umiliante.
«Jenkins,» disse Webster, in tono severo, «Abbiamo sprecato dieci interi secoli.»
«No, non sprecato, signore,» disse Jenkins. «Forse è stato solo un riposo. E adesso, forse, potrete uscire di nuovo. Ritornare da noi.»
«Ma voi ci volete?»
«I cani hanno bisogno di voi,» gli disse Jenkins. «E anche i robot hanno bisogno. Perché entrambi, cani e robot, non sono mai stati nulla di più che servitori dell’uomo. Sono perduti, senza di voi. I cani stanno costruendo una civiltà, ma questa civiltà sta nascendo lentamente, molto lentamente.»
«Forse si tratta di una civiltà migliore di quella che noi abbiamo saputo costruire,» disse Webster. «Forse potrà avere più successo. Perché la nostra civiltà non ha avuto successo, Jenkins. Noi siamo stati sconfitti.»
«Sì, forse sarà una civiltà più mite,» ammise Jenkins, «Ma non troppo pratica. Una civiltà basata sulla fratellanza animale… sulla comprensione psichica e forse, alla fine, sulla comunicazione e sui rapporti con i mondi paralleli. Una civiltà della mente e della comprensione reciproca, ma non troppo pratica, non troppo positiva. Senza una méta vera e propria, per lo meno una méta reale, con uno sviluppo meccanico molto limitato… solo un continuo frugare alla ricerca della verità, in una direzione che l’Uomo ha superato e lasciato perdere senza degnarla neppure di uno sguardo.»
«E tu credi che l’Uomo potrà essere utile?»
«L’uomo potrebbe assumere la funzione di guida,» disse Jenkins.
«La guida giusta? La guida necessaria?»
«È difficile rispondere.»
Webster giacque nell’oscurità, e sentì che le sue mani s’imperlavano improvvisamente di sudore, e cercò di asciugarle sulla coperta che riscaldava il suo corpo.
«Dimmi la verità,» disse, e le sue parole erano secche, la sua voce era amara ma pervasa da una ferrea determinazione. «L’uomo potrebbe assumere la funzione di guida, hai detto. Ma l’uomo potrebbe anche riprendere il comando, il comando pieno e assoluto, potrebbe ritornare a essere il padrone. Potrebbe scartare le cose che i cani stanno facendo, considerandole prive di valore pratico. Potrebbe radunare tutti i robot e usare le loro capacità meccaniche per riprendere il vecchio, vecchio schema. I cani e i robot si inginocchierebbero davanti all’uomo.»
«Certamente,» disse Jenkins. «Perché sono stati servitori, una volta. Ma l’uomo è saggio… l’uomo sa cosa è giusto.»
«Grazie, Jenkins,» disse Webster. «Grazie davvero.»
Guardò nelle tenebre e nelle tenebre era scritta la verità.
Le orme lasciate la prima volta erano ancora impresse nella polvere, e l’acre odore del silenzio e delle cose andate era forte nell’aria immota, l’odore che faceva pensare al muschio e alle cose ingiallite e ai tempi che non sarebbero più ritornati. La fioca lampada al radium ardeva sopra il pannello, e la ruota e l’interruttore e i quadranti stavano aspettando, stavano aspettando il giorno in cui ci sarebbe stato bisogno di loro.
Webster si arrestò sulla soglia, respirando l’umidità della pietra sotto la coltre amara della polvere.
Difesa, pensò, fissando l’interruttore. Difesa… ciò che serve a tenere qualcuno fuori, il mezzo per sigillare un luogo e proteggerlo da tutte le armi, reali o immaginarie, che un ipotetico nemico avrebbe potuto usare.
E senza dubbio la stessa difesa che avrebbe tenuto fuori un nemico avrebbe tenuto dentro coloro che si difendevano. Non necessariamente, certo, ma…
Attraversò la cripta polverosa e si fermò davanti all’interruttore e la sua mano si alzò e lo toccò, lo mosse lentamente e nello stesso istante Webster capì che avrebbe funzionato.
Allora la sua mano si mosse veloce, e l’interruttore scattò. Dal basso, dalle viscere profonde della città, venne un brontolio sordo e sommesso, quando le macchine entrarono in azione. Gli aghi dei quadranti tremarono e cominciarono a muoversi, a salire.
Webster toccò la ruota con dita esitanti, la spostò di qualche centimetro, e gli aghi tremolarono di nuovo e salirono lentamente. Allora, con mano veloce e sicura, Webster girò la ruota e gli aghi salirono fino a raggiungere l’estremità opposta dei quadranti.
Allora Webster si voltò di scatto, e uscì dalla cripta, chiudendo la porta dietro di sé, e salì veloce i gradini corrosi dal tempo.
E ora, se la difesa funziona ancora, pensò. Se la difesa funziona ancora… Salì ancora più in fretta gli antichi gradini e il sangue cominciò a pulsargli nelle tempie.
Se la difesa funzionava ancora… se avesse almeno funzionato ancora!
Ricordò il sordo ronzio delle macchine nelle viscere della città, il brontolio cupo che aveva udito quando aveva abbassato l’interruttore. Quel suono significava che il meccanismo difensivo… per lo meno in parte… funzionava ancora.
Ma, anche se funzionava, avrebbe funzionato come lui sperava? Se per caso la difesa avesse tenuto fuori il nemico, ma non avesse impedito ai difensori di uscire?
Ogni moneta aveva due facce.
Ogni spada aveva due lame.
Ma se quella difesa… se…
Quando raggiunse la strada, vide che il cielo era cambiato. Una grigia cappa metallica di nebbia aveva coperto il sole e la città era immersa nel crepuscolo plumbeo, che le luci automatiche delle strade alleviavano soltanto in parte. Una brezza debole e strana gli accarezzò la guancia.
Le grige ceneri raggrinzite degli appunti e della mappa antica avevano finito di sfarfallare nella cappa del focolare, e Webster con l’attizzatoio disperse questi ultimi frammenti, quasi con rabbia, con una strana, perversa voluttà di distruzione. L’attizzatoio si mosse e le ceneri grige si dispersero, e il ricordo di ciò che Webster aveva disseppellito dal passato si disperse, e non avrebbe mai più potuto essere ritrovato.
Scomparso, pensò. L’ultima traccia è scomparsa. Senza la mappa, senza la profonda conoscenza della città che lui aveva raggiunto in venti lunghi anni di studi lenti e faticosi, nessuno avrebbe mai più potuto trovare quella cripta nascosta, quella nicchia racchiusa tra le umide pietre antiche, dove l’interruttore e la ruota e i quadranti scintillavano sotto i fievoli raggi della lampada solitaria.
Nessuno avrebbe mai saputo con esattezza ciò che era accaduto. E anche se qualcuno l’avesse sospettato, non avrebbe mai potuto esserne sicuro. E anche se qualcuno avesse potuto esserne sicuro, non avrebbe potuto farci niente.
Mille anni prima non sarebbe certo stato così. Perché in quel tempo l’uomo, se gli fosse stato dato il minimo indizio, avrebbe saputo risolvere con il ragionamento e la ricerca qualsiasi problema.
Ma l’uomo era cambiato. Aveva perduto l’antica conoscenza e l’antico talento. La sua mente era diventata una cosa inerte, flaccida. Ora viveva alla giornata, senza una méta splendida da raggiungere, senza un sogno fiabesco da avverare. Eppure conservava tuttora gli antichi vizi… i vizi che erano diventati virtù, secondo il suo metro di giudizio, e che lo avevano portato in alto, sempre più in alto. L’uomo conservava l’incrollabile certezza di essere l’unica razza, l’unica forma di vita che contava… conservava l’egoismo presuntuoso che l’aveva portato ad autodefinirsi Signore di tutto il Creato.
Fuori della casa, nella grande strada, si udirono dei passi veloci, piedi che correvano, e Webster voltò le spalle al caminetto, guardò i ciechi vetri colorati delle finestre alte e strette.
Li ho scossi, pensò. Adesso li ho scossi, li ho fatti correre. Sono eccitati. Si chiedono cosa stia succedendo. Per secoli e secoli non hanno messo piede fuori della città, non si sono neppure curati di sapere com’era il mondo, ma adesso che non possono più uscire… hanno la bava alla bocca per il desiderio di farlo.
Il suo sorriso si allargò.
Forse saranno tanto scossi che decideranno di fare qualcosa. I topi in trappola sono capaci di realizzare le cose più impensate… se prima non impazziscono.
E se riusciranno a trovare una strada, se riusciranno a uscire… bene, hanno il diritto di farlo. Se riusciranno a uscire, si saranno guadagnati il diritto di ricominciare da capo.
Attraversò la stanza, si fermò sulla soglia per un momento, voltandosi a guardare il quadro appeso sopra il caminetto. Timidamente, con fare maldestro, sollevò la mano in un saluto esitante, l’ultimo, malinconico addio. E poi si costrinse a uscire, a percorrere la strada e a salire la collina… il percorso che Sara aveva seguito pochi giorni prima.
I robot del Tempio furono gentili e premurosi e discreti. Camminavano silenziosamente e avevano un atteggiamento dignitoso e severo. Lo accompagnarono là dove Sara dormiva e gli mostrarono il posto vicino, che Sara aveva riservato per lui.
«Prima lei vorrà scegliere un sogno,» disse il portavoce dei robot. «Possiamo mostrarle diversi campioni. Possiamo mescolarli e raggiungere le sfumature di suo gradimento. Possiamo…»
«Grazie,» disse Webster. «Non voglio un sogno.»
Il robot annuì, comprensivo e discreto.
«Capisco, signore. Lei desidera soltanto aspettare, far passare il tempo.»
«Sì,» disse Webster. «Immagino che la definizione sia questa.»
«Per quanto tempo, all’incirca?»
«Per quanto tempo?»
«Sì. Per quanto tempo lei desidera aspettare, signore?»
«Oh, capisco,» disse Webster. «E se facessimo per sempre?»
«Per sempre!»
«Per sempre mi pare l’espressione più adatta,» disse Webster «Avrei potuto dire anche per l’eternità, ma non ci vedo tanta differenza. È inutile sottilizzare sull’uso di due parole che vogliono dire più o meno la stessa cosa.»
«Sì, signore,» disse il robot.
Era inutile sottilizzare. Sì, certo, era inutile. Perché lui non poteva correre il rischio di prendere un’altra decisione. Avrebbe potuto chiedere di dormire per mille anni, e poi, al suo risveglio, avrebbe potuto cedere alla compassione e scendere la scala antica, per spegnere le macchine.
E questo non doveva accadere. I cani dovevano avere la possibilità di tentare la loro sorte. Dovevano essere lasciati indisturbati a tentare di riuscire là dove la razza umana aveva fallito. E fino a quando ci fosse stata un elemento umano, i cani non avrebbero avuto quella possibilità. Perché l’uomo avrebbe preso il comando, sarebbe venuto a rovinare ogni cosa, avrebbe riso sdegnosamente delle ombre che parlavano dietro i muri, si sarebbe opposto all’idea di addomesticare e civilizzare tutti gli animali selvaggi della terra.
Un nuovo schema… un nuovo metodo di pensiero e di vita… un nuovo modo per affrontare gli antichi problemi sociali. E tutto questo non doveva essere inquinato dall’alito stantio del pensiero umano.
I cani si sarebbero seduti in circolo di sera, finito il lavoro della giornata, e avrebbero parlato dell’uomo. Avrebbero dipanato l’antica, antichissima storia e avrebbero narrato le antiche, antichissime leggende, e l’uomo sarebbe stato un dio.
Ed era meglio così.
Perché un dio non può far del male.