III CENSIMENTO

Richard Grant si stava riposando accanto alla piccola sorgente che sgorgava dal fianco della collina e scendeva poi spumeggiando in un rapido torrente attraverso il sentiero sinuoso, quando lo scoiattolo gli passò accanto, veloce come un fulmine, e salì rapidissimo il tronco di un albero alto. Dietro lo scoiattolo, in un uragano di foglie mulinanti che l’autunno aveva fatto cadere, veniva il cagnolino nero.

Quando vide Grant, il cane si fermò di colpo, e rimase a guardarlo, scodinzolando, con gli occhi scintillanti di gioia.

Grant sorrise.

«Ciao, piccolo,» disse.

«Ciao,» disse il cane.

Grant si alzò di scatto, dal comodo letto di foglie sul quale si era disteso, e rimase a bocca aperta. Il cane rise, con la grossa lingua rossa penzolante dalla bocca.

Grant indicò l’albero col pollice.

«Il tuo scoiattolo è lassù.»

«Grazie,» disse il cane. «Lo so. Ne sento l’odore.»

Sbalordito, Grant si guardò rapidamente intorno, sospettando che qualcuno si stesse prendendo gioco di lui. Qualche abile ventriloquo, probabilmente. Ma non c’era nessuno in vista. Il bosco era deserto, c’erano soltanto il cane e lui, la sorgente gorgogliante, lo scoiattolo che squittiva nascosto tra le fronde dell’albero.

Il cane si fece più vicino.

«Il mio nome,» disse, «È Nathaniel.»

Parlava. Non c’era dubbio. Erano parole chiare, parevano pronunciate da una gola umana, solo che erano pronunciate con lentezza, come le avrebbe pronunciate qualcuno che ancora stesse studiando la lingua. E c’era un accento un po’ strascicato, bizzarro, che non riusciva a identificare, una certa inflessione insolita.

«Abito sulla collina,» dichiarò Nathaniel, «Con i Webster.»

Si accucciò a terra, agitò la coda, spazzando via qualche foglia gialla caduta. Appariva felice, molto felice della vita e dell’autunno e della sorgente e dello sconosciuto che aveva incontrato.

Grant improvvisamente fece schioccare le dita.

«Bruce Webster! Adesso capisco. Avrei dovuto pensarci subito. Sono felice di conoscerti, Nathaniel.»

«E tu chi sei?» chiese Nathaniel.

«Io? Io sono Richard Grant, numeratore.»

«Cos’è un nume… numero…»

«Un numeratore è una persona che conta la gente,» spiegò Grant. «Sto facendo un censimento.»

«Ci sono tante parole,» disse Nathaniel, «Che non riesco a dire.»

Si alzò, si avvicinò alla sorgente, e cominciò a bere lambendo rumorosamente l’acqua con la grande lingua rossa. Quando ebbe finito di bere, tornò ad accucciarsi accanto all’uomo.

«Vuoi sparare allo scoiattolo?» disse.

«Vuoi che lo faccia?»

«Ma certo,» disse Nathaniel.

Ma lo scoiattolo se n’era andato. Uomo e cane girarono intorno all’albero, insieme, guardando tra i rami che l’autunno aveva cominciato a spogliare. Lo scoiattolo non c’era più. Non videro sporgere la lunga coda dalle macchie di foglie gialle, non videro grandi occhi umidi guardarli dall’alto di un ramo. Mentre loro erano stati intenti a parlare, lo scoiattolo era fuggito.

Nathaniel non riuscì a nascondere la sua delusione, ma cercò di prendere la cosa con filosofia.

«Perché non passi la notte da noi?» lo invitò. «Così, domani, potremmo andare a caccia. Potremmo star fuori per tutto il giorno.»

Grant ridacchiò.

«Non vorrei dare troppo disturbo. Sono abituato ad accamparmi all’aperto, sai.»

Nathaniel volle insistere.

«Bruce sarebbe molto contento di vederti. E il nonno non ci farà caso, vedrai. E poi sono molte le cose che gli succedono intorno, e delle quali non si accorge, sai.»

«Chi è il nonno?»

«Il suo vero nome è Thomas,» disse Nathaniel. «Ma lo chiamiamo tutti nonno. È il padre di Bruce. Adesso è molto vecchio. Non immagini neppure quanto è vecchio, il nonno. Sta seduto tutto il giorno a pensare a una cosa accaduta tanto tempo fa.»

Grant annuì.

«Lo so di che si tratta, Nathaniel. Juwain.»

«Sì, proprio questo,» ammise Nathaniel. «Che cosa significa?»

Grant scosse il capo.

«Vorrei potertelo dire, Nathaniel. Vorrei saperlo.»

Si mise lo zaino in spalla, si chinò ad accarezzare il cane, grattandolo dietro l’orecchio. Nathaniel fece una smorfia di pura felicità.

«Grazie,» disse, e s’avviò per il sentiero.

Grant lo seguì.


Thomas Webster sedeva sulla poltrona a rotelle, sul grande prato ingiallito d’autunno, e guardava lontano, verso le colline addolcite dalla penombra della sera.

Compirò ottantasei anni, domani, pensava. Ottantasei anni. Sono lunghi, lunghi. Una vita infernalmente lunga da vivere. Troppo lunga, per un uomo. Soprattutto quando quest’uomo non può più camminare, e la sua vista va sempre peggio.

Elsie farà preparare per me una stupida torta con tante candele sopra, e i robot verranno tutti insieme a farmi un regalo e i cani di Bruce entreranno in camera mia ad augurarmi cento di questi giorni, dimenando la coda. E ci sarà anche qualche chiamata visifonica… forse non molte, però. E io mi batterò il petto e dirò che sono sicuro di arrivare a cento anni e tutti sorrideranno senza farsi vedere da me, e diranno, «sentite quel vecchio stupido.»

Ottantasei anni, e c’erano due cose che io volevo fare. Una l’ho fatta, l’altra no.

Un corvo passò gracchiando sopra una collinetta lontana, e si tuffò solennemente nelle ombre della valle. Da lontano, molto lontano, verso il fiume, giungeva lo starnazzare di un branco di anatre selvatiche.

Tra poco sarebbero spuntate le prime stelle. Spuntavano presto, in quel periodo dell’anno. Gli piaceva guardare le stelle. Le stelle! Batté le mani sui braccioli della poltrona, con orgoglio. Le stelle, per Dio, erano il suo pane. Un’ossessione? Forse… ma almeno erano qualcosa che serviva a cancellare la macchia di molti anni prima, uno schermo che proteggeva la famiglia dalle insinuazioni degli storici impiccioni. E anche Bruce contribuiva a cancellare quella macchia. I suoi cani…

Si udirono dei passi sull’erba, alle sue spalle.

«Il whisky, signore,» disse Jenkins.

Thomas Webster guardò il robot, e prese il bicchiere che Jenkins gli offriva sul vassoio.

«Grazie, Jenkins,» disse.

Rigirò il bicchiere tra le dita, meditabondo.

«Jenkins, da quanto tempo tu servi da bere a questa famiglia?»

«È dai tempi di suo padre, signore,» disse Jenkins. «E dai tempi del padre di suo padre.»

«Ci sono notizie?» domandò il vecchio.

Jenkins scosse il capo.

«Nessuna notizia.»

Thomas Webster cominciò a sorseggiare il suo whisky.

«Allora questo significa che sono già lontani dal sistema solare. Tanto lontani che neppure la stazione di Plutone può captare i loro messaggi, e ritrasmetterli a noi. Avranno già percorso più della metà della distanza che ci separa da Alfa del Centauro. Se soltanto io potessi vivere fino al giorno…»

«Certo che vivrà fino a quel giorno, signore,» gli disse Jenkins. «Lo sento nelle ossa.»

«Tu,» dichiarò il vecchio, «Non hai ossa.»

Lentamente sorseggiò il liquore, valutandone il sapore con l’esperienza del vecchio bevitore. E anche questa volta il whisky era troppo allungato. Ma non sarebbe servito a niente protestare. Non sarebbe servito a niente prendersela con Jenkins. Quel dottore, quel maledetto dottore! Che diceva a Jenkins di aggiungere un po’ d’acqua. Sempre di più. E, così facendo, toglieva a un vecchio il piacere di gustare qualcosa di decente, negli ultimi anni della sua vita…

«Che c’è laggiù?» domandò, indicando il sentiero che saliva sinuoso sulle pendici della collina.

Jenkins si voltò a guardare.

«A quanto sembra, signore,» disse, «È Nathaniel che porta a casa un ospite.»


I cani erano venuti insieme ad augurare la buonanotte, e se ne erano andati di nuovo.

Bruce Webster li seguì con lo sguardo, sorridendo.

«Sono fantastici,» disse.

Si rivolse a Grant.

«Suppongo che Nathaniel le abbia prodotto una bella sorpresa, oggi.»

Grant sollevò il bicchiere di brandy, lo guardò controluce.

«Sì,» disse. «La sorpresa è durata solo un minuto, però. E poi ho ricordato quello che avevo letto su di lei e su quello che lei sta facendo qui. Non è il mio campo, naturalmente, ma il suo lavoro è stato divulgato ampiamente, anche in forma accessibile a un profano.»

«Il suo campo?» domandò Webster. «Io credevo…»

Grant rise.

«Capisco cosa intende dire. Un addetto al censimento. Un numeratore. Le assicuro che il mio lavoro è proprio questo. Non le ho mentito.»

Webster era sconcertato, con una lieve traccia d’imbarazzo.

«Spero, signor Grant, di non averla…»

«Per carità,» disse Grant. «Sono abituato a venire considerato soltanto un tizio che scrive coscienziosamente nomi ed età e poi se ne va a trovare un altro gruppo di esseri umani. Questa, naturalmente, era la vecchia idea del censimento. Una conta delle code, niente di più. Una questione puramente statistica. Dopotutto, l’ultimo censimento è stato effettuato più di trecento anni fa. E i tempi sono cambiati.»

«Lei mi incuriosisce,» fece Webster. «A sentirla, questa sua… conta delle code sembra quasi sinistra.»

«Non è sinistra,» protestò Grant. «È logica. È una valutazione della popolazione umana. Una valutazione, però, che non si limita soltanto a scoprire quanti uomini esistono, ma come essi sono in realtà, che cosa pensano e come si comportano.»

Webster affondò ancor più comodamente nella soffice poltrona, tese i piedi verso il fuoco che ardeva nel caminetto.

«Non vorrà dirmi, signor Grant, che lei intende psicanalizzarmi?»

Grant vuotò il bicchiere di brandy, e lo posò sul tavolino.

«Non ne ho bisogno,» spiegò. «La Commissione Mondiale sa tutto quello che è necessario conoscere sulla gente come lei. Ma ci sono gli altri… i vagabondi delle colline, li chiamate qui. A nord li chiamano i selvaggi delle betulle. A sud li chiamano in un altro modo, non ricordo più quale. Una popolazione nascosta… una popolazione quasi dimenticata. Coloro che hanno scelto la strada dei boschi. Coloro che sono andati via, che si sono dispersi quando la Commissione Mondiale ha allentato le redini del governo.»

Webster brontolò.

«Le redini del governo dovevano essere allentate» dichiarò. «È la storia a dimostrarlo anche a chi non vuole vedere. Anche prima della nascita della Commissione Mondiale, l’assetto governativo del mondo era appesantito dai superstiti dell’età della pietra. Non c’erano motivi per l’esistenza di un governo cittadino trecento anni fa, come non ci sono motivi oggi per l’esistenza di un governo nazionale.»

«Lei ha perfettamente ragione,» disse Grant, «Eppure quando la stretta del governo è stata allentata, il suo controllo sulla vita del singolo è diminuito enormemente. L’uomo che voleva andare via, che voleva vivere indipendentemente dal suo governo, prendendone i benefici e sfuggendo agli obblighi, ha scoperto che la cosa era facilmente fattibile. La Commissione Mondiale non ci badava. C’erano cose ben più importanti da fare, c’erano preoccupazioni ben più gravi da affrontare… chi badava più agli irresponsabili e ai malcontenti? E gli irresponsabili e i malcontenti erano tanti. I contadini, per esempio, che avevano perduto le tradizioni antiche e gli stessi mezzi di sussistenza con l’avvento dell’idroponica. Molti contadini non riuscivano ad adattarsi alla vita industriale, non riuscivano a trovare un posto nella nuova società. Cosa dovevano fare, allora? Che cosa fecero? Se ne andarono, sparirono. Ritornarono alla vita primitiva. Una vita primitiva che consisteva nel coltivare un campicello, nell’andare a caccia di selvaggina, nel sistemare trappole nei boschi per catturare lepri e scoiattoli, nell’abbattere alberi per trovare il legno con il quale costruirsi una casa… e anche nel compiere qualche furtarello, qua e là. Privati di ogni mezzo di sussistenza e di una vita radicata nelle loro ossa da innumerevoli generazioni, i contadini ritornarono alla terra, ripercorsero la strada fino all’origine, fino al contatto più semplice e immediato con la terra e la natura… e la terra non li ha delusi, perché si è presa cura di loro.»

«Questo è accaduto trecento anni fa,» disse Webster. «La Commissione Mondiale non pensò a questa gente, allora. Non fece caso a questi profughi. Cercò di fare il possibile, certo, entro margini ragionevoli, ma, come ha detto lei, non si preoccupava certo del fatto che qualcuno le scivolasse tra le dita. Per quale motivo, allora, c’è questo improvviso interesse?»

«Il motivo è molto semplice, penso,» gli disse Grant. «Probabilmente è venuto il momento di affrontare il problema.»

Guardò attentamente Webster, studiando il suo ospite. Calmo e riposato, davanti al fuoco, Webster aveva un viso forte, il viso di un capo, e le ombre delle fiamme guizzanti giocavano rincorrendosi sul suo viso dai lineamenti pronunciati. Il gioco delle luci e delle ombre dava un aspetto irreale al viso di Webster.

Grant si frugò in tasca, estrasse la pipa e la borsa del tabacco, e cominciò a riempire il fornello.

«C’è qualcos’altro,» disse.

«Eh?» domandò Webster.

«C’è qualcos’altro, in questo censimento. Sarebbe stato effettuato in ogni modo, immagino, perché un quadro completo della popolazione terrestre deve sempre essere a disposizione della Commissione. Si tratta di un elemento d’importanza indiscussa. Ma non è il solo motivo.»

«I mutanti,» disse Webster.

Grant annuì.

«È esatto. Non credevo che qualcuno lo sospettasse.»

«Io lavoro sui mutanti,» gli spiegò Webster. «Ho dedicato la vita intera al problema delle mutazioni.»

«In questi ultimi tempi sono apparse delle strane manifestazioni culturali,» disse Grant. «Sono apparse qua e là, in maniera del tutto frammentaria, ma si tratta comunque di cose senza precedenti. Composizioni letterarie che portano l’impronta inconfondibile di personalità nuove e diverse da quelle alle quali siamo avvezzi. Musiche le quali si distaccano completamente dalla tradizione, seguono strade nuove e spesso del tutto incomprensibili. Opere d’arte che non assomigliano a nulla di ciò che noi conoscevamo fino a oggi. E quasi tutte queste opere sono anonime, oppure rimangono celate da uno pseudonimo.»

Webster rise.

«Una cosa simile, naturalmente, rappresenterà un mistero impenetrabile per la Commissione Mondiale!»

«Non è questo l’aspetto più preoccupante, per la Commissione,» spiegò Grant. «La Commissione Mondiale non si preoccupa tanto dell’arte e della letteratura, quanto di altre cose… cose che non si mostrano alla luce. Se si sta manifestando una specie di rinascimento bucolico, è naturale che esso appaia, all’inizio, sotto forma di nuove manifestazioni artistiche e letterarie. Ma, come la storia insegna, un rinascimento non riguarda soltanto l’arte e la letteratura.»

Webster sprofondò ancora di più nella soffice poltrona, e appoggiò il mento sulle mani congiunte.

«Credo di capire,» disse, «Quello che lei vuole intendere.»


Rimasero così, seduti in silenzio per lunghi minuti, ascoltando il crepitio dei ceppi nel caminetto, e il respiro freddo e remoto di un vento d’autunno che accarezzava leggero le foglie degli alberi, fuori.

«C’è stata un’occasione, una volta,» disse Webster, nel silenzio fatto di tanti piccoli fruscii, e parlò a bassa voce, come se parlasse soltanto a se stesso. «Un’occasione per raggiungere un ordine d’idee completamente nuovo, per ottenere qualcosa che avrebbe spazzato via tutto il ciarpame di quattromila anni di pensiero umano. Un uomo ha soffocato sul nascere questa occasione.»

Grant si agitò, nervosamente, poi si irrigidì, temendo che Webster avesse notato il suo movimento.

«Quell’uomo,» disse Webster. «Era mio nonno.»

Grant capì che, a questo punto, avrebbe dovuto dire qualcosa, capì che non avrebbe potuto restare là in silenzio, fermo sulla sua poltrona.

«Forse Juwain s’ingannava,» disse. «Forse non aveva trovato una nuova filosofia.»

«Questo è un pensiero,» dichiarò Webster, «Al quale abbiamo dovuto ricorrere spesso, per consolarci. Ma è molto improbabile. Juwain era un grande filosofo marziano, forse il più grande che Marte abbia mai generato. Io non ho dubbi: se fosse sopravvissuto, avrebbe potuto sviluppare quella nuova filosofia. Ma non è sopravvissuto. Non è sopravvissuto perché mio nonno non ha potuto andare su Marte.»

«Non è stata colpa di suo nonno,» disse Grant. «Lui ha tentato. L’agorafobia è una cosa che l’uomo non può combattere…»

Webster, con un gesto, interruppe le parole di Grant.

«Ormai le cose sono andate così. Non possiamo far tornare il passato, per cambiarlo come ci aggrada. Dobbiamo accettare quello che è stato, e partire da questo punto di partenza. E dato che la colpa è stata della mia famiglia, dato che è stato mio nonno a…»

Grant spalancò gli occhi, scosso dal pensiero che gli era venuto in mente.

«I cani! Ecco perché…»

«Sì, i cani,» disse Webster.

Da molto lontano, dal torrente, venne un suono lamentoso, uno strano pianto che si univa al vento che mormorava tra gli alberi.

«Un procione,» disse Webster. «I cani lo sentiranno e faranno di tutto per uscire.»

Il richiamo giunse di nuovo, e parve più vicino… ma forse si trattava soltanto di uno scherzo dell’immaginazione.

Webster s’era rialzato, sulla poltrona, e ora sedeva proteso in avanti, e fissava le fiamme che guizzavano nel caminetto, e che mandavano strani bagliori tutt’intorno.

«Dopotutto, perché no?» chiese. «Un cane possiede una personalità. Se ne può rendere conto vedendo ogni cane che incontra. È una cosa che si avverte, che esiste. Non ci sono due cani perfettamente uguali, come carattere e come comportamento. E tutti i cani sono intelligenti, in misura maggiore o minore. E si tratta delle due sole cose necessarie… una personalità consapevole e una certa misura d’intelligenza.

«I cani non hanno mai avuto una possibilità equa di progredire, ecco tutto. Avevano due gravi svantaggi. Non parlavano e non potevano camminare eretti, e, non potendo camminare eretti, non hanno avuto la possibilità di sviluppare mani. Se non ci fossero questi due elementi, la parola e le mani, noi potremmo essere cani e i cani potrebbero essere uomini.»

«Non avevo mai considerato la cosa sotto questo aspetto,» disse Grant. «E non avevo mai considerato i suoi cani come una razza pensante…»

«No,» disse Webster, e c’era una traccia di amarezza nelle sue parole. «No, certo. Lei considerava i cani come li considera il resto del mondo. Una curiosità, uno spettacolo da circo, un passatempo divertente e bizzarro. La vecchia idea del fenomeno da baraccone, del cane sapiente… che, questa volta, sa perfino parlare.

«Ma non è tutto qui, Grant. Le giuro che non è tutto qui. Fino a questo punto della strada, l’Uomo è andato avanti da solo. È stato una specie intelligente e pensante, che ha camminato da sola sulla via del tempo e del progresso. Pensi! Pensi a quanto sarebbe stata più rapida e più breve la strada, se invece di una sola specie ce ne fossero state due… due razze pensanti e intelligenti e amiche, unite da vincoli antichi e spinte da un comune impulso di progresso, decise a vivere e a lavorare insieme. Perché, vede, due razze diverse non penserebbero allo stesso modo. Avrebbero due modi di vedere il mondo, due concetti della realtà completamente diversi, da confrontare tra loro, da discutere per un comune fine di progresso. Dove la mente di una razza non potrebbe arrivare, ci arriverebbe la mente dell’altra razza. È l’antica storia delle due teste spinte da un solo motivo, e capaci di produrre un lavoro intellettuale infinitamente superiore. Per avere una buona medaglia, Grant, ci vogliono due facce.

«Rifletta, Grant, su quello che potremmo avere. Una mente diversa da quella umana, ma capace di lavorare con la mente umana, e disposta a farlo. Questa mente potrebbe vedere e comprendere cose che l’uomo non sa e non può vedere.»

Tese le mani verso le fiamme crepitanti del focolare, mani dalle lunghe dita, con le nocche ossute.

«I cani non sapevano parlare, Grant, e io ho dato loro la parola. Non è stato facile, perché la lingua e la gola di un cane non sono state fatte per parlare. Ma la chirurgia ha operato il prodigio… dapprima artificialmente, facendo violenza sulla natura… la chirurgia e il trapianto dei tessuti. Ma adesso… adesso spero, credo… certo è troppo presto per dirlo, ma…»

Grant si protese avanti, teso, ansioso.

«Lei intende dire che i cani sono in grado di trasmettere ai loro figli i mutamenti che lei ha operato. Lei intende dire che esistono le prove dell’acquisizione di un carattere ereditario per le correzioni da lei apportate all’opera della natura.»

Webster scosse il capo.

«È ancora troppo presto per affermarlo con certezza. Fra vent’anni, forse, le potrò dare una risposta.»

Prese la bottiglia di brandy dal tavolo, la tese verso il bicchiere di Grant.

«Grazie,» disse Grant.

«Sono un ospite davvero deplorevole,» gli disse Webster. «Lei avrebbe dovuto servirsi da solo.»

Sollevò il bicchiere controluce, in modo che i guizzi del focolare facessero scintillare il liquido ambrato.

«Il materiale sul quale ho lavorato era buono. Un cane è intelligente. Più intelligente di quanto lei creda. Normalmente, il cane medio riconosce almeno una cinquantina di parole. Non è insolito che ne riconosca un centinaio. Se aggiunge altre cento parole, avrà già un vocabolario essenziale ed efficace. Lei avrà notato, immagino, che Nathaniel si serve soltanto di parole semplici. Praticamente, le parole essenziali della nostra lingua.»

Grant annuì.

«Sì, quasi tutte di due, tre sillabe al massimo. Mi ha detto che c’erano molte parole che lui non sapeva dire.»

«Ci sono tante altre cose da fare,» disse Webster. «Tante, tante altre cose. Leggere, per esempio. Un cane non vede nel modo in cui io e lei vediamo. Ho fatto degli esperimenti con delle lenti di contatto… per correggere la vista canina, in modo che i loro occhi potessero vedere come i nostri. E se questo esperimento non avrà successo, esiste sempre un altro sistema. L’uomo deve riuscire a comprendere la vista dei cani… deve vedere con i loro occhi, per stampare dei libri che un cane possa leggere.»

«E i cani,» domandò Grant, «Che cosa ne pensano?»

«I cani?» disse Webster. «Ci creda o no, Grant, loro si divertono un mondo. Vivono la loro vita in perfetta felicità.»

Guardò nel focolare, e i suoi occhi fissarono le fiamme cangianti, e per qualche istante rimase in silenzio.

Preceduto da Jenkins, Grant salì le scale per raggiungere la sua camera da letto, ma quando uomo e robot passarono davanti a una porta semiaperta una voce li chiamò.

«È lei, straniero?»

Grant si fermò, si girò di scatto, cercando di scoprire la provenienza di quella voce.

Jenkins disse, in un mormorio sommesso:

«È il vecchio padrone, signore. Spesso non riesce a prendere sonno.»

«Sì,» disse Grant, a voce alta.

«Ha sonno?» domandò la voce.

«Non molto,» rispose Grant.

«Allora entri. Può restare con me per un poco,» disse il vecchio.

Thomas Webster era seduto sul letto, con la schiena appoggiata al cuscino, e una vecchia berretta da notte a striscie calcata fin sulla fronte. Vide che Grant la stava guardando, stupito.

«Sto diventando calvo,» disse raucamente il vecchio, «Non mi sento a mio agio se non ho qualcosa che mi copre la testa. E non posso portare il cappello a letto.»

Si rivolse a Jenkins, allora, e disse, con voce aspra:

«Cosa stai facendo lì impalato? Non vedi che ha bisogno di bere qualcosa?»

«Sì, signore,» disse Jenkins, e scomparve.

«Si sieda,» disse Thomas Webster. «Si sieda e mi stia ad ascoltare per un poco. Parlare mi aiuterà a prendere sonno. E, inoltre, non capita tutti i giorni di vedere una faccia nuova, qui.»

Grant obbedì, e si mise a sedere.

«Che cosa ne pensa di quel mio figliolo?» chiese il vecchio.

Grant sobbalzò, sorpreso dall’insolita domanda.

«Be’, credo che sia fantastico… Il lavoro che sta facendo sui cani…»

Il vecchio ridacchiò.

«Lui e i suoi cani! Le ho mai raccontato di quella volta che Nathaniel se la prese con una puzzola? Ma certo che non gliel’ho mai raccontato. Le avrò detto sì e no due parole.»

Passò le mani sulla coperta, accarezzando la stoffa con lunghe dita nervose.

«Ho un altro figlio, sa. Allen. L’ho sempre chiamato Al. Questa notte si trova più lontano dalla Terra di quanto nessun uomo sia mai stato. Sta viaggiando verso le stelle.»

Grant annuì.

«Lo so. L’ho letto. La spedizione ad Alpha Centauri.»

«Mio padre era un medico, un chirurgo,» disse Thomas Webster. «Voleva che diventassi chirurgo anch’io. Credo di avergli spezzato il cuore, quando decisi di non abbracciare la professione medica. Ma se avesse potuto leggere nel futuro, se avesse potuto vivere stanotte, sarebbe stato orgoglioso di noi.»

«Lei non deve stare in pena per suo figlio,» disse Grant. «Lui…»

Il vecchio lo mise a tacere con un’occhiataccia.

«Sono stato io, io, a costruire quell’astronave. L’ho progettata in ogni particolare, l’ho vista nascere e crescere. Se si tratta soltanto di viaggiare nello spazio, se non ci sono altre incognite, andrà dove deve andare, farà in pieno il suo dovere. E il ragazzo è in gamba. Potrebbe pilotare quella bagnarola attraverso tutto l’inferno, come se viaggiasse dalla Terra alla Luna.»

Si curvò verso Grant, rialzandosi ancora di più sul letto, e il copricapo ballonzolò con il movimento, e la punta ricadde sul cuscino.

«E ho un altro motivo per credere che il ragazzo riuscirà ad arrivare lassù e a tornare indietro. Vede, si tratta di una cosa alla quale, sul momento, non dedicai una grande attenzione. Ma poi me ne sono ricordato, ci ho riflettuto sopra, chiedendomi se non avesse potuto significare… bene, se non avesse potuto essere…»

Ansimò un poco, raucamente, per riprendere fiato.

«Guardi che non sono superstizioso.»

«Certo che no,» disse Grant.

«Ci può scommettere, dico, che non sono superstizioso! Ci può scommettere!» esclamò Webster.

«Si tratta forse di un segno?» suggerì Grant. «Di una sensazione, di un presentimento?»

«Niente di tutto questo,» dichiarò il vecchio. «Si tratta di una certezza quasi assoluta, invece. La certezza che il destino dev’essere con me. Che il mio destino è stato, fin dalla nascita, quello di costruire un’astronave capace di percorrere tutta la distanza dalla Terra alle stelle, e ritornare attraverso gli spazi siderali. Che qualcuno, o qualcosa, ha deciso che era il momento, per l’Uomo, di andare fino alle stelle per vedere cosa c’era lassù… e che qualcuno, o qualcosa, ha voluto anche dare una mano all’Uomo, per raggiungere questo scopo.»

«Lei sembra parlare di un fatto realmente accaduto,» disse Grant. «A sentirla, pare quasi che sia accaduto qualcosa di concreto, qualcosa che l’ha convinta dell’inevitabile successo della spedizione.»

«Ci può scommettere anche le stringhe delle scarpe,» disse Webster. «È proprio quello che voglio dire, né più né meno. La cosa è accaduta vent’anni fa, nel prato che si trova davanti a questa casa.»

Si rialzò ancora di più, ansimò raucamente, sbuffò, cercando l’aria che pareva mancare nei suoi polmoni.

«Ero a terra, capisce, con il morale sotto i tacchi. Il sogno si era infranto, e quando un sogno si è infranto, i cocci che vede per terra sono quelli del suo morale. Anni e anni passati per niente. Il principio fondamentale che avevo elaborato, la formula che era nata nel corso di anni e anni di studio e di lavoro, e che avrebbe permesso di raggiungere la velocità necessaria per il volo interstellare… bene, semplicemente, non funzionava. Non funzionava, capisce? E il peggio era che io sapevo di avere quasi ragione. Sapevo che rimaneva soltanto una piccolissima cosa, una sola, una correzione che doveva essere apportata alla teoria. Ma non riuscivo a scoprire l’errore. Cercavo e cercavo, e l’errore era sempre lì, inafferrabile e irridente.

«Così ero seduto là fuori, sul prato, e stavo a compatirmi per il mio insuccesso, e avevo davanti a me un disegno del progetto. Vivevo con quel progetto, capisce? Lo portavo sempre con me, dovunque andassi, forse perché credevo confusamente che, a furia di guardarlo, l’errore mi sarebbe balzato agli occhi così, spontaneamente. Lei sa che a volte questo succede. La mente gioca degli strani scherzi.»

Grant annuì.

«Mentre stavo seduto sul prato, un uomo si avvicinò. Uno dei vagabondi delle colline. Lei sa cos’è un vagabondo delle colline?»

«Certo,» disse Grant.

«Be’, questo tizio si avvicinò a me. Uno strano soggetto, che pareva tutto snodato, e camminava tranquillamente, come se non avesse un solo pensiero al mondo. Si fermò alle mie spalle e guardò sopra la mia spalla e mi chiese cos’era quello che tenevo sulle ginocchia.

«’Un motore interstellare’, gli risposi.

«Lui allungò la mano e prese il disegno e io glielo lasciai prendere. Dopotutto, a che serviva negarglielo? Lui non avrebbe potuto capire una virgola, del progetto, e poi il progetto era inutile, perché il motore non funzionava.

«E allora lui mi restituì il progetto e mi indicò col dito un punto. ’Ecco il suo guaio,’ mi disse. E poi si voltò e se ne andò di gran fretta, e io rimasi seduto a guardarlo come un allocco, troppo sbalordito per dire una sola parola, perfino per chiamarlo, per dirgli di tornare indietro.»

Il vecchio si raddrizzò ancora, rimase immobile sul letto, senza più l’appoggio del cuscino, e guardò la parete, mentre la berretta gli era andata di traverso e gli dava un aspetto buffo e patetico a un tempo. Fuori il vento passava tra le foglie degli alberi, con un sospiro cupo e profondo, un sospiro che ricordava il silenzio e la solitudine di spazi lontani, di alberi secchi, d’inverno vicino, di distese impenetrabili. E in quella stanza bene illuminata parvero discendere delle ombre, anche se Grant sapeva che non c’erano ombre, che non c’erano zone oscure intorno a lui.

«È mai riuscito a ritrovarlo?» chiese Grant.

Il vecchio scosse il capo.

«No. Neppure una traccia,» disse.

Jenkins entrò dalla porta con un bicchiere in mano, un bicchiere che posò sul comodino, accanto al letto.

«Tornerò, signore,» disse a Grant, «Per accompagnarla nella sua camera.»

«Non ce ne sarà bisogno,» fece Grant. «Basta che tu mi dica dove si trova.»

«Come vuole, signore,» disse Jenkins. «È la terza, in fondo al corridoio. Lascerò accesa la luce e la porta socchiusa.»

I due uomini rimasero seduti in silenzio, ciascuno perduto nei suoi pensieri, ascoltando i passi del robot che si allontanavano nel corridoio, nella notte.

Il vecchio lanciò un’occhiata al bicchiere di whisky e tossì, per schiarirsi la voce.

«Adesso mi pento di non avere chiesto a Jenkins di portarne un bicchiere anche a me,» disse.

«Be’, non c’è niente di male,» disse Grant. «Prenda il mio bicchiere. Non ne ho realmente bisogno, sa.»

«Ne è sicuro?»

«Certo, Stia tranquillo.»

Il vecchio tese la mano, prese il bicchiere, lo assaggiò cautamente, fece un lungo sospiro di soddisfazione.

«Ah, finalmente… ecco quella che io chiamo una bevanda decente,» disse. «Il dottore ordina a Jenkins di servirmele sempre allungate.»


C’era qualcosa, nella casa, che entrava nel sangue e sotto la pelle, che dava i brividi e provocava disagio, senza che se ne capisse realmente il perché. Qualcosa che dava a un ospite la sensazione di essere un estraneo… forse un intruso… uno straniero pieno di disagio e nudo e indifeso nel quieto mormorio delle alte pareti.

Seduto sul bordo del letto, Grant si tolse lentamente le scarpe, e le lasciò cadere sul tappeto.

Un robot che aveva servito la famiglia per quattro generazioni, e che parlava di uomini morti da molto tempo come se avesse portato loro un bicchiere di whisky soltanto il giorno prima. Un vecchio in ansia per un’astronave che scivolava silenziosa attraverso le tenebre dello spazio, oltre i confini del sistema solare. Un altro uomo che accarezzava il sogno di un’altra razza, una razza che avrebbe potuto camminare accanto all’uomo, la zampa nella mano, sulla strada polverosa e interminabile del destino.

E sopra ogni cosa, inconfondibile benché il suo nome non venisse quasi mai pronunciato, l’ombra oscura di Jerome A. Webster… l’uomo che aveva abbandonato un amico nel momento del bisogno, un medico che aveva tradito il giuramento della sua professione, un chirurgo che aveva deluso la fiducia che altri avevano riposto in lui.

Juwain, il filosofo di Marte, era morto, alla vigilia di una grande scoperta, perché Jerome A. Webster non aveva potuto lasciare quella casa, perché l’agorafobia lo aveva tenuto incatenato a poche miglia quadrate di terreno.

Scalzo, Grant attraversò la stanza e si avvicinò al tavolo sul quale Jenkins aveva posato il suo zaino. Allentò le cinghie, le aprì, aprì lo zaino, ed estrasse un voluminoso incartamento. Poi, finalmente, tornò a sedersi sul letto, e cominciò a sfogliare in fretta un grande fascio di fogli.

Dati, centinaia di fogli coperti di dati. Nomi, cifre, località. Le storie di centinaia di vite umane, trascritte e annotate su quei fogli. Non solo le cose che quegli uomini gli avevano detto, o le domande alle quali avevano risposto, ma decine e decine di altre piccole cose… cose che aveva ricavato dall’osservazione, dalle lunghe ore trascorse a sedere e a osservare, dal fatto di avere vissuto con quegli esseri umani per un’ora o per un giorno.

Perché la gente che lui riusciva a scoprire e a raggiungere tra quelle colline interminabili e boscose e impervie lo accettava. Faceva parte dei suoi compiti il farsi accettare. E loro lo accettavano perché lui veniva a piedi, coperto di polvere e graffiato dai rovi e dagli sterpi, perché veniva stanco e affaticato, con uno zaino sulle spalle. In lui non si vedeva traccia delle cose nuove e moderne che l’avrebbero fatalmente isolato da quella gente, a lui non erano rimaste tracce di quella polvere del progresso ch’era tanto difficile lavare, che lo avrebbe separato da coloro che doveva visitare, che l’avrebbe circondato, per gli occhi semplici di quella gente, di un alone di sospetto. La sua polvere era la polvere della terra, e quella polvere si poteva lavare. Era faticoso, estenuante compiere un censimento a quel modo, ma era l’unico modo per compiere il lavoro che la Commissione Mondiale desiderava… e del quale aveva assoluto bisogno.

Perché, dove e quando lui non lo sapeva e neppure poteva sospettarlo, ci sarebbe stato un uomo che, studiando dei documenti uguali a quelli che si trovavano sul suo letto, avrebbe trovato la cosa che cercava, avrebbe trovato l’indizio, forse appena accennato, di una vita che divergeva, poco o molto, dal normale comportamento umano. Sarebbe stato forse un uomo come lui a trovare l’indizio, a scoprire il segno, a notare la discrepanza. E avrebbe potuto trattarsi di poco. Qualche segno appena percettibile di un comportamento diverso, l’indizio rivelatore che avrebbe messo una vita sola in contrasto con quelle di tutti gli altri.

Le mutazioni umane non erano né insolite né sconosciute, naturalmente. Molte erano note, e appartenevano a uomini che detenevano posizioni altissime nel mondo. Quasi tutti i membri della Commissione Mondiale erano dei mutanti, ma, come negli altri casi, i talenti e le qualità derivati dalle mutazioni, nel loro caso, erano stati modificati e incanalati dal comportamento generale dei cittadini del mondo, grazie a un condizionamento inconscio che aveva modellato i loro pensieri e le loro reazioni adattandoli ai pensieri e alle reazioni della maggioranza degli uomini.

C’erano sempre stati dei mutanti; in caso contrario la razza non avrebbe mai potuto avanzare, i primi uomini sarebbero rimasti nel buio caldo delle caverne, le grandi scoperte non avrebbero avuto luogo, il progresso sarebbe rimasto solo una parola fantasma, mai scritta sul grande libro del mondo. Ma fino all’ultimo secolo essi non erano stati riconosciuti per quello che erano. Prima di allora i mutanti erano stati soltanto dei grandi uomini d’affari o dei grandi scienziati o dei grandi delinquenti. O anche degli eccentrici che non avevano mai ottenuto qualcosa di più del disprezzo e della commiserazione, da una razza che non tollerava alcuna divergenza dalla norma.

I mutanti che avevano avuto successo si erano adattati al mondo che li circondava, avevano piegato i loro poteri mentali superiori in modo che potessero essere incanalati entro schemi di azione accettabili dalla massa e dalla mentalità comune. E questa necessità aveva opacizzato la loro splendida utilità, aveva limitato le loro capacità, aveva impoverito la loro abilità, a causa delle restrizioni necessarie per vivere in un mondo di uomini mediocri.

Anche in quel tempo le capacità dei mutanti conosciuti come tali erano soffocate, inconsciamente, da uno schema mentale che era stato costruito dalle circostanze… un ’canale di logica’ che era una cosa terribile.

Ma nel mondo, in qualche luogo che nessuno conosceva, c’erano dozzine e probabilmente centinaia di altri esseri umani che erano un gradino più sopra, nella scala evolutiva, della maggioranza degli esseri umani… persone le cui vite non erano state toccate e svilite dalla rigidità della complessa esistenza umana. Il loro talento non era stato diminuito, spento, ed essi non conoscevano alcun ’canale di logica’ umano, ma soltanto la loro logica superiore, una logica che precorreva i tempi e il destino dell’Homo Sapiens.

Grant estrasse dal voluminoso incartamento un fascicolo di fogli sottile, miseramente sottile se confrontato alla mole di quanto aveva raccolto; i fogli erano fermati da un punto metallico, e Grant lesse il titolo del dossier con un sentimento che si avvicinava molto alla reverenza con la quale gli uomini in tutti i tempi si erano accostati ai grandi misteri della religione.

«Definizione Incompiuta della Nuova Filosofia di Juwain, e Relative Note,» diceva quel titolo.

Ci sarebbe voluta una mente che non conosceva alcun ’canale di logica’, una mente non condizionata da quattromila anni di pensiero umano, per prendere la torcia del progresso dalle fredde mani del cadavere del grande filosofo marziano, quelle stesse mani che per un momento — trascurabile nell’infinito succedersi del tempo e delle stagioni, ma decisivo per le creature pensanti che abitavano il sistema solare — avevano levata alta la fiaccola del sapere, per rischiarare il mondo e l’universo e l’animo umano. Quella torcia, quella fiaccola accesa per un breve istante avrebbe potuto rischiarare la via che portava a una nuova concezione della vita e degli scopi delle creature pensanti, avrebbe potuto mostrare un sentiero più sicuro e più facile e più diritto di quello seguito in quattro millenni di faticoso progresso. Una filosofia che avrebbe fatto progredire l’umanità di centomila anni nel breve spazio di due generazioni.

Juwain era morto e in quella stessa casa un uomo aveva consumato i suoi lunghi anni d’angoscia e di rimorso, anni che gli avevano parlato da ogni angolo e da ogni ombra con la voce del suo amico defunto, anni che gli avevano portato, con la voce mormorante del vento tra i pini, e con il mutare delle stagioni, la fuga inutile dalla condanna che una razza privata della sua più grande speranza, tradita nella sua aspirazione più sublime, gli ripeteva con una voce fatta di silenzio, dalla quale era inutile, e impossibile, nascondersi.

Un grattare furtivo giunse improvvisamente dalla porta. Sorpreso, Grant si irrigidì, e ascoltò. Il rumore si ripeté. Poi, un guaito sottile, leggero e gentile come una carezza di seta.

Rapidamente Grant riunì i documenti e li infilò nella loro cartella, li riportò sul tavolo, e avanzò verso la porta. Quando l’aprì, Nathaniel scivolò silenziosamente nella stanza, come un’oscura ombra sinuosa.

«Oscar,» disse il cagnolino. «Non sa che sono qui. Oscar me le darebbe sode se sapesse che sono qui.»

«Chi è Oscar?»

«Oscar è il robot che si prende cura di noi.»

Grant sorrise al cane:

«Che cosa vuoi, Nathaniel?»

«Voglio parlare con te,» disse Nathaniel. «Tu hai parlato a tutti gli altri. A Bruce e al nonno. Ma non hai parlato con me, e io sono quello che ti ha trovato.»

«D’accordo,» lo invitò Grant. «Avanti, allora, parla.»

«Tu hai dei pensieri,» disse Nathaniel.

Grant corrugò la fronte.

«Hai ragione. Forse sì, forse sono davvero preoccupato. La razza umana ha sempre dei pensieri, ha sempre delle preoccupazioni. Ormai dovresti sapere questo, Nathaniel.»

«Ti preoccupi di Juwain. Proprio come il nonno.»

«Non mi preoccupo per lui, Nathaniel,» protestò Grant, correggendolo. «Mi faccio soltanto delle domande. Rifletto e mi chiedo tante cose, e poi spero. La speranza vive sempre, sai.»

«Ma perché parlate sempre di questo Juwain?» domandò Nathaniel. «E chi è, che cosa ha…»

«In realtà, non è nessuno,» dichiarò Grant. «Cioè, vedi, una volta è stato qualcuno, ma è morto molti anni fa. Oggi è soltanto un’idea. Un problema. Una sfida. Qualcosa che ti fa riflettere, qualcosa che ti fa pensare e ti fa porre delle domande.»

«Io so pensare,» disse Nathaniel, con orgoglio. «Io penso moltissimo, a volte. Ma non devo pensare come pensano gli esseri umani. Bruce mi dice che non devo. Lui dice che io devo pensare i pensieri di un cane e lasciare stare i pensieri degli uomini. Lui dice che i pensieri dei cani sono buoni quanto i pensieri degli uomini, e che forse sono anche migliori.»

Grant annuì, serio in volto.

«In queste parole c’è molto di vero, Nathaniel. Dopotutto, tu devi pensare diversamente dall’uomo. Tu devi…»

«Ci sono tante cose che i cani sanno e gli uomini non sanno,» disse Nathaniel, pavoneggiandosi. «Noi possiamo sentire delle cose e vedere delle cose che gli uomini non possono né sentire né vedere. A volte ci mettiamo a ululare di notte, e gli uomini ci mandano via, ci fanno tacere. Ma se gli uomini potessero vedere e sentire quello che noi vediamo e sentiamo, avrebbero tanta paura che non potrebbero più muoversi. Bruce dice che siamo… che siamo…»

«Medianici?» domandò Grant.

«Sì, proprio questo,» dichiarò Nathaniel. «Non riesco a ricordare tutte quelle parole.»

Grant prese il pigiama che aveva posato sul tavolo.

«Che ne dici di passare la notte con me, Nathaniel? Ti puoi sistemare ai piedi del letto.»

Nathaniel lo guardò a occhi spalancati, occhi grandi e rotondi e umidi.

«Accidenti, vuoi dire che lo desideri sul serio?»

«Ma certo che lo desidero. Se dobbiamo essere soci, cani e uomini, faremo meglio a partire alla pari, non trovi?»

«Vedrai che non sporcherò il letto,» disse Nathaniel. «Te lo assicuro, sinceramente. Oscar mi ha fatto il bagno stasera.»

Agitò un orecchio, in quel momento.

«Però,» aggiunse, «Credo che gli siano sfuggite una pulce o due.»


Grant guardò, perplesso, la pistola atomica. Era un oggetto maneggevole, serviva a una quantità di cose utili, poteva essere usata per una larga gamma di funzioni, da quella di accendisigaro a quella di arma mortale e infallibile. Costruita per durare più di mille anni, era garantita contro ogni guasto, o almeno così affermava la pubblicità. Non si guastava mai… solo che, adesso, non ne voleva sapere di funzionare.

La puntò contro il terreno e la scosse vigorosamente e la pistola continuò testarda a rifiutarsi di funzionare. La batté con cautela contro un sasso vicino, e non ottenne nessun risultato.

L’oscurità stava calando sulle colline che si rincorrevano sinuose e interminabili da un orizzonte all’altro. Lontano, in un punto imprecisato della valle attraversata dal fiume d’argento, un gufo lanciò il suo beffardo, irrazionale richiamo. Il richiamo del gufo parve irridere, nel silenzio, gli sforzi di Grant. Le prime stelle, piccole e dolci, sbocciarono come fiori lontani nel cielo, a oriente, dove l’oscurità si addensava nera e violetta, mentre a occidente il soffuso chiarore denso di sfumature verdognole che ricordava il passaggio del sole, il quale dopo una breve sosta sull’orlo del mondo era scivolato in basso, per rischiarare altre notti e altre colline, stava incupendo nei ricchi colori tenebrosi della notte vicina. Tra poco il cielo sarebbe stato colmo e scintillante di stelle, tra poco a oriente quelle prime fiammelle lontane avrebbero palpitato di splendore in un cielo color del velluto più scuro. Il crepuscolo stava consumando i suoi ultimi bagliori, la notte stava avanzando silenziosa e oscura.

Davanti al grosso macigno la catasta di ramoscelli secchi e di rami bruniti dal sole e dalle stagioni era già pronta, e, un poco più lontano, Grant aveva accumulato dell’altra legna, raccolta nell’ultima ora del tramonto, legna che avrebbe alimentato per tutta la notte le fiamme guizzanti e confortevoli del fuoco dell’accampamento. Ma se la pistola non funzionava, non ci sarebbe stato il fuoco a tenergli compagnia nella lunga notte. La legna sarebbe rimasta scura e affastellata, e l’unica luce sarebbe stata quella delle stelle.

Grant imprecò, sottovoce, pensando al freddo della notte che si sarebbe insinuato nelle sue ossa, durante il sonno, pensando alle razioni fredde e sgradevoli che avrebbe dovuto mangiare.

Picchiò di nuovo la pistola sulla roccia, questa volta con maggiore forza. E, ancora, senza risultato.

Si udì scricchiolare qualcosa, un ramoscello che si spezzava nelle tenebre che andavano colmando sempre più rapidamente ogni anfratto, e Grant si rialzò di scatto, sorpreso. Accanto al tronco oscuro di uno dei giganti del bosco che torreggiavano nell’ombra sempre più fitta della sera era in piedi una figura umana, alta e dinoccolata.

«Salve,» disse Grant.

«Qualcosa che non va, straniero?»

«La mia pistola…» rispose Grant, ma si interruppe subito. Non aveva senso far conoscere a quella figura indistinta, confusa tra gli alti tronchi del bosco, che lui era disarmato.

L’uomo si fece avanti, tendendo la mano.

«Non funziona, eh?»

Grant si sentì togliere di mano la pistola.

L’ospite inatteso si acquattò per terra, incrociando le gambe, facendo degli strani suoni con la bocca, uno strano chiocciare sommesso che non aveva senso alcuno. Grant cercò di vedere cosa stesse facendo lo sconosciuto, ma l’oscurità che scendeva silenziosa e sempre più fitta trasformava la mano dell’uomo in una macchia nera come l’inchiostro, confusa, che si muoveva veloce sul lucido metallo della pistola.

Si udì uno scatto, e uno stridere metallico sommesso. L’uomo aspirò profondamente l’aria e rise forte. Si udì di nuovo lo stridere metallico, e poi di nuovo lo scatto, e infine l’uomo si alzò, porgendogli la pistola.

«Tutto sistemato,» disse. «Forse funziona meglio di quanto non abbia mai funzionato prima.»

Un ramoscello scricchiolò di nuovo, si spezzò nel silenzio carico di oscurità della sera.

«Ehi, aspetti un momento!» gridò Grant, ma l’uomo se ne era già andato, un fantasma nero che si muoveva tra i fantasmi dei tronchi.

Un brivido che non era il brivido della notte salì sinuosamente dal terreno e risalì lentamente, come un serpente oscuro, il corpo di Grant, gelandogli il sangue, fermandogli per un istante il cuore. Un brivido gli fece battere i denti, come se fosse stato nudo su quelle alte colline nel cuore dell’inverno, un brivido che gli fece rizzare i capelli sulla nuca, un brivido che gli diede la pelle d’oca, un brivido di disagio che la sua volontà non poteva sopprimere.

Non c’era alcun suono, a eccezione dell’allegro chiacchierio dell’acqua che saltellava come un cucciolo felice nell’oscurità, muovendosi nel torrentello che scorreva appena più in basso del punto in cui aveva sistemato il suo accampamento.

Tremando, Grant si inginocchiò accanto alla catasta di ramoscelli, e premette il pulsante della pistola. Una sottile fiamma azzurrina sgorgò dall’arma e i ramoscelli presero fuoco, crepitando e unendo il loro richiamo alla risatella oscura del torrente e al mormorio cupo del vento che spirava tra gli alti tronchi del bosco.


Grant trovò il vecchio Dave Baxter appollaiato in cima alla staccionata, intento a lanciare grandi sbuffi di fumo dalla pipa corta che quasi scompariva tra i baffi folti e cespugliosi dell’uomo.

«Salve, straniero,» disse Dave. «Salta su e riposati un poco.»

Grant si arrampicò sulla staccionata, e lasciò vagare lo sguardo sul campo biancheggiante di granoturco, punteggiato qua e là dalle gaie macchie dorate dei meloni che maturavano al sole.

«Vai in giro tanto per passeggiare,» chiese il vecchio Dave, «O cerchi qualcosa?»

«Cerco qualcosa,» ammise Grant.

Dave si tolse di bocca la pipa, sputò, e se la infilò di nuovo in bocca. I baffi rinchiusero la pipa in un abbraccio affettuoso, e pericoloso, bruciacchiati com’erano dal calore del fornello.

«Scavi?» domandò il vecchio Dave.

«No,» rispose Grant.

«È passato un tizio di qui, quattro, cinque anni fa,» disse Dave, «Che era peggio di un cane da tartufi, per scavare. Ha trovato il posto dove c’era stata una vecchia città e allora si è messo a scavare come un dannato, ha buttato per aria tutto, pareva un ossesso. Mi ha rotto le scatole a furia di chiedermi notizie della città, com’era e cos’era e chi c’era, ma io non ricordavo molto. Una volta mio nonno fece il nome della città, ma che m’impicchino se non l’ho dimenticato. Il tizio che ti ho detto aveva un fascio di vecchie mappe che agitava sempre e mostrava in giro e studiava tutto il santo giorno, lui, cercando di capirci qualcosa, chissà che cosa, ma scommetto che non ha mai trovato nulla di quello che cercava, il diavolo sa cos’era.»

«Forse era un cercatore di antichità,» disse Grant.

«Può darsi,» gli disse il vecchio Dave, «Ma io cercavo di girargli al largo, per quel che potevo. Però non era peggio del tale che cercava di rintracciare chissà quale vecchia strada, e che è passato una volta da queste parti. Anche lui aveva delle mappe. Se ne è andato convinto di averla trova ta, la sua vecchia strada, e io non ho avuto il coraggio di dirgli che quella che aveva trovato era una pista tracciata dalle vacche.»

Piegò il capo, come un passero, e lanciò un’occhiata sospettosa a Grant.

«Tu non cerchi nessuna vecchia strada, vero?»

«No,» disse Grant. «Io sono un addetto al censimento.»

«Un che cosa?»

«Un addetto al censimento,» spiegò Grant. «Trascrivo il tuo nome e la tua età e il nome del posto in cui vivi.»

«E a che ti serve?»

«Il governo lo vuole sapere,» disse Grant.

«Noi non rompiamo le scatole al governo,» dichiarò il vecchio Dave. «E chi gliel’ha detto, al governo, di venire a rompere le scatole a noi?»

«Il governo non vuole rompere le scatole a nessuno,» gli disse Grant. «Magari un giorno o l’altro potrà perfino venirgli l’idea di pagarti qualcosa. Non si sa mai, quando c’entra il governo.»

«In questo caso,» disse il vecchio Dave, «La cosa cambia faccia.»

Rimasero appollaiati lassù, sulla staccionata, fianco a fianco, e guardarono i campi che si stendevano intorno a loro, a perdita d’occhio. Del fumo saliva pigramente da un comignolo nascosto in un avallamento bagnato dal sole, giallo dello splendore ardente delle betulle. Un torrente scorreva sinuoso, placidamente, attraverso un grande prato dipinto dei colori dell’autunno, e oltre il prato la collina cominciava a inerpicarsi verso il cielo, una grande collina che si univa alle altre colline formando una scala di roccia e di colori porpora e oro, una scala i cui gradini erano fatti di cuscini dorati di foglie d’acero.

Lassù, sulla staccionata di legno, nei campi d’autunno cir condati dalle colline gialle, brune e violette là, dove le vette sfumavano nei vapori leggeri del cielo, Grant si lasciò pervadere dalla carezza calda e gradevole del sole d’autunno, e respirò felice il profumo dei campi e della natura.

Una buona vita, pensò. Un raccolto abbondante, una terra fertile, molta legna da bruciare, selvaggina da cacciare, a volontà. Una vita felice.

Lanciò un’occhiata al vecchio che gli stava accanto, vide le rughe serene di una vecchiaia amica, rughe che erano state scavate sul suo viso dal tempo e dal sole e dalla pioggia e dalle ore passate tra quei campi, e non dall’angoscia e dal dolore e dalle preoccupazioni di ogni momento, e cercò per un momento di immaginare compiutamente l’essenza di quella vita… una vita semplice, pastorale, uguale a quella vissuta nei giorni storici dell’antica frontiera americana, con tutte le ricompense e le gioie autentiche offerte dalla frontiera, e senza nessuno dei suoi pericoli.

Il vecchio Dave si tolse la pipa di bocca, e la impugnò per indicare il campo, muovendola lentamente per abbracciare l’intera sinfonia di colori e di autunno e di piccole cose felici che scorrevano, crescevano, guizzavano, stormivano intorno.

«C’è ancora tanto di quel lavoro da fare,» annunciò. «Ma non si fa, e non si può fare, accidenti. Quei ragazzi non valgono neppure la fatica di farli crescere, loro. A caccia dalla mattina alla sera, quando non sono a pesca. E intanto le macchine stanno lì ad arrugginire, e vanno in malora. Joe non si vede da queste parti da un’eternità. È un genio per le macchine, Joe. Non ce n’è una che lui non sappia mettere a posto.»

«Joe è tuo figlio?»

«No. È un mezzo matto che vive nei boschi, chissà dove. Arriva lui e ti ripara quello che non va, e poi se ne va a piedi com’è venuto. Dirà sì e no due parole, sentirlo parlare è un mezzo miracolo. Non aspetta neppure di essere ringraziato, non te ne dà il tempo. Si alza e se ne va. Sono anni che fa così. Il nonno mi ha raccontato della volta che l’ha visto per la prima volta, quando era un ragazzo, il nonno. Adesso Joe viene ancora.»

Grant sbalordì:

«Aspetta un momento. Non può trattarsi dello stesso uomo.»

«Vedi,» disse il vecchio Dave. «È questo il fatto strano. Tu non ci crederai, straniero, ma Joe non è invecchiato per niente da quando l’ho visto la prima volta. È un tipo strano, questo sì. Se ne raccontano di storie pazze sul suo conto. Il nonno parlava sempre di come Joe pasticciava con le formiche.»

«Formiche!»

«Sicuro. Ha costruito una specie di serra sopra un formicaio e l’ha riscaldata, quand’è venuto l’inverno. Almeno così diceva sempre il nonno. Giurava e spergiurava di avere visto con i suoi occhi tutto quanto, serra e formicaio. Ma io non ho mai creduto a una parola di quanto ho sentito. Il nonno era il più gran bugiardo che si potesse trovare sulla faccia della terra. Perfino lui lo ammetteva.»

Si udì la voce bronzea d’una campana, che mandava il suo richiamo dall’avallamento pieno d’alberi inondati dal sole, dal quale si levava il fumo del comignolo nascosto.

Il vecchio scese agilmente dalla staccionata, vuotò il fornello della pipa, e piegò il capo per guardare la posizione del sole.

La campana suonò di nuovo, e quel suono fu come un boato nella silenziosa immobilità dell’autunno dorato.

«È Ma’ che chiama,» disse il vecchio Dave. «È pronto da mangiare. Spezzatino di coniglio, ci scommetto. Questo si chiama mangiare, e se non l’hai mai assaggiato, hai perso molto. Che ne dici? Se hai fame, sbrighiamoci. Io di fame ne ho anche per due.»


Un individuo pazzo che appariva quando c’erano da riparare degli oggetti, e non aspettava neanche un grazie. Un uomo che aveva lo stesso aspetto di cento anni prima. Un tipo che costruiva una serra su di un formicaio e la riscaldava, quando cadeva l’inverno.

Non aveva senso, eppure il vecchio Baxter non aveva mentito. Non si trattava semplicemente di un’altra di quelle favole che erano nate tra i boschi e le colline, che erano nate da quella semplice gente dei campi e della montagna, e che si erano diffuse così inarrestabili come tutte le favole, fino a creare quello che assomigliava moltissimo a un nuovo folklore.

No, il vecchio Baxter era stato forse il più grande bugiardo del mondo, o soltanto il più grande bugiardo di sette contee, o soltanto il più grande bugiardo della sua casa; ma quella storia pazza non usciva da quelle leggende, da quelle storie e da quelle favole che in ogni tempo e in ogni luogo formavano il folklore, i costumi e la vita di un popolo, qualunque esso fosse… come questo popolo orgoglioso e ospitale che abitava i boschi e le montagne.

Ogni cosa, nel folklore, aveva un’aura familiare, un’atmosfera riconoscibile; una favola assomigliava all’altra, c’era sempre uno schema definito, riconoscibile, nelle leggende, che le faceva riconoscere come tali e permetteva anche di intuire, sotto l’apparenza fantastica e magica e irreale, la comune realtà dalla quale tutte erano nate. Ma in questo caso, non c’era nulla di tutto questo. Non c’era nulla di divertente, nulla di concreto, anche nella mente dei ’vagabondi delle colline’, nel coprire e riscaldare un formicaio. Per essere una favola, o anche soltanto una storia buffa, ci sarebbe voluto qualcosa d’altro… una morale, per la favola, una battuta comica, per la storia buffa. E invece non c’era alcuna morale, e non c’era alcuna battuta comica, nella storia dell’uomo che riscaldava il formicaio.

Grant si agitò, nervosamente, sul materasso imbottito di foglie di granoturco, e tirò su, fino al mento, la pesante coperta imbottita.

Come sono strani, pensò, i luoghi dove dormo. Come cambiano. Com’è buffo il contrasto. Questa notte sopra un materasso di foglie di granturco, e ieri notte all’aperto, sotto la luce delle stelle, in un accampamento fatto di un uomo, di uno zaino e di un fuoco; e la notte prima, invece, sopra un soffice materasso, tra lenzuola fresche e profumate di bucato, nella casa dei Webster.

Il vento riempì con il suo ululato l’avallamento nascosto dagli alberi, e si fermò nella sua fredda avanzata per fare sbattere un abbaino rotto, sul tetto della casa, e poi tornò indietro per farlo sbattere di nuovo. Un topo fece udire il suo scalpiccio ansioso, in qualche angolo oscuro. Dal letto che si trovava nell’angolo a sinistra veniva il rumore placido di un respiro regolare… erano i due bambini più piccoli dei Baxter, che stavano dormendo il sonno felice della loro età.

Un uomo che appariva quando c’erano da riparare degli oggetti, e non aspettava neanche un grazie. Come era accaduto a lui, quando gli si era guastata la pistola. Come era accaduto per anni e anni ai Baxter, con le loro vecchie macchine agricole che il tempo e l’usura e le stagioni avrebbero dovuto fermare già da molto tempo. Un tipo pazzo che si chiamava Joe, che non invecchiava e che aveva un vero genio per le macchine.

Un pensiero entrò nella mente di Grant; e Grant lo respinse, riuscì a reprimerlo. Non c’era bisogno di farsi delle speranze. Devi curiosare a destra e a manca, Grant, devi ficcare il naso qua e là, senza parere, devi fare delle domande caute, devi tenere gli occhi aperti, Grant. Non mostrarti troppo curioso, non fare delle domande troppo precise, altrimenti staranno zitti, chiuderanno la bocca come una saracinesca, e non saprai più niente.

Strana gente, quei vagabondi delle colline. Gente che non aveva parte alcuna nel progresso, che rifiutava il progresso, gente che non voleva immischiarsene e aveva preferito una vita primitiva alle comodità di una nuova utopia. Gente che aveva voltanto la schiena alla civiltà, che era ritornata alla vita libera della terra e della foresta, del sole e della pioggia.

C’era tanto posto per loro lassù, sulla Terra, c’era tanto, tanto posto per tutti, perché la popolazione della Terra si era paurosamente assottigliata negli ultimi duecento anni, prosciugata dai pionieri che erano partiti per colonizzare nuovi pianeti, un volo di spore umane, un gregge di umanità partito per modellare gli altri mondi del sistema solare secondo le esigenze dell’Uomo e della sua economia.

C’era posto a volontà… e terra, e selvaggina.

Forse era la vita migliore, dopotutto. Grant ricordava di averci pensato a lungo, e spesso, nei lunghi mesi che aveva trascorso vagabondando tra quelle colline. Ci aveva pensato in momenti simili a quello, avvolto nel gradevole calore della coperta fatta a mano, appoggiato sulla rozza utilità del materasso di foglie di granoturco, con il mormorio del vento che si udiva attraverso l’abbaino rotto, nel tetto di legno di una casa nascosta dagli alberi. Ci aveva pensato in momenti simili a quello che aveva vissuto nel pomeriggio, accovacciato in cima a una staccionata, mentre lo sguardo spaziava su un campo colmo di gruppi dorati di zucche che maturavano pigramente al sole dell’autunno.

Nel buio udì un fruscio, il fruscio del materasso di foglie di granoturco sul quale dormivano i due bambini. Poi udì lo scalpiccio di piedi scalzi che camminavano quietamente sulle assi del pavimento.

«Dormi, signore?» mormorò una voce.

«No. Vuoi venire qui al caldo, con me?»

Il bambino si infilò sotto la coperta, e Grant sentì sullo stomaco il contatto dei piedi freddi del piccolo, freddi come la pietra.

«Il nonno ti ha detto di Joe?»

Grant annuì, nel buio.

«Ha detto che non lo si vedeva da un po’ di tempo.»

«Ti ha detto delle formiche?»

«Certo che l’ha detto. Che ne sai, tu, delle formiche?»

«Io e Bill le abbiamo scoperte da poco, e abbiamo tenuto la bocca chiusa. È un segreto. Lo diciamo a te per la prima volta. Non l’abbiamo detto a nessuno, ma a te dobbiamo dirlo, penso. Tu sei stato mandato dal governo.»

«C’era davvero una serra sul formicaio?»

«Sì, e… e…» il bambino rimase muto per un istante, tanto eccitato da non riuscire più a trovare le parole. «E questo non è tutto. Quelle formiche avevano dei carrettini e dal formicaio sporgevano dei comignoli e dai comignoli veniva fuori del fumo. E… e…»

«Sì, che altro c’era?»

«Non ci siamo fermati. Non abbiamo aspettato di vedere altro. Bill e io ci siamo spaventati. Siamo scappati via, di corsa.»

Il bambino si rannicchiò più comodamente sotto la coperta.

«Accidenti, hai mai sentito cose simili? Delle formiche che tirano dei carretti!»


Le formiche tiravano davvero dei carrettini. E c’erano realmente dei comignoli che sporgevano dal formicaio, comignoli dai quali uscivano sbuffi acri e sottili di un fumo che sapeva di metallo in fusione.

Con la testa che gli pulsava per l’emozione, Grant s’inginocchiò accanto al formicaio, fissando i carri in miniatura che avanzavano tra i sentieri tracciati tra i fili d’erba. Carretti vuoti che uscivano, carretti pieni che ritornavano… carichi di semi e, con una certa frequenza, anche di corpi smembrati d’insetti. Carrettini minuscoli, ma non patetici, che si muovevano veloci, sobbalzando e traballando dietro le formiche che li tiravano, aggiogate come buoi nel tempo in cui i buoi avevano camminato sui campi.

La copertura di sostanza plastica che aveva protetto un tempo il formicaio dai rigori dell’inverno, l’assurda serra costruita dall’uomo chiamato Joe, c’era ancora; ma era rotta in più parti, abbandonata da tempo, dimenticata, quasi che ormai essa fosse stata inutile, avesse già servito a uno scopo che non esisteva più.

Quella piccola valle era una plaga inospitale e selvaggia, che scendeva ripida verso la scoscesa banchina del fiume, ricoperta di vegetazione e di spine, disseminata di pietre e macigni, intervallata qua e là da esigue chiazze di prati erbosi, ricca di querce secolari che si levavano a gruppi, alte e solenni. Un luogo fatto di silenzio nel quale non si poteva credere che avesse mai echeggiato una voce, al di fuori della voce sommessa del vento tra le cime degli alberi e delle voci sottili delle creature silvestri che seguivano sentieri segreti.

Un luogo silenzioso e solenne, dove le formiche potevano vivere indisturbate, senza che la loro pace venisse violata dall’aratro o dal piede di un viaggiatore, continuando i milioni di anni di un destino insensato che risaliva a giorni lontani, ai giorni nei quali l’uomo non era esistito, nei quali anche i più remoti progenitori della razza umana dovevano ancora nascere… ai giorni nei quali il primo pensiero astratto ancora non era nato sulla Terra. Un destino chiuso e ristagnante che non aveva avuto alcuno scopo, a eccezione di quello più elementare… la sopravvivenza delle formiche.

E adesso qualcuno aveva gettato un sasso nello stagno di quel destino antico, adesso qualcuno aveva cambiato la strada polverosa e vuota, l’aveva avviata in un’altra direzione, aveva rivelato alle formiche il segreto della ruota, e il segreto della lavorazione dei metalli… quanti altri vincoli culturali erano stati sciolti, in quel formicaio, quante altre barriere antiche erano state rimosse, in modo che le formiche potessero uscire, libere, sulla strada del progresso?

La pressione della fame, forse, l’assillo quotidiano del cibo, sarebbero state le barriere più cospicue da rimuovere, sulla strada di una nuova civiltà. Senza queste barriere, le formiche avrebbero potuto trovare la strada in discesa. Fornendole di cibo abbondante, esse si sarebbero liberate dalla necessità di dedicarsi soltanto a una continua ricerca di mezzi di sussistenza, e avrebbero avuto tempo, tempo per pensare e per progredire. Era stato così, in questo caso?

Un’altra razza sulla strada della grandezza, che si sviluppava entro la struttura sociale costruita in quei giorni ormai dimenticati da sempre, quando la creatura chiamata Uomo ancora non aveva sentito l’alito della grandezza.

Dove sarebbe arrivata questa razza, percorrendo questa strada? Come sarebbero state le formiche, tra un milione di anni? Le formiche e l’Uomo avrebbero saputo… avrebbero potuto trovare un denominatore comune, uno solo, per camminare insieme verso un destino di collaborazione e di comune lavoro? Gli uomini e le formiche avrebbero saputo incontrarsi, così come si stavano incontrando gli uomini e i cani?


Grant scosse il capo. Questa era solo una speranza, e una speranza che si scontrava con le leggi della probabilità e del senso comune. Perché nelle vene dei cani e degli uomini scorreva lo stesso sangue, ed erano tanti i legami antichii che univano le due razze; mentre l’Uomo e le formiche erano cose distinte, nettamente separate, forme di vita che non erano nate per comprendersi, all’inizio del tempo, e che non avrebbero saputo, forse, mai comprendersi. Non c’era alcuna base comune tra l’uomo e la formica, come invece c’era stata tra l’uomo e il cane quando, nei giorni del paleolitico, uniti, cane e uomo si erano riscaldati davanti al fuoco, e avevano vegliato insieme per proteggersi dagli occhi ostili che avevano vagato fuori, nel buio della notte.


Grant intuì, più che sentire, il fruscio dei passi sull’erba alta e soffice del prato che si stendeva alle sue spalle. Si alzò in piedi, bruscamente, e si girò, e allora vide l’uomo che gli stava davanti. Un uomo dinoccolato, con le spalle spioventi e le mani enormi, mani che terminavano, con uno strano contrasto, in dita sensibili, lunghe e bianche e affusolate e sottili.

«Tu sei Joe?» domandò Grant.

L’uomo annuì.

«E tu sei un uomo che mi ha dato la caccia.»

Grant spalancò la bocca, sorpreso.

«Be’, forse hai ragione. Non ho dato la caccia a te, personalmente, ma a uno come te.»

«Uno diverso,» disse Joe.

«Perché non sei rimasto, l’altra notte?» chiese Grant. «Perché te ne sei andato così in fretta? Volevo ringraziarti, per avermi riparato la pistola.»

Joe si limitò a fissarlo senza parlare, ma dietro le labbra mute dell’uomo Grant intuì la presenza di un divertimento grande e nascosto, un divertimento beffardo del quale non riusciva ad afferrare il motivo, e che pure esisteva, palpabile e reale come l’aria della valle sperduta.

«Come hai fatto a sapere che la pistola era rotta?» domandò Grant. «Mi avevi sorvegliato?»

«Ti ho sentito pensare.»

«Mi hai sentito pensare?»

«Sì,» disse Joe. «Anche adesso ti sento pensare.»

Grant rise, ma la risata uscì rauca, incrinata da un brivido di disagio. Era sconcertante, ma era anche logico. Era quello che avrebbe dovuto attendersi… quello, e molto di più.

Indicò il formicaio.

«Sono tue queste formiche?»

Joe annuì, e il divertimento parve riaffiorare come una silenziosa cascata di bollicine, una cascata che giungeva fino alle labbra e le faceva lievemente tremare, e che si fermava là.

«Che cos’hai da ridere?» esclamò seccamente Grant.

«Io non sto ridendo,» gli disse Joe, e per qualche oscuro motivo Grant si sentì ferito, ferito e piccolo, come un bambino che ha ricevuto uno schiaffo per una mancanza che non avrebbe dovuto commettere, e che invece aveva commesso.

«Tu dovresti pubblicare gli appunti presi durante i tuoi studi,» disse Grant. «Potrebbero essere confrontati con il lavoro che sta svolgendo Webster.»

Joe si strinse nelle spalle.

«Io non ho appunti,» disse.

«Non hai appunti?»

L’uomo magro e dinoccolato si avvicinò al formicaio, e abbassò lo sguardo, fissando l’affaccendarsi ansioso delle minuscole creature.

«Forse,» dichiarò, «Avrai immaginato perché l’ho fatto.»

Grant annuì, gravemente.

«Me lo sono chiesto, infatti. Molto probabilmente è stata la curiosità, una curiosità sperimentale che ti ha spinto a farlo. E forse sì è trattato di pietà per una forma di vita inferiore; hai sentito che non è sufficiente il vantaggio che l’uomo si è preso all’inizio della storia per giustificare il monopolio del progresso da parte della razza umana.»

Gli occhi di Joe scintillarono, nella luce del sole.

«Curiosità… forse. Non ci avevo pensato.»

Si curvò sul formicaio.

«Ti sei mai chiesto per quale motivo la formica è progredita fino a tal punto, e poi si è fermata, di colpo, è rimasta immobile sulla strada del progresso? Per quale motivo la formica ha creato un’organizzazione sociale quasi perfetta, e poi ha lasciato perdere, cristallizzandosi in una monotona ripetizione degli stessi gesti, delle stesse azioni, della stessa vita? Che cosa è stato, secondo te, l’elemento che l’ha fermata?»

«La pressione della fame, prima di tutto.» disse Grant.

«Questa, e l’ibernazione,» dichiarò l’uomo allampanato. «L’ibernazione, vedi, ha sempre cancellato la memoria da una stagione all’altra. I ricordi dell’autunno scomparivano, dopo il letargo invernale, e a ogni primavera la formica doveva ricominciare da capo, ripartire da zero. Le formiche non hanno mai potuto beneficiare degli errori passati, non hanno potuto attingere dalla riserva di conoscenza accumulata nelle stagioni e negli anni.»

«Così tu hai dato da mangiare alle formiche…»

«E ho riscaldato il formicaio,» disse Joe, «In modo che esse non dovessero cadere in letargo, ai primi rigori dell’inverno. In modo che esse non dovessero ricominciare da capo, all’inizio di ogni primavera.»

«Quei piccoli carri?»

«Ne ho costruiti un paio, e li ho lasciati davanti al formicaio. Ci sono voluti dieci anni, ma alla fine le formiche sono riuscite a capire a che cosa servivano.»

Grant indicò con un cenno i sottili sbuffi di fumo che uscivano incessantemente dai minuscoli comignoli.

«Quelli li hanno fatti da sole,» gli disse Joe.

«E cos’altro hanno fatto?»

Joe si strinse nelle spalle, con aria annoiata.

«E come faccio a saperlo?»

«Ma, amico, tu le hai studiate. Anche se non hai preso degli appunti, le hai studiate, le hai osservate…»

Joe scosse il capo.

«Sono quasi quindici anni che non le ho più degnate nemmeno di un’occhiata. Oggi sono venuto solo perché ti ho sentito arrivare. Queste formiche, vedi, non mi divertono più.»

Grant spalancò la bocca, e poi la richiuse, stringendo con forza le labbra. Tacque per molto tempo, e alla fine disse:

«Così è questa la risposta. È per questo che l’hai fatto. Per divertimento.»

Non c’era alcuna vergogna sul viso di Joe, nemmeno un pallido tentativo di difesa, ma solo un’espressione annoiata, che mostrava il desiderio di lasciare perdere le formiche, di cambiare argomento. Le labbra dell’uomo si mossero, e formarono delle parole:

«Certo. Perché, altrimenti?»

«La mia pistola. Immagino che tu abbia trovato divertente anche quella.»

«Non la pistola,» disse Joe.

Non la pistola, disse una parte della mente di Grant. Naturalmente, non la pistola, stupido, ma tu, proprio tu. Eri tu quello che lo divertiva. E lo stai divertendo anche adesso, proprio in questo momento.

Riparare le macchine agricole del vecchio Dave Baxter, per poi andarsene senza dire una parola, senza dubbio era stato uno scherzo spassosissimo, per Joe. E probabilmente si era tenuto la pancia dal ridere, si era rotolato sull’erba dei boschi, in una silenziosa esplosione di irrefrenabile allegria che doveva essere durata per giorni e giorni quando, quella volta, nella tenuta dei Webster, aveva mostrato al vecchio Thomas Webster qual era l’errore che impediva il funzionamento del suo motore interstellare.

Come un tronfio saccente che si divertiva a fare scherzi a un cucciolo piccolo e stupido.


La voce di Joe spezzò il filo dei suoi pensieri, lo riportò alla realtà del momento.

«Tu sei un numeratore, vero? Perché non cominci a farmi le tue domande? Adesso che mi hai trovato non te ne puoi andare senza annotare tutto sui tuoi fogli. La mia età, soprattutto. Ho centosessantatré anni, e sono appena un adolescente. Vivrò per altri mille anni almeno.»

Sedette al suolo, appoggiò il petto sulle ginocchia ossute, e cominciò a dondolarsi lentamente, avanti e indietro, avanti e indietro.

«Per altri mille anni, e se avrò cura di me…»

«Ma questo non è tutto,» gli disse Grant, cercando di mantenere calma la sua voce. «C’è qualcosa di più. C’è qualcosa che tu devi fare per noi.»

«Per noi?»

«Per la società.» dissse Grant. «Per la razza umana.»

«Perché?»

Grant lo fissò, attonito, e per un attimo rimase senza parole.

«Vuoi dire che non te ne importa?» disse, alla fine.

Joe scosse il capo e in quel gesto non c’era alcuna bravata, non c’era alcuna sfida delle convenzioni. Si trattava della semplice, brutale affermazione di un dato di fatto.

«Denaro?» suggerì Grant.

Joe agitò la mano, comprendendo in un solo gesto le colline che li circondavano, la valle racchiusa tra le alture verdeggianti, con il fiume che scintillava scorrendo lento in fondo.

«Io ho questo,» disse. «Non ho bisogno di denaro.»

«Vuoi la fama, allora?»

Joe non sputò, nel sentire quella parola, ma la sua espressione era quella di un uomo che ha sputato.

«La gratitudine del genere umano?»

«Quella non dura,» disse Joe, e nelle sue parole c’era di nuovo la vecchia ironia, l’immenso divertimento che affiorava appena sulle sue labbra.

«Ascolta, Joe,» disse Grant e, benché tentasse in ogni modo di tenere fuori dalla sua voce il tono supplichevole, esso affiorò ugualmente incrinando il suono delle sue parole. «Ascolta, Joe,» Ed era una supplica, benché lui non volesse. «Quello che ti devo far fare è importante… importante per le generazioni che ancora devono nascere, importante per tutto il genere umano, una pietra miliare nel nostro destino…»

«E perché,» domandò Joe, «Io dovrei fare qualcosa per qualcuno che ancora deve nascere? Perché dovrei guardare più in là degli anni della mia vita? Quando sarò morto, sarò morto, e tutte le grida festanti e la gloria, tutte le bandiere e le trombe trionfali non saranno niente, non significheranno niente, per me. Non saprò neppure se ho vissuto una gran vita o una vita di grande miseria.»

«Ma la razza…» disse Grant.

Joe rise, una risata forte e piena.

«La conservazione e il progresso della razza. È a questo che tu miri. Ma perché dovremmo preoccuparcene, tu e io? Perché?»

Le piccole linee che segnavano gli angoli della sua bocca scomparvero, con la fine della risata, e l’espressione del suo viso si fece molto seria, comicamente seria, e Joe alzò un dito, un lunghissimo dito ironicamente ammonitore.

«La conservazione della razza è un mito… un mito del quale avete vissuto tutti quanti… una sordida creazione nata dal marciume della vostra struttura sociale. La razza finisce ogni giorno. Quando un uomo muore, la razza muore, per lui… per quello che lo riguarda, non esiste più alcuna razza, non esiste più niente.»

«A te non importa niente di niente, ecco cos’è,» disse Grant.

«È quello che ti stavo dicendo,» dichiarò Joe. «È quello che ti ho detto dall’inizio.»

Diede un’occhiata di sbieco allo zaino, che Grant aveva posato al suolo, e gli angoli delle labbra gli s’incurvarono nell’ombra di un sorriso.

«Forse,» suggerì, «Se la cosa mi interessasse…»

Grant si affrettò ad aprire lo zaino, con l’ansia del naufrago che si vede offrire un’ancora di salvezza, ed estrasse il suo voluminoso incartamento. Ma a questo punto i suoi movimenti si fecero più lenti. Sentì qualcosa, dentro di sé, che gli diceva di fermarsi, di non farlo, perché era tutto inutile, non era così che si era aspettato di vivere quel momento… Pervaso da quella strana, inesplicabile riluttanza, estrasse il sottile fascicolo, diede un rapido sguardo al titolo:


«Definizione Incompiuta della Nuova Filosofia…»


Tese il fascicolo all’uomo allampanato, rimase immobile, seduto sull’erba, a fissare Joe, mentre questi leggeva velocemente, e in quel momento, mentre il tempo pareva essersi cristallizzato intorno a lui, nel silenzio di quella valle racchiusa tra le colline, il suo cuore fu stretto dalla gelida morsa dell’insuccesso, la sua mente parve affondare nel vuoto senza fine, nella consapevolezza del fallimento completo, totale, terribile.

Nella casa dei Webster lui aveva pensato a una mente che non fosse stata vincolata da alcun canale di logica, a una mente che non fosse stata condizionata da quattromila anni di pensiero umano, a una mente che non fosse stata impantanata nella palude delle convenzioni, delle abitudini, delle nozioni troppo conosciute e ritenute assolute e valide, delle consuetudini e delle artificiosità che l’Uomo aveva creato intorno a sé per ritrovarle poi ineluttabilmente dentro di sé. Una mente così, si era detto, avrebbe potuto riuscire nell’intento.

E aveva trovato quella mente. Eppure non era abbastanza. Qualcosa mancava… qualcosa mancava, e si trattava di una cosa alla quale non avevano pensato né lui, né gli uomini che a Ginevra reggevano le sorti del mondo. E quella cosa era una parte della condizione umana che tutti, fino a quel momento, avevano accettato senza riflettere, avevano dato per scontata.

La pressione sociale era l’elemento che aveva tenuto unita la razza umana nel corso dei millenni… l’aveva tenuta unita e compatta come razza, proprio come la pressione della fame aveva reso le formiche schiave di un sistema sociale immutabile e incrollabile.

La necessità che ogni uomo aveva di essere approvato dagli altri esseri umani, il bisogno di seguire il culto della solidarietà, sotto un certo aspetto… un bisogno psicologico, e quasi fisico, di ottenere l’approvazione per i propri pensieri e per le proprie azioni. Una forza che aveva impedito agli uomini di sfuggire per la tangente di mille comportamenti diversi e asociali, una forza che aveva impedito la disgregazione dell’unità della specie umana in tutti i suoi miliardi di componenti singoli, una forza che aveva spinto gli uomini a cercare la sicurezza sociale e la solidarietà umana, e a lavorare insieme nella grande famiglia umana.

Molti uomini erano morti per ottenere l’approvazione dei loro simili, altri uomini si erano sacrificati per lo stesso motivo, altri ancora avevano vissuto una vita che odiavano e detestavano, sempre in nome di quella necessità che nessuno, mai, aveva messo in dubbio. Perché senza l’approvazione dei suoi simili un uomo era solo, un reietto, una paria, un animale che era stato scacciato dal gregge.

Questa realtà umana aveva condotto a cose terribili, naturalmente… alla psicologia della massa, agli isterismi collettivi, alla persecuzione razziale, al genocidio e allo sterminio di massa nel nome del patriottismo o della religione. Ma, d’altro canto, essa era stata l’elemento di coesione che aveva tenuto unita la razza, era stata la cosa, l’unica cosa che aveva reso possibile la società umana fin dall’inizio della sua lunga storia.

E Joe non l’aveva, questa necessità, questa componente fondamentale della razza. A Joe non importava un accidente dell’approvazione degli alttri. Se ne infischiava di quello che gli altri pensavano di lui. Che lo approvassero oppure no, per lui era lo stesso.


Grant sentì sulla schiena la calda carezza del sole, udì il sospiro del vento che camminava tra gli alberi, sopra di lui, con i suoi lunghi passi fatti d’improvvisi silenzi e di improvvisi sospiri, di ululati lontani e di dolci mormoni vicini che parlavano di cose lontane, di colline e di boschi e di pianure e di mondi di là dal mare, di là dal fiume. E nel folto di una macchia d’alberi, o tra le foglie di un cespuglio, o nell’erba, un uccello cominciò a cantare la sua lenta canzone.

Era questa la caratteristica della mutazione? Era questa la strada che divergeva dalla grande strada della razza? Il rifiuto dell’istinto primario che rendeva l’uomo un membro della propria razza?

Quell’uomo che stava acquattato sull’erba, davanti a lui, e leggeva in silenzio il testamento spirituale di Juwain, l’eredità perduta che il grande filosofo di Marte aveva lasciato alle razze che popolavano il sistema solare, quell’uomo strano che vagava nei boschi e riparava gli oggetti e riscaldava i formicai, era riuscito a trovare dentro di sé, e non altrove, grazie alla mutazione, una vita così piena da rendere inutile e trascurabile l’approvazione dei propri simili? Quell’uomo dinoccolato, quell’incredibile adolescente di cento e più anni, era arrivato, infine, dopo tanti anni di storia, a raggiungere quello stadio della civiltà nel quale un uomo era solo e indipendente, capace di rinunciare sdegnosamente a tutti gli artifici della società?

Joe alzò il capo.

«Molto interessante,» disse. «Perché non ha continuato il lavoro fino alla fine?»

«È morto,» disse Grant.

Joe fece schioccare la lingua.

«Si è sbagliato in un punto.» Girò le pagine, tornò indietro e indicò un punto con il suo lungo indice affusolato. «Ecco, proprio qui. È a questo punto che è apparso l’errore. Ed è stato questo che l’ha fatto impantanare.»

Grant balbettò, per la sorpresa e l’incredulità.

«Ma… ma non dovrebbe esserci nessun errore. Juwain è morto, ecco tutto. È morto prima di finirlo.»

Joe piegò accuratamente il manoscritto, e se lo infilò in tasca.

«Poco male,» disse. «Tanto avrebbe mantenuto l’errore fino in fondo.»

«Ma allora tu puoi finire il lavoro? Puoi…»

Era inutile, inutile continuare, e Grant se ne rese conto d’un tratto. Inutile. Lo aveva letto negli occhi di Joe. La risposta era dipinta, inconfondibile, sul suo volto.

«Ma tu credi davvero,» disse Joe, e le sue parole furono misurate e scandite, limpide e cristalline come il ghiaccio di un torrente, negli ultimi giorni d’inverno. «Che io voglia regalare questo a voi rompiscatole umani?»

Grant si strinse nelle spalle, e la sconfitta era un peso insopportabile per lui.

«Immagino di no. Immagino che avrei dovuto saperlo. Un uomo come te…»

«Io,» disse Joe, «Posso usare da solo questa cosa.»

Si alzò lentamente, e mosse pigramente il piede, scavando un solco che attraversava il formicaio, rovesciando i comignoli fumanti, seppellendo i carretti vuoti e pieni e le formiche che li trainavano.

Con un’esclamazione improvvisa, Grant balzò in piedi, con la gola stretta da un nodo di collera cieca, una collera cieca che guidò la sua mano e le fece estrarre la pistola che gli pendeva al fianco.

«Fermati!» disse Joe.

Il braccio di Grant si fermò, mentre la pistola era ancora puntata verso il suolo.

«Prendila calma, piccoletto,» disse Joe. «Lo so che ti piacerebbe molto uccidermi, ma non te lo posso permettere. Perché ho dei piani, capisci? E, dopotutto, tu non mi uccideresti per il motivo che credi avere.»

«Che differenza farebbe, se io ti uccidessi, sapere che è stato per un motivo o per l’altro?» disse Grant, e la sua voce era rauca, sconvolta dall’odio e dalla paura. «Tu saresti sempre morto, no? Non saresti più libero, libero e con la filosofia di Juwain.»

«Ma,» gli disse Joe, e il suo tono era quasi gentile, «Non è per questo che tu mi uccideresti. Lo faresti perché sei in collera con me per un altro motivo. Perché ho distrutto il formicaio.»

«Questo avrebbe potuto essere il motivo, prima,» disse Grant. «Ma non adesso…»

«Non provarci,» lo avvertì Joe. «Prima di riuscire a premere il pulsante, saresti già ridotto in poltiglia.»

Grant esitò.

«Tu pensi che io stia bluffando,» disse ironicamente Joe, «Bene, allora prova a chiamare il mio bluff.»

Per un lungo momento i due rimasero immobili, in piedi, faccia a faccia, e la pistola era sempre puntata verso il suolo.

«Perché non ti unisci a noi?» domandò Grant. «Abbiamo bisogno di un uomo come te. Tu sei stato l’uomo che ha mostrato al vecchio Thomas Webster come costruire un motore interstellare. Il lavoro che hai fatto con le formiche…»

Joe si era mosso, aveva fatto un passo avanti, rapidamente, e Grant sollevò la pistola, ma con un attimo di ritardo. Vide il pugno avvicinarsi al suo viso, un pugno enorme, malvagio, simile a un grosso maglio spietato che lo colpì con ferocia.

Un pugno che fu più veloce del suo dito sul pulsante della pistola.


Una cosa umida e calda stava passando sul volto di Grant, e lui alzò una mano, per cercare di liberarsene.

Ma la cosa continuò a lambirgli il viso.

Grant aprì gli occhi, e Nathaniel si mise a saltare di gioia davanti a lui.

«Sei sano e salvo,» disse Nathaniel «Avevo tanta paura…»

«Nathaniel!» disse raucamente Grant. «Cosa stai facendo qui?»

«Sono scappato,» gli disse Nathaniel. «Voglio venire con te.»

Grant scosse il capo.

«Tu non puoi venire con me. Devo andare molto lontano. Ho un lavoro da compiere.»

Si mosse a fatica, appoggiando le mani al suolo, sollevandosi carponi e cercando sul terreno erboso, a tentoni. Quando le sue dita incontrarono un oggetto di freddo metallo, Grant lo raccolse e se lo infilò nella fondina.

«L’ho lasciato andare,» disse, «E non posso lasciarlo andare. Gli ho dato qualcosa che appartiene all’umanità intera, e non gli posso permettere di farne uso.»

«Posso seguire la pista,» disse Nathaniel. «Sono bravo a seguire le piste. Sono capace di trovare uno scoiattolo a qualsiasi distanza, e come posso farlo con uno scoiattolo, posso farlo con chiunque.»

«Tu hai delle cose più importanti da fare che seguire una pista,» disse Grant al cane. «Vedi, oggi io ho scoperto qualcosa. Ho avuto una visione fuggevole di una certa strada… una strada che l’umanità intera potrà seguire. Non oggi né domani, e forse neppure tra mille anni. Forse non ci arriveremo mai, ma si tratta di una cosa che non possiamo permetterci di trascurare. Forse Joe è un po’ più avanti di tutti noi, su questa strada, e forse noi lo stiamo seguendo più in fretta di quanto pensiamo. Può darsi che tutti noi finiamo come Joe. E se è questo che sta accadendo, se è così che finiremo tutti, voi cani avete un grande lavoro che vi aspetta.»

Nathaniel lo guardò, con i suoi grandi occhi fondi e umidi, con il muso raggrinzito dalla preoccupazione.

«Io non capisco,» disse, in un tono lamentoso che era quasi un guaito, «Tu usi delle parole che non riesco a capire.»

«Ascolta, Nathaniel. Forse gli uomini non saranno sempre come sono oggi. Forse gli uomini cambieranno. E, se così sarà, voi cani dovrete andare avanti; dovrete prendere il sogno dalle nostre mani e tenerlo in vita e farlo andare avanti. Dovrete fingere di essere degli uomini.»

«Noi cani,» promise Nathaniel, obbediente, «Lo faremo.»

«Il momento non verrà che tra migliaia e migliaia di anni,» disse Grant. «Voi avrete il tempo di prepararvi. Ma dovete sapere. Dovete diffondere la parola. Non dovete, non potete dimenticare.»

«Io lo so, adesso,» disse Nathaniel. «E noi cani lo diremo ai cuccioli, e i cuccioli lo diranno ai loro cuccioli.»

«È proprio così,» disse Grant.

Si chinò a grattare Nathaniel dietro l’orecchio, e il cane, dimenando la coda sempre più lentamente, fino a fermarsi del tutto, rimase laggiù, sul fondo della valle, a guardare l’uomo che saliva lentamente il fianco della collina.

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