II IL FORMICAIO

La nebbia calava dal cielo plumbeo, come fumo danzante tra i rami scheletrici degli alberi nudi. I vapori umidi addolcivano i contorni delle siepi e degli arbusti e degli edifici, e coprivano di un velo sfumato le distanze. La nebbia si posava scintillando sull’epidermide metallica dei robot silenziosi, e avvolgeva di fievoli aloni d’argento le spalle dei tre esseri umani che ascoltavano la voce salmodiante dell’uomo vestito di nero, che leggeva da un libro aperto, poggiato sulle mani schiuse a coppa.

«Poiché Io sono la Resurrezione e la Vita…»

La figura scolpita nella pietra, addolcita dal nuovo e antico manto di muschio che la copriva, che sorgeva sopra la porta della cripta, pareva tendere con ogni sua forza verso l’alto, con ogni cristallo del suo corpo teso verso qualcosa che nessun altro poteva vedere, qualcosa che dava vita, nella pietra, a un desiderio ansioso e insopprimibile. Tesa e ansiosa com’era stata dal giorno in cui degli uomini di un’epoca ormai lontana l’avevano fatta nascere dal granito, scolpendola e modellandola perché adornasse la tomba di famiglia con un simbolismo che aveva compiaciuto il primo John J. Webster negli ultimi anni che la vita gli aveva dato.

«E chi crede e vive in Me…»

Jerome A. Webster sentì le dita di suo figlio stringergli il braccio, udì il singhiozzo soffocato di sua madre, vide le file di robot allineate rigidamente in piedi, a capo chino in segno di rispetto per il padrone che essi avevano servito. Il padrone che adesso stava tornando a casa… l’ultima casa di tutti.

Vagamente, confusamente, Jerome A. Webster si domandò se essi capissero… se essi capissero la vita e la morte… se essi capissero cosa significava il corpo di Nelson F. Webster immobile là, nella bara, e la presenza dell’uomo dalla veste nera, con il libro in mano, che intonava parole sopra quel corpo.

Nelson F. Webster, quarto dei Webster che avevano vissuto su quella terra, era vissuto e morto nella tenuta, senza quasi muoversi, e adesso se ne stava andando verso l’eterno riposo in quel luogo che il primo Webster aveva preparato per gli altri Webster… per quella lunga linea di discendenti, nebulosi e impalpabili nel fiume del tempo, che sarebbero vissuti là, e che avrebbero amato le cose e i modi e la vita che il primo John J. Webster aveva stabilito.

Jerome A. Webster sentì un rinnovato nodo stringergli la gola, e un leggero tremito gli percorse il corpo, e non era la nebbia che scendeva fitta dal cielo e avvolgeva tutte le cose a provocare quel brivido di gelo. Per un istante gli occhi gli bruciarono più forte, e la bara si confuse, tremolò e scomparve alla sua vista, e le parole che l’uomo vestito di nero stava pronunciando si mescolarono al mormorio del vento che spirava tra i pini alti e immobili, sentinelle immutabili per vegliare i morti. Nella sua mente sfilò la processione lenta e veloce dei ricordi… il ricordo di un uomo dai capelli grigi che camminava sui campi e le colline, respirando felice la brezza leggera dell’alba, e il ricordo dello stesso uomo in piedi, davanti al fuoco scoppiettante del caminetto, con un bicchiere di liquore tra le mani.

Orgoglio… l’orgoglio della terra e della vita, e l’umiltà e la grandezza che una vita serena genera nell’animo umano. La soddisfazione del tempo da trascorrere senza assilli, e la sicurezza dello scopo. L’indipendenza data dalla sicurezza di ciò che non passa, il calore dato dall’ambiente familiare e amato, la libertà, la libertà vera degli ampi spazi, dei vasti acri di terra viva e fertile.

Thomas Webster gli stava tirando gentilmente la manica.

«Papà,» stava mormorando. «Papà.»

Il servizio funebre era finito. L’uomo vestito di nero aveva chiuso il libro. Sei robot si fecero avanti all’unisono, sollevarono da terra la bara.

Lentamente, i tre seguirono la bara nella cripta, si fermarono e rimasero immobili mentre i robot la facevano entrare nel loculo, e poi chiudevano la piccola porta e vi attaccavano sopra la targa sulla quale era scritto:

Nelson F. Webster
2034 — 2117

Era tutto qui. Solo il nome e le date. E questo, pensò d’un tratto Jerome A. Webster, questo era sufficiente. Perché là, su quella targa, non v’era bisogno d’altro, di niente altro. Questo era tutto ciò che avevano gli altri. Gli altri, i nomi che narravano la storia della famiglia… a cominciare da William Stevens, 1920-1999. Pa’ Stevens, lo avevano chiamato, ricordò Webster. Padre della moglie di quel primo John J. Webster, anche lui un nome e due date nella cripta… 1951-2020. E accanto a lui suo figlio, Charles F. Webster, 1980-2060. E suo figlio, John J. II, 2004-2086. Webster ricordava John J. II… un nonno che si addormentava accanto al caminetto, con la pipa penzolante dalle labbra, sempre in pericolo di incendiarsi i baffi.

Lo sguardo di Webster si posò su un’altra targa. Mary Webster, la madre del bambino che gli stava accanto. No, non doveva pensare così. Non era più un bambino. Dimenticava sempre che Thomas, adesso, aveva vent’anni, e tra un paio di settimane, al massimo, sarebbe partito per Marte, come anche lui era partito per Marte, negli anni della sua gioventù.

Tutti qui, insieme, pensò Webster. I Webster, con le loro mogli e i loro figli. Insieme nella morte, com’erano stati insieme nella vita, insieme in quella cripta, addormentati nell’orgoglio e nella sicurezza del bronzo e del marmo, con i pini visibili e mormoranti, fuori, e la figura simbolica ritta sopra la porta che il tempo aveva colorito di una patina verdognola.

I robot aspettavano, in piedi, silenziosi, ora che avevano eseguito il loro compito.

Sua madre lo guardò.

«Adesso sei tu il capo della famiglia, figlio mio,» gli disse.

Le tese le braccia e l’attirò al suo fianco, e la strinse. Capo della famiglia… di quello ch’era rimasto della famiglia, piuttosto. Erano soltanto tre, ora. E suo figlio tra poco sarebbe partito, sarebbe andato su Marte. Ma sarebbe ritornato. Tornato con una moglie, forse, e la famiglia sarebbe andata avanti. No, la famiglia non sarebbe rimasta così, ridotta a tre sole persone. Tanti locali della grande casa non sarebbero rimasti chiusi e scuri per sempre, com’erano chiusi e oscuri ora. C’era stato un tempo in cui la grande casa aveva pulsato della vita e dei rumori e della felicità di dodici membri della famiglia, che avevano vissuto tutti nei loro appartamenti separati, ma sotto il medesimo tetto. Quel tempo sarebbe ritornato. Ne era certo. Lo sapeva.

I tre voltarono le spalle alle tombe, lasciarono la cripta, percorsero il vialetto che portava alla casa, la casa che torreggiava come un immenso fantasma grigio nella nebbia.


Il fuoco scoppiettava nel caminetto, e il libro era posato sulla sua scrivania. Jerome A. Webster lo prese tra le mani, e rilesse ancora una volta il titolo:

«Fisiologia Marziana, Con Particolare Riferimento al Cervello», di Jerome A. Webster.

Jerome A. Webster, Dottore in Medicina. Il titolo accademico era riportato in basso, dopo il suo nome.

Voluminoso e autorevole… il lavoro di una vita intera. Si ergeva come un gigante, praticamente unico nel suo campo. Basato sui dati raccolti durante quei cinque anni di epidemia, su Marte… anni durante i quali lui aveva lavorato giorno e notte, duramente, senza prendersi tregua, riposando solo quando il fisico era giunto all’estremo limite di resistenza, e come lui i suoi colleghi della missione medica della Commissione Mondiale, mandati per un’opera di solidarietà umana sul pianeta amico.

Si udì battere leggermente alla porta.

«Avanti,» disse.

La porta si aprì, ed entrò un robot.

«Il suo whisky, signore.»

«Grazie, Jenkins,» disse Webster.

«Il pastore, signore,» disse Jenkins, «Se ne è andato ora.»

«Oh, sì. Presumo che tu abbia provveduto a tutto.»

«Certo, signore. Gli ho dato il solito compenso e gli ho offerto da bere. Ha rifiutato di bere.»

«Questo è stato un errore di stile, Jenkins,» gli disse Webster. «I pastori non bevono alcolici.»

«Sono spiacente, signore. Non sapevo. Il pastore mi ha chiesto di chiederle di andare in chiesa, qualche volta.»

«Eh?»

«Io gli ho detto, signore, che lei non va mai da nessuna parte.»

«Hai dato una risposta giustissima, Jenkins,» disse Webster. «Nessuno di noi va mai da nessuna parte.»

Jenkins si diresse verso la porta, si fermò prima di raggiungerla, si voltò.

«Se il signore permette, il servizio funebre nella cripta è stato davvero commovente. Suo padre era un essere umano molto nobile, il più nobile che mai ci sia stato. I robot hanno detto che il servizio funebre è stato degno di lui. Dignitoso ed elevato, signore. Suo padre ne sarebbe stato molto contento, signore, se l’avesse saputo.»

«Mio padre,» disse Webster. «Sarebbe stato ancor più contento di sentirti dire questo, Jenkins.»

«Grazie, signore,» disse Jenkins, e uscì.

Webster sedette con il whisky e il libro e il fuoco… avvertì intorno a sé la comoda sicurezza di quella stanza così familiare, sentì quelle calde pareti chiudersi intorno a lui, rinserrarlo in un abbraccio protettivo e gentile, avvertì il senso di rifugio che quella casa antica gli dava.

Era la sua casa, la vera casa. Era stata la casa dei Webster dal giorno in cui il primo John J. era venuto in quel luogo e aveva costruito la prima ala, un’ala dalla quale la grande casa dei Webster si era poi sviluppata. John J. aveva scelto quel luogo perché c’era un torrente ricco di trote, o, per lo meno, così aveva sempre detto. Ma doveva esserci qualcosa di più, un motivo più forte, più grande. Doveva esserci stato qualcosa di più, disse Webster.

O forse, all’inizio, il motivo era stato semplicemente il torrente ricco di trote. Il torrente con le sue trote e gli alberi e i prati, e il pendio roccioso verso il quaale saliva la nebbia, ogni mattina, levandosi dal fiume e superando il pendio e riversandosi sui prati e sugli alberi e sulla casa. Forse il resto, tutto il resto, era cresciuto, cresciuto gradualmente nel corso degli anni, con la lunga unione della famiglia con la terra, come un albero cresceva nel corso degli anni, diventando sempre più un tutto unico con la terra che dava alimento alle sue radici. Forse era stato il tempo a produrre ciò che adesso esisteva, quell’intima associazione tra la famiglia e la terra, ogni seme e ogni zolla e ogni filo d’erba e ogni grano di roccia, tanto che oggi la tenuta era impregnata di una cosa che somigliava, ma non era uguale, alla tradizione. Una cosa che faceva di ogni albero, di ogni sasso, di ogni palmo di terra un albero dei Webster, un sasso dei Webster, una zolla di terra dei Webster. Tutto nasceva dalla famiglia, e la famiglia ormai nasceva dalla terra.

John J., il primo John J., era venuto dopo la caduta delle città, dopo che gli uomini avevano abbandonato per sempre i loro formicai del ventesimo secolo, si erano liberati dell’istinto tribale di stringersi gli uni agli altri in una caverna o in una radura per difendersi da un comune nemico o da una paura comune. Un istinto che era passato di moda, perché non c’erano più nemici e non c’erano più paure. L’uomo si eraa ribellato all’istinto gregario, all’istinto del gregge che le condizioni economiche e sociali gli avevano imposto nei secoli passati. Una nuova sicurezza e una nuova autosufficienza e una nuova ricchezza avevano permesso di spezzare le catene del tempo, di sfuggire al giogo della consuetudine, di essere, finalmente, liberi dai vincoli del passato.

Il processo era cominciato nel ventesimo secolo, più di duecento anni prima, quando gli uomini si erano trasferiti, in numero sempre crescente, in case di campagna, per respirare dell’aria pura e godere un po’ di spazio libero e conoscere una vita più serena e gentile di quella offerta dalla città. Perché l’esistenza comune e convulsa, nell’aria inquinata e negli spazi angusti, dove non si poteva muovere un passo senza urtare il vicino, non aveva potuto dare all’uomo neppure una minima parte di ciò che aveva trovato lasciando le città.

E adesso erano giunti al risultato finale di quel processo, e qui lui poteva vedere questo risultato. Una vita tranquilla. Una pace che poteva giungere soltanto con le cose buone e sane. Il genere di vita che l’uomo aveva sognato di ottenere per tanto tempo, che aveva desiderato più di ogni altra cosa. Un’esistenza feudale, l’antica vita del castello, fondata sulle antiche case di famiglia e su acri e acri di terra libera e fertile, un’esistenza feudale, nella quale i feudatari occupavano il castello al centro della campagna, e l’energia atomica forniva tutto ciò ch’era necessario per alimentarli, e i robot avevano preso il posto dei servi.

Webster sorrise, guardando il caminetto con le sue braci ardenti e scoppiettanti, e le fiamme che salivano a lambire la pietra annerita. Braci di legna, di legna vera. Era un anacronismo, se ne rendeva conto, ma era buono… qualcosa che l’Uomo aveva portato con sé dalle caverne, che l’Uomo non aveva mai voluto abbandonare in nessun momento del suo progresso. Inutile, forse, perché il riscaldamento automatico era migliore… ma così era più piacevole. Non si poteva stare seduti a guardare l’energia atomica in azione, e a sognare e costruire castelli cangianti tra le fiamme che guizzavano.

Perfino la cripta, là fuori, dove avevano portato suo padre, in quello stesso pomeriggio… anche quella faceva parte della famiglia. Era la famiglia. Un tutto unico con il resto. L’orgoglio malinconico e la vita libera e la pace. Ai vecchi tempi, i morti venivano sepolti in grandi cimiteri, uno accanto all’altro, estranei a fianco di estranei, com’era stato in vita, e così in morte…

Non va mai da nessuna parte.

Ecco cos’aveva detto Jenkins al pastore.

Ed era vero. Perché quale bisogno c’era di andare altrove? Di lasciare la casa, la terra, l’aria della loro vita? Là c’era tutto. Girando un quadrante, si poteva parlare a chiunque, faccia a faccia, si poteva andare, se non fisicamente, almeno con la sensazione, dovunque si desiderasse. Si poteva andare a teatro oppure ascoltare un grande concerto oppure consultare gli scaffali di una biblioteca che si trovava, in realtà, dall’altra parte del mondo. Si poteva concludere qualsiasi affare senza bisogno di alzarsi dalla propria poltrona.

Webster bevve il suo whisky, e poi si voltò verso la macchina a disco che si trovava accanto alla sua scrivania.

Il suo dito formò una sequenza di numeri, e la stanza parve fondersi e sparire intorno a lui… la sensazione era reale, autentica, vera. Rimase la sedia sulla quale egli sedeva, rimase una parte della scrivania, rimase una parte della macchina a disco, ed era tutto.

La sedia era sul fianco di una collina coperta d’erba dorata e chiazzata d’alberi nodosi, piegati dai molti venti di molte stagioni fredde e roventi, una collina che scendeva fino a un lago incastonato, come un alveare nell’abbraccio dei rami di un albero, nel grembo degli speroni arditi di montagne purpuree. Gli speroni delle montagne, nereggianti delle lunghe zebrature di lontane pinete bluastre, salivano formando scale ardite e asperrime, abbracciandosi sullo sfondo del cielo nelle guglie aguzze biancheggianti di nevi dai riflessi azzurrini riverberanti di lontani orizzonti, guglie altissime che spezzavano l’armonia del cielo formando una audace, impossibile chiostra di denti diseguali e aguzzi.

Il vento parlava con voce aspra di cose lontane e dimenticate, passando con cento fruscii tra gli alberi acquattati sulle pendici dei monti, accarezzando l’erba alta e folta e dorata, passando sopra di essa a folate improvvise, audaci. Gli ultimi bagliori del sole al tramonto accendevano scintille di fuoco, bianco purpureo e azzurrato, dalle vette lontane.

Solitudine e grandezza, la grande distesa maestosa della terra viva, l’occhio sfavillante del lago, le lunghe ombre sulle remote catene dei monti, ombre aguzze e taglienti, come lame.

Webster si appoggiò allo schienale della sedia, comodamente, fissando con occhi sognanti quelle vette lontane.

Una voce disse, uscendo dall’ombra, alle sue spalle:

«Posso entrare?»

Una voce dolce, vibrante, completamente non umana, aliena. Ma una voce che Webster conosceva.

Annuì lentamente.

«Ma certo, Juwain. Certo.»

Girò il capo e vide l’elaborato piedistallo con la figura villosa, dagli occhi dolcissimi, del marziano che vi stava sopra. Dietro il piedistallo s’intravvedevano le massicce sagome indistinte di altri mobili alieni, i mobili così diversi da quelli che la mente umana aveva saputo creare negli anni della sua storia, i mobili indistinti che appartenevano a quella casa che si trovava lassù, su Marte.

Il marziano indicò, con un breve gesto della mano villosa, la maestosa catena delle montagne.

«Tu ami questo,» disse. «Perché tu lo puoi capire. E io posso capire come tu lo capisca, ma per me c’è più terrore che bellezza, in questa visione. È qualcosa che non potremmo mai avere, su Marte.»

Webster allungò la mano verso il disco, ma il marziano gli fece segno di fermarsi.

«Lasciale, ti prego,» disse. «So perché tu sei venuto qui. E non sarei venuto da te in un momento simile, se non avessi pensato che forse un vecchio amico…»

«E io ti ringrazio,» disse Webster. «Sono felice che tu sia venuto.»

«Tuo padre,» disse Juwain, «Era un grand’uomo. Ricordo tutto quello che mi hai detto di lui, durante quegli anni che hai passato su Marte. Allora dicevi che saresti tornato, un giorno. Perché non sei più tornato?»

«Bene,» disse Webster. «Si tratta soltanto…»

«Non dirmelo,» fece il marziano. «Lo so già.»

«Mio figlio,» disse Webster, «Verrà su Marte, tra qualche giorno. Gli dirò di venirti a trovare.»

«Sarà un vero piacere,» disse Juwain. «Lo aspetterò con ansia.»

Si agitò sull’alto piedistallo, come se un fremito di disagio l’avesse percorso.

«Forse lui porterà avanti la tradizione della famiglia.»

«No,» rispose Webster. «Studia ingegneria. La chirurgia non l’ha mai interessato.»

«Tuo figlio ha il diritto,» osservò il marziano, «Di seguire nella vita la strada che ha scelto. Ma a noi è permesso di sperare.»

«Questo ci è permesso,» ammise Webster, «Ma ormai la decisione è stata presa e compiuta. Forse diventerà un grande ingegnere. Progetti di costruzioni spaziali. Parla di astronavi, grandi astronavi che raggiungeranno le stelle lontane.»

«Forse,» suggerì Juwain, «La tua famiglia ha già fatto abbastanza per la scienza medica. Tu e tuo padre…»

«E suo padre prima di lui,» disse Webster.

«Il tuo libro,» dichiarò Juwain, «Ha messo Marte in debito con te. Potrà produrre maggiore attenzione sulla specializzazione in medicina marziana. Il mio popolo non ha mai prodotto dei buoni medici. L’ambiente e le condizioni ce l’hanno impedito. È strano vedere quali strade possano seguire le menti delle diverse razze. È strano che Marte non abbia mai pensato alla medicina… davvero, che non ci abbia mai pensato. Ha compensato la necessità con un vero culto del fatalismo. Mentre perfino nella vostra storia più antica, quando gli uomini vivevano ancora nelle caverne…»

«Ci sono molte cose,» disse Webster, «Alle quali voi avete pensato, e che noi non abbiamo potuto neppure concepire. Cose che sono oggi motivo di meraviglia, per noi, per il modo in cui le abbiamo totalmente ignorate. Abilità che voi avete coltivato e che noi non conoscevamo neppure. Considera, per esempio, la tua materia, la filosofia. Ma una filosofia diversa dalla nostra. Una vera scienza, mentre invece la nostra filosofia non è mai stata più che un brancolare affannoso nel buio, alla ricerca di verità delle quali perfino i contorni ci sfuggivano. Voi avete dato uno sviluppo ordinato, logico, alla filosofia, ne avete fatto qualcosa di concreto, di pratico, un vero strumento di lavoro applicabile alla realtà della vita, e delle cose e della scienza.»

Juwain fece per parlare, esitò, e poi disse:

«Io sono vicino a qualcosa, qualcosa che può essere nuovo e sorprendente. Qualcosa che sarà uno strumento utile per voi umani, come per noi marziani. Ci lavoro da anni, e sono partito da certi concetti mentali che mi sono stati suggeriti dall’arrivo dei terrestri. Non ho mai detto nulla, perché non potevo essere sicuro di trovarmi nel giusto.»

«E adesso,» suggerì Webster, «Tu sei sicuro.»

«Non proprio,» disse Juwain. «Non assolutamente. Ma quasi.»

Sedettero in silenzio, guardando le montagne e il lago. Un uccello scese dal cielo, si posò su uno degli alberi nodosi, e cominciò a cantare. Grandi nuvole oscure, gravide di pioggia, si ammucchiarono dietro le catene montuose, e le cime bianche di neve si stagliarono immote, come lapidi scolpite. Il sole affondò in un lago di porpora, impallidì e sprofondò e riverberò sempre più fioco, come il fuoco di una notte d’estate che guizza e muore nei tizzoni ardenti che poco a poco si addormentano in cenere.

Si udì battere alla porta e Webster si riscosse, riportato improvvisamente alla realtà dello studio, della sedia sulla quale sedeva.

Juwain se ne era andato. Il vecchio filosofo era venuto a trascorrere un’ora di contemplazione con il suo amico, e poi se ne era andato, silenziosamente, senza farsi notare.

I colpi sommessi alla porta si rinnovarono.

Webster alzò la mano, girò il disco della macchina, e le montagne scomparvero; la stanza ritornò a essere una semplice stanza. Il crepuscolo violetto filtrò silenzioso dalle alte finestre, e il fuoco era un chiarore rosato di braci nascoste dalla cenere.

«Avanti,» disse Webster.

Jenkins aprì la porta.

«La cena è servita, signore» disse.

«Grazie.» Webster si alzò lentamente dalla sedia.

«Il posto del signore,» disse Jenkins, «È adesso a capotavola.»

«Ah, sì,» fece Webster. «Grazie, Jenkins. Molte grazie per avermelo ricordato.»


Webster, in piedi sull’ampia terrazza dell’astroporto, seguiva con lo sguardo la sagoma che rimpiccioliva nel cielo, e dalla quale scaturivano a brevi intervalli rosse scintille baluginanti che si accendevano nel cielo limpido e freddo rischiarato dal pallido sole d’inverno.

Webster rimase sulla terrazza dell’astroporto, immobile, anche molti minuti dopo che la sagoma scintillante fu scomparsa nell’azzurro mare del cielo, e strinse con forza la balaustra, davanti a sé, tenendo sempre lo sguardo fisso nel cielo.

Le sue labbra si mossero e pronunciarono un saluto, «Addio, figlio mio,» ma quelle parole non avevano suono, rimasero mute sulle labbra socchiuse dell’uomo.

Lentamente i suoi pensieri abbandonarono quella sagoma scomparsa nel cielo, ritornarono alla vita dell’ambiente che lo circondava. Si accorse che la gente, molta gente, si muoveva intorno a lui, sulla terrazza e intorno a essa; vide che l’astroporto pareva stendersi all’infinito, oltre il lontano orizzonte, un’immensa distesa piatta interrotta qua e là da sporgenze gibbose ch’erano astronavi in attesa. I trattori del servizio di manutenzione lavoravano nelle vicinanze di uno dei capannoni, spazzando via le ultime tracce della neve caduta nel corso della notte.

Webster rabbrividì, e questo gli parve strano, perché il sole di mezzogiorno era caldo. E rabbrividì di nuovo.

Lentamente, voltò le spalle alla balaustra e si diresse verso l’edificio dell’amministrazione. E per un istante rapido e tremendo, fu colpito da una fitta di paura… paura improvvisa, irragionevole e deprimente, di quella distesa di cemento che formava la terrazza. Paura, una paura che fece tremare la sua mente, e la lasciò fragile e scossa e indifesa, mentre i suoi passi lo portavano verso la porta aperta, che attendeva.

Un uomo camminò verso di lui, stringendo in mano una valigetta dondolante, e Webster, guardandolo, pregò ferventemente in cuor suo che l’uomo passasse oltre, che non gli parlasse.

L’uomo non parlò. Gli passò accanto senza neppure curarlo d’una occhiata, e Webster provò un profondo sollievo.

Se fosse stato a casa, pensò Webster, ora avrebbe finito di pranzare, sarebbe stato pronto a sdraiarsi sul letto, per il solito riposo pomeridiano. Il fuoco avrebbe scoppiettato nel caminetto e gli alari avrebbero mandato tutt’intorno il riverbero ondeggiante delle fiamme. Jenkins gli avrebbe portato un liquore e avrebbe scambiato qualche parola con lui… una breve conversazione senza importanza.

Affrettò il passo, dirigendosi verso la porta, affrettò il passo, ansioso di fuggire dalla fredda distesa spoglia della massiccia terrazza di cemento.

Era strano, quello che aveva provato alla partenza di Thomas. Certo, era naturale che l’idea di vederlo partire gli fosse dispiaciuta… Ma era innaturale, completamente innaturale, quel senso di orrore che era cresciuto dentro di lui negli ultimi minuti. Un orrore profondo, insopprimibile, orrore di quel viaggio attraverso lo spazio siderale, orrore delle aliene distese della landa marziana… benché Marte non fosse più alieno, nel senso vero della parola, ormai da molto tempo. Perché i terrestri lo conoscevano da più di un secolo. Lo avevano conosciuto, lo avevano combattuto, vi avevano vissuto; alcuni erano arrivati perfino ad amarlo.

Ma era stato soltanto un disperato sforzo di volontà a impedirgli, negli ultimi secondi che avevano preceduto il decollo dell’astronave, di scendere dalla terrazza, di correre sul campo come un folle, gridando a Thomas di tornare indietro, gridando a Thomas di non andare.

E questo, naturalmente, non sarebbe servito a niente. Sarebbe stato un esibizionismo umiliante e avvilente… una delle cose che i Webster non facevano, non potevano fare.

Dopotutto, si disse, un viaggio su Marte non era una grande avventura, non più, almeno. C’era stato un tempo in cui l’impresa era stata grande e rischiosa, ma quel tempo era passato per sempre. Anche lui, anche lui aveva fatto un viaggio su Marte, quando era stato più giovane, ed era rimasto lassù per cinque lunghi anni. Questo era stato… gli mancò il respiro, quando ci pensò… questo era stato quasi trenta anni prima.

Il vociare e gli altri rumori dell’atrio lo colpirono con una violenza quasi fisica, quando il robot inserviente gli aprì la porta, e in quel vociare scorreva una venatura impalpabile di qualcosa che era quasi terrore. Per un attimo esitò, e poi entrò, con decisione. La porta si chiuse silenziosamente alle sue spalle.

Rimase vicino alla parete, per evitare gli altri, e camminando lentamente si avvicinò a una poltrona sistemata in un angolo. Sedette e si appoggiò allo schienale, affondando nei soffici cuscini, guardando la fauna umana che gremiva, vociante e attiva, la grande sala.

Gente rumorosa, attiva, gente dal viso diverso, ostile. Stranieri… tutti, dal primo all’ultimo. Non un solo viso che lui conoscesse. Gente che andava in molti posti. Partiva per i pianeti. Era ansiosa di andare, di lasciare la Terra. Si preoccupava ansiosamente degli ultimi particolari, degli ultimi preparativi. Gridava e vociava e chiamava e correva.

Gente che si muoveva affannosamente, tumultuosamente, di qua e di là, senza fermarsi.


In quella folla anonima apparve un volto familiare. Webster si protese avanti.

«Jenkins!» gridò, e si pentì immediatamente di avere gridato, anche se nessuno pareva essersene accorto.

Il robot avanzò verso di lui, si fermò davanti a lui.

«Avverti Raymond,» disse Webster, «Che devo tornare immediatamente. Digli di portare l’elicottero davanti all’uscita, immediatamente.» Calcò l’accento su quella parola, immediatamente, che aveva quasi il suono e il sapore della salvezza.

«Spiacente, signore,» disse Jenkins, «Ma non possiamo partire subito. I meccanici hanno scoperto una perdita nel motore atomico. Stanno cambiando il pezzo. Ci vorranno diverse ore.»

«Certamente questo si sarebbe potuto rimandare a qualche altro momento più propizio,» disse Webster, irritato.

«Il meccanico ha detto di no, signore,» gli disse Jenkins. «Il motore potrebbe saltare da un momento all’altro. L’intera carica di energia…»

«Sì, sì,» ammise Webster. «Immagino che tu abbia ragione.»

Rigirò il cappello tra le mani, nervosamente.

«Mi è venuta in mente una cosa,» disse, finalmente. «Una cosa che devo fare. Una cosa che non può attendere. Devo tornare a casa. Non posso aspettare diverse ore.»

Nervosamente, si mosse sulla sedia, rimanendo in equilibrio precario sul bordo di essa, fissando con occhi sbarrati la folla che si assiepava intorno a lui.

Volti… volti…

«Forse il signore potrebbe usare il visifono per chiamare qualcuno, a casa,» suggerì Jenkins. «Uno dei robot potrebbe forse essere in grado di fare quanto lei desidera, signore. C’è una cabina visifonica…»

«Aspetta, Jenkins,» disse Webster. Esitò per un momento. «Non c’è niente da fare, a casa. Niente di niente. Ma io devo tornarci. Non posso restare qui. Se sarò costretto a restare, credo che impazzirò. Ho avuto paura lassù, sulla terrazza. Qui sono confuso e sconvolto. Ho una sensazione… una sensazione strana e terribile. Jenkins, io…»

«Capisco, signore,» disse Jenkins. «Anche suo padre la aveva.»

Webster spalancò gli occhi.

«Mio padre?»

«Sì, signore, era per questo che non andava mai da nessuna parte. Aveva circa la sua età, signore, quando se ne è reso conto. Ha tentato di fare un viaggio in Europa e non c’è riuscito. È arrivato a metà strada ed è tornato indietro. Aveva un nome per definire quanto gli era capitato.»

Webster rimase seduto, sconvolto, in silenzio.

«Un nome per definire questa cosa,» disse poi, dopo una lunga pausa. «Certo che esiste un nome per definirla. Mio padre l’aveva trovato. Dimmi, Jenkins… anche mio nonno ne soffriva?»

«Non saprei, signore,» rispose Jenkins. «Io sono stato creato solo quando suo nonno era già anziano. Ma è possibile. Neppure lui si muoveva mai, signore.»

«Tu capisci, allora,» disse Webster. «Sai quello che provo. Mi sembra di stare male… starò male, Jenkins, starò male fisicamente, se dovrò restare qui ancora per qualche tempo. Vedi se ti è possibile noleggiare un elicottero… qualsiasi cosa, pur di tornare a casa.»

«Sì, signore,» disse Jenkins.

Si voltò e fece per andarsene, ma Webster lo richiamò.

«Jenkins, nessun altro sa di questa cosa? C’è qualcuno…»

«No, signore,» disse Jenkins. «Suo padre non ne ha mai fatto cenno, e io ho avuto l’impressione che non gli avrei fatto piacere a parlarne.»

«Grazie, Jenkins,» disse Webster.

Webster sprofondò di nuovo nella poltrona, e si sentì desolato e solo in un ambiente estraneo e ostile. Solo in un atrio pieno di folla vociante, che pulsava di vita… e quella solitudine lo dilaniava, lo lasciava vuoto e stanco e debole e inerte.

Nostalgia di casa. Nostalgia di casa, pura e semplice, vergognosa e umiliante, si disse. Una cosa che provano i bambini quando lasciano la loro casa per la prima volta, quando per la prima volta escono ad affrontare il mondo.

C’era anche una parola scientifica per definire quella cosa, agorafobia, il terrore morboso di trovarsi al centro di uno spazio aperto… una parola che derivava dal greco, e la cui radice era la paura… letteralmente, paura della piazza.

Se lui attraversava l’atrio ed entrava nella cabina visifonica, poteva chiamare casa sua, parlare con sua madre o con uno dei robot… o, meglio ancora, poteva starsene a sedere, a guardare la casa, in attesa del ritorno di Jenkins.

Cominciò ad alzarsi, e poi sprofondò di nuovo nella poltrona. Era inutile. Parlare con qualcuno o stare a guardare la casa non era come esserci davvero. Non avrebbe potuto sentire il profumo dei pini nell’aria cristallina dell’inverno, né udire lo scricchiolio familiare della neve che copriva i viali e si frangeva sotto i suoi piedi, né tendere una mano per toccare una delle grandi querce che crescevano nei viali. Non avrebbe potuto sentire il calore del focolare, né la sensazione certa e rassicurante del possesso, né la consapevolezza di essere tutt’uno con il terreno conosciuto e amato e con tutte le cose che vi crescevano sopra.

Eppure… forse lo avrebbe aiutato a vincere quel terrore. Non molto, forse, ma un poco. Fece di nuovo per alzarsi dalla poltrona, e si immobilizzò, d’un tratto. Quei pochi passi che portavano alla cabina racchiudevano il terrore, un terrore tremendo, invincibile. Se avesse percorso quei pochi passi, avrebbe dovuto correre. Correre per fuggire da quegli occhi vigili che lo fissavano, da quei suoni innaturali che lo circondavano, dalla tremenda agonia che gli dava la presenza di quei volti estranei.

Si afflosciò di nuovo sulla poltrona, svuotato di ogni forza.

La voce stridula di una donna si udì nell’atrio, e Webster tremò, si rannicchiò per sfuggire a quel grido odioso. Si sentiva male, male. Aveva l’inferno dentro di sé. Dov’era Jenkins? Un’ondata di nausea parve sommergerlo. Perché Jenkins non faceva più in fretta?


Il primo alito della primavera penetrò dalla finestra, riempiendo lo studio della promessa di nevi che si scioglievano, di foglie e fiori che si ridestavano dal lungo torpore dell’inverno, di acque ancora spumeggianti del freddo abbraccio delle montagne, di ghiacci fragili portati dalla corrente a valle, di trote che nuotavano lente nelle anse del torrente, aspettando l’esca del pescatore.

Webster sollevò lo sguardo dai fogli accumulati sulla sua scrivania, respirò la brezza leggera, ne sentì la fresca carezza mormorante sulla guancia. La sua mano cercò il bicchiere di liquore, lo trovò vuoto, e lo posò di nuovo al suo posto.

Tornò a chinarsi sui fogli, prese una matita e cancellò una parola superflua.

Rilesse gli ultimi paragrafi, cercando di scoprirne gli eventuali difetti:


«Il fatto che, dei duecentocinquanta uomini che sono stati invitati a farmi visita, presumibilmente per motivi di importanza più che ordinaria, soltanto tre siano riusciti a venire, non dimostra necessariamente che, all’infuori di questi tre, tutti gli altri fossero affetti da agorafobia. Taluni possono avere avuto dei motivi più che legittimi che hanno impedito loro di accettare il mio invito. Ma questo indica una crescente ostilità da parte degli uomini che vivono sulla Terra nel modo stabilitosi dopo l’abbandono delle città, di fronte all’idea di muoversi dalle proprie case, di lasciare i luoghi familiari, e un istinto sempre più forte a restare negli ambienti e nelle proprietà che in virtù di un processo mentale inconscio hanno finito per associarsi e identificarsi con tutto ciò che di soddisfacente e gradevole può offrire la vita.

«Il risultato del processo oggi in corso non può essere previsto con sicurezza, applicandosi per il momento soltanto a una piccola parte della popolazione terrestre. Nelle famiglie più numerose la pressione economica costringe alcuni dei figli a cercare fortuna in altre parti della Terra oppure su uno degli altri pianeti. Molti altri individui cercano deliberatamente nello spazio nuove occasioni e avventure, mentre altri ancora si dedicano a professioni o commerci che rendono virtualmente impossibile un’esistenza sedentaria.»


Mise da parte la pagina, e passò all’ultima.

Era un ottimo saggio, se ne rendeva conto, ma non poteva essere pubblicato, non ancora, almeno. Forse dopo la sua morte. Nessuno, per quanto era riuscito ad appurare, era riuscito fino a quel momento a scoprire l’esistenza di quel processo, aveva scelto come punto di partenza il fatto che gli uomini lasciavano ben difficilmente le loro case. Per quale motivo, dopotutto, avrebbero dovuto lasciare le loro case?

Certi pericoli possono essere riconosciuti in…

Il visifono ronzò al suo fianco, e Webster allungò la mano per premere il bottone.

La stanza svanì intorno a lui, e Webster si trovò di fronte a un uomo seduto dietro una scrivania. Pareva quasi che fosse seduto dall’altra parte della scrivania di Webster. Era un uomo dai capelli grigi, e dagli occhi tristi dietro le lenti spesse.

Per un istante Webster si limitò a guardarlo, mentre un ricordo si faceva strada nella sua mente.

«Non è possibile che lei sia…» chiese, e l’uomo sorrise, con aria grave.

«Sono cambiato,» disse. «E anche lei è cambiato. Mi chiamo Clayborne. Ricorda? La missione medica marziana…»

«Clayborne! Quante volte ho pensato a lei. Lei è rimasto su Marte.»

Clayborne annuì.

«Ho letto il suo libro, dottore. È un vero, grande contributo alla scienza medica. Avevo pensato spesso alla necessità di scriverne uno, avrei voluto farlo io stesso, ma non ho mai avuto il tempo. E ho fatto bene a non provarci. Lei ha svolto un lavoro migliore. Specialmente per quanto riguarda il cervello.»

«Il cervello marziano,» gli disse Webster, «Mi ha sempre affascinato, con le sue caratteristiche così singolari. Temo di avere passato, in quei cinque anni, più tempo di quanto non fosse opportuno a prendere appunti e a compiere studi sull’argomento. C’era tanto altro lavoro da fare.»

«È stata una fortuna che l’abbia fatto, invece,» disse Clayborne. «È proprio per questo che adesso la chiamo. Ho un paziente… un’operazione al cervello. Soltanto lei è in grado di farla.»

Webster si sentì mancare il fiato, e le sue mani furono scosse da un tremito improvviso.

«Lo può portare qui?»

Clayborne scosse il capo.

«Non può essere spostato. Credo che lei lo conosca. Si tratta di Juwain, il filosofo.»

«Juwain!» esclamò Webster. «È uno dei miei migliori amici. Abbiamo parlato non più di due giorni fa!»

«L’attacco è stato improvviso,» disse Clayborne. «Ha chiesto di lei.»

Webster tacque, preso da un subitaneo senso di freddo… un freddo che veniva da qualche luogo lontano e gelido e sconosciuto. Un freddo che gli faceva imperlare di sudore la fronte, che gli faceva stringere i pugni, futilmente, disperatamente.

«Se parte immediatamente,» disse Clayborne, «Potrà arrivare qui in tempo. Ho già sistemato le cose con la Commissione Mondiale, perché le venga messa immediatamente a disposizione un’astronave. È necessaria la massima urgenza.»

«Ma,» disse Webster, «Ma… io non posso venire.»

«Non può venire!»

«È impossibile,» disse Webster. «E poi, in ogni caso, dubito che la mia presenza sia necessaria. Certamente lei stesso potrà…»

«Io non posso,» disse Clayborne. «Come nessuno può riuscirci, all’infuori di lei. Nessun altro conosce gli elementi necessari per agire… Ha tra le mani la vita di Juwain. Se viene, lui vivrà. Se non viene, morirà.»

«Non posso affrontare lo spazio,» disse Webster.

«Tutti possono affrontare lo spazio,» disse seccamente Clayborne. «Non è come una volta. Può avere tutte le condizioni ambientali che desidera. Non c’è problema.»

«Ma lei non capisce,» disse Webster, con voce supplichevole. «Lei…»

«No, infatti, non capisco,» disse Clayborne. «Sinceramente, non capisco. Che un uomo, chiunque esso sia, debba rifiutarsi di salvare la vita di un suo amico…»

I due uomini si guardarono negli occhi per un lungo momento, senza parlare.

«Dirò alla Commissione di mandare l’astronave a casa sua.» disse Clayborne, alla fine. «Spero che, quando arriverà, lei si sia liberato degli impedimenti che la trattengono.»

Clayborne svanì e la parete riapparve… la parete e i libri, il caminetto e i quadri, i mobili tanto amati, la promessa di primavera che entrava dalla finestra aperta.


Webster era seduto sulla sua poltrona, e fissava la parete, davanti a lui, e il suo corpo pareva prigioniero di una morsa di ghiaccio.

Juwain, il volto villoso e grinzoso, il mormorio sibilante, l’amicizia e la comprensione che erano proprie del suo essere. Juwain, capace di afferrare la sostanza di cui sono fatti i sogni, e darle forma logica, e trasformarla in regole di vita e di comportamento. Juwain, che usava la filosofia come uno strumento, come una scienza, come una scala che portava a una vita migliore.

Webster si nascose il viso tra le mani, e cercò di combattere la tremenda sofferenza che lo divorava.

Clayborne non aveva capito. E come poteva attendersi che lui avesse capito, se per lui non c’era alcun modo di sapere ciò che Webster provava? Neppure lui, Webster, avrebbe potuto scoprirlo in qualcun altro, non avrebbe potuto capire, se prima non l’avesse scoperto in se stesso… la terribile paura di lasciare il suo caminetto, la sua terra, la sua proprietà, i simboli che lui aveva creato e dei quali si era circondato. E non solo lui, non solo lui, ma anche gli altri Webster. A cominciare dal primo John J. Uomini e donne che avevano creato un culto di vita, una tradizione di comportamento.

Lui, Jerome A. Webster, era andato su Marte quando era stato giovane, e allora non aveva sentito, non aveva neppure sospettato l’esistenza del veleno psicologico che scorreva nelle sue vene. Come Thomas, che era partito per Marte pochi mesi prima. Ma trent’anni di vita isolata, tranquilla e serena, in quell’eremo che i Webster chiamavano casa, avevano fatto affiorare quel veleno, lo avevano rafforzato senza che lui neppure se ne accorgesse. In realtà, non aveva avuto alcuna occasione per accorgersene.

Adesso era chiaro il processo che aveva portato alla superficie quel veleno… era chiaro come il cristallo più puro. L’abitudine e la ripetizione di certe azioni, veri schemi mentali profondamente radicati, e un’associazione mentale tra la felicità e certe cose… cose che non avevano alcun valore autentico in se stesse, ma alle quali era stato attribuito un valore, un valore definito e concreto, un valore stabilito da una famiglia nel corso di cinque generazioni.

Come poteva meravigliarsi che gli altri posti, tutti gli altri posti, sembrassero alieni, più che le distese degli spazi sconosciuti? Come poteva meravigliarsi che gli altri orizzonti racchiudessero un brivido di orrore nella loro curva?

E nessuno poteva farci niente… niente, cioè, a meno che qualcuno non avesse abbattuto tutti gli alberi e non avesse incendiato la casa e non avesse cambiato il corso del torrente. E neppure questo, forse, sarebbe bastato… neppure questo…

Il visifono ronzò, e Webster schiuse le dita, sollevò il capo, allungò la mano e premette il pulsante.

La stanza diventò una distesa di luce bianca, ma nessuna immagine si formò. Una voce disse:

«Chiamata segreta. Chiamata segreta.»

Webster aprì un pannello, sul fianco della macchina, fece girare due dischi, udì il ronzio dell’energia immessa in uno schermo che isolava completamente la stanza.

«Chiamata segreta stabilita,» disse.

La luce bianca scomparve e un uomo apparve davanti a lui, seduto alla scrivania. Un uomo che Webster aveva già visto molte volte nei discorsi televisivi, e sul giornale del mattino.

Henderson, presidente della Commissione Mondiale.

«Ho ricevuto una chiamata da Clayborne,» disse Henderson.

Webster annuì senza parlare.

«Mi ha detto che lei si è rifiutato di andare su Marte.»

«Non ho rifiutato,» disse Webster. «Quando Clayborne ha tolto la comunicazione, la questione era ancora aperta. Gli avevo detto che mi era impossibile andare, ma lui ha rifiutato questa spiegazione, non ha capito, apparentemente.»

«Webster, lei deve andare,» disse Henderson. «Lei è l’unico uomo al mondo che conosca a sufficienza il cervello marziano per realizzare questa operazione. Se si trattasse di un’operazione più semplice, forse basterebbe qualche altro chirurgo. Ma in questo caso, lei è l’unico in grado di riuscire.»

«Può essere vero.» disse Webster. «Ma…»

«Non si tratta soltanto di salvare una vita,» spiegò Henderson. «Anche se qui si tratterebbe della vita di un personaggio famoso come Juwain. La questione è ancora più importante. Juwain è suo amico, Webster. Forse le ha accennato alla sua scoperta.»

«Sì,» disse Webster, ricordando il colloquio di pochi mesi prima, e quelli ancora più recenti. «Sì, mi ha accennato qualcosa. Una nuova concezione filosofica.»

«Una concezione,» dichiarò Henderson, «Della quale non possiamo fare a meno. Una concezione che trasformerà radicalmente il sistema solare, che gli darà nuova forma e nuove basi, che farà progredire l’umanità di centomila anni nello spazio di due generazioni. Una nuova direzione per i nostri scopi, che ci farà mirare a una méta che fino a oggi non abbiamo neppure sospettato, che fino a oggi neppure sognavamo. Una méta la cui esistenza ci era del tutto ignota. Una verità completamente, realmente nuova, capisce? Una verità che, fino a oggi, nessuno aveva sospettato.»

Le mani di Weebster strinsero il bordo della scrivania con forza, con tanta forza che le nocche diventarono esangui.

«Se Juwain muore,» disse Henderson, «Questa concezione filosofica morirà con lui. E forse l’avremo perduta per sempre.»

«Ci proverò,» disse Webster. «Ci proverò…»

Lo sguardo di Henderson era duro.

«È tutto quello che può fare?»

«È tutto quello che posso fare,» disse Webster.

«Ma, caro amico, deve esserci una ragione per il suo comportamento! Una spiegazione…»

«Nessuna spiegazione,» disse Webster. «Che io voglia dare.»

Deliberatamente, allungò la mano e tolse la comunicazione.


Webster era seduto alla scrivania e teneva le mani tese davanti a sé, e le guardava. Mani capaci, abili, mani miracolose, a volte. Mani che sapevano tenere i complicati ferri chirurgici. Mani che potevano salvare una vita, se lui fosse riuscito a portarle su Marte. Mani che avrebbero potuto salvare per il sistema solare, per l’umanità, per i marziani, un’idea… una nuova idea… che li avrebbe fatti progredire di centomila anni nelle due prossime generazioni.

Ma quelle erano mani incatenate da una fobìa nata da quella sua vita serena e tranquilla. Decadenza… una decadenza stranamente bella… e mortale.

L’uomo aveva abbandonato le città brulicanti di vita, i formicai umani, duecento anni prima. Si era liberato degli antichi nemici e delle antiche paure che lo avevano tenuto legato intorno al fuoco dell’accampamento comune, aveva lasciato alle spalle gli spettri e i demoni e i lupi mannari che avevano camminato al suo fianco dai tempi remoti delle caverne.

Eppure… eppure…

Ora si trovava in un altro formicaio. Non un formicaio fisico, ma un formicaio mentale. Non c’era più la soffocante presenza di milioni di altri esseri umani, eppure… qui c’era il fuoco di un accampamento psicologico, un falò che ancora teneva incatenato l’uomo nel raggio della sua luce.

Eppure, pensò Webster, lui doveva lasciare quel fuoco. Come gli uomini avevano fatto con le città, due secoli prima, lui doveva voltare le spalle a quel nuovo formicaio, doveva andare. E non doveva voltarsi indietro. Non doveva lanciare un’ultima occhiata.

Lui doveva andare su Marte… o, almeno partire per Marte. Su questo non c’era alcun dubbio. Lui doveva andare.

Non sapeva, certo, se avrebbe potuto sopravvivere al viaggio, se sarebbe stato nelle condizioni di eseguire l’intervento, una volta arrivato. Non poteva dirlo. Si chiese, confusamente, se l’agorafobia poteva essere mortale. Nelle sue forme estreme, probabilmente lo era.

Allungò una mano per suonare il campanello, poi esitò. Era inutile dire a Jenkins di fare i bagagli. Avrebbe fatto da solo… sarebbe servito a tenerlo occupato, fino all’arrivo dell’astronave.

Andò nella camera da letto, prese una valigia dallo scaffale più alto di un armadio, e vide che era coperta di polvere. Cercò di soffiare via la polvere, ma la polvere rimase. Era là da troppi anni.

Mentre infilava nella valigia le cose indispensabili, la stanza cominciò a opporsi a quanto faceva, cominciò a discutere, a parlare in quella lingua muta che gli oggetti inanimati ma familiari usano per conversare con un uomo.

«Non puoi andare,» diceva la stanza. «Non puoi andare. Non mi puoi lasciare.»

E Webster ribatté, in tono per metà supplichevole, per metà colpevole:

«Io devo andare. Ma non capisci? È un amico, un vecchio amico. Tornerò indietro.»

Quando ebbe terminato di fare la valigia, Webster ritornò nel suo studio, si lasciò cadere sulla sedia.

Lui doveva andare, eppure non poteva andare. Ma quando l’astronave sarebbe arrivata, quando sarebbe arrivato il momento, lui sapeva, sapeva che avrebbe dovuto uscire dalla casa, sapeva che avrebbe dovuto andare verso l’astronave in attesa.

Doveva costringersi a rafforzare la sua determinazione. Doveva convincere la sua mente dell’irrevocabilità di quanto stava per fare. Doveva incanalare i suoi pensieri lungo binari rigidi, doveva escludere qualsiasi pensiero, qualsiasi pensiero che non fosse quello della sua partenza.

Ma gli oggetti che si trovavano nello studio cominciarono a intrufolarsi nei suoi pensieri, come se avessero fatto parte di una congiura ordita allo scopo di tenerlo laggiù. Oggetti che ora vedeva sotto una luce strana, come se li vedesse per la prima volta. Vecchi oggetti familiari che improvvisamente diventavano nuovi. L’orologio che indicava il tempo terrestre e quello marziano, i giorni del mese e le fasi della luna. La fotografia della moglie morta, sulla scrivania. Il trofeo che aveva vinto a scuola. I ricordi del suo viaggio su Marte, la cornice che racchiudeva il biglietto che gli era costato dieci dollari, durante il viaggio di andata.

Fissò tutti quegli oggetti, dapprima controvoglia, poi con ansia, per riempire la mente di ricordi da portare con sé. Li guardò considerandoli dei componenti separati di una stanza che aveva accettato, per tutti quegli anni, come un tutto unico, senza rendersi mai conto di quale moltitudine di singoli oggetti essa era fatta.

Scendeva il crepuscolo, il crepuscolo di una primavera precoce, un crepuscolo che odorava di teneri germogli di salici bagnati, di silenzio cristallino, di vento lontano.

L’astronave avrebbe dovuto arrivare già da molto tempo. Si accorse di tendere l’orecchio, cercando di sentirla arrivare, benché sapesse che non avrebbe certo potuto sentirla. Un’astronave dai motori atomici era silenziosa, tranne che al momento dell’accelerazione. Il decollo e l’atterraggio erano muti; l’astronave spiccava il volo e si posava a terra come una piuma portata dal vento, senza fare udire neppure un mormorio.

Sarebbe arrivata presto. Avrebbe dovuto arrivare presto, altrimenti lui non sarebbe più partito. Se avesse dovuto attendere ancora molto, se ne rendeva conto, la sua risoluzione si sarebbe sbriciolata come un monticello di polvere nel vento, sarebbe crollata come sabbia sotto una pioggia battente. Non avrebbe potuto mantenere ferma la sua decisione ancora per molto, di fronte alla voce silenziosa e supplichevole della stanza, di fronte allo scintillare triste del fuoco, di fronte al mormorio della terra sulla quale cinque generazioni di Webster avevano vissuto ed erano morte.

Chiuse gli occhi e cercò di combattere il brivido che gli percorreva il corpo. Non poteva lasciarsi andare adesso, si disse. Doveva resistere. Quando sarebbe arrivata l’astronave, avrebbe ancora potuto alzarsi e uscire dalla porta e dirigersi verso il portello spalancato e salire a bordo.

Si udì bussare alla porta.

«Avanti,» disse Webster.

Era Jenkins, e la luce che veniva dal caminetto riverberò silenziosamente sull’epidermide di lucido metallo.

«Mi aveva chiamato prima, signore?» chiese.

Webster scosse il capo.

«Temevo che mi avesse chiamato,» spiegò Jenkins. «E che si fosse domandato per quale motivo non avevo risposto. È accaduto un avvenimento del tutto straordinario, signore. Sono arrivati due uomini a bordo di un’astronave, e hanno detto che volevano portarla su Marte.»

«Sono arrivati,» disse Webster. «Perché non mi hai chiamato?»

Faticosamente, con uno sforzo tremendo, riuscì ad alzarsi in piedi. Mosse un passo verso la porta.

«Non mi è parso che fosse il caso di disturbarla, signore,» disse Jenkins. «Era così assurdo! E alla fine, non senza fatica, sono riuscito a far comprendere a quei due uomini che non era possibile che il signore volesse andare su Marte.»

Webster si irrigidì, sentì una morsa di gelida paura che gli afferrava il cuore. Ciecamente, tese le mani, cercando il bordo della scrivania, e si calò sulla sedia, mentre sentiva che le pareti della stanza si rinserravano intorno a lui, come una trappola che non l’avrebbe mai lasciato andare.

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