IV DISERZIONE


Quattro uomini, due per volta, erano usciti nell’ululante maelstrom che era Giove, e non era ritornati. Avevano camminato sfidando i venti d’uragano che soffiavano lamentosi… o meglio, erano andati avanti a lunghi balzi, con il ventre a terra, e i fianchi bagnati e lucidi della pioggia battente.

Perché i quattro non erano usciti in forma di uomini.

Ora il quinto uomo era in piedi davanti alla scrivania di Kent Fowler, comandante della Cupola Numero 3, Commissione per l’Esplorazione di Giove.

Sotto la scrivania di Fowler, il vecchio Towser mosse una zampa e schiacciò una pulce fastidiosa, e poi si accucciò di nuovo, riprendendo placidamente a dormire.

Harold Allen, notò Fowler con un’improvvisa fitta di dolore al cuore, era giovane… troppo giovane. Aveva la fiducia scontata dei giovani, e il viso di uno che non conosce la paura. E questo era strano. Perché gli uomini che vivevano nelle cupole di Giove conoscevano la paura… la paura e l’umiltà. Era difficile per l’Uomo conciliare il suo spirito fiero e presuntuoso con le immense forze del mostruoso, gigantesco pianeta.

«Lei si renderà conto,» disse Fowler, «Di non essere costretto a fare questo. Lei si renderà conto di non essere costretto ad andare.»

Era una formula protocollare, naturalmente. Le stesse parole erano state dette agli altri quattro, e loro erano andati. E questo quinto uomo, Fowler lo sapeva bene, sarebbe andato a sua volta. Ma d’un tratto sentì nascere dentro di lui una lenta, irragionevole speranza, la speranza che Allen non avesse accettato, la speranza che Allen non fosse andato fuori.

«Quando devo cominciare?» domandò Allen.

C’era stato un tempo in cui Fowler avrebbe ascoltato quella risposta con silenzioso orgoglio, ma quel tempo era passato. Per un istante il suo viso si oscurò, una ruga di ansietà apparve sulla sua fronte.

«Entro un’ora,» rispose.

Allen rimase in piedi, in silenzio, rigido sull’attenti.

«Altri quattro uomini sono usciti e non sono più tornati,» disse Fowler. «Naturalmente lei è al corrente. Noi vogliamo che lei torni. Non desideriamo che lei si impegni in qualche eroica missione di soccorso. La cosa più importante, l’unica cosa importante, è che lei torni indietro, che lei dimostri al di là di ogni dubbio che l’uomo può vivere in una forma gioviana. Si spinga fino alla prima postazione di osservazione, non oltre, e torni subito indietro. Non corra rischi. Non cerchi di compiere delle ricerche personali. Ricordi che lei deve soltanto tornare indietro.»

Allen annuì.

«Me ne rendo perfettamente conto.»

«La signorina Stanley sarà ai comandi del convertitore,» continuò Fowler. «Su questo punto lei non deve avere la minima preoccupazione. La conversione, anche negli altri quattro casi, è stata operata senza alcun inconveniente. I suoi quattro predecessori hanno lasciato il convertitore in condizioni apparentemente perfette. Lei sarà affidato a mani la cui competenza è al di là di ogni dubbio. La signorina Stanley è l’operatrice di conversione più capace e specializzata che esista in tutto il Sistema Solare. Le sue esperienze comprendono lunghi periodi di lavoro su quasi tutti gli altri pianeti. È per questa sua grande esperienza e abilità che si trova qui con noi.»

Allen sorrise alla donna, e Fowler vide uno strano guizzo di espressione balenare sul viso della signorina Stanley… qualcosa che avrebbe potuto essere pietà, oppure collera… o soltanto paura, paura nuda ed elementare. Ma fu soltanto un guizzo, che scomparve in un istante, e subito la donna ricambiò il sorriso al giovane che stava in piedi, sull’attenti, davanti alla scrivania. Ricambiò il sorriso con quel suo modo di sorridere formale, da maestra di scuola, come se si odiasse per dovere sorridere così.

«Sono impaziente,» disse Allen, «Di sottopormi alla conversione.»

E dal modo in cui pronunciò queste parole la cosa parve uno scherzo, un grande scherzo buffo.

Ma non era uno scherzo.

Era una questione seria, mortalmente seria. Da queste prove, Fowler lo sapeva bene, dipendeva il destino degli uomini su Giove. Se le prove avevano successo, le infinite risorse del gigantesco pianeta sarebbero state aperte, per le mani degli uomini, le porte di quel mondo dalle infinite ricchezze si sarebbero spalancate davanti a loro. L’Uomo sarebbe diventato padrone di Giove, come già era diventato padrone degli altri pianeti minori. Ma se le prove non avevano successo…

Se le prove non avevano successo, l’Uomo avrebbe continuato a essere incatenato e schiacciato dalla tremenda pressione, dalla forza di gravità inimmaginabile, dall’allucinante composizione dell’atmosfera gioviana, dalla strana e ostile struttura biochimica dell’intero pianeta. L’uomo avrebbe continuato a essere prigioniero delle cupole, incapace di porre piede tisicamente sulla superficie del pianeta, incapace di vederlo con i propri occhi, senza l’ausilio di macchine e strumenti imperfetti, costretto a riporre la propria fiducia nei goffi trattori di superficie e nei fallaci schermi televisivi, costretto a lavorare con strumenti ingombranti e meccanismi goffi o per mezzo di automi ancora più goffi e ingombranti e lenti degli strumenti.

Perché l’Uomo, senza protezione, e nella sua forma naturale, sarebbe stato schiacciato come un insetto dalla spaventosa pressione di quattro tonnellate per centimetro quadrato, una pressione al cui confronto quella esistente sul fondo degli abissi oceanici, sulla Terra, pareva il vuoto assoluto degli spazi siderali.

Neppure i metalli più forti che i terrestri erano riusciti a fabbricare potevano continuare a esistere nella loro forma originale in una simile pressione, in una simile pressione e sotto le piogge alcaline che spazzavano eternamente la superficie del pianeta, portate dai ciclopici venti di tempesta. Anche il metallo più forte, in quelle condizioni, si sbriciolava e si spezzava, come argilla, o si scioglieva in rivoletti e pozze ribollenti di sali d’ammoniaca. Solo aumentando artificialmente la durezza e la forza del metallo, aumentandone la tensione elettronica, era possibile renderlo adatto a sopportare il peso di migliaia e migliaia di chilometri di vortici gassosi soffocanti che componevano la selvaggia, ostile atmosfera del grande pianeta. E dopo avere fatto tutto questo, dopo avere sfruttato tutte le risorse della scienza, era necessario rivestire ogni cosa di uno strato spesso di quarzo, per proteggere gli oggetti dalla pioggia… l’ammoniaca allo stato liquido che cadeva amara e feroce, la pioggia più ostile che l’Uomo avesse mai conosciuto.

Fowler, seduto dietro la scrivania, ascoltava il pulsare dei motori che si trovavano nel compartimento più basso della cupola… i motori che funzionavano incessantemente, facendo vibrare e ronzare e pulsare la cupola in una musica che non conosceva silenzio. I motori dovevano funzionare, dovevano funzionare senza fermarsi neppure per un istante, perché se avessero cessato di ronzare anche solo per un momento la tensione elettronica sarebbe diminuita, e quella sarebbe stata la fine, la fine totale e senza speranza.

Towser si mosse, sotto la scrivania di Fowler, e schiacciò un’altra pulce, e la sua zampa batté rumorosamente sul pavimento.

«C’è altro?» domandò Allen.

Fowler scosse il capo.

«Forse lei desidera fare qualcosa,» disse. «Forse lei…»

Stava per dire, «Forse lei desidera scrivere una lettera,» e fu felice di essersi fermato in tempo, prima di pronunciare quelle parole.

Allen diede un’occhiata all’orologio.

«Arriverò in tempo,» disse. Si voltò e camminò verso la porta.

Fowler sapeva che la signorina Stanley lo stava guardando e non voleva voltarsi, non voleva affrontare il suo sguardo. Sfogliò distrattamente un fascicolo che si trovava sulla scrivania, davanti a lui.

«Per quanto tempo ha intenzione di continuare questa faccenda?» domandò la signorina Stanley, pronunciando ogni parola lentamente, con forza, e ogni parola fu come un colpo di frusta, scagliato per ferire, destinato a ferire.

Allora Fowler si voltò a guardare la donna. Le sue labbra erano strette in una linea diritta e sottile, i capelli ancora più tirati e lisci sulla fronte, e il suo viso aveva più che mai quella strana e angosciosa somiglianza con una maschera di morte.

Fowler cercò allora di parlare con voce fredda e sicura.

«Finché ci sarà almeno un motivo ragionevole per farlo,» disse. «Finché ci sarà anche una sola ragione di speranza.»

«Lei è deciso a continuare a condannarli a morte,» disse lei. «Lei è deciso a farli marciare fino a incontrare Giove nel suo vero aspetto. Lei continuerà a stare seduto qui, al sicuro, comodamente, e a mandarli fuori a morire.»

«Non c’è posto per i sentimentalismi, signorina Stanley,» disse Fowler, cercando di tenere fuori dalla sua voce una nota di collera. «Lei conosce bene quanto me per quale motivo facciamo tutto questo. Lei si rende perfettamente conto che l’Uomo, nella sua forma naturale, semplicemente non può adattarsi a Giove, non può sperare di affrontare ad armi pari il pianeta. L’unica soluzione è quella di trasformare gli uomini nel genere di creature che possono adattarsi alle condizioni di vita del pianeta. L’abbiamo già fatto sugli altri mondi.

«Se pochi uomini muoiono, ma alla fine avremo successo, il prezzo che avremo pagato sarà lieve. In tutte le epoche gli uomini hanno sprecato la loro vita morendo per cose stupide, per motivi stupidi, per ideali stupidi. Perché noi dovremmo esitare, allora, a sacrificare poche vite umane, di fronte a un obiettivo così grande com’è quello che ci sta davanti?»

La signorina Stanley era seduta rigida e diritta, a braccia conserte, e le luci del locale giocavano con i suoi capelli che cominciavano a ingrigire; e Fowler, guardandola, cercò di immaginare quali fossero i suoi sentimenti, quali fossero i suoi pensieri in quel momento. Non aveva paura di lei, nel senso stretto della parola, ma quando era con lei non si sentiva mai a proprio agio. Quegli occhi azzurri e penetranti vedevano troppo bene, le sue mani avevano un aspetto troppo abile e capace. Quella donna avrebbe dovuto essere una tranquilla, vecchia zia, seduta comodamente su una poltrona a dondolo, intenta a lavorare a maglia con le sue dita veloci e sicure. Ma non era così. La signorina Stanley era la migliore operatrice di convertitori di tutto il Sistema Solare, e non le piaceva la maniera nella quale lui, Fowler, conduceva le operazioni nella sua cupola.

«C’è qualcosa che non va, signor Fowler,» disse lei.

«Precisamente,» ammise Fowler. «È per questo che mando fuori il giovane Allen da solo. Lui potrà scoprire cosa sta succedendo.»

«E se fallisce?»

«Manderò un altro.»

Lentamente, lei si alzò dalla sedia, mosse qualche passo verso la porta, poi si fermò, bruscamente, davanti alla scrivania di Fowler.

«Un giorno o l’altro,» gli disse, «Lei diventerà un grand’uomo. Non si lascia mai sfuggire un’occasione. E questa è la sua occasione, la sua grande occasione. Lo ha saputo dal momento in cui questa cupola è stata prescelta per gli esperimenti. Se lei avrà successo, sarà promosso, non importa il numero degli uomini che moriranno per ottenere questo successo. Lei sarà promosso, malgrado tutti i cadaveri che potranno essere disseminati lungo la strada.»

«Signorina Stanley,» le disse, e la sua voce era secca. «Il giovane Allen uscirà tra poco. La prego di controllare che la sua macchina…»

«La mia macchina,» disse lei, in tono gelido, «Non ha nessuna colpa. Funziona in base alle coordinate stabilite dai biologi.»

Restò seduto, curvo sulla scrivania, ascoltando i passi della donna che si allontanavano lungo il corridoio.

Quello che lei aveva detto era vero, naturalmente. I biologi avevano predisposto le coordinate. Ma i biologi potevano sbagliarsi. Bastava una differenza sottile come un capello, una virgola sbagliata nei calcoli, e il convertitore avrebbe mandato fuori qualcosa che non era quello che avrebbe dovuto uscire, nelle intenzioni. Un mutante che avrebbe potuto cedere alla tensione, oppure impazzire, oppure venire colpito da qualche condizione particolare, da qualche ostacolo sconosciuto, dalle forze dell’imprevisto che agivano sempre, in una missione del genere.

Perché l’Uomo non sapeva molto di quello che avveniva fuori. Sapeva solo quello che gli dicevano gli strumenti; e i campioni di ciò che avveniva su Giove, campioni forniti da quegli strumenti e da molti meccanismi che avevano sondato Giove, non erano altro che campioni, dati indicativi ma senza un valore probante, perché Giove era grande, troppo grande, incredibilmente grande, e le cupole erano piccole, al suo confronto, e lontane, e poche.

Lo stesso lavoro dei biologi per la raccolta di elementi sui Rimbalzanti, con ogni verosimiglianza la più alta forma di vita gioviana, aveva comportato più di tre anni di studi intensi e assidui, e, in seguito, altri due anni di controlli e di riprove per avere una certa sicurezza nelle conclusioni. E si trattava di un lavoro che avrebbe potuto essere svolto, sulla Terra, in una settimana o al massimo due. Ma era un lavoro che, in questo caso, non poteva essere svolto sulla Terra, perché era impossibile portare sulla Terra una forma di vita gioviana. La pressione esistente su Giove non poteva essere riprodotta in nessun altro luogo all’infuori di Giove, e nella pressione e nella temperatura della Terra i Rimbalzanti sarebbero semplicemente scomparrsi in uno sbuffo di gas.

Eppure era un lavoro che bisognava svolgere, se l’Uomo voleva sperare di riuscire, un giorno, a vivere su Giove nella forma dei Rimbalzanti. Perché prima che il convertitore potesse cambiare un uomo in un’altra forma di vita, dovevano essere noti i particolari più sottili delle caratteristiche fisiche di quest’altra forma di vita… tutti i particolari, con sicurezza totale e assoluta, senza alcuna possibilità di errore.


Allen non tornò indietro.

I trattori, perlustrando il terreno della zona in cui avrebbe dovuto svolgersi la missione, non trascurarono nulla, ma non trovarono alcuna traccia di Allen, a meno che la creatura lenta e furtiva che uno dei piloti riferì di avere visto passare non fosse stata il terrestre scomparso nella sua nuova forma di Rimbalzante.

I biologi sogghignarono con i loro più elaborati sogghigni di superiorità accademica quando Fowler suggerì che le coordinate da loro stabilite per il convertitore potessero essere sbagliate. Gli spiegarono, con studiata superiorità, che le coordinate erano quelle esatte, perché avevano dimostrato la loro giustezza in più occasioni. Quando un uomo entrava nel convertitore, e l’interruttore veniva abbassato, l’uomo diventava un Rimbalzante. In quella forma usciva dalla macchina e si allontanava, scompariva alla vista, nell’atmosfera densa e sciropposa del pianeta.

Qualche impercettibile deviazione, aveva suggerito Fowler; qualche errore infinitesimale, qualche sottilissimo mutamento da ciò che avrebbe dovuto essere un Rimbalzante, qualche difetto tanto trascurabile da essere ignorato. Se era questo il caso, gli risposero i biologi, ci sarebbero voluti degli anni per scoprirlo.

E Fowler sapeva che i biologi avevano ragione.

Così adesso gli uomini scomparsi erano cinque invece che quattro, e Harold Allen era uscito sulla nuda superficie di Giove per niente, assolutamente per niente. Per quello che riguardava la missione, era come se il giovane non fosse mai uscito.

Fowler cercò tra i documenti che ingombravano la sua scrivania, e prese in mano l’elenco del personale, un sottile fascio di fogli uniti da un punto metallico, un sottile fascio di fogli che conteneva le vite degli uomini della Cupola Gioviana Numero 3. Era una cosa che odiava più della morte, quella, una cosa che gli faceva orrore e gli stringeva il cuore in una morsa di gelo; ma era anche una cosa che lui doveva fare. In un modo e nell’altro il motivo di quelle strane scomparse doveva essere scoperto. E c’era un solo mezzo per scoprirlo, e quel mezzo era l’invio di altri uomini.

Rimase immobile per un istante, ad ascoltare l’ululato del vento che rugghiava sulla cupola, quell’ululato eterno e immutabile che era la voce di Giove, la voce delle feroci tempeste e degli spaventosi uragani che spazzavano dall’inizio del tempo le superficie di quel pianeta, in un’esplosione di collera ribollente e feroce.

C’era qualche minaccia ignota, là fuori? si chiese. Qualche pericolo del quale non sapevano nulla? Qualcosa che stava in agguato là fuori, per apparire d’un tratto in tutto il suo orrore e inghiottire i Rimbalzanti, senza fare distinzione tra i Rimbalzanti autentici e i Rimbalzanti che erano uomini? Per il nemico ignoto certamente la natura delle vittime non avrebbe fatto differenza. Uomini o Rimbalzanti, sarebbe stato uguale.

Oppure c’era stato un errore fondamentale nella scelta dei Rimbalzanti come forma di vita più adatta a esistere sulla superficie del pianeta? L’evidente intelligenza dei Rimbalzanti era stata il fattore decisivo di quella scelta. Perché se la creatura nella quale l’Uomo si trasformava non aveva capacità d’intelligenza, l’Uomo non avrebbe potuto conservare a lungo la propria intelligenza nel suo nuovo involucro.

Forse i biologi avevano dato un peso troppo grande a quel fattore, usandolo per spostare i piatti della bilancia a favore della scelta dei Rimbalzanti, e trascurando così qualche altro elemento che avrebbe potuto rivelarsi insoddisfacente, o perfino disastroso? Non sembrava probabile. Erano boriosi e presuntuosi e testardi, i biologi, e guardavano i comuni mortali dall’alto in basso, ma conoscevano il loro mestiere, di questo poteva esserne sicuro.

E allora? Forse l’intera impresa era impossibile, condannata fin dalla nascita? La conversione degli uomini in altre forme di vita aveva funzionato su altri pianeti, ma questo non significava necessariamente che la stessa soluzione si applicasse anche a Giove. Forse l’intelligenza umana non poteva funzionare normalmmente, attraverso l’apparato sensorio fornito dalle creature gioviane. Forse i Rimbalzanti erano così alieni che non esisteva un terreno comune sul quale la conoscenza umana e la concezione dell’esistenza gioviana potessero incontrarsi e iniziare un comune lavoro.

O forse il difetto era da cercarsi nell’Uomo, forse era un difetto congenito della razza. Qualche aberrazione mentale che, unita a ciò che gli uomini trovavano là fuori, nel mondo tempestoso e mortale, impediva agli esploratori di tornare indietro. Anche se, forse, non si trattava affatto di un’aberrazione, almeno nel senso umano della parola. Forse si trattava soltanto di una comune caratteristica umana, che sulla Terra era considerata scontata e perfino banale, ma che si scontrava a tal punto con l’esistenza gioviana da produrre un trauma irreparabile alla psicologia umana.

Si udì uno scalpiccio nel corridoio, e ascoltando quel suono Fowler sorrise involontariamente, e con un poco di amarezza. Era Towser che era stato in cucina e adesso tornava da lui, dopo avere fatto visita al suo amico, il cuoco.

Towser entrò nella stanza, con un osso stretto tra i denti. Agitò festosamente la coda, salutando Fowler, e si acquattò a terra, davanti alla scrivania, cominciando a giocherellare con l’osso. Per un lungo minuto i suoi occhi acquosi guardarono il padrone, e Fowler si chinò ad accarezzare l’orecchio spelacchiato del vecchio cane.

«Tu mi vuoi ancora bene, Towser?» domandò Fowler, e Towser dimenò la coda.

«Sei rimasto il solo,» disse allora Fowler.

Si rialzò, e tornò al suo lavoro. Raccolse di nuovo l’elenco del personale.

Bennett? Bennett aveva una ragazza che lo aspettava lassù, sulla Terra.

Andrews? Andrews intendeva ritornare all’istituto di Tecnologia di Marte, non appena avesse guadagnato il necessario per pagarsi gli studi per l’ultimo anno.

Olson? Olson era ormai vicino all’età della pensione. Non faceva altro che raccontare ai ragazzi più giovani le bellezze del posto in cui sarebbe andato a vivere, e delle rose che avrebbe coltivato.

Lentamente, Fowler posò l’elenco sulla scrivania, con precauzione, come se fosse stato un oggetto molto fragile e molto prezioso.

Lui condannava a morte degli uomini. La signorina Stanley aveva detto questo, muovendo appena le labbra sottili nel suo viso simile a una maschera di morte. Deciso a farli marciare fino a incontrare Giove nel suo vero aspetto, fino a morire, mentre lui, Fowler, se ne stava seduto lì, al sicuro, comodamente.

Lo dicevano tutti, nella cupola, senza dubbio, soprattutto da quando Allen non era ritornato. Non avrebbero avuto il coraggio di dirglielo in faccia, naturamente. Nemmeno l’uomo che lui avrebbe convocato nell’ufficio, l’uomo che si sarebbe fermato sull’attenti davanti alla sua scrivania e avrebbe ascoltato dalla voce di Fowler le parole che lo condannavano a morte, neppure colui che avrebbe seguito Allen nelle ostili distese di Giove, avrebbe avuto il coraggio di dirglielo in faccia. E forse non si trattava di coraggio, ma di qualche altra cosa… obbedienza, disciplina, rassegnazione. Chi avrebbe seguito Allen, e quelli che sarebbero venuti dopo di lui, non avrebbe parlato.

Ma lui avrebbe letto le parole nei suoi occhi.

Riprese in mano l’elenco. Bennett, Andrews, Olson. C’erano degli altri, ma non aveva senso continuare.

Kent Fowler capì che non avrebbe potuto farlo, che non avrebbe potuto guardarli negli occhi, che non avrebbe potuto mandare degli altri uomini a morire là fuori.

Si piegò sulla scrivania, allungò una mano e premette il pulsante dell’intercom.

«Sì, signor Fowler?»

«Mi passi la signorina Stanley, per favore.»

Aspettò di entrare in comunicazione con la signorina Stanley, e mentre aspettava sentì il rumore che producevaa Towser, intento a masticare il suo osso. I denti di Towser non erano più buoni come ai vecchi tempi; il cane faceva fatica.

«Parla Stanley,» disse la voce della signorina Stanley.

«Volevo soltanto avvertirla, signorina Stanley, di prepararsi a convertire altri due.»

«Non ha paura,» domandò la signorina Stanley, «Di esaurire troppo in fretta tutta la sua riserva? Mandando fuori un uomo per volta, le durerebbero di più, e lei avrebbe il doppio di soddisfazione.»

«Uno sarà un cane,» disse Fowler.

«Un cane!»

«Sì, Towser.»

Sentì la collera improvvisa e fredda che le raggelò la voce.

«Il suo cane, perfino! Dopo che le è stato fedele per tutti questi lunghi anni…»

«È questo il punto,» disse Fowler. «Towser soffrirebbe se non lo portassi con me.»


Non era il pianeta Giove che lui aveva conosciuto attraverso i teleschermi. Se l’era aspettato diverso, certo, aveva saputo fin dall’inizio che gli occhi elettronici della cupola non potevano dare una visione completa del grande, tempestoso pianeta, ma non se l’era aspettato così. Aveva creduto di sprofondare in un inferno di nubifragi di ammoniaca e di vapori fetidi e asfissianti, aveva creduto di venire assordato dal tuono tumultuoso dell’eterna bufera. Aveva immaginato di trovarsi tra vortici di enormi nubi gravide di tempesta e in un mare di nebbia ostile solcato incessantemente dal balenio accecante di fulmini mostruosi.

Ma non si era aspettato che la pioggia flagellante si trasformasse in quella nebbia umida e purpurea e lenta che si muoveva come una processione compatta d’ombre fuggevoli sopra una prateria che pareva un arcobaleno di tonalità rosse e cangianti. Non aveva neppure lontanamente sognato che le crudeli serpentine dei fulmini si trasformassero in guizzi e bagliori di pura estasi che sbocciavano senza pause in un cielo dipinto.

Fermandosi ad aspettare Towser, Fowler mosse i muscoli del suo corpo, sorpreso dalla forza sicura e agile che vi trovava. Non era un corpo cattivo, decise, e ripensò con uno strano senso di compatimento a quando aveva provato un senso di commiserazione per i Rimbalzanti, vedendoli per la prima volta attraverso il teleschermo.

Perché era stato difficile immaginare un organismo vivente basato sull’ammoniaca e sull’idrogeno invece che sull’acqua e sull’ossigeno, era stato ancora più difficile credere che una simile forma di vita potesse provare lo stesso brivido della vita che l’umanità conosceva. Era stato difficile concepire l’esistenza della vita là fuori, nel maelstrom sciropposo che era Giove, non sapendo allora, naturalmente, che attraverso degli occhi gioviani quel maelstrom sciropposo non era affatto ciò che sembrava.

Il vento accarezzò il suo corpo con dolcezza, e lui ricordò, stupito, che quel vento, secondo i canoni terrestri, era un ciclone ruggente, un uragano tempestoso, una furia scatenata di venti inarrestabili carichi di vapori venefici.

Profumi dolci e piacevoli arrivavano fino al suo corpo, s’insinuavano morbidi nel suo corpo. E non erano profumi, non erano odori, perché la sensazione era completamente dissimile dal senso dell’olfatto, come l’aveva conosciuto un tempo, quando era stato un uomo. Non erano profumi eppure lo erano. Pareva che il suo corpo assorbisse, si impregnasse dell’essenza della lavanda… l’essenza, la sensazione, che era molto di più di un profumo; e che pure non era lavanda, ma qualcosa di diverso. Si trattava di qualcosa che non aveva una definizione, per lo meno una definizione umana; e senza dubbio si trattava del primo anello di un’interminabile catena di enigmi di terminologia che lui avrebbe dovuto affrontare. Perché le parole che conosceva, i simboli di pensiero dei quali si era servito quando era stato un terrestre, non gli sarebbero più serviti, ora ch’era diventato un gioviano.

Lo sportello si aprì sul fianco della cupola, e Towser ne uscì pesantemente, rotolando e rimbalzando… almeno, lui pensò che dovesse trattarsi di Towser.

Fecee per chiamare il cane, e la sua mente cominciò a formare le parole che lui intendeva pronunciare. Ma non riuscì a pronunciarle. Non c’era alcun modo di pronunciarle. Non aveva alcun mezzo per pronunciarle. Niente, nel suo fisico, poteva servire a esprimere delle parole, o soltanto dei suoni.

Per un istante la sua mente ondeggiò in un vortice di viscido terrore, una paura cieca che si agitò in rivoletti di panico nel buio che era calato nella sua mente.

Come facevano a parlare, i gioviani? Come…

Improvvisamente sentì Towser, sentì acutamente, distintamente l’amicizia ansiosa e completa dell’animale stanco e magro e ossuto che l’aveva seguito dalla Terra su molti pianeti. Come se la creatura che era Towser si fosse protesa e per un attimo si fosse seduta all’interno della sua mente.

E insieme al confuso sentimento d’affetto, alla calda sensazione di benvenuto che sentì giungere da Towser, vennero le parole.

«Ciao, amico.»

Non erano in realtà delle parole, erano meglio delle parole. Simboli di pensiero che si formavano nella sua mente, e venivano comunicati direttamente, in simboli che possedevano delle sfumature di significato e di sentimenti che le parole non avrebbero mai potuto esprimere.

«Ciao, Towser,» rispose.

«Mi sento bene,» disse Towser. «Come quando ero un cucciolo. In questi ultimi tempi mi sentivo molto stanco e molto pesante. Le zampe erano sempre più deboli e i denti si consumavano e non servivano più a molto. Difficile masticare un osso, con denti così ridotti! E poi, le pulci non mi davano requie. Una volta non prestavo loro molta attenzione. Qualche pulce in più o in meno non significava poi tanto, quando ero più giovane.»

«Ma… ma…» I pensieri di Fowler parvero tremare per la sorpresa, parvero esitare a esprimere dei concetti definitivi. «Tu mi stai parlando!»

«Questo è sicuro,» disse Towser. «Io ti ho sempre parlato, ma tu non riuscivi a sentirmi. Io cercavo di dirti delle cose, ma non riuscivo a farmi capire.»

«A volte riuscivo a capirti,» disse Fowler.

«Non molto bene,» spiegò Towser. «Sapevi quando volevo da mangiare e quando volevo bere e quando volevo uscire, ma sei riuscito a capire soltanto quello, e niente di più.»

«Mi dispiace,» disse Fowler.

«Dimenticatene,» lo rassicurò Towser. «Vediamo chi arriva primo a quella roccia.»

Per la prima volta, Fowler vide la roccia, che distava apparentemente diversi chilometri; era una roccia che possedeva una strana bellezza cristallina, uno splendore che scintillava nell’ombra delle nuvole dai molti colori cangianti.

Fowler esitò.

«È lontana, molto lontana…»

«Ah, andiamo, muoviti,» disse Towser e, nello stesso tempo, si mise a balzare verso la rooccia.

Fowler lo seguì, mettendo alla prova le sue gambe, saggiando la forza di quel suo nuovo corpo, dapprima un po’ dubbioso, sorpreso un attimo dopo, e poi felice, felice di una gioia pura e completa che confondeva e univa in una sola cosa la forza del suo corpo che correva e la prateria rossa e purpurea e cangiante, i vapori e il fumo umido e danzante della pioggia sopra la landa senza limiti.

E, mentre correva, gli giunse il sentore della musica, una musica che pulsava nel suo corpo, che sgorgava da tutto il suo essere, che lo portava leggero su ali veloci d’argento. Una musica che ricordava quella di una campana, una campana di una chiesa sulla cima di una collina, bagnata dai raggi caldi e gentili di un sole di primavera.

E mano a mano che la roccia si avvicinava, la musica si faceva più profonda e melodiosa, e riempiva l’universo intero con le sue bianche ondate di magica armonia. E allora si accorse che la musica veniva dalla cascata altissima che si tuffava lungo il fianco alto della roccia splendente.

C’era un particolare, però, e lui se ne accorse con un brivido di eccitazione; non si trattava d’una cascata d’acqua, ma di una cascata d’ammoniaca, e la roccia era bianca e splendente perché si trattava di ossigeno solidificato.

Si fermò scivolando sulla prateria lucida e cangiante, accanto a Towser, là dove la cascata si frangeva in uno scintillante arcobaleno di cento e cento colori. Cento e cento colori, e mai espressione era stata usata più alla lettera, perché là, sul grande pianeta, non esistevano le sfumature da un colore primario all’altro, come potevano vedere sulla Terra gli occhi degli uomini, ma c’era una selezione nettissima, che scindeva il prisma in tutti i suoi componenti, fino alla sua estrema classificazione.

«La musica,» disse Towser.

«Sì, che cos’è?»

«La musica,» disse Towser, «È fatta di vibrazioni. Vibrazioni dell’acqua che cade.»

«Ma, Towser, tu non sai niente delle vibrazioni.»

«Sì, invece,» ribatté il cane. «Mi è venuto in mente proprio adesso.»

Fowler fu pervaso da un brivido di stupore.

«Ti è venuto in mente, così, semplicemente?»

E d’un tratto, all’interno della sua mente, apparve una formula… la formula di un processo chimico che avrebbe trasformato i metalli in modo da far loro sopportare la tremenda pressione di Giove.

Attonito, incredulo, fissò la cascata meravigliosa e subitaneamente il suo cervello prese i diversi colori e li allineò nell’esatta sequenza dello spettro. Così, semplicemente. Così, come per magia, traendo gli accordi di colori dal cielo, come gli accordi di musica della cascata erano sembrati scaturire dall’aria. E quello che era apparso nella sua mente doveva essere davvero apparso dal nulla, perché lui non sapeva niente né di metalli, né di colori.

«Towser,» esclamò, «Towser, ci sta accadendo qualcosa!»

«Sì, lo so,» disse Towser.

«Sono i nostri cervelli,» disse Fowler. «Li stiamo usando per intero, fino all’angolo più riposto e dimenticato. Li stiamo usando per scoprire cose che avremmo dovuto sempre sapere. Forse i cervelli delle creature della Terra sono per natura lenti e nebulosi. Forse noi siamo gli idioti dell’universo, siamo i più stupidi, i più tardivi. Forse siamo fatti in modo da usare sempre la maniera più difficile per ottenere qualcosa, per costruire qualcosa, per capire qualcosa.»

E, nella nuova limpida chiarezza mentale che pareva essersi impadronita di lui, capì che i suoi pensieri non si sarebbero limitati a classificare i colori dello spettro in una cascata, o a inventare dei metalli capaci di resistere alla pressione di Giove. Avvertiva confusamente la presenza di altre cose, di cose ancora non troppo chiare. Un vago mormorio insinuante, che pareva alludere a cose più grandi, a misteri posti molto al di là della portata del pensiero umano, perfino al di là della portata dell’immaginazione umana. Misteri, fatti, una logica nuova, tutto costruito con il ragionamento. Cose che qualsiasi cervello avrebbe dovuto conoscere, solo che avesse usato completamente tutte le sue capacità di ragionamento.

«Siamo ancora in gran parte terrestri,» disse. «Stiamo appena cominciando ad apprendere i primi barlumi delle cose che dovremmo conoscere… i primi barlumi delle cose che ci erano nascoste, quando eravamo semplici esseri umani, forse proprio perché eravamo dei semplici esseri umani. Perché i nostri corpi umani erano dei corpi ben miseri. Attrezzati poco e male per pensare, attrezzati poco e male in certi sensi che bisogna possedere per sapere e capire davvero. Forse certi sensi necessari per raggiungere una vera conoscenza ci mancavano del tutto, e noi non lo sapevamo, non potevamo sospettarlo.»

Si voltò a guardare la cupola, una piccola cosa nera che la distanza rimpiccioliva e rendeva misera e patetica.

Laggiù c’erano degli uomini incapaci di vedere quel mondo di pura bellezza che era Giove. Uomini che credevano il pianeta oscurato da nubi grevi di tempesta e flagellato da un diluvio di pioggia battente e mortale. Laggiù c’erano degli occhi umani, occhi ciechi, perché non potevano vedere. Poveri occhi di poveri uomini. Occhi che non potevano vedere la bellezza nelle nuvole, che non potevano squarciare il velo delle tempeste e riconoscerne il vero e splendido volto. Corpi che non potevano sentire il brivido e il piacere della musica sublime che sgorgava come acqua di fonte dalla cascata bianca sulla roccia di cristallo nella pianura cangiante d’oro e di porpora.

Uomini che marciavano soli, terribilmente soli, spaventosamente soli, e parlavano con la lingua e con le labbra, come giovani esploratori che si scambiano messaggi agitando delle bandierine colorate, incapaci di protendersi a toccare un’altra mente, come lui, invece, poteva protendersi a toccare la mente di Towser. Uomini che erano esclusi per sempre da quel contatto intimo e personale con le altre cose viventi. Uomini che erano prigionieri, che erano rinchiusi entro mura costruite dalla Natura per loro, e che non lo sapevano, e che non capivano, e non potevano capire.

Lui, Fowler, si era aspettato d’incontrare il terrore, il terrore ispirato da cose mostruose e aliene in agguato là, sulla nuda superficie di Giove; si era aspettato di soccombere di fronte alla minaccia di cose e creature sconosciute, si era aspettato di essere costretto a fuggire, e aveva dovuto compiere un grande sforzo di volontà per affrontare e vincere l’orrore e il disgusto di una situazione che si discostava infinitamente da quelle della Terra.

Ma invece di tutto ciò, invece del terrore e dell’orrore e del disgusto e delle cose aliene, lui aveva trovato la cosa più grande tra tutte le grandi cose che l’Uomo aveva incontrato dall’inizio della sua storia. Aveva trovato un corpo più veloce e più sicuro. Aveva conosciuto un’inattesa sensazione di esultanza, una gioia di vivere più profonda e più vera. Aveva ottenuto una mente più limpida e più acuta. Aveva conosciuto un mondo fatto di bellezza, un mondo che neppure i più audaci sognatori della Terra avevano saputo immaginare.

«Andiamo,» lo incalzò Towser, ansioso.

«Dove vuoi andare?»

«Dovunque,» disse Towser. «Cominciamo ad andare, e poi vedremo dove finiremo. Ho una sensazione… ebbene, una sensazione…»

«Sì, lo so,» fece Fowler.

Perché anche lui aveva quella sensazione. La sensazione di un alto destino, di uno splendido destino. Un certo senso di grandezza. Il presentimento, e anche la certezza, che in qualche luogo, oltre gli orizzonti del grande pianeta, avrebbero trovato l’avventura e cose più grandi ancora dell’avventura.

Anche gli altri cinque avevano provato quelle sensazioni, avevano conosciuto gli stessi presentimenti. Anche gli altri cinque avevano sentito il desiderio di andare a vedere, avevano saputo, con la forza di un richiamo al quale non si poteva resistere, che là, oltre l’orizzonte, oltre la pianura, tra le nubi scintillanti, là dove spirava il vento, li attendeva una vita colma di appagamento e di saggezza.

Era questo il motivo per cui non erano più ritornati. E ora anche lui lo sapeva.

«Io non voglio tornare indietro,» disse Towser.

«Ma non possiamo tradirli così,» disse Fowler. «Non possiamo abbandonarli.»

Fowler fece un passo, e il suo nuovo corpo avanzò guizzando agile e veloce, e poi un altro passo, in direzione della cupola lontana e minuscola come una bollicina estranea al paesaggio stupendo del pianeta; ma poi si fermò.

Tornare in quella cupola. Tornare in quel corpo sofferente, appesantito dalla fatica e da cento veleni, che aveva lasciato da poco. Prima gli era sembrato un buon corpo, un corpo sano, e non gli era parso né sofferente né pieno di veleni né stanco, ma adesso sapeva, adesso ricordava la sofferenza e la stanchezza e il dolore.

Tornare in quel cervello nebuloso, pigro, lento. Ritornare a quei pensieri faticosi e lenti, appesantiti dal fango della sua mente limitata. Ritornare a quei messaggi sventolati da bocche che formavano segnali comprensibili agli altri. Ritornare a quegli occhi che ora gli sembravano peggiori della cecità completa. Ritornare allo squallore, allo strisciare da vermi, all’ignoranza.

«Forse, un giorno…» disse tra sé, mormorando parole alle quali non credeva.

«Abbiamo molte cose da fare e molte cose da vedere,» gli disse Towser. «E abbiamo moltissime cose da imparare. Scopriremo e troveremo…»

Sì, avrebbero scoperto e avrebbero trovato. E cosa avrebbero scoperto, e cosa avrebbero trovato? Delle civiltà nuove, forse. Delle civiltà che avrebbero fatto apparire risibile e patetica e miserabile quella degli uomini, in confronto.

La bellezza, certo. Avrebbero trovato la bellezza. E una cosa ancora più importante, la comprensione di quella bellezza, la capacità di vederla e di riconoscerla per quello che era.

E il senso del cameratismo. Avrebbero conosciuto il vero cameratismo, la vera fratellanza, la vera amicizia. Sarebbero stati compagni come nessuno lo era mai stato prima… sarebbero stati veri compagni, come nessun uomo e nessun cane lo erano mai stati prima d’allora.

E poi, la vita. Avrebbero ritrovato la vita. Avrebbero scoperto la gioia di vivere, il brivido veloce e l’eccitazione scintillante della vita, dopo un’esistenza che ora pareva spenta, trascorsa nella prigionia soporifera di una droga.

«Io non posso tornare,» disse Towser.

«Nemmeno io,» disse Fowler.

«Mi farebbero tornare a essere un cane,» disse Towser.

«E a me,» disse Fowler, «A essere un uomo.»

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