I LA CITTÀ

Pa’ Stevens era seduto sullo sdraio, e mentre seguiva con lo sguardo la falciatrice al lavoro sentiva i raggi dolci del sole affondare gentili nel suo corpo, scaldargli le ossa. La falciatrice giunse al margine del prato, chiocciò come una gallina soddisfatta, eseguì una curva perfetta e ricominciò a falciare un’altra striscia di prato. La sacca che conteneva l’erba tagliata continuava a gonfiarsi.

D’un tratto la falciatrice si fermò e cominciò a ticchettare, irritata. Un pannello, sul suo fianco, si aprì di scatto, e un braccio simile a una piccola gru uscì dall’apertura, e scese verso il basso. Dita prensili d’acciaio pescarono tra l’erba, e risalirono, trionfanti, stringendo un sasso; lo calarono in una piccola cassetta, e sparirono nuovamente all’interno del pannello. La falciatrice gorgogliò, e ricominciò a fare le fusa come un grosso gatto satollo, seguendo la striscia di prato.

Pa’ grugnì, guardando con aria sospettosa la macchina.

«Un giorno o l’altro,» bofonchiò, «Quella miseria di un aggeggio si farà scappare uno stuzzicadenti, e si prenderà l’esaurimento nervoso.»

Abbassò lo sdraio e guardò in alto il cielo bagnato dal sole. Un elicottero scintillava altissimo. Da un punto imprecisato della casa giunse un insopportabile miagolio musicale. Qualcuno aveva acceso la radio. Pa’, ascoltando la musica, rabbrividì e sprofondò ancor più nello sdraio.

Era Charlie, che si preparava a una di quelle prove di contorsionismo che chiamava ballo. Miseria d’un ragazzo.

La falciatrice gli passò accanto, chiocciando allegramente, e Pa’ le lanciò un’occhiata maliziosa.

«Automatica» disse, guardando il cielo. «Adesso tutti i maledetti congegni sono automatici. Adesso ti basta guardare una macchina e dirle qualcosa all’orecchio e lei si ammazza per fare tutto il lavoro.»

La voce di sua figlia che gridava per sovrastare l’infernale frastuono della radio, lo chiamò dalla finestra.

«Babbo!»

Pa’ si agitò, inquieto.

«Babbo, per favore, spostati quando la falciatrice ti passa vicino. Non cercare di dimostrarti più cocciuto di lei. Dopotutto è soltanto una macchina. L’ultima volta sei rimasto seduto, e l’hai costretta a girarti intorno. Non capisco che gusto ci provi.»

Non rispose, mosse soltanto leggermente il capo, sperando che sua figlia pensasse che lui era addormentato, e lo lasciasse in pace.

«Papà.» gridò lei, «Mi hai sentito?»

Capì che non serviva a niente.

«Sicuro, sicuro, ti ho sentita,» brontolò. «Mi stavo proprio per alzare.»

Si alzò in piedi, lentamente, appoggiandosi pesantemente al bastone. Così si sarebbe pentita del modo in cui lo trattava, vedendo come era diventato vecchio e debole; però doveva fare attenzione. Se lei si fosse accorta che avrebbe potuto fare benissimo a meno del bastone, gli avrebbe subito trovato un’infinità di lavori da fare e, d’altro canto, se si appoggiava troppo al bastone Betty avrebbe mandato di nuovo ad affliggerlo quello stupido dottore.

Brontolando, spostò lo sdraio nella parte del prato sulla quale la falciatrice era già passata. La falciatrice, che stava ripassando, lo gratificò di un borbottio maligno.

«Un giorno o l’altro,» le disse Pa’, «Ci penserò io a spaccarti una molla.»

La falciatrice gli rispose con un ululato di scherno, e si allontanò serenamente per il prato.

Dalla strada erbosa giunse uno stridio metallico, giunse il rumore scoppiettante di un motore.

Pa’, che stava per sdraiarsi tranquillamente, si alzò e si mise in ascolto.

Il rumore si ripeté, più vicino e più chiaro; era il rumore ansante di un motore difettoso, era il rumore di pezzi metallici male in arnese.

«Un’automobile!» esclamò Pa.’ «Un’automobile, miseria ladra!»

Si mosse, fece per correre verso il cancello, ricordò appena in tempo di essere vecchio e debole — e che, probabilmente, sua figlia era ancora alla finestra — e avanzò a lunghi passi.

«Dev’essere quel pazzo di Ole Johnson,» si disse Pa’. «È l’unico che abbia ancora un’automobile. Miseria di un vecchio, è troppo cocciuto per rinunciarvi.»

Era proprio Ole.

Pa’ raggiunse il cancello in tempo per vedere l’auto decrepita e ammaccata girare l’angolo, sbuffando e sobbalzando, e avanzare affannosamente sulla strada abbandonata da tanto tempo. Il vapore usciva sibilando dal radiatore surriscaldato, e una nuvola di fumo azzurrino usciva dallo scappamento, che aveva perduto il silenziatore da cinque anni almeno.

Ole era seduto stoicamente al volante, e stringeva gli occhi, cercando di evitare le buche e le maggiori asperità della strada, benché questo fosse difficile; le erbacce avevano invaso completamente la vecchia carreggiata, ed era difficile vedere cosa nascondeva quel mantello verde.

Pa’ agitò il bastone:

«Ciao, Ole!» gridò.

Ole si chinò, e azionò il freno a mano. L’auto ansimò, sobbalzò, tossì e si fermò con un orribile sospiro.

«Che cosa usi, per farla andare?» chiese Pa’.

«Un po’ di tutto.» rispose Ole. «Cherosene, un poco di benzina per trattori che ho trovato in una vecchia latta, dell’alcol.»

Pa’ guardò l’automobile sopravvissuta, con ammirazione. «Quelli erano giorni,» disse. «Io ne avevo una che poteva fare i centottanta all’ora.»

«Sempre in gamba,» disse Ole, «Se riesci a trovare il carburante e i pezzi di ricambio. Fino a tre, quattro anni fa, riuscivo sempre a trovare la benzina sufficiente, ma ormai è un pezzo che non se ne trova più. Hanno smesso di farla, immagino. È inutile avere la benzina, dicono, se c’è l’energia atomica a disposizione.»

«Già,» disse Pa’. «Immagino che abbiano ragione, ma come si fa a sentire l’odore dell’energia atomica? L’odore della benzina che brucia nel motore è il più buono del mondo. Tutti questi elicotteri e gli altri aggeggi che si vedono oggi sono riusciti a togliere tutta l’emozione del viaggio.»

Diede un’occhiata ai piccoli barili e alle ceste ammucchiati sul sedile posteriore.

«Hai degli ortaggi?» chiese.

«Sì,» disse il contadino. «Pannocchie di granoturco e patate novelle e qualche cesta di pomodori. Pensavo che forse avrei trovato da venderli.»

Pa’ scosse il capo.

«Hai pensato male, Ole. Non te li comprerà nessuno. La gente si è messa in testa che solo quei nuovi prodotti idroponici sono degni di essere mangiati. Più igienici, più sani, e più saporiti.»

«Non darei un soldo bucato per tutto quello che fanno crescere in quelle dannate vasche.» dichiarò Ole, in tono bellicoso. «Per me, quella roba non ha un sapore giusto. Lo dico sempre a Martha, che il cibo deve crescere nella terra, per avere un po’ di carattere.»

Si curvò per abbassare la levetta della messa in moto.

«Non so se valga la pena di portare la roba in città,» disse, «Con le strade ridotte in questo modo. Come le tengono… o meglio, come non le tengono! Venti anni fa la statale era una striscia di buon cemento, e la curavano e la riparavano e la tenevano liscia e solida come un biliardo. E dovevi vederli, a ogni inverno… facevano di tutto, spendevano qualsiasi somma, per tenerla sempre aperta. E adesso se ne sono scordati, così, e basta. Il cemento è tutto crepato e le piogge hanno portato via dei pezzi e nelle crepe ci cresce addirittura l’insalata. Stamattina ho dovuto scendere a togliere di mezzo un albero che vi era caduto sopra, addirittura.»

«Dico io, se non è vero!» annuì Pa’.

L’auto si risvegliò, con uno scoppio, e cominciò a tossire e a sibilare. Una densa nube di fumo azzurrino la circondò; poi, con uno strattone che la fece cigolare in ogni fibra, si avviò sbuffando e sobbalzando lungo la strada.


Pa’ ritornò lentamente alla sua sedia a sdraio, e la ritrovò fradicia d’acqua. La falciatrice automatica, avendo finito di falciare il prato, aveva preso la pompa e stava innaffiando.

Masticando una serie di imprecazioni velenose, Pa’ girò intorno alla casa, zoppicando, e sedette sulla panchina che si trovava accanto alla veranda sul retro. Non gli piaceva stare seduto laggiù, ma era l’unico posto riparato da quella ferraglia scatenata che imperversava nel prato.

Per prima cosa, la vista che si aveva dalla panchina era un po’ deprimente: una strada dopo l’altra di case deserte, abbandonate, e giardini abbandonati, incolti e invasi dalle erbacce.

C’era un vantaggio, però. Dalla panchina lui poteva fingere di essere un po’ sordo e di non sentire l’infernale musica da ballo che la radio continuava a vomitare.

Una voce lo chiamò dal prato.

«Bill! Bill, dove sei?»

Pa’ si girò di scatto.

«Sono qui, Mark. Dietro la casa. Mi nascondo da quella miseria di falciatrice.»

Mark Bailey apparve, zoppicando, sull’angolo della casa, con la sigaretta stretta tra i denti che minacciava di bruciare i suoi baffoni cisposi.

«Sei un po’ in anticipo per la partita, no?» chiese Pa’.

«Oggi non posso giocare, disse Mark.

Si avvicinò e venne a sedersi sulla panchina, accanto a Pa’.

«Ce ne andiamo,» disse.

Pa’ si voltò a guardarlo.

«Ve ne andate!»

«Già. Ci trasferiamo in campagna. Lucinda, alla fine, è riuscita a convincere Herb. Immagino che non abbia avuto un momento di pace, povero Herb. Lei continuava a dire che tutti i nostri conoscenti si stavano trasferendo in una di quelle belle tenute di campagna, e che non capiva per quale motivo non dovessimo farlo anche noi.»

Pa’ inghiottì a fatica.

«Dove andate?»

«Non lo so, esattamente,» disse Mark. «Io non ci sono stato. A nord, da qualche parte. Verso uno dei laghi. Abbiamo dieci acri di terra. Lucinda ne voleva cento, lei, ma Herb ha puntato i piedi e ha detto che dieci bastavano. Dopotutto, una casa di città ci è bastata per tutti questi anni.»

«Anche Betty non concede un momento di pace a Johnny, per lo stesso motivo,» disse Pa’. «Ma lui riesce a resistere. Dice che non può, che proprio lui, segretario della Camera di Commercio e tutto il resto, darebbe un’impressione sbagliata, andandosene dalla città.»

«La gente è diventata pazza,» dichiarò Mark. «Pazza da legare.»

«Questo è certo,» ammise Pa’. «Pazza per la campagna, ecco cos’è. Guarda là».

Indicò con un ampio gesto della mano le strade deserte e le case abbandonate.

«Ricordo il tempo in cui questo posto era bello, il più bel gruppo di case che ci fosse. Buoni vicini, erano. Le donne si scambiavano visite e ricette di cucina. E gli uomini andavano in giardino a tagliare l’erba, e dopo un poco lasciavano in un angolo le loro falciatrici e si radunavano a discutere fino a sera tardi. Buona gente, Mark. E guarda adesso com’è ridotto.»

Mark si mosse sulla panchina, nervosamente.

«Devo andare, Bill. Me l’ero battuta un momento, proprio per avvertirti che andiamo via. Lucinda vuole che io faccia le valigie. Se sapesse che me la sono svignata, si arrabbierebbe.»

Pa’ si alzò, con aria impacciata, e tese la mano all’amico.

«Ci rivediamo? Verrai a fare l’ultima partita?»

Mark scosse il capo.

«Temo di no, Bill.»

Si strinsero la mano, una stretta impacciata, depressa, un poco commossa.

«Certo che sentirò la mancanza di quelle partite.» disse Mark.

«Anch’io,» disse Pa’. «Quando te ne sarai andato, non avrò più nessuno.»

«Addio, Bill,» disse Mark.

«Addio,» disse Pa’.

Rimase in piedi a guardare l’amico che, zoppicando, girava l’angolo della casa, e sentì il gelido artiglio della solitudine che veniva a toccarlo con la sua presenza di ghiaccio. Una solitudine tremenda. La solitudine della vecchiaia… della vecchiaia e di un’epoca ormai trascorsa e superata. Coraggiosamente, Pa’ arrivò ad ammetterlo. Lui era superato, era fuori tempo. Apparteneva a un’altra epoca. Era sopravvissuto al suo tempo, aveva vissuto oltre gli anni che erano stati suoi.

Aveva gli occhi annebbiati, acquosi. Strano. Cercò a tentoni il bastone, che aveva posato sulla panchina, e lentamente, appoggiandosi a esso, camminò verso il cancello che si apriva sulla strada deserta e abbandonata, dietro la casa.


Gli anni erano trascorsi troppo velocemente. Gli anni che avevano portato l’elicottero di famiglia e l’aereo di famiglia, lasciando l’auto ad arrugginire in qualche rimessa dimenticata, lasciando le vecchie strade a marcire e sbriciolarsi, dimenticate nell’abbandono. Gli anni che avevano praticamente relegato nell’angolo delle cose dimenticate la coltivazione della terra, l’aratro e la semina, con la nascita e l’ascesa delle colture idroponiche. Gli anni che avevano visto scendere la terra a prezzi irrisori, con la scomparsa delle fattorie come unità economiche, gli anni che avevano spinto la gente di città a disperdersi nelle campagne dove ciascun uomo, a un prezzo inferiore a quello di un lotto di città, poteva possedere ampie e libere distese di acri e acri di terra. Gli anni che avevano rivoluzionato l’edilizia fino al punto in cui le famiglie dovevano limitarsi a lasciare le vecchie case per occupare quelle nuove, costruite in serie, disponibili a un prezzo che era la metà di quello d’anteguerra; case che potevano essere cambiate e modificate a un prezzo irrisorio, per adeguarsi alla necessità di nuovo spazio o semplicemente alle esigenze del capriccio di un momento.

Pa’ sbuffò. Case che potevano essere cambiate ogni anno, come una volta si cambiava la disposizione dei mobili. Che razza di vita era?

Arrancò faticosamente lungo il sentiero polveroso, tutto ciò che rimaneva di quella che pochi anni prima era stata la strada spaziosa e affollata di un quartiere residenziale. Una strada di fantasmi, pensò Pa’… di piccoli fantasmi furtivi che sussurravano nella notte. Fantasmi di bambini che giocavano, fantasmi di tricicli rovesciati e di trenini sparpagliati nella polvere. Fantasmi di brave donne di casa riunite a raccontarsi gli ultimi fatti del giorno. Fantasmi di saluti gridati da una casa all’altra. Fantasmi di caminetti accesi e di comignoli fumanti in una notte d’inverno.

Piccoli sbuffi di polvere sbocciavano intorno ai suoi piedi e salivano a imbiancare il risvolto dei pantaloni.

Sull’altro lato della strada c’era la casa del vecchio Adams. Adams ne era stato orgoglioso, ricordò Pa’. Facciata grigia di pietra e finestre di vetri colorati. Adesso la pietra era verde di muschio e le finestre dai vetri infranti parevano bocche spalancate in una espressione spettrale di disprezzo. Le erbacce avevano soffocato le aiuole del prato e avevano invaso la veranda. Un olmo spingeva i rami contro la finestra del solaio. Pa’ ricordava il giorno in cui Adams aveva piantato quell’olmo.

Per un momento si fermò immobile, al centro di quella strada invasa dalle erbacce, con i piedi nella polvere, le mani strette intorno all’impugnatura del bastone, gli occhi chiusi.

Attraverso la nebbia degli anni sentì giungere le grida liete dei bambini che giocavano, l’abbaiare festoso del botolo di Conrad in fondo alla strada. E c’era Adams, a torso nudo, con la vanga in mano, che scavava la buca mentre l’olmo, con le radici giovani avvolte in un sacco di tela, giaceva sul prato vicino.

Maggio 1946. Quarantaquattro anni prima. Subito dopo che lui e Adams erano tornati a casa insieme dalla guerra.

Si udirono dei passi attutiti nella polvere e Pa’, sorpreso, aprì gli occhi.

Davanti a lui c’era un giovane. Un ragazzo sui trent’anni, almeno a giudicare a prima vista. Forse ancora più giovane.

«Buongiorno,» disse Pa’.

«Spero di non averle fatto paura,» disse il giovane.

«Lei mi ha visto qui in piedi,» chiese Pa’, «Come uno stupido idiota, con gli occhi chiusi?»

Il giovane annuì.

«Stavo ricordando,» spiegò Pa’.

«Lei vive da queste parti?»

«Proprio in fondo alla strada. Sono l’ultimo rimasto in questa parte della città.»

«Allora, forse, mi può aiutare.»

«Provi a chiedere,» disse Pa’.

Il giovane cominciò, impacciato.

«Be’, vede, si tratta di questo. Io sto facendo un… be’, potrebbe chiamarlo una specie di pellegrinaggio sentimentale…»

«Capisco,» disse Pa’. «Proprio come me.»

«Mi chiamo Adams,» disse il giovane. «Mio nonno viveva qui vicino. Vorrei sapere…»

«Proprio quella casa, vede?» disse Pa’.

Uno accanto all’altro, fissarono la casa, in silenzio.

«Era una bella casa, un tempo,» gli disse Pa’. «Suo nonno piantò l’albero subito dopo essere tornato dalla guerra. Siamo stati insieme per tutta la guerra e siamo tornati a casa insieme. Gran giorno, quello…»

«È un peccato,» disse il giovane Adams. «Un peccato…»

Ma Pa’ parve non udirlo.

«Suo nonno, ha detto?» domandò. «Ci siamo persi di vista da tanto tempo. Non ne so più nulla.»

«È morto,» disse il giovane Adams. «Sono già diversi anni.»

«Si occupava di energia atomica,» disse Pa’.

«Proprio così,» rispose Adams, con orgoglio. «Se ne è occupato da quando l’energia atomica è diventata disponibile per l’industria. Subito dopo il trattato di Mosca.»

«Subito dopo che ebbero deciso,» fece Pa’, «Che non potevano combattere una guerra.»

«Proprio così,» fece Adams.

«È molto difficile fare una guerra,» disse Pa’, «Quando non c’è nulla che si possa prendere di mira.»

«Le città, vuol dire?» fece Adams.

«Già,» rispose Pa’, «Ed è davvero buffo. Hanno agitato la minaccia di un’infinità di bombe atomiche, e la gente non si è spaventata tanto da abbandonare le città. Ma non appena hanno fatto balenare la prospettiva di terra a buon mercato e di aereoplani di famiglia, la gente si è sparpagliata nelle campagne, come un branco di conigli.»


John J. Webster stava salendo l’ampia scalinata di pietra del municipio quando lo spaventapasseri ambulante che portava un fucile sotto il braccio lo raggiunse e lo fermò.

«Come sta, signor Webster?» chiese lo spaventapasseri.

Webster spalancò gli occhi, poi lo riconobbe e un sorriso gli rischiarò il viso.

«Ma tu sei Levi!» esclamò. «Come va la vita, Levi?»

Levi Lewis sorrise, scoprendo una chiostra di denti neri e spezzati.

«Non c’è male. Gli orti vengono su bene e i conigli hanno fatto una nuova covata. Saranno buoni da mangiare.»

«Tu non sarai immischiato nei disordini provocati dalle case, vero?» domandò Webster.

«No, signore,» dichiarò Levi. «Nessuno di noi Abusivi è immischiato nei disordini. Noi siamo gente timorata di Dio e rispettosa della legge, siamo. Il solo motivo per cui siamo qui è che non possiamo trovare il pane da nessun’altra parte. E se viviamo nei posti che gli altri hanno abbandonato, non facciamo male a nessuno. La polizia dà a noi la colpa dei furti e di tutte le altre cose che succedono, solo perché sa che non possiamo difenderci. Noi siamo i capri espiatori, ecco cosa siamo.»

«Sono contento di sentirtelo dire,» fece Webster. «Il capo vuole bruciare le case.»

«Se ci prova,» dichiarò Levi, «Sbatterà contro qualcosa che non si immagina nemmeno. Ci hanno sbattuti fuori dalle nostre fattorie, con quella loro dannata coltivazione in vasca, ma adesso non ci sbatteranno fuori da dove siamo.»

Sputò sui gradini della grande scalinata. «Non avrebbe per caso qualche spicciolo che le cresce?» domandò. «Ho finito le munizioni e con quei conigli che crescono…»

Webster si frugò nel taschino del panciotto, e tirò fuori mezzo dollaro.

Levi sorrise.

«Lei è davvero molto gentile, signor Webster. Le porterò un battaglione di conigli, quest’autunno.»

L’Abusivo salutò Webster toccandosi la falda del cappello con due dita, e poi ridiscese la scalinata. La canna del fucile riverberava sotto i raggi del sole. Webster continuò a salire.

Quando Webster entrò nella sala, vide che la riunione del consiglio comunale era già in pieno svolgimento.

Jim Maxwell, il capo della polizia, era in piedi accanto al tavolo, e il sindaco Paul Carter stava parlando.

«Non ti sembra di agire un po’ affrettatamente, Jim, nel chiedere una simile linea d’azione nei confronti delle case

«Niente affatto,» dichiarò il capo. «A eccezione di una ventina circa, nessuna di quelle case è occupata dai legittimi proprietari, o meglio, dai proprietari d’origine. Ciascuna di esse, ora, appartiene alla città, per il mancato pagamento delle tasse. E sono soltanto una preoccupazione e una minaccia. Non hanno valore alcuno, neppure come materiale di recupero. Pensate: a che ci servirebbero? Cosa possiamo ricavarci? Legno, forse? Non usiamo più il legno. Le materie plastiche sono infinitamente migliori. La pietra? Adesso usiamo l’acciaio, invece della pietra. Nemmeno una di quelle case… nemmeno una, ripeto… possiede del materiale di qualche valore commerciale.

«E, nel frattempo, stanno diventando i rifugi di piccoli delinquenti e di elementi indesiderabili. Le case, sepolte dalla vegetazione, con i giardini invasi dalle erbacce, offrono dei nascondigli perfetti per i criminali di tutte le specie. Un uomo commette un delitto e si dirige verso una delle case… non appena vi è giunto, è completamente al sicuro, perché io potrei mandare mille uomini e il criminale riuscirebbe ugualmente a sfuggire alle ricerche.

«Le case non valgono la spesa di una demolizione. Eppure sono, se non una minaccia, almeno un grosso inconveniente, un fastidio. Dovremmo sbarazzarci di loro e il fuoco è il sistema più rapido e più economico. Naturalmente useremo tutte le precauzioni del caso.»

«E come la metteremo dal punto di vista legale?» domandò il sindaco.

«Ho fatto delle ricerche, naturalmente. Se un cittadino ha il diritto di distruggere la propria proprietà con qualsiasi mezzo, a meno che così facendo non metta in pericolo la proprietà altrui, non vedo per quale motivo la stessa legge non dovrebbe applicarsi a un comune.»

L’assessore Thomas Griffin balzò in piedi.

«In questo modo ti alieneresti la simpatia di un mucchio di gente,» dichiarò. «Bruceresti un’infinità di case per le quali la gente prova ancora un forte attaccamento sentimentale…»

«Se fosse vero,» esclamò seccamente il capo, «Se fossero così affezionati alle loro case, perché non hanno pagato le tasse e non hanno avuto cura delle case? Perché se ne sono andati in campagna, correndo come lepri, lasciando le case abbandonate, così come stavano? Chiedilo a Webster. Lui può dirti quale successo ha ottenuto, cercando di ridestare nella gente l’amore per le loro vecchie case.»

«Tu parli di quella farsa che è stata la Settimana della Vecchia Casa,» disse Griffin. «È stato un fiasco. Naturalmente che lo è stato! Webster ha buttato un’esca così grossa, che i pesci, invece di abboccare, sono morti soffocati. Lavorando con una mentalità propria della Camera di Commercio, si ottengono sempre questi risultati.»

L’assessore Forrest King prese la parola, rabbiosamente.

«Che cos’hai da dire contro la Camera di Commercio, Griffin? Se tu hai fatto fiasco negli affari, non è un buon motivo per…»

Griffin lo ignorò ostentatamente.

«Il giorno della pressione sulle masse è tramontato, signori. È tramontato per sempre. La Giornata del Consumo è morta e sepolta.

«Il giorno in cui si potevano proclamare giornate del granoturco o del dollaro o escogitare qualche celebrazione artificiosa e chiassosa è tramontato da tempo. Le sfilate di ragazze in costume e il rullo dei tamburi e i fuochi d’artificio, che attiravano folle d’ingenui pronti a spendere dollari per consumare il prodotto che ci passava in testa di lanciare in quel periodo, appartengono al passato, ed è un passato vecchio di molti, molti anni. Questo è un fatto; e mi sembra che soltanto voi non ve ne siate resi conto, o non vogliate rendervene conto.

«Il successo di queste esibizioni da circo era dovuto allo sfruttamento della psicologia della massa e della lealtà civica, lo spirito civico che faceva sentire un cittadino parte della città, che gli faceva credere di dovere qualcosa alla collettività. Ma non può esistere lo spirito civico, mentre la città agonizza, muore. E non ci si può appellare alla psicologia della massa, quando la massa non c’è… la folla è scomparsa… quando ogni uomo, o quasi, possiede la solitudine di quaranta acri di campagna.»

«Signori,» supplicò il sindaco, «Signori, questo è chiaramente fuori luogo. Stiamo dimenticando l’argomento di cui ci occupiamo.»

King si animò improvvisamente, si avvicinò al tavolo a grandi passi.

«No, vediamo di parlarci chiaro e di arrivare fino in fondo. Webster è arrivato. Forse ci potrà dire cosa ne pensa.» Webster si mosse, sentendosi enormemente a disagio.

«Credo proprio di non avere nulla da dire,» mormorò.

«Lasciamo perdere,» disse Griffin, seccamente, e tornò a sedersi.

Ma King rimase in piedi, con il viso paonazzo, e le labbra tremanti per l’ira.

«Webster!» gridò.

Webster scosse il capo.

«Tu sei venuto qui con una delle tue grandi idee,» gridò King, ancora più forte. «Volevi sottoporla al consiglio. Avanti, amico, alzati e parla.»

Webster si alzò lentamente, stringendo le labbra, ostile.

«Forse tu hai la testa troppo dura.» disse a King, «Per capire per quale motivo il tuo comportamento mi ha offeso.»

King spalancò la bocca, spalancò gli occhi, e poi, dopo un attimo di silenzio attonito, esplose.

«La testa troppo dura! Hai il coraggio di dire questo a me, a me! Abbiamo lavorato insieme e io ti ho sempre aiutato. Non ti sei mai permesso di parlarmi così, prima d’ora… hai sem…»

«Non ti ho mai parlato così prima d’ora.» disse Webster, in tono calmo, «È naturale. Non volevo perdere il posto.»

«Be’ il posto l’hai perso,» ruggì King. «Da questo preciso momento, il posto l’hai perso.»

«Piantala.» disse Webster.

King lo fissò, attonito, come se qualcuno lo avesse improvvisamente preso a schiaffi in faccia.

«E siediti,» aggiunse Webster. La sua voce attraversò il silenzio della sala come la lama di un coltello.

Le ginocchia di King si piegarono, e l’uomo sedette, pesantemente. Il silenzio era assoluto, gelido come la neve.

«Ho qualcosa da dire,» annunciò Webster. «Una cosa che avrebbe dovuto essere detta già da molto tempo. Una cosa che tutti voi dovreste sentire. Che sia proprio io a dirvela è quel che più mi stupisce. Eppure, forse, essendo un uomo che ha lavorato per quasi quindici anni nell’interesse della città, è logico che sia io a dirvi la verità.

«L’assessore Griffin ha detto che la città stava agonizzando, e la sua affermazione è vera. In essa riesco a trovare un solo errore, e si tratta di un errore per difetto, non per eccesso. La città… questa città, tutte le città… è già morta.

«La città è un anacronismo. È sopravissuta alla sua utilità, alla sua funzione storica e sociale. Le colture idroponiche e gli elicotteri hanno pronunciato la sua condanna. In origine la città è nata come patria tribale, un punto in cui la tribù si riuniva per ottenere protezione reciproca. In seguito, per accrescere la protezione, la città è stata circondata dalle mura. Poi le mura sono finalmente scomparse, ma la città è ugualmente sopravvissuta per i vantaggi che offriva al commercio e ai trafficanti. La città ha continuato a vivere, nei tempi moderni, perché la gente era costretta a vivere vicino ai posti di lavoro, e i posti di lavoro si trovavano nella città.

«Ma oggi queste condizioni non esistono più. Grazie all’aereo di famiglia, oggi cento miglia sono una distanza molto più breve che cinque miglia nel 1930. Gli uomini possono volare per diverse centinaia di chilometri, per raggiungere il proprio posto di lavoro e tornare a casa con lo stesso mezzo alla fine della giornata. La gente non ha più bisogno di vivere ammassata in una città.

«L’automobile ha dato inizio a questo processo e l’aeroplano di famiglia l’ha portato alla logica conclusione. Già nella prima metà del secolo questo processo era visibile… una tendenza ad allontanarsi dalla città, con le sue tasse e le sue condizioni di vita malsane, una tendenza al decentramento, una sempre maggiore espansione dalla periferia, un primo attacco alla campagna. La mancanza di mezzi di trasporto adeguati, e soprattutto di mezzi finanziari adeguati, tenne legati ancora molti alla città. Ma oggi, con le colture idroponiche che hanno distrutto il valore della terra, si può acquistare un largo appezzamento di terreno in campagna a un prezzo inferiore a quello di un appartamentino di città di quarant’anni or sono. E con gli aerei alimentati dall’energia atomica, non c’è più alcun problema di trasporto.»

Si interruppe, e nessuno ruppe il silenzio. Il sindaco aveva un’espressione sconvolta. King muoveva le labbra, ma non ne usciva alcun suono. Griffin stava sorridendo.»

«Così che cosa ci è rimasto?» domandò Webster. «Ve lo dico io quello che ci è rimasto. Strada dopo strada, isolato dopo isolato, di case deserte, abbandonate, case dalle quali gli abitanti sono usciti per non ritornare. E perché avrebbero dovuto restare? Che cosa poteva offrire loro la città? Nessuna delle cose che essa offriva alla generazione precedente, perché il progresso ha spazzato via il bisogno dei benefici offerti dalla città. Gli abitanti hanno perduto qualcosa, naturalmente, dal punto di vista economico e dal punto di vista affettivo, quando hanno lasciato le case. Ma il fatto di poter acquistare delle case due volte più buone per metà del prezzo di quelle che avevano lasciato, e il fatto di poter vivere a proprio piacimento, sfuggendo alle convenzioni della vita cittadina, ai sacrifici degli spazi angusti, del traffico congestionato, del verde mancante… il fatto, soprattutto, di poter costruire delle vere e proprie tenute, di poter accumulare dei patrimoni di famiglia, nella tradizione di coloro che hanno creato la ricchezza di questa nazione, nell’ultima generazione… tutte queste cose, e altre ancora, superavano e di molto il valore delle vecchie case abbandonate, e anche quel lato sentimentale che è presente in tutti noi.

«E a noi che è rimasto? Qualche isolato di uffici e di imprese commerciali. Qualche acro occupato da stabilimenti industriali. Un’amministrazione municipale organizzata per occuparsi di un milione di persone, ma senza quel milione di persone. Un bilancio le cui esigenze hanno fatto salire la pressione fiscale a tal punto che, entro breve tempo, anche le imprese commerciali dovranno trasferirsi per sfuggire a questa tassazione insostenibile. Un sistema fiscale che ci ha fatto requisire migliaia di case per il mancato pagamento delle tasse, lasciandoci con questo carico di proprietà inutili e senza valore. Ecco che cosa ci è rimasto.

«Se credete che la risposta ve la possano dare le Camere di Commercio, le campagne pubblicitarie, o chissà quale progetto pazzesco… ebbene, siete pazzi. C’è una sola risposta, ed è semplicissima. La città, come istituzione umana, è morta. Potrà forse sopravvivere per qualche anno, lottando faticosamente per sfuggire al suo destino, ma sarà sempre condannata. È finita.»

«Signor Webster…» disse il sindaco.

Ma Webster non gli prestò alcuna attenzione.

«Se non fosse per quello che è accaduto oggi,» disse, «Avrei continuato a recitare questa stupida commedia… avrei continuato a recitare con voi la commedia del bambino che gioca con la casa delle bambole. Avrei continuato a fingere che la città fosse un’entità viva, reale ed esistente. Avrei continuato a ingannare voi e me stesso. Ma esiste una cosa, signori, che si chiama dignità umana.»

Il silenzio gelido si frantumò in un fruscio di fogli, in qualche soffocato colpo di tosse di ascoltatori imbarazzati.

Ma Webster non aveva finito.

«La città ha fallito,» disse, «Ed è stato un bene che sia venuta meno ai motivi della sua esistenza. La città ha fallito, perché non c’è più alcun motivo per cui essa esista. E invece che restare seduti qui in gramaglie, a piangere sul suo povero cadavere, fareste meglio ad alzarvi in piedi e a gridare di gioia. Dovreste essere grati al progresso e al destino, che hanno reso inutile la città.

«Perché se questa città non avesse esaurito la sua funzione, il suo scopo, il motivo stesso della sua esistenza… se questa città, come tutte le altre città del mondo, non fosse stata abbandonata, signori, questa città sarebbe stata distrutta… tutte le città del mondo sarebbero state distrutte. Ci sarebbe stata una guerra, signori, vedete? Una guerra atomica. Avete forse dimenticato gli anni sessanta e gli anni cinquanta? Avete dimenticato come si viveva allora… quanti di voi si svegliavano di notte, allora, e tendevano l’orecchio, nel terrore di sentire scendere la bomba, e sapendo, sapendo troppo bene che se la bomba fosse caduta nessuno la avrebbe sentita, sapendo troppo bene che non avrebbero più udito nulla, se davvero la bomba fosse venuta? Avete dimenticato le esplosioni di violenza, la paura, la tensione di quegli anni… il terrore di una minaccia che nessuno vedeva, nessuno sentiva, nessuno poteva combattere, e che pure era là, pronta a colpire?

«Ma le città sono state abbandonate e le industrie si sono disperse per tutto il paese, e così non ci sono più stati bersagli e non c’è più stata la guerra.

«Alcuni tra voi, signori,» disse, «Molti tra voi, signori, sono vivi, oggi, perché la popolazione ha lasciato la vostra città.

«E adesso, per l’amor di Dio, lasciatela riposare in pace. Siate felici che sia morta. È la cosa più bella che sia mai capitata in tutta la storia umana.»

John J. Webster voltò le spalle al consiglio comunale, e lasciò la sala.

Fuori, sui grandi gradini di pietra, si fermò a guardare in alto il cielo azzurro e terso, vide i piccioni che descrivevano ampi circoli sopra le guglie e le torrette del municipio.

Si scosse mentalmente, come un cane appena uscito da un laghctto.

Era stato uno stupido, naturalmente. Adesso avrebbe dovuto cercare un lavoro, e ci sarebbe forse voluto del tempo prima di trovarne uno. Ed era già un po’ anziano per ricominciare tutto da capo, per cercare un nuovo lavoro.

Eppure, malgrado i suoi pensieri, un motivetto sommesso gli salì alle labbra. Si allontanò rapidamente, sorridendo, fischiettando piano.

Basta con l’ipocrisia. Basta con le notti trascorse in bianco a chiedersi cosa doveva fare… sapendo che la città era morta, sapendo che lui faceva un lavoro inutile, sentendosi un parassita, perché riscuoteva uno stipendio che non meritava perché non faceva nulla di utile per guadagnarselo. Basta con quella strana, esasperante frustrazione tipica di chi lavora sapendo che il suo lavoro non serve a nulla.

Si diresse verso l’eliparcheggio, si diresse verso il suo elicottero.

Adesso, forse, pensò, potremo trasferirci in campagna, come voleva Betty.

Forse adesso lui avrebbe potuto trascorrere le sue serate a passeggiare su della terra che gli apparteneva. Ci voleva un torrente, però. Decisamente ci voleva un torrente, che lui avrebbe riempito di trote.

Appena arrivato a casa avrebbe dovuto salire in solaio, a controllare le condizioni delle sue canne da pesca.


Martha Johnson stava aspettando davanti al recinto dell’aia, quando la vecchia auto apparve, sbuffando e ansimando, in fondo al viottolo.

Ole scese rigidamente, con il volto segnato dalla stanchezza.

«Hai venduto niente?» chiese Martha.

Ole scosse il capo.

«Non c’è niente da fare. Non vogliono comprare i prodotti della fattoria. Non vogliono comprare niente che venga su dalla terra. Mi hanno riso in faccia. Mi hanno mostrato delle pannocchie che erano il doppio delle mie, ed erano altrettanto buone, e molto più ricche di grani. Mi hanno fatto vedere dei meloni che erano quasi senza buccia, solo polpa. E mi hanno detto che erano anche molto più gustosi.»

Diede un calcio a una zolla, che scoppiò in una nube di polvere.

«Non c’è più niente da fare,» ripeté. «Quelle colture in vasca ci hanno rovinati.»

«Forse faremmo meglio a vendere la fattoria,» suggerì Martha.

Ole non rispose.

«Potresti trovare un lavoro in una delle fattorie idroponiche,» disse lei. «Harry l’ha fatto. Gli piace molto.»

Ole scosse il capo.

«O forse potresti fare il giardiniere,» disse Martha. «Tu saresti un magnifico giardiniere. C’è un sacco di gente ricca che si è trasferita in grandi tenute di campagna, e che vorrebbe avere dei giardinieri per accudire i parchi e i giardini e le aiuole. È più signorile servirsi di giardinieri, oggi, che di semplici macchine, come fanno tutti.»

Ole scosse di nuovo il capo.

«Non me la sento di mettermi a pasticciare con i fiori.» dichiarò. «Non dopo avere coltivato granoturco per più di vent’anni.»

«Forse,» disse Martha, «Potremmo comprarci uno di quei piccoli aerei. E potremmo avere l’acqua corrente in casa. E una vera vasca da bagno, invece che fare il bagno nella vecchia tinozza accanto alla stufa di cucina.»

«Non so guidare un aereo,» obiettò Ole.

«Impareresti subito, ne sono sicura,» disse Martha. «Sono semplici da guidare, quegli aerei. Be’, i piccoli Anderson sono alti un soldo di cacio e non fanno che volare per tutto il giorno. Uno di loro ha pasticciato tutto ed è caduto, una volta, ma…»

«Devo pensarci,» dissse Ole, disperatamente. «Devo pensarci.»

Si allontanò, scavalcò il recinto, si diresse verso i campi. Martha rimase accanto all’auto, e lo seguì con lo sguardo. Una lacrima solitaria le scese lentamente sulla guancia sporca di polvere.


«Il signor Taylor la sta aspettando,» disse la ragazza.

John J. Webster balbettò:

«Ma non sono mai venuto qui, prima. E lui non sapeva che stavo arrivando.»

«Il signor Taylor,» insisté la ragazza, «La sta aspettando.»

Indicò con un cenno del capo la porta, sulla quale era scritto:

«Ufficio per l’Adattamento Umano»

«Ma sono venuto qui per trovare un lavoro,» protestò Webster. «Non sono venuto a farmi riadattare, o non so che altro. Questo è il servizio di collocamento della Commissione Mondiale, o mi sbaglio?»

«Proprio così,» dichiarò la ragazza. «Non vuole vedere il signor Taylor?»

«Se proprio insiste,» disse Webster.

La ragazza schiacciò una levetta, e disse nell’intercom:

«È arrivato il signor Webster, signore.»

«Lo faccia entrare,» rispose una voce.

Cappello in mano, Webster varcò la soglia dell’Ufficio.

L’uomo che sedeva dietro la scrivania aveva i capelli bianchi, ma il viso di un giovane. Indicò una sedia.

«Lei ha cercato un lavoro,» disse.

«Sì,» ammise Webster, «Ma…»

«Prego, si accomodi,» disse Taylor. «Se sta pensando a quella targa sulla porta, se ne dimentichi. Non cercheremo certo di riadattarla.»

«Non sono riuscito a trovare un lavoro,» disse Webster. «Ho cercato per settimane, e nessuno mi ha voluto. Così, alla fine, sono venuto qui.»

«Lei non voleva venire qui?»

«No, per essere sincero, non volevo. Un servizio di collocamento. C’è… be’… c’è un sottinteso che non mi piace.»

Taylor sorrise.

«La scelta dei termini può essere stata infelice. Lei sta pensando agli uffici di collocamento dei vecchi tempi. Il luogo in cui la gente andava quando aveva la necessità disperata di un lavoro. Il governo aveva delle agenzie che cercavano di trovare un lavoro per i disoccupati, in modo che essi non diventassero un peso morto a carico dello Stato.»

«Anch’io sono abbastanza disperato,» confessò Webster. «Ma mi è rimasto l’orgoglio, un orgoglio che ha reso difficile la decisione di venire qui. Ma poi ho capito che non mi restava altro da fare. Vede, io sono diventato un traditore…»

«Lei vuol dire,» fece Taylor, «Che finalmente ha detto la verità. Benché questa le sia costata il posto. Il mondo del commercio, non solo qui, ma in tutto il mondo, non è ancora pronto a sentire la verità. Gli uomini d’affari si aggrappano ancora al mito della città, del consumatore e del piazzista. In futuro anche loro si renderanno conto di non avere bisogno della città, si renderanno conto che la produzione impostata secondo canoni più aperti, più utili alla collettività e più onesti, potrà dare profitti ancor più sostanziosi della vecchia meccanica del consumismo.

«Mi sono chiesto più volte, Webster, quale sia stato il motivo che l’ha indotta a comportarsi così.»

«Ero stufo, nauseato,» disse Webster. «Stanco di vedere la gente andare avanti a occhi chiusi. Stanco di vedere una antica tradizione tenuta in vita, quando era già venuto il momento di riporla tra le cose inutili e superate. Ero stanco dell’entusiasmo civico di King, quando tutte le cause di entusiasmo erano scomparse.»

Taylor annuì.

«Webster, lei pensa di poter riadattare gli esseri umani?»

Webster spalancò gli occhi, senza rispondere.

«Parlo sul serio,» continuò Taylor. «La Commissione Mondiale lo sta già facendo da anni, silenziosamente, senza dare nell’occhio. Le dirò, perfino, che molti di coloro che sono stati riadattati non sanno di essere stati riadattati.

«I cambiamenti che si sono verificati dalla creazione della Commissione Mondiale, nata dal vecchio tronco delle Nazioni Unite, fino a oggi, hanno provocato il disadattamento di molti esseri umani. L’avvento dell’energia atomica per uso industriale ha tolto il lavoro a centinaia di migliaia di persone. Queste persone hanno dovuto essere addestrate e guidate ad altri lavori, nuovi lavori, alcuni nel nuovo campo dell’energia atomica, altri in campi diversi. L’avvento delle colture idroponiche ha strappato alla terra i contadini. E i contadini, forse, ci hanno offerto il problema più grande, perché a parte la speciale abilità necessaria per coltivare le piante e allevare gli animali, essi non sapevano fare altro. La maggior parte dei contadini ha accumulato contro di noi un amaro risentimento, per essere stata costretta a lasciare una vita ereditata dagli antenati. Ed essendo per natura dei forti individualisti, ci hanno offerto un problema psicologico molto più difficile che qualsiasi altra classe sociale.»

«Un problema che esiste ancora oggi,» dichiarò Webster. «Molti di loro sono ancora al punto di partenza. Ce ne sono cento e più che si nascondono nelle case, vivendo l’esistenza più semplice che si possa immaginare. Uccidono qualche coniglio e qualche scoiattolo, vanno a pesca, coltivano ortaggi e raccolgono dei frutti selvatici. Di quando in quando compiono dei piccoli furti e a volte chiedono l’elemosina nelle strade del centro, dove esistono ancora gli uffici.»

«Lei li conosce?» domandò Taylor.

«Ne conosco alcuni,» ammise Webster. «Ce n’è uno che di quando in quando mi porta dei conigli e degli scoiattoli. In cambio gli do del denaro per le munizioni.»

«Rifiuterebbero di essere riadattati, vero?»

«Sì, certo, e violentemente,» disse Webster.

«Lei conosce un contadino, un certo Ole Johnson? Che rimane aggrappato ancora alla sua fattoria, che non intende cambiare?»

Webster annuì.

«E se cercasse di riadattare lui

«Mi caccerebbe a calci dalla fattoria,» disse Webster.

«Gli uomini come Ole e gli Abusivi,» dichiarò Taylor, «Sono il nostro problema più assillante, oggi. Il resto del mondo è quasi completamente riadattato, è rientrato nei binari della realtà presente. Molti si lamentano sempre, parlano con nostalgia del passato, ma si tratta di lamenti a effetto, più che altro. Non potrebbero ritornare al loro vecchio sistema di vita.

«Anni or sono, con l’avvento dell’energia atomica industriale, la Commissione Mondiale ha dovuto affrontare una decisione grave e difficile. I cambiamenti che il mondo doveva affrontare per progredire dovevano essere accuratamente graduati, misurati in modo che la popolazione si adattasse naturalmente, oppure dovevano essere operati con la maggiore rapidità possibile, facendo intervenire la Commissione per aiutare gli individui a raggiungere il necessario adattamento? È stato deciso, giusta o sbagliata che fosse questa decisione, di fare venire per primo il progresso, senza preoccuparsi dell’effetto che esso avrebbe prodotto sulla popolazione. La decisione, nelle sue grandi linee, si è rivelata saggia.

«Noi sappiamo bene, naturalmente, che in molti casi quest’opera di riadattamento non avrebbe potuto svolgersi apertamente. In alcuni casi, per esempio presso le grandi masse di lavoratori che si erano trovate senza lavoro, un riadattamento generale e aperto si è rivelato possibile, ma nella maggior parte dei casi individuali, come quello del nostro amico Ole, la cosa cambiava completamente. Questi individui dovevano essere aiutati a ritrovarsi nel mondo nuovo, ma non dovevano sapere dell’esistenza di questo aiuto. Sapendolo, avrebbero perduto la fiducia in se stessi e la dignità, e la dignità è la base di qualsiasi civiltà.»

«Ero naturalmente al corrente dell’opera di riadattamento compiuta all’interno del mondo industriale,» disse Webster. «Ma il fatto dei casi individuali mi giunge completamente nuovo.»

«Certo, non potevamo renderlo di pubblico dominio,» disse Taylor. «Praticamente questo lavoro si svolge clandestinamente.»

«Ma perché mi sta dicendo tutto questo?»

«Perché saremmo lieti di averla con noi. Tanto per cominciare, che ci aiutasse a risolvere il problema di Ole. E poi, magari, che vedesse cosa si può fare per gli Abusivi.»

«Non saprei…» disse Webster.

«La stavamo aspettando,» disse Taylor. «Sapevamo che alla fine sarebbe venuto qui. Ogni possibilità di trovare lavoro le sarebbe stata preclusa da King. Lui ha passato parola nei circoli influenti. Lei è sulla lista nera di ogni Camera di Commercio e di ogni gruppo civico del mondo, ormai.»

«Probabilmente non ho scelta,» disse Webster.

«Non vogliamo che lei pensi questo,» disse Taylor. «Prenda tempo per riflettere, poi torni da noi. Anche se non accetterà la nostra proposta, le troveremo un altro lavoro… a dispetto di King.»

Fuori, Webster vide uno spaventapasseri che lo stava aspettando. Era Levi Lewis, senza il suo sorriso dai denti neri e rotti, ma con il fucile sotto il braccio.

«Degli amici hanno detto di averla vista entrare qui,» spiegò. «Così sono venuto ad aspettarla.»

«Ci sono dei guai?» chiese Webster, perché l’espressione di Levi indicava eloquentemente che c’erano dei guai.

«È quella dannata polizia,» disse Levi, e sputò, disgustato.

«La Polizia,» ripeté Webster, e a quelle parole il cuore gli mancò… perché adesso conosceva la natura dei guai.

«Già,» disse Levi. «Si preparano a scacciarci col fuoco.»

«Così il consiglio comunale ha ceduto, alla fine,» fece Webster.

«Sono andato adesso al comando di polizia,» disse Levi. «Li ho avvertiti di andarci piano, se non vogliono avere sorprese. Li ho avvertiti che ci sarebbero state le budella di un sacco di gente per le strade, se ci proveranno. Ho piazzato i ragazzi tutt’intorno alla zona, nei punti strategici, con l’ordine di non sparare fino a quando non saranno più che certi di colpire il bersaglio.»

«Non puoi fare questo, Levi,» disse Webster, seccamente.

«Non posso?» esclamò Levi. «Ma l’ho già fatto. Ci hanno scacciati dalle fattorie, ci hanno costretti a vendere perché altrimenti saremmo tutti morti di fame. Ma adesso non ci scacceranno più da nessun posto. O resteremo qui, o moriremo qui. E se vogliono cacciarci via col fuoco, potranno farlo solo quando non ci sarà più nessuno di noi a fermarli.»

Si tirò su con la mano i pantaloni troppo larghi, e sputò di nuovo.

«E non siamo gli unici che la pensano così,» dichiarò. «Pa’ è con noi. È già al suo posto.»

«Pa’!»

«Sicuro, Pa’. Il vecchio che vive con lei. È venuto da noi, e ce lo siamo preso come una specie di generale in capo. Dice che si ricorda di certi trucchi che ha imparato durante la guerra e che la polizia neppure si sogna. Ha mandato alcuni dei ragazzi in quei sacrari della Legione a prendere un cannone. E dice di sapere dove possiamo procurarci qualche proiettile, in uno dei musei. Dice che dovremo organizzarci bene, e che quando tutto sarà pronto potremo avvertire la polizia che, non appena farà una mossa, noi cominceremo i fuochi d’artificio.»

«Senti, Levi, me lo faresti un favore?»

«Certo, signor Webster.»

«Vorresti entrare nell’edificio a chiedere di un certo signor Taylor? Insisti per vederlo personalmente. E digli che sono già al lavoro.»

«Certo, signor Webster, ma dove sta andando?»

«Vado in municipio.»

«È sicuro di non volermi con lei?»

«No,» dichiarò Webster. «Farò molto meglio da solo, grazie. E, Levi…»

«Sì?»

«Di’ a Pa’ di tenere a bada la sua artiglierìa. Che non spari se proprio non vi è costretto… ma se lo sarà, che cerchi di non sbagliare mira!»

«Il sindaco è occupato,» disse Raymond Brown, il suo segretario.

«Lo credi tu,» disse Webster, dirigendosi verso la porta.

«Non puoi entrare, Webster,» gridò Brown.

Balzò in piedi, girò intorno alla scrivania a passo di carica, cercando di afferrare Webster. Webster si girò, violentemente, colpì con una robusta spallata Brown, che barcollando andò a colpire la scrivania. La scrivania si spostò e Brown agitò le braccia, perse l’equilibrio e cadde pesantemente a terra.

Webster spalancò la porta dell’ufficio del sindaco.

I piedi del sindaco sparirono come per magia dal piano della scrivania:

«Avevo detto a Brown…» cominciò.

Webster annuì.

«E Brown me l’ha riferito. Che succede, Carter? Hai paura che King scopra che sono stato qui? Hai paura di venire contaminato da qualche buona idea?»

«Che cosa vuoi?» disse seccamente Carter.

«Ho saputo che la polizia sta per incendiare le case.»

«È vero,» dichiarò il sindaco, in tono pontificale, «Sono una minaccia per la comunità.»

«Quale comunità?»

«Adesso ascolta, Webster…»

«Sai benissimo che non esiste nessuna comunità. C’è solo un manipolo di sporchi politicanti come te, un gruppo che resta qui come se avesse messo le radici, per conservare il diritto di residenza ed essere sicuro di venire eletto ogni anno, incassando così lo stipendio. Stiamo arrivando al punto in cui vi basterà votare l’uno per l’altro, per essere sicuri di essere eletti. La gente che lavora nei negozi e nelle fabbriche, perfino quelli che svolgono le mansioni più umili nelle fabbriche, non abitano entro i confini del comune. Gli industriali e i commercianti se ne sono andati da molto tempo. Continuano a fare qui i loro affari, ma non sono più residenti del comune.»

«Ma questa è ancora una città,» dichiarò il sindaco.

«Non sono venuto qui per discutere di questo,» disse Webster. «Sono venuto, invece, per cercare di dimostrarti che incendiando quelle case stai facendo una cosa sbagliata. Anche se non te ne rendi conto, le case rappresentano un tetto per quei poveretti che non possiedono altro. E si tratta di gente che è venuta in questa città per cercare rifugio, e che ha trovato rifugio da noi. Sotto un certo punto di vista, noi ne siamo responsabili.»

«Non ne siamo responsabili,» disse freddamente il sindaco, «Qualunque cosa possa accadere a quella gente, non sarà colpa nostra, ma della loro sfortuna. Non abbiamo chiesto loro di venire qui. Non li vogliamo qui. Non danno nessun contributo alla comunità. Adesso tu mi dirai che sono dei disgraziati, senza lavoro e senza casa. Be’, che cosa ci posso fare io? Mi puoi dire che non possono trovare lavoro. E io ti rispondo che il lavoro potrebbero trovarlo, se solo si prendessero il disturbo di cercarlo. Il lavoro da fare c’è adesso e ci sarà sempre. Si sono lasciati riempire la testa di tutti quei bei discorsi sul nuovo mondo, sulla società più giusta e più buona, e adesso credono che tocchi agli altri trovare il posto adatto per loro e il lavoro che vada loro bene.»

«Parli come un individualista sfrenato,» osservò Webster.

«Lo dici come se ti sembrasse comico,» esclamò il sindaco.

«E infatti mi sembra comico,» disse Webster. «Comico e tragico a un tempo… che ci sia qualcuno, oggi, che ancora possa pensarla così.»

«Il mondo sarebbe molto migliore, con un poco di sano individualismo di vecchio stampo,» disse il sindaco, con rabbia. «Guarda, per esempio, gli uomini che hanno fatto carriera…»

«Alludi a te stesso?» chiese Webster.

«Puoi prendermi come esempio,» ammise Carter. «Ho lavorato sodo. Ho saputo approfittare delle occasioni. Ho saputo essere lungimirante. Ho saputo…»

«Vuoi dire che hai saputo leccare i piedi adatti e pestare le facce adatte,» disse Webster. «Tu sei l’esempio più chiaro del tipo di uomo che il mondo non vuole più, oggi. Tu puzzi veramente di muffa, tanto le tue idee sono vecchie. Tu sei l’ultimo dei politicanti, Carter, proprio come io sono stato l’ultimo dei segretari della Camera di Commercio. Solo che tu ancora non lo sai. E io sì. E ne sono uscito. Anche se mi è costato molto. Ne sono uscito, perché dovevo salvare il rispetto di me stesso. Il tipo di uomo politico che tu rappresenti è morto. È morto perché prima qualsiasi imbecille con la lingua lunga e la faccia di bronzo poteva ottenere il potere, appellandosi alla psicologia della massa. E adesso è impossibile sfruttare la psicologia della massa, perché non esiste una psicologia della massa quando alla gente non importa più un accidente di quello che succede a una cosa già morta… a un sistema politico che è stato schiacciato dal suo stesso peso.»

«Esci fuori di qui,» gridò Carter. «Esci fuori di qui, prima che chiami la polizia.»

«Tu dimentichi,» disse Webster, «Che sono venuto a parlare delle case.»

«Non ti servirà a niente,» sbuffò Carter. «Puoi stare lì a parlare fino al giorno del giudizio, per quello che ti servirà. Quelle case saranno incendiate. È stabilito.»

«Ti piacerebbe vedere il centro delle città trasformato in un mucchio di macerie?» chiese Webster.

«Il tuo paragone è grottesco,» disse Carter.

«Non stavo facendo nessun paragone,» dichiarò Webster.

«Non stavi…» Il sindaco spalancò gli occhi. «Di che cosa stavi parlando, allora?»

«Solo di questo,» spiegò Webster. «Nel preciso momento in cui la prima torcia toccherà le case, il primo proiettile cadrà sul municipio. E il secondo colpirà la banca. Saranno sparati in ordine, dando la precedenza ai bersagli più grossi.»

Carter spalancò la bocca. Poi un rossore di collera gli salì dalla gola alle guance.

«Non funziona, Webster,» disse, seccamente. «Il tuo bluff non attacca, con me. Spacconate del genere non hanno…»

«Non si tratta di una spacconata,» dichiarò Webster. «Quegli uomini, là fuori, hanno dei cannoni. Pezzi presi dai sacrari della Legione e dai musei. E uomini in grado di fare funzionare i cannoni. Ma non c’è bisogno di veri artiglieri, in realtà. Si tratta di un giochetto da bambini. Il bersaglio è troppo grosso per mancare il colpo.»

Carter allungò la mano verso la radio, ma Webster lo fermò, sollevando un braccio.

«Farai meglio a riflettere un momento, Carter, prima di togliere il coperchio dalla pentola. Non sai cosa ci bolle dentro. Sei in un vicolo cieco. Se decidi di portare avanti il tuo piano, ti ritroverai con una battaglia tra le mani. Le case bruceranno, magari, ma il centro della città diventerà un cumulo di macerie. I commercianti te la faranno pagare col sangue, non credi?»

Carter tornò a posare la mano sulla scrivania, allontanandola dalla radio.

In lontananza si udì il crepitio secco di un fucile.

«Sarà meglio fermarli,» lo avvertì Webster.

Il viso di Carter tradiva l’indecisione.

Si udì un’altra fucilata, e poi un’altra ancora.

«Tra un momento,» disse Webster, «Sarà troppo tardi. Non potrai più fermare l’inevitabile.»

Un tuono profondo fece tremare i vetri della finestra. Carter balzò in piedi, pallidissimo.

Webster d’un tratto si sentì sommerso da un’ondata di freddo e di stanchezza. Ma riuscì a mantenere l’espressione del volto e il tono della voce calmi e decisi.

Carter guardava fuori dalla finestra, e pareva una statua di pietra.

«Ho paura,» disse Webster, «Che sia già troppo tardi.»


La radio, sulla scrivania, si mise a ronzare, e la luce rossa si accese.

Carter allungò una mano tremante e abbassò l’interruttore.

«Carter,» stava dicendo una voce, «Carter. Carter.»

Webster riconobbe la voce… la voce volgare e ringhiosa del capo della polizia, Jim Maxwell.

«Che c’è?» chiese Carter.

«Avevano un grosso cannone,» disse Maxwell. «È esploso quando hanno tentato di sparare. Le munizioni erano difettose, immagino.»

«Un cannone?» chiese Carter. «Un cannone solo?»

«Non ne vedo altri.»

«Ho sentito degli spari di fucile,» disse Carter.

«Già, ci hanno sparato contro qualche colpo. Hanno ferito un paio dei ragazzi. Ma adesso si sono ritirati. Sono spariti nel folto della vegetazione. Il fuoco è cessato.»

«Benissimo,» disse Carter, «Allora si può cominciare ad appiccare gli incendi.»

Webster fece un passo avanti.

«Chiedigli… chiedigli…»

Ma Carter sollevò l’interruttore, e la radio si spense.

«Che cosa volevi chiedere?»

«Niente,» disse Webster. «Niente d’importante. Niente.»

Non poteva dire a Carter che era stato Pa’ a conoscere tutto dei cannoni. Non poteva dire a Carter che, quando il cannone era esploso, Pa’ era stato là accanto.

Adesso doveva uscire dal municipio, presto, e andare dove quel cannone era esploso… senza perdere tempo.

«È stato un buon bluff, Webster,» stava dicendo Carter. «Un buon bluff, ma c’è stato chi è venuto a vedere le carte.»

Il sindaco si voltò verso la finestra dalla quale si potevano vedere le case.

«Hanno cessato il fuoco,» disse. «È gente che si arrende in fretta.»

«Potrai ritenerti fortunato,» disse Webster, con rabbia, «Se ne torneranno vivi sei, dei tuoi poliziotti. Quegli uomini che si nascondono nella vegetazione sono armati di fucile, e sono capaci di colpire uno scoiattolo in un occhio a cento metri di distanza.»

Si udirono dei passi, nel corridoio esterno, i passi di due persone che correvano verso la porta dell’ufficio.

Il sindaco si girò di scatto, imitato da Webster.

«Pa’!» gridò Webster.

«Ciao, Johnny,» ansimò Pa’, fermandosi.

L’uomo che veniva subito dopo Pa’ era un giovane, e agitava qualcosa, qualcosa che stringeva in mano… un fascio di fogli, che frusciavano lievemente.

«Che cosa volete?» chiese il sindaco.

«Molte cose,» rispose Pa’. Rimase in silenzio per un momento, cercando di riprendere fiato, e poi disse, continuando ad ansare. «Le presento il mio amico Henry Adams.»

«Adams?» domandò il sindaco.

«Certo,» rispose Pa’. «Suo nonno viveva qui. Nella Ventisettesima Strada.»

«Oh,» disse il sindaco, e fu come se qualcuno lo avesse colpito in testa con un mattone. «Oh, lei intende parlare di F.J. Adams.»

«Ci può scommettere le scarpe,» disse Pa’. «Eravamo in guerra assieme, noi due. Non mi faceva mai dormire la notte, a furia di parlarmi del suo bambino rimasto a casa.»

Carter si rivolse a Henry Adams.

«Come sindaco della città,» disse, cercando di ritrovare parte della sua dignità, «Voglio darle il benvenuto in…»

«Non mi sembra un benvenuto particolarmente entusiastico,» disse Adams. «Ho saputo che lei sta incendiando la mia proprietà.»

«La sua proprietà!» Il sindaco parve soffocare, e i suoi occhi fissarono, sbarrati e increduli, il fascio di fogli che Adams gli mostrava.

«Già, proprio la sua proprietà,» disse Pa’, e l’emozione gli rese stridula la voce. «L’ha appena comprata. Arriviamo adesso dalla tesoreria. Sono state pagate tutte le tasse arretrate e le multe e le addizionali di mora e tutte le altre diaavolerie che i suoi ladri legalizzati hanno pensato di escogitare per quelle case.»

«Ma, ma…» Il sindaco stava cercando affannosamente di trovare le parole, e di trovare il fiato per pronunciarle. «Non vorrà certo parlare di tutta la proprietà. Sicuramente si tratta soltanto della vecchia casa degli Adams.»

«Tutta la proprietà, tutta, fino all’ultima miseria di un mattone,» disse Pa’, in tono trionfante.

«E adesso,» disse Adams, rivolgendosi al sindaco, «Se volesse usarmi la cortesia di dire ai suoi uomini di smettere di distruggere la mia proprietà…»

Carter si curvò sulla scrivania, e assalì la radio come se fosse stata un nemico, muovendo le dita a velocità vertiginosa.

«Maxwell,» gridò. «Maxwell, mi senti? Maxwell!»

«Che cosa vuoi?» chiese Maxwell.

«Interrompi subito quello che stai facendo,» gridò Carter, con voce stridula. «Smetti di appiccare gli incendi. Comincia subito a spegnere quelli che sono già in corso. Prendi le pompe. Chiama i pompieri, Fa’ quello che vuoi, ma spegni immediatamente quegli incendi.»

«Diavolo,» disse Maxwell. «Come mi piacerebbe che tu riuscissi a decidere cosa vuoi fare, una volta tanto!»

«Fa’ come ti ho detto,» strillò il sindaco, con tutte le sue forze. «Spegni immediatamente quegli incendi.»

«Va bene,» disse Maxwell. «Va bene. Non c’è bisogno di farti saltare le coronarie. Ma questo non piacerà per niente ai ragazzi. Proprio per niente. Dopo essere stati presi a fucilate per fare una cosa sulla quale tu cambi subito idea.»

Carter si sollevò dalla scrivania.

«Desidero assicurarle, signor Adams,» disse, «Che si tratta soltanto di un colossale sbaglio.»

«Ha detto bene, sindaco,» dichiarò solennemente Adams. «Si tratta di un colossale sbaglio. Il più colossale che lei abbia mai fatto in vita sua.»

Per un momento i due rimasero in piedi, l’uno davanti all’altro, guardandosi negli occhi.

«Domani,» continuò Adams, «Presenterò alla magistratura una petizione per l’abrogazione dello statuto municipale. Come proprietario della maggior parte dei terreni compresi nei confini comunali, penso di avere il diritto legale di farlo.»

Il sindaco deglutì, e finalmente riuscì a pronunciare qualche parola.

«E in base a quali motivi?» chiese.

«In base al motivo che non ce n’è più bisogno,» disse Adams. «Non credo che mi sarà molto difficile dimostrare questa tesi.»

«Ma questo… questo significa…»

«Proprio così,» disse Pa’. «Lei ha capito benissimo cosa significa. Significa che lei ha perso il posto, sindaco.»


«Un parco,» disse Pa’, indicando con un ampio gesto della mano la sterpaglia incolta che un tempo era stata il quartiere residenziale della città. «Un parco, perché la gente ricordi come vivevano un tempo i suoi vecchi.»

I tre erano fermi sulla Tower Hill, vicino alla torre rugginosa dell’antica centrale idrica, le cui tozze gambe d’acciaio sparivano in un mare d’erba verde e incolta, che arrivava alla cintola.»

«Non direi proprio un parco,» spiegò Henry Adams. «Vorrei qualcosa di più. Un sacrario. Un grande monumento commemorativo. Sì, proprio un monumento commemorativo, fatto di cose vive e autentiche, un monumento che ricordi un’epoca di vita in comune che altrimenti verrebbe dimenticata nel breve volgere di un secolo. Un grande monumento vero, per conservare un certo numero di costruzioni d’un tipo particolare, che sorsero un giorno per soddisfare certe esigenze di vita e certi gusti particolari dell’uomo. Non perché l’uomo volesse diventare schiavo di qualsiasi canone architettonico, ma perché egli ha ritenuto, un tempo, con questo mezzo, di abbreviare la strada verso un migliore sistema di vita. Tra cento anni gli uomini cammineranno tra queste case provando gli stessi sentimenti di meraviglia e di rispetto, forse perfino di timore, che oggi provano entrando nelle grandi sale di un museo. Per i nostri figli, e per i figli dei nostri figli, questo mausoleo parrà uscito da un’epoca primitiva, rappresenterà un gradino della lunga scala che conduce a una vita piena e migliore. Ci saranno degli artisti, che passeranno la loro vita a trasferire queste antiche case sulle loro tele. E gli scrittori di romanzi storici verranno qui, per respirare l’aria del passato, per trasfondere un alito di autenticità nelle loro pagine.»

«Ma lei ha detto che intendeva restaurare tutte le case, che intendeva far tornare i prati e i giardini esattamente com’erano stati un tempo,» disse Webster. «Per fare questo lei dovrà spendere una fortuna. E poi un’altra fortuna per mantenere quello che avrà ricostruito. Le piante e il tempo non si fermano.»

«Io possiedo troppo denaro,» disse Adams. «Troppo denaro, e non è colpa mia. Ricordi che mio padre e mio nonno sono stati tra i pionieri dello sfruttamento industriale dell’energia atomica.»

«Che giocatore era tuo padre, miseria ladra,» disse Pa’. «Tutte le volte che si andava a riscuotere la paga, mi ripuliva ben bene.»

«Ai vecchi tempi,» disse Adams, «Quando un uomo possedeva troppo denaro, poteva fare molte altre cose. C’erano gli enti di beneficenza, per esempio. La carità organizzata. O c’erano le borse di studio, le fondazioni per ricerche mediche, e così via. Ma oggi gli enti di beneficenza non ci sono più. La carità organizzata è scomparsa. È scomparsa per mancanza di organizzazione, ma soprattutto perché non può dare più profitti. E da quando la Commissione Mondiale si è messa all’opera, esistono fondi più che sufficienti per qualsiasi tipo di ricerca, medica o scientifica, che si voglia intraprendere.

«Quando sono tornato qui a visitare la casa di mio nonno non pensavo a una cosa del genere. Volevo soltanto vedere la casa, ecco tutto. Mio nonno me ne ha tanto parlato. Mi ha raccontato di quando aveva piantato l’albero nel giardino, davanti alla casa. Mi ha detto tante cose sull’aiuola di rose che aveva coltivato sul retro.

«E poi sono tornato qui, sono sceso e ho visto la casa. E mi sono trovato di fronte un fantasma, un fantasma beffardo. Era qualcosa che apparteneva al passato, che il progresso aveva lasciato alle spalle. Era una cosa che aveva significato tanto per qualcuno, e che il tempo si era lasciata alle spalle. Quel giorno, nella strada coperta di polvere, in piedi davanti al fantasma di quella vecchia casa, insieme a Pa’, mi è venuta l’idea che non avrei potuto fare niente di meglio, per i posteri, che conservare per loro una piccola parte della vita vissuta dai loro antenati.»

Una sottile colonna di fumo bluastro si levò dagli alberi, in basso, molto lontano.

Webster indicò la colonna di fumo.

«Che ne sarà di loro?»

«Gli Abusivi potranno restare,» disse Adams, «Se vogliono. Per loro ci sarà molto lavoro da fare. E potranno sempre avere una casa in cui vivere, un tetto sotto il quale ripararsi.

«C’è una cosa sola che mi preoccupa. Io non potrò restare qui in continuazione. Avrò bisogno di qualcuno che si occupi direttamente del progetto. Si tratta di un lavoro per il quale una vita non sarà sufficiente.»

Guardò Webster.

«Avanti, Johnny, accetta!» esclamò Pa’.

Webster scosse il capo.

«Betty ha lasciato il cuore in quella tenuta di campagna.» E pensò, anch’io ho lasciato il cuore in quel torrente.

«Non avrà bisogno di restare qui,» disse Adams. «Con l’elicottero, potrà andare e venire tutti i giorni.»

Un richiamo giunse dai piedi della collinetta.

«È Ole,» gridò Pa’.

Agitò il bastone, in segno di saluto.

«Ciao, Ole. Siamo qui, vieni!»

I tre uomini attesero in silenzio, guardando Ole salire verso di loro, sulla collina coperta di verde.

«Ti volevo parlare, Johnny,» disse Ole. «Mi è venuta un’idea. Mi è venuta stanotte, mentre dormivo come un sasso, e mi sono svegliato con quell’idea fissa…»

«Di che si tratta?» domandò Webster.

Ole lanciò un’occhiata ad Adams.

«Non ti preoccupare, è un amico,» disse Webster. «Si chiama Henry Adams. Forse ricordi suo nonno, il vecchio F.J. Adams.»

«Certo che lo ricordo,» disse Ole. «Pazzo per l’energia atomica, il vecchio Adams. È riuscito a cavarsela?»

«È riuscito a cavarsela abbastanza bene,» disse Adams.

«Sono contento di saperlo,» disse Ole. «Temo di essermi sbagliato, allora. Dicevo che non avrebbe mai combinato niente. Era sempre intento a sognare a occhi aperti, lui.»

«Qual è la tua idea, allora?» chiese Webster.

«Tu hai sentito parlare dei ranch di lusso, vero?» chiese Ole.

Webster annuì.

«Sono dei posti,» disse Ole. «Nei quali la gente va a fingere di essere dei veri cow-boys. Sono tutti contenti, nei ranch di lusso, perché non sanno in realtà quanto fosse difficile lavorare in un ranch, e credono che sia molto romantico andare a cavallo e…»

«Senti,» domandò Webster, «Non starai pensando di trasformare la fattoria in un ranch di lusso, vero?»

«No, certo,» disse Ole. «Non in un ranch di lusso. In una fattoria di lusso, magari. La gente, adesso, non sa più molte cose sulle fattorie, dato che non ne esistono quasi più. E quando leggono dei germogli addormentati sotto la neve d’inverno, e del campo coperto di rugiada all’alba, e di tutte le cose belle che…»

Webster fissò Ole, spalancando gli occhi.

«Andranno pazzi per la tua idea, Ole,» dichiarò. «Stavolta l’hai azzeccata in pieno. Si scanneranno tra loro, pur di trascorrere le loro vacanze in una vera fattoria dei tempi antichi, nella terra benedetta da Dio e…»

Da una macchia di cespugli, sulle pendici della collina, schizzò fuori una sagoma lucente che ticchettava e gorgogliava e strideva, irta di lame che balenavano da tutte le parti, agitando un lungo braccio sottile che somigliava a una piccola gru.

«Cosa diavolo…» domandò Adams.

«È quella miseria di una falciatrice!» esclamò Pa’, soffocando un grido di trionfo. «L’ho sempre saputo che sarebbe venuto un giorno in cui avrebbe perso qualche rotella, e sarebbe diventata completamente suonata!»

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