IL CAVALIERE DAL PISTOLINO ARDENTE ovvero schiuma, schiuma sulla collina

«No! no!» aveva gridato Benedectine.

«Perché no? Ti amo» aveva detto Chib. «Voglio sposarti.»

Benedectine aveva lanciato un urlo e la sua amica Bela, che era nel corridoio, aveva gridato: «Cosa c’è? Cos’è successo?»

Benedectine non aveva risposto. Furiosa, tremante come se fosse in preda alla febbre, si era precipitata giù dal letto, spingendo in disparte Chib. Era corsa al piccolo uovo del bagno, nell’angolo, e lui l’aveva seguita.

«Non vorrai mica…?» aveva detto lui.

Benedectine si era lamentata: «Sudicio imbroglione figlio di puttana!»

Nel bagno, lei aveva abbassato una sezione della parete, che era diventata uno scaffale. Sopra, fissati al ripiano mediante basette magnetiche, c’erano molti barattoli. Lei aveva afferrato una bomboletta lunga e sottile di spermicida, si era accovacciata e aveva inserito il lungo becco. Aveva premuto il pulsante sul fondo, e quella aveva emesso schiuma con un sibilo che neppure l’involucro di carne era riuscito a soffocare.

Chib era rimasto paralizzato per un momento. Poi aveva lanciato un ruggito.

Benedectine aveva urlato: «Sta’ lontano da me, stronzo!»

Dalla porta della camera da letto era giunta la voce timida di Bela: «Tutto a posto, Benny?»

«La metto a posto io!» aveva urlato Chib.

Aveva spiccato un balzo e aveva preso dallo scaffale una bomboletta di colla tempoxy. Era quella che Benedectine usava per fissarsi le parrucche sulla testa, ed era capace di tenere fissata qualunque cosa in eterno, a meno che non venisse ammorbidita da un defissante apposito.

Benedectine e Bela avevano gridato, mentre Chib sollevava Benedectine, la girava e poi la calava a testa in giù sul pavimento. Lei aveva resistito, si era dibattuta, ma lui aveva spruzzato la colla sopra la bomboletta spermicida, la pelle e i peli intorno. «Cosa fai?» aveva urlato lei.

Chib aveva premuto il pulsante sul fondo della bomboletta spermicida e poi l’aveva spruzzato con la colla. Mentre Benedectine si dibatteva, lui le aveva tenuto le braccia strette e le aveva impedito di rotolarsi e di togliersi la bomboletta. In silenzio, Chib aveva contato fino a trenta, poi di nuovo fino a trenta per essere sicuro che la colla fosse completamente asciutta, poi aveva lasciato andare la ragazza.

La schiuma era uscita a fiotti, aveva coperto l’inguine, era scesa lungo le gambe e si era sparsa sul pavimento. Nella bomboletta indistruttibile e indeformabile, il liquido era sottoposto a una pressione immane; la schiuma si espandeva enormemente se veniva esposta all’aria.

Chib aveva preso dallo scaffale la bomboletta del defissante e l’aveva stretta in mano, deciso a non darla a lei. Benedectine era saltata in piedi e aveva cercato di percuoterlo. Ridendo come una iena in una tenda a gas esilarante, Chib le aveva bloccato il pugno e l’aveva spinta via. Sdrucciolando sulla schiuma, che ormai arrivava alla caviglia, Benedectine era caduta e poi scivolata all’indietro, e, slittando a ritroso sulle natiche, era uscita dalla camera da letto, con la bomboletta che batteva sul pavimento.

Benedectine si era alzata in piedi e solo in quel momento si era resa perfettamente conto di quel che aveva fatto Chib. Aveva urlato e si era messa a saltare. Ballonzolando tutto intorno, tirando il barattolo, le sue urla si erano intensificate a ogni strattone che le causava un nuovo dolore. Poi si era voltata ed era corsa fuori della stanza, o almeno aveva tentato di farlo. Era scivolata; Bela era sulla sua traiettoria; si erano aggrappate l’una all’altra ed entrambe erano uscite pattinando dalla stanza, compiendo una mezza giravolta mentre passavano dalla porta. La schiuma turbinava, e le due sembravano Venere con amica sorgenti dalle onde crestate di spuma del Mare di Cipro.

Benedectine aveva spinto via l’altra ragazza, ma non senza perdere qualche brandello di pelle sotto le unghie affilate di Bela. Bela era sfrecciata a ritroso attraverso la porta, verso Chib, come una pattinatrice sul ghiaccio alle prime armi: aveva cercato di mantenere l’equilibrio, non ci era riuscita ed era saettata accanto a Chib, ululando, rovesciata sulla schiena, con le gambe in aria.

Chib aveva mosso cautamente i piedi nudi sul pavimento, si era fermato accanto al letto per raccogliere i vestiti, aveva deciso che era più prudente aspettare di essere fuori, per indossarli. Era arrivato nel corridoio circolare proprio in tempo per vedere Benedectine che passava strisciando accanto a una delle colonne tra il corridoio e l’atrio. I suoi genitori, due pachidermi di mezza età, erano ancora seduti su un divano, con le lattine di birra in mano, gli occhi spalancati, le bocche aperte, frementi.

Chib non aveva augurato neppure la buonanotte, passando per il corridoio. Ma poi aveva visto il fideo e si era reso conto che i genitori l’avevano passato da EST a INT e poi l’avevano sintonizzato sulla camera di Benedectine. Padre e madre avevano continuato a osservare Chib e la figlia, ed era evidente, dalla condizione non precisamente floscia del padre, che lo spettacolo lo eccitava, era superiore a tutto quello che si vedeva sul fideo esterno.

«Bastardi guardoni!» aveva ruggito Chib.

Benedectine li aveva raggiunti, si era alzata e balbettava, piangeva, indicava la bomboletta e poi puntava l’indice contro Chib. Al ruggito di Chib, i genitori si erano alzati dal divano come due leviatani risaliti dagli abissi. Benedectine si era voltata ed era corsa verso di lui, a braccia protese, le dita adunche, la faccia simile a quella di Medusa. Dietro di lei venivano, in codazzo, la strega livida e il padre e la madre, tutti sulla schiuma.

Chib era andato a sbattere contro una colonna, era rimbalzato e sdrucciolato via, e non aveva potuto evitare di mettersi di sbieco durante la manovra. Mamma e Papà erano caduti insieme, con un tonfo che aveva scosso persino quella casa solidissima. Si erano rialzati, roteando gli occhi e muggendo come ippopotami affiorati alla superficie. Lo avevano caricato, ma separatamente. Mamma adesso strillava, e la sua faccia, nonostante il grasso, era quella di Benedectine. Papà aveva girato da una parte della colonna, Mamma dall’altra, Benedectine si era tenuta a un’altra colonna, con una mano, per non scivolare. Si era posta fra Chib e la porta di casa.

Chib aveva sbattuto contro la parete del corridoio, in un’area priva di schiuma. Benedectine era corsa verso di lui. Lui aveva attraversato in tuffo il corridoio, era caduto e, rotolando fra due colonne, era finito nell’atrio.

Mamma e Papà avevano puntato allo stesso bersaglio, in rotta di collisione. Poi il Titanic si era scontrato con l’iceberg, ed entrambi si erano inabissati rapidamente. Erano scivolati sulla faccia e sul ventre verso Benedectine. Lei era balzata in aria, spargendo schiuma su di loro mentre le passavano sotto.

Ormai era evidente che la garanzia del governo, secondo la quale la bomboletta serviva per 40.000 spedizioni di morte-allo-sperma, ossia per 40.000 copule, era valida. C’era schiuma dappertutto, e arrivava alle caviglie, in certi punti al ginocchio, e continuava a uscirne ancora.

Bela era finita riversa, sul pavimento dell’atrio, la testa infilata nelle pieghe morbide del divano.

Chib si era alzato lentamente ed era restato fermo per un momento, guardandosi intorno furibondo, con le ginocchia piegate, pronto a schizzare lontano dal pericolo: ma augurandosi di non essere costretto a farlo perché senza dubbio sarebbe scivolato.

«Fermo, lurido figlio di puttana!» aveva ruggito Papà. «Ti ammazzo! Non puoi far questo a mia figlia!»

Chib lo aveva guardato rigirarsi come una balena nel mare agitato e tentare di alzarsi in piedi. Era ricaduto di nuovo, grugnendo come se fosse stato colpito da un arpione. Mamma non aveva ottenuto risultati migliori.

Vedendo che la via era libera (Benedectine era sparita chissà dove) Chib aveva attraversato l’atrio, fino a raggiungere un tratto non coperto di schiuma presso l’uscita. Con gli abiti sul braccio, e stringendo ancora il defissante, si era avviato orgogliosamente verso la porta.

In quel momento Benedectine lo aveva chiamato per nome. Lui si era voltato e l’aveva vista arrivare scivolando dalla cucina. Teneva in mano un grosso bicchiere. Lui si era chiesto che cosa intendesse farsene. Certamente, non voleva offrire il bicchiere della staffa all’ospite.

Poi lei era arrivata sul tratto asciutto del pavimento, ed era crollata bocconi con un urlo. Tuttavia, aveva lanciato con buona mira il contenuto del bicchiere.

Chib aveva gridato nel sentire l’acqua bollente: era come se l’avessero circonciso senza anestesia.

Benedectine, sul pavimento, era scoppiata a ridere. Chib, dopo aver saltellato e urlato lasciando cadere la bomboletta e i vestiti, stringendosi con le mani le parti scottate, era riuscito a riprendere l’autocontrollo. Aveva smesso di agitarsi, aveva afferrato Benedectine per la mano e l’aveva trascinata fuori, per le vie di Beverly Hills. C’era parecchia gente in giro, quella notte, e tutti avevano seguito i due. Chib si era fermato solo quando era arrivato al lago, ed era sceso in acqua per alleviare la scottatura, trascinando con sé Benedectine.

La folla aveva avuto parecchie cose di cui parlare, più tardi, dopo che Benedectine e Chib furono usciti dal lago e poi furono corsi alle rispettive case. Gli spettatori avevano parlato e riso parecchio, mentre gli addetti della nettezza urbana ripulivano dalla schiuma la superficie del lago e le strade.


— Mi ha fatto così male che non sono riuscita a camminare per un mese! — urla Benedectine.

— Te la sei cercata tu — dice Chib. — Non ti puoi lamentare. Dicevi che volevi il mio bambino, e parlavi come se lo pensassi veramente.

— Dovevo essere impazzita! — dice Benedettine. — Anzi, no, non lo ero! Non ho mai detto una cosa del genere! Mi hai mentito! Mi hai costretto!

— Non costringerei mai nessuno — dice Chib. — Lo sai. Smettila di far scenate. Sei libera, e hai accettato liberamente. Hai il libero arbitrio.

Omar Runic, il poeta, si alza dal suo posto. È un giovanotto alto e magro, dalla pelle color rosso-bronzo, naso aquilino e rosse labbra carnose. I suoi capelli crespi sono lunghi, e adesso sono acconciati in modo da costituire un modellino del Pequod, la mitica baleniera che portò il pazzo capitano Achab e il suo equipaggio di scoppiati (nonché l’unico superstite, Ishmael), alla caccia della balena bianca. L’acconciatura ha il ponte di prua, la chiglia e tre alberi e i pennoni, e persino una scialuppa agganciata ai ramponi.

Omar Runic batte le mani e grida: — Bravo! Un filosofo! Evviva il libero arbitrio, la libertà di cercare le verità eterne… se ci sono… o la morte e la dannazione! Bevo al libero arbitrio! Un brindisi, signori! In piedi, Giovanni Radicchi, un brindisi al nostro capo!

E così ha inizio

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