UNA CARAMELLINA DI SOLE PER LENIRE LA GOLA DOLORANTE DELLA NOTTE

Omar Runic

Chib si dirige verso la porta convessa, che al suo avvicinarsi rientra nell’interstizio tra le pareti. Il cuore della casa è la stanza ovale di soggiorno. Nel primo quarto, procedendo in senso orario, c’è la cucina, e tra essa e il soggiorno c’è un paravento a fisarmonica alto sei metri, che Chib ha dipinto con scene tratte da tombe egizie, per alludere in modo forse troppo sottile al cibo moderno. Sette esili colonne, intorno al soggiorno, segnano i confini tra stanza e corridoio. Tra le colonne ci sono altri schermi a fisarmonica, dipinti da Chib durante il suo periodo della mitologia amerinda.

Anche il corridoio è ovale; ogni locale della casa si apre su di esso. Vi sono sette stanze: sei sono combinazioni camera da letto, stanza da lavoro, studio e toilette-doccia. La settima è un ripostiglio.

Sono piccole uova dentro uova più grandi che stanno dentro uova ancor più grandi, che stanno dentro un megamonolito costruito su pianeta a pera contenuto in un universo ovoidale, giacché la cosmologia più recente sostiene che l’infinito ha la forma del prodotto della gallina. Dio cova sull’abisso e lancia un coccodè ogni trilione d’anni, giorno più giorno meno.

Chib attraversa il corridoio, passa in mezzo a due colonne, da lui scolpite in forma di cariatidi ninfette, ed entra nel soggiorno. La madre sbircia di traverso il figlio, che secondo lei si sta avvicinando rapidamente alla pazzia, se già non l’ha raggiunta. In parte è colpa sua, si accusa; non avrebbe dovuto stancarsi e in un momento di capriccio dire basta. Adesso è grassa e brutta, oddio, quant’è grassa e brutta. Non può pensare di ricominciare, ragionevolmente (né irragionevolmente).

È del tutto naturale, continua a dirsi, sospirando, risentita, lacrimosa, che lui abbia abbandonato l’amore della madre per le delizie forestiere, sode e ben tornite, delle donne giovani. Ma rinunciare anche a quelle? Lui non è un finocchio. Eppure, ha piantato tutto fin da quando aveva tredici anni. Dunque, qual è la ragione della sua castità? Non fa neppure l’amore col fornixatore, cosa che lei potrebbe capire, anche se non l’approverebbe.

Oh, Dio, in cosa ho sbagliato? E poi, non sono stata io a sbagliare. Sta per diventare pazzo come suo padre (Raleigh Rinascimento, mi pare si chiamasse così), sua zia e il suo trisavolo. È colpa di tutto quel dipingere e dei suoi amici estremisti radicali, i Giovani Radicchi, che frequenta. È troppo artista, troppo sensibile. Oh, Dio, fa’ che non succeda niente al mio bambino, altrimenti dovrò andare in Egitto.

Chib conosce i pensieri di sua madre, perché lei li ha espressi tante volte e non è capace di averne di nuovi. Passa davanti alla tavola rotonda senza dire una parola. I cavalieri e le dame della Camelot in compresse lo guardano attraverso un velo di birra.

In cucina, lui apre uno sportello ovale. Tira fuori un vassoio con il cibo dentro piatti e tazze coperte, tutto avvolto nella plastica.

— Non mangi con noi?

— Non rompere, Mamma — dice lui, e torna in camera sua a prendere qualche sigaro per il Nonno. La porta, che percepisce e amplifica l’immagine mutevole ma riconoscibile dei campi elettrici epidermici e la trasmette al meccanismo attivatore, indugia. Chib è troppo sconvolto. Un maelstrom magnetico infuria sulla sua pelle e distorce le configurazioni dello spettro. La porta si apre per metà, si richiude, cambia di nuovo idea, si ritrae, si richiude.

Chib prende a calci la porta, che, come conseguenza, si blocca completamente. Si ripromette di farci mettere un sesamo video o audio, ma il guaio è che si trova a corto di buoni e di tagliandi e non può comprare il materiale necessario. Si stringe nelle spalle e procede lungo il corridoio curvilineo monoparete e si ferma davanti alla porta del Nonno, invisibile dal soggiorno a causa della presenza dei paraventi della cucina.

Poiché cantava di pace e libertà,

Di bellezza, di nostalgia, d’amore;

E della morte, e dell’immortalità,

Nelle Isole dei Beati,

Nel regno di Ponemah,

Della terra dell’Aldilà,

Era il mite Chibiabos

Molto caro a Hiawatha.

Chib canticchia le parole di riconoscimento; la porta si apre.

La luce esce a fiotti, una luce giallastra sfumata di rosso che è una creazione del nonno. Guardare la convessa porta ovale è come guardare nel cristallino del globo oculare di un pazzo. Il Nonno è in mezzo alla stanza; ha una barba bianca che gli scende a metà coscia e capelli bianchi che gli ricadono come una cascata un po’ al di sotto delle ginocchia. Benché barba e chioma nascondano la sua nudità, e lui sia solo nella stanza, indossa un paio di calzoncini. Il Nonno è piuttosto all’antica, una cosa perdonabile in un uomo che ha raggiunto ormai un’età di dodici dec… adenze.

Come Rex Luscus, ha un occhio solo. Sorridendo, mostra denti suoi, cresciuti da germogli trapiantati trent’anni prima. Un grosso sigaro verde sporge da un angolo della bocca rossa e carnosa. Il naso è schiacciato, come se il tempo l’avesse calpestato con piede pesante.

La fronte e le guance sono larghe, forse grazie a una goccia di sangue Ojibway nelle vene, sebbene sia nato Finnegan e perfino il suo sudore sia celtico, perché ha l’odore del whisky. Tiene la testa alta, e l’occhio grigio-azzurro è come un piccolo specchio d’acqua in fondo a una marmitta dei giganti antidiluviani, residuo della liquefazione di un ghiacciaio.

In tutto e per tutto, la faccia del Nonno è quella di Odino che ritorna dal Pozzo di Mimir chiedendosi se il prezzo da lui pagato non sia troppo alto. Oppure è la faccia della Sfinge di Gizah, consumata dal vento e dalla sabbia.

— Quaranta secoli di isteria ti guardano, per parafrasare Napoleone — dice il Nonno. — La testa di ponte dei secoli. “Dunque, che cos’è l’Uomo?” chiede la nuova Sfinge, dato che Edipo ha sciolto l’enigma della vecchia Sfinge e non ha risolto niente, perché lei ne ha già scodellato un altro, una furbacchiona con un enigma che nessuno sa ancora svelare. E forse è meglio così.

— Parli in modo strano — dice Chib. — Ma mi piace. Sorride al Nonno, gli vuole bene.

— Tu scivoli qui dentro tutti i giorni, non tanto per amor mio quanto per acquisire virtute e conoscenza. Io ho visto tutto, udito tutto, e ho pensato non poco. Ho viaggiato molto, prima di venire a rifugiarmi in questa stanza, un quarto di secolo fa. Eppure l’isolamento qui dentro è stato la più grande di tutte le mie odissee.

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