CAPITOLO DECIMO

Dopo una breve pausa di riflessione, possibile ora che i postumi elettro-convulsivi delle percosse s'erano attenuati, Miles comprese che avrebbe dovuto nascondersi. Gregor, nel suo ruolo di schiavo sotto contratto, avrebbe avuto cibo e sicurezza almeno durante il viaggio fino a Stazione Aslund, a patto che lui non gli facesse passare un guaio. E alla lista delle sue lezioni di vita ne aggiunse un'altra: Chiamiamola Regola 27B: mai prendere decisioni strategiche dopo esser stato picchiato con uno sfollagente-storditore.

Esaminò il contenuto del loro cubicolo. Quella su cui si trovavano non era stata progettata per essere una nave-prigione; gli armadi vuoti sotto le cuccette erano piuttosto spaziosi, dunque le cabine avevano ospitato tecnici o passeggeri paganti. Sul pavimento un pannello scorrevole dava accesso agli impianti del sottoponte: tubature, cavi elettrici e la lunga griglia sottile della gravità artificiale… le voci che si avvicinavano in corridoio costrinsero Miles a non esitare oltre: si sdraiò supino in quello spazio ristretto, strinse le braccia contro i fianchi ed espulse l'aria dai polmoni.

— Sei sempre stato un asso, quando giocavamo a nascondino — disse Gregor con ammirazione, e richiuse il pannello.

— Ero più piccolo, a quel tempo — mugolò lui, girando la testa per non farsi schiacciare il naso. Flange e scatole di contatti elettrici gli ammaccavano la schiena e i fianchi. Gregor riavvitò i bulloni a farfalla e per qualche secondo tutto fu buio e silenzio. Come in una bara. Nelle fogne dell'isola Kyril c'era stata più umidità, ma anche più spazio, e per distrarsi lui cercò di stabilire quale dei due posti era peggiore. Affermare che entrambi erano peggiori contrastava con la logica e con la grammatica, ma non coi fatti.

La porta si aprì con un cigolio. Piedi pesanti passarono sul pannello, schiacciandolo ancora di più sopra il corpo di Miles. Avrebbero notato l'eco attutita — attutita da lui — di quella breve sezione del pavimento?

— Muoviti. Alzati dal letto. — La voce di una guardia, che ce l'aveva con Gregor. Tonfi e scricchiolii, mentre le cuccette venivano sollevate e gli armadi aperti. Miles aveva previsto che quello sarebbe stato il primo posto in cui avrebbero guardato. La guardia sapeva che ce n'era un secondo?

— Allora, furbone, dov'è? — Dalla direzione dell'ansito doloroso Miles visualizzò Gregor schiacciato contro la paratia del lavandino, probabilmente con un braccio ritorto dietro la schiena.

— Dov'è chi? — bofonchiò Gregor. Nessun dubbio: faccia premuta sulla plastica incrostata di sporcizia.

— Il piccolo mutante storpio. Il tuo amico.

— Quel tipetto che mi veniva dietro? E chi lo conosce? Se n'è andato.

Un paio di grugniti. — Uh… ouch! — Il braccio dell'Imperatore spinto all'insù di altri cinque centimetri, immaginò Miles.

— Ti ho chiesto dov'è andato.

— Ma non lo so! Stava male, credo. Qualcuno lo aveva appena pestato con uno sfollagente-storditore. Io non volevo essere coinvolto. Pochi minuti dopo la partenza ha preso su e se n'è andato.

Bravo Gregor. Depresso, forse, ma non stupido. Miles deglutì a fatica. Aveva una guancia premuta contro il pannello, l'altra su quella che sembrava una grattugia per formaggio.

Altri tonfi. — Non è colpa mia, dannazione. Se n'è andato! No… io non c'entro!

Un'imprecazione ringhiosa, il lieve crepitio di uno sfollagente-storditore acceso, un mugolio di sofferenza e l'acuto scricchiolio di una cuccetta su cui piombava di peso un corpo umano.

La voce di un'altra guardia, sfumata d'incertezza: — Dev'essersi squagliato sul molo della stazione. Non ricordo di averlo visto salire a bordo.

— È un problema loro, se è così. Ma meglio frugare in tutta la nave, per sicurezza. Il capitano sembra maledettamente incavolato per colpa di quel piccoletto.

— O forse qualcuno è maledettamente incavolato con lui, eh?

— Bah. Se potessi fare a modo mio, vedresti cosa… — La voce borbottò altre parole indistinguibili mentre gli stivali — quattro, stimò Miles — attraversavano di nuovo la cabina. Ci fu il clangore della porta che si chiudeva, poi il silenzio.

Nell'attesa che Gregor si decidesse ad aprirgli, Miles identificò almeno sei punti in cui avrebbe trovato dei lividi. Non riusciva neppure a gonfiare i polmoni per più di metà a ogni respiro, e aveva anche bisogno di orinare. E muoviti, amico…!

Appena fossero arrivati alla Stazione Aslund avrebbe dovuto darsi da fare per svincolare Gregor dal suo contratto o quel che era, e al più presto. Alla manodopera di quel genere venivano affidati i lavori più sporchi e pericolosi, con orari stressanti, esposti alle radiazioni, in ambienti insalubri e senza assistenza medica. L'unico aspetto positivo era l'incognito: nessun nemico avrebbe pensato di cercarlo sotto quell'identità. Una volta liberi si sarebbero messi in comunicazione con Ungari, che aveva le carte di credito e i contatti necessari, e poi… be', poi l'Imperatore sarebbe stato un problema di Ungari, no? Tutto semplice e chiaro, dunque niente panico.

Che avessero portato via Gregor? No, probabilmente non osava ancora rischiare di…

Uno scalpiccio, il lieve rumore dei bulloni e infine una striscia di luce quando il pannello fu aperto. — Se ne sono andati — sussurrò Gregor. Miles si districò centimetro dopo doloroso centimetro dal suo contenitore e rotolò su una zona libera del pavimento. Da lì a qualche minuto, non prima, avrebbe fatto un tentativo di alzarsi.

Gregor si stava toccando un segno rosso sulla guancia sinistra. Poi decise di assumere un atteggiamento più tetragono e abbassò la mano su un fianco. — Il questurino ha fatto uso del suo sfollagente-storditore. Non è stato… uh, doloroso come certi individui delicati sembrano credere. — Se non altro, pareva orgoglioso di se stesso.

— Lo aveva regolato a bassa potenza — grugnì Miles dal pavimento. Il volto di Gregor espresse ironica indifferenza. Gli offrì una mano. Miles la prese, fu tirato in piedi e subito sedette su una cuccetta, ansimando. Poi disse quello che aveva deciso di fare nel caso che Ungari fosse ancora su Stazione Aslund.

Gregor si strinse nelle spalle con acquiescenza. — Come credi. Può darsi che sia un piano migliore del mio.

— Il tuo?

— Avevo idea di contattare il console barrayarano su Aslund.

— Ah, certo. Suppongo che tu non abbia un gran bisogno del mio aiuto personale, dopotutto.

— Posso farcela benissimo coi miei mezzi, evidentemente. Non sono forse arrivato da solo fin qui? Tuttavia ci sarebbe anche… l'altro mio piano, quello alternativo.

— Alternativo in che senso?

— Nel senso di non contattare il console… e magari tu potresti unirti a me, visto che in patria non hai avuto grandi successi. — Gregor si distese con le mani dietro la testa, guardando la cuccetta superiore. — Una cosa è certa: un'altra opportunità come questa non si presenterà tanto facilmente.

— Lasciare gli aristocratici a scannarsi a vicenda per il trono? E quanti finirebbero ammazzati per pagare la tua libertà?

Gregor inarcò un sopracciglio. — Nel caso, diciamo, di un colpo di stato sul tipo di quello del Pretendente Vordariano, non più di otto o diecimila morti.

— Senza contare quello che succederebbe su Komarr.

— Be', sì. Se ci aggiungiamo un'altra rivolta su Komarr otteniamo una cifra più elevata — concesse Gregor. Gli rivolse un sorriso del tutto privo di umorismo. — Non preoccuparti, non sto dicendo sul serio. Quello che volevo era… sapere se me la sarei cavata. Penso che ce la farei anche da solo, non credi?

— Naturalmente. Ma il punto non è questo.

— Per me lo era.

— Gregor… — Miles si massaggiò le costole, seccato. — Tu puoi fare del bene, e anche del male. Tu hai un potere effettivo. Mio padre ha lottato durante tutta la Reggenza per conservartelo. Sii più positivo!

— Alfiere… e se io, il tuo comandante supremo, ti ordinassi di allontanarti da questa nave a Stazione Aslund e dimenticare di avermi mai visto? Mi ubbidiresti?

Miles deglutì saliva. — Il maggiore Cecil afferma che io non sono un granché docile come subordinato.

Gregor ebbe un breve sogghigno. — Il buon vecchio Cecil. Mi sembra ieri che… — Il suo volto tornò serio. Si girò su un gomito. — Ma se non posso neanche farmi ubbidire da un alfiere piccolo e debole, come posso pretendere di guidare un esercito, o un governo? Non è una questione di potere, qui. Io ho visto tutte le conferenze che tuo padre ha registrato sul potere, sul suo uso e sulle sue illusioni. Lui dice che ne avrò sempre di più, col tempo. Ma avrò la forza per manovrarlo? Pensa alla magra figura che ho fatto durante il complotto di Hessman e Vordrozda, quattro anni fa.

— Faresti ancora quello sbaglio? Ti fideresti di un adulatore?

— No, lo stesso sbaglio no.

— Bene.

— Ma dovrei fare di meglio, altrimenti tanto varrebbe che Barrayar non avesse nessun Imperatore.

Miles agitò una mano, scartando quell'argomentazione. — Io non ho detto che rifiuterei il tuo ordine come alfiere Vorkosigan… ti ho risposto come Lord Vorkosigan. E come amico.

— Ah.

— Senti, tu non hai bisogno che venga io a toglierti dai guai. Illyan, forse, ma non io. Però farlo io mi fa sentire meglio.

— È sempre bello sentirsi utili — fu d'accordo lui. Si scambiarono un sorrisetto, e quello di Gregor perse la sua piega acre. — Anche non essere soli… anche questo è bello.

Lui annuì. — Parole sante.


Nei due giorni successivi Miles trascorse più tempo di quel che gli sarebbe piaciuto nell'esiguo spazio del sottoponte, ma la loro cabina fu perquisita soltanto un'altra volta prima che le ricerche finissero. Un paio di prigionieri entrarono a chiacchierare con Gregor, e lui (su suggerimento di Miles) restituì la visita. Il giovane Imperatore sembrava effettivamente capace di cavarsela senza problemi; non si lamentò della cucina di bordo, divise con lui ogni pasto, e nel fare le parti fu sempre irremovibile nel rifiutare la porzione più grossa.

Ma quando la nave attraccò alla Stazione Aslund, una guardia venne a prelevare Gregor, lo mise in fila con gli altri e tutti furono portati via. Miles aspettò nervosamente che l'equipaggio tornasse ai suoi compiti di routine, ma il timore che potessero ripartire con lui a bordo lo faceva fremere. Quando gli parve di non sentire più molta attività uscì dal suo nascondiglio, rimise a posto le viti e si concesse un'altra mezz'ora di attesa.

Il corridoio, allorché si decise a metter fuori la testa, era buio e deserto. Al portello d'uscita non vide nessuna sentinella. Lui indossava la blusa e i pantaloni azzurro-sporco dei lavoratori ingaggiati a forza, e tutto ciò che poteva augurarsi era d'essere scambiato per uno di loro, almeno da lontano. In fondo al corridoio trovò una piccola scatola di attrezzi da lavoro, e decise che tenerla in mano gli avrebbe dato un aspetto più naturale.

A passi fermi percorse il tubolare, superando le lievi interferenze fra le griglie gravitazionali della nave e della stazione; ma quasi gli venne un colpo quando scoprì che un uomo in uniforme nera e dorata stazionava sul molo a pochi metri dall'uscita. Aveva lo storditore nella fondina, e in mano un bicchiere di plastica in cui fumava qualcosa di caldo. Il suo sguardo esaminò Miles con una vaga e indifferente curiosità che lo incoraggiò a dirigersi verso di lui senza rallentare il passo.

— Se c'è una cosa che odio più delle filettature spanate — disse Miles, — sono quelli che si liberano del problema con una saldatura tutto intorno. Non è così che si fa, dico io.

L'uomo gli elargì un breve sogghigno di comprensione e si limitò ad annuire. Evidentemente il suo incarico era d'impedire che strana gente entrasse nella nave, non che ne uscisse.

In quella zona dei moli della stazione c'era solo una dozzina di tecnici in tuta che lavoravano con calma presso un'uscita. Miles fece un lungo respiro e li oltrepassò con andatura tranquilla e senza guardarsi intorno, come se sapesse bene dove stava andando e non avesse troppa fretta di arrivarci. Nient'altro che un operaio un po' pigro. Nessuno gli rivolse la parola.

Rassicurato, si aggirò a caso nella sezione successiva. Una larga rampa portava in un bacino di carenaggio che aveva l'aria d'essere di nuova costruzione, dove squadre di tecnici in tute di diverso colore stavano lavorando su uno scafo; una scialuppa militare da sbarco, a giudicare dai sistemi d'arma mezzo smontati. Proprio il genere di cosa che avrebbe attirato l'attenzione di Ungari. Miles non presumeva d'essere così fortunato da… no, infatti. Nessun segno di Ungari, travestito o meno, fra quella gente. C'erano numerosi uomini e donne con l'uniforme delle forze spaziali di Aslund, ma sembravano anch'essi tecnici addetti alle attrezzature e non guardie sospettose. Miles oltrepassò un laboratorio per le riparazioni elettroniche e girò in un altro corridoio. Lì dentro tutto sembrava di recente costruzione.

Ne scoprì il motivo quando trovò la prima finestra panoramica da cui si vedeva l'esterno, un largo rettangolo di plastica trasparente, a triplo strato. Si fermò a guardare il vuoto dello spazio stellato al di là di essa, e dalla bocca gli uscirono alcune brevi imprecazioni scelte con cura. Lo spazio non era affatto vuoto: a qualche chilometro da lì, rotonda e scintillante immagine di luci, c'era la stazione commerciale di balzo. Poco da dubitare che fosse quella, perché un paio di mercantili e piccole navi di linea, in arrivo o in partenza, si muovevano nelle sue vicinanze. Dunque la stazione militare era stata progettata per restare separata da quella civile, oppure non l'avevano ancora collegata. Non c'era da stupirsi che gli operai in tuta azzurro-sporco potessero andare dove volevano. Frustrato, Miles guardò lo spazio che lo separava dalla stazione civile. Be', per intanto avrebbe cercato Ungari su quella militare, e all'altra avrebbe pensato poi. Sicuramente c'era un servizio di traghetti. Scosse il capo e riprese il cammino…

— Ehi, tu! Il piccoletto con quella borsa!

Miles s'irrigidì, sopprimendo l'impulso di mettersi a correre — la sua tattica non era valida dappertutto, evidentemente — e si volse, assumendo un'educata espressione interrogativa. L'uomo che stava venendo dalla sua parte era grosso, ma disarmato, e indossava una tuta bianca da supervisore. Sembrava che avesse fretta. — Sì, signore? — domandò lui.

— Cercavo proprio uno come te. — L'uomo gli abbatté una mano guantata su una spalla. — Hai da fare? Vieni con me.

Miles lo seguì, non avendo altra scelta, e fece del suo meglio per mostrare un'espressione calma, magari un tantino seccata.

— Qual è la tua specializzazione? — chiese l'uomo.

— Manutenzione. Idraulica — disse lui, visto che la sua cassetta di arnesi era tale.

— Proprio quello che ci vuole!

Stupito Miles gli tenne dietro fino all'incrocio con due corridoi ancora in via di costruzione. Alle pareti erano appoggiate le porte, smontate, e casse piene di rivestimenti e di infissi.

Il supervisore gli indicò una stretta intercapedine verticale fra due pareti divisorie. — Vedi questo tubo?

Ce n'erano diversi: grigi per gli scarichi, verdi per l'aria compressa e l'acqua potabile, neri quelli dei collegamenti elettrici per la griglia gravitazionale e le attrezzature. Tutti sparivano nell'oscurità. — Sì, signore.

— C'è una perdita d'aria da qualche parte, dietro questo corridoio. Cerca di infilarti qui dentro e trovala, o dovremo sbattere giù tutti i dannati pannelli che abbiamo appena finito di montare.

Miles depose la cassetta e la aprì. — Ha una torcia?

L'uomo si frugò in tasca e gli consegnò una micropila.

— Bene — sospirò Miles. — Avete tolto la corrente, qui dentro?

— Non preoccuparti. Prima dobbiamo provare la pressurizzazione.

Almeno non avrebbe rischiato di restare fulminato. Riuscì a sorridere con un po' più di buona volontà. Forse la scalogna aveva smesso di prenderlo a calci.

Si insinuò di traverso nell'intercapedine senza difficoltà, grazie alla superficie liscia dei pannelli e dei tubi, fermandosi ogni mezzo passo per ascoltare e tastare. Fu sette metri più avanti che trovò la perdita, o meglio la sentì: un gelido soffio d'aria sotto le dita, facile da localizzare. Prese nota della posizione, cercò di girarsi in quello spazio ristretto, e la sua spalla destra fece staccare a mezzo un pannello quadrato, che si piegò all'esterno con uno scricchiolio.

Perplesso mise fuori la testa dal varco e guardò nel corridoio. Poi prese il pannello fra le mani e lo staccò del tutto. Soltanto allora si accorse che poco più in là c'erano altri due tecnici occupati con una saldatrice. La sua comparsa non li aveva rallegrati.

— Ehi, che diavolo pensi di fare? — sbottò uno dei due, in tono oltraggiato.

— Ispezione, controllo di qualità — disse Miles allegramente. — E qui sembra proprio che abbiate un problema, ragazzi.

Per un attimo considerò l'idea di issarsi fuori da quel foro e tornare dall'esterno al punto di partenza; poi decise che era meno faticoso strisciare all'indietro. Quando uscì, il supervisore era ancora lì dove lo aveva lasciato.

— La perdita è dietro la parete numero 6M — riferì. Poi gli mostrò il bordo del pezzo che aveva staccato. — Questi pannelli hanno lo strato insonorizzante interno di fibrocompresso infiammabile, invece che in spugna-silicone, e si spaccano solo a guardarli. Se questa installazione militare è prevista per resistere al fuoco nemico, il progetto delle infrastrutture è opera di un incompetente. E se non è così, allora qualcuno ha voluto intascare una percentuale da qualche fornitore disonesto.

Il supervisore imprecò. A denti stretti afferrò il bordo di uno dei pannelli a cui dovevano essere fissati i montanti della porta più vicina, e lo girò con forza all'infuori. Una striscia lunga oltre un metro se ne staccò con uno schianto.

— Figli di puttana. Quanta di questa roba è già stata montata?

— Un bel po' — rispose Miles con un sorrisetto. Raccolse la scatola degli attrezzi e lasciò il supervisore a borbottare fra sé su quel materiale, prima che gli venisse in mente di dargli qualcos'altro da fare. Sudato e ancora nervoso tornò indietro fino al bacino di carenaggio, prese per un altro corridoio, e non rallentò finché non ebbe svoltato un paio di angoli.

Oltrepassò un paio di uomini armati in uniforme grigia e bianca. Uno si voltò a scrutarlo. Miles fece finta di niente, tenne lo sguardo fisso in avanti e continuò a camminare.

Dendarii — o Oserani che fossero — lì su quella stazione! Quanti potevano essercene? Quei due erano i primi che vedeva. Non avrebbero dovuto trovarsi nello spazio, di pattuglia da qualche parte? Desiderò poter rientrare in quell'intercapedine e muoversi nelle fessure fra le pareti come un topo.

Ma se la maggior parte dei mercenari rappresentavano un pericolo per lui, almeno in quella situazione, ce n'era uno — uno dei vecchi Dendarii, non un Oserano — che poteva essergli d'aiuto. Se fosse riuscito a contattarlo. E c'era Elena… sì, forse doveva cercare Elena. La sua immaginazione stava già lavorando.

Quattro anni prima Miles aveva lasciato Elena con suo marito, Baz Jesek, e con Tung, affidandola alla protezione del primo e all'addestramento militare del secondo. Non aveva potuto far altro per lei, a quell'epoca. Tuttavia non gli erano arrivate lettere da Baz o da lei dopo la ristrutturazione dei mercenari… che Oser le avesse intercettate? E ora, con Baz relegato in secondo piano e Tung evidentemente in disgrazia, qual era la posizione di Elena nella flotta?

Quale posizione occupava nel suo cuore? Più ci pensava, meno riusciva a capirlo. Un tempo l'aveva amata appassionatamente. Un tempo lei lo aveva conosciuto meglio di qualunque altro essere umano. Però, con la vita intensa dell'Accademia, la presa di Elena sui suoi pensieri quotidiani era pian piano svanita, come il lutto per la morte del padre di lei, il sergente Bothari. Salvo qualche occasionale ritorno, come un vecchio dolore nelle ossa. Voleva e non voleva rivederla. Gli sarebbe piaciuto parlarle, starle vicino…

Restando sul pratico, comunque, c'era il fatto che Elena avrebbe riconosciuto Gregor anche travestito e da lontano; erano stati compagni di giochi fin da bambini. Una seconda linea difensiva per l'Imperatore? Riallacciare i contatti con Elena avrebbe potuto essere emotivamente imbarazzante… e va bene, emotivamente doloroso. Ma era sempre meglio che quell'inconcludente e pericoloso vagabondare. Ora che aveva dato un'occhiata all'ambiente doveva in un modo o nell'altro sfruttare le sue risorse personali. Quanto credito, come essere umano, aveva ancora l'ammiraglio Naismith? Domanda interessante.

Quello che gli serviva era un posto da cui guardare senza essere guardato. C'erano molti espedienti per rendersi invisibile anche in piena vista, come la sua tuta azzurrastra gli aveva già dimostrato. Ma la sua statura insolita — be', insolitamente bassa — non lo incoraggiava ad affidarsi unicamente ai vestiti.

Un paio di livelli più in basso sbucò in un atrio dove c'era un bar-ristorante per il personale. Mmh, tutti dovevano mangiare; di conseguenza tutti dovevano passare da lì, prima o poi. L'odore del cibo eccitò il suo stomaco, che per tre giorni aveva protestato invano dopo ognuna delle mezze razioni e tuttavia sarebbe stato felice di subire lo stesso magro trattamento. Miles non poteva accontentarlo. Andò ad aprire il primo pannello che vide alla parete di fronte, tolse dalla cassetta un paio di occhiali protettivi da usare come maschera, si accovacciò per mimetizzare anche la sua statura e cominciò a fingere di lavorare su una scatola di contatti e alcuni tubi, con uno scanner a ultrasuoni decorativamente stretto fra le dita. Da lì aveva un'ottima visuale dei due rami del corridoio che sfociava nell'atrio.

Dagli odori stabilì che il ristorante serviva prevalentemente carne proteica cresciuta in vasca, e che l'altro principale crimine contro il palato veniva commesso a base di verdure bollite. Irritato dalla salivazione che il pensiero del cavolo disidratato gli stimolava, tirò fuori il piccolo saldatore a laser e finse di controllare le batterie, continuando a scrutare i passanti. Pochi indossavano abiti civili. Quelli di Rotha avrebbero attratto lo sguardo assai più della tuta da lavoro. La maggior parte di quelle che vedeva erano verdi, e abbondavano anche quelle azzurro pallido dei militari di Aslund, pochi dei quali avevano un grado superiore a quello di sergente. Le altre erano grigie, o bianche, o azzurro-sporco come la sua. Che i Dendarii — gli Oserani, insomma — andassero a mangiare in una diversa zona della stazione? Stava considerando l'idea di cambiare posto — aveva già smontato e rimontato tre volte tutto quello che si poteva smontare — quando vide arrivare due figure in divisa grigia e bianca. Non erano facce che conoscesse, e li lasciò passare senza chiamarli.

Fu costretto ad ammettere la realtà di un fatto: dei tremila o forse più mercenari che potevano trovarsi nei dintorni della stazione di balzo aslundiana, lui ne conosceva sì e no trecento di vista e assai meno di nome. Era probabile che alla stazione militare non fosse attraccata più di una delle loro navi. E di questa frazione di una frazione, quante erano le persone di cui avrebbe potuto fidarsi? Cinque? Lasciò passare un altro quartetto di mercenari, anche se gli era parso che la bionda più anziana fosse un ingegnere della Triumph un tempo fedele a Tung. Un tempo. Il suo pessimismo era già piombato al livello della paranoia.

Ma la faccia olivastra accoppiata all'uniforme bianca e grigia che apparve dieci minuti dopo fece dimenticare a Miles i suoi languori di stomaco. Era il sergente Chodak, in compagnia di un altro. La sua fortuna aveva un ritorno di fiamma. Forse. Se fosse stato solo avrebbe corso subito il rischio, ma mettere in pericolo Gregor…? Be', troppo tardi per i ripensamenti: anche Chodak ormai l'aveva visto. Gli occhi dell'uomo si dilatarono per lo stupore, prima che la sua espressione si pietrificasse.

— Oh, giusto lei, sergente — disse Miles, battendo un dito sulla scatola dei contatti. — Le dispiacerebbe dare un'occhiata a questo interruttore, lei che se ne intende?

— Uh, certo. — Chodak fece un gesto al suo compagno, un graduato con l'uniforme degli aslundiani. — Scusami. Ti raggiungo fra un minuto.

Quando le loro teste furono vicine e le loro spalle rivolte al corridoio, Chodak sibilò: — Ma è impazzito? Cosa sta facendo qui? — Che avesse omesso l'abituale signore era un chiaro sintomo della sua agitazione.

— È una lunga storia. Ora, però, ho bisogno del tuo aiuto.

— Ma com'è arrivato qui? L'ammiraglio Oser la sta facendo cercare, e ha distaccato uomini su tutte le stazioni di transito. Neanche una pulce riuscirebbe a passare inosservata.

Miles sogghignò astutamente. — Ho i miei sistemi. — E si augurò che anche Chodak avesse i suoi, perché i limiti della provvidenza divina potevano essere pericolosamente esigui. — In questo momento ho bisogno di mettermi in contatto con la comandante Elena Bothari-Jesek. Con una certa urgenza. Oppure con il commodoro ingegnere Jesek. Si trova qui?

— La moglie del commodoro dovrebbe esserci. La Triumph è agli ormeggi qui. Il commodoro Jesek è fuori con una scialuppa, per non so quali riparazioni.

— Bene. Se Elena non fosse raggiungibile, vorrei parlare con Tung. O con Arde Mayhew. O col tenente Elli Quinn. Ma preferirei Elena. Dovresti dirle, e non dirlo a nessun altro, che ho con me il nostro vecchio amico Greg. Dille di cercarmi fra un'ora negli alloggi dei lavoratori a contratto, cabina di Greg Bleakman. Puoi farlo?

— Posso farlo, signore. — Chodak dimenticò l'uomo con cui era venuto e se ne andò in fretta, con aria preoccupata. Miles chiuse la scatola dei contatti, rimise a posto il pannello, prese su la cassetta degli utensili e si avviò in una direzione a caso, cercando di non sentirsi come se avesse una luce rossa lampeggiante sulla testa. Non si levò gli occhiali, tenne la faccia abbassata e scelse i corridoi meno popolati che vide. Il suo stomaco brontolava più che mai. Elena ti riempirà, gli promise fermamente. Ora non seccarmi. Un aumento nella percentuale di tute grigio-azzurre gli disse infine che doveva essere vicino agli alloggi dei «lavoratori a contratto», quello era il nome che accettava chi non voleva guai.

C'era una pianta elettronica degli alloggi. Lui esitò, poi batté: «G. Bleakman». MODULO B, CUBICOLO 8, fu la risposta del display. Miles trovò il modulo, controllò l'orologio — Gregor poteva benissimo non esserci, se lavoravano su tre turni — e bussò al cubicolo 8. La porta, priva di ammortizzatori, scivolò di lato con un sibilo d'aria compressa e un tonfo sordo. Gregor era lì, seduto con espressione stanca sul bordo di un lettino striminzito, e Miles entrò in fretta. Nessuno avrebbe negato al cubicolo il sacrosanto diritto di chiamarsi così: dentro di esso potevano alloggiare soltanto un uomo e la sua intimità. E tuttavia, psicologicamente, l'intimità era un lusso molto più prezioso dello spazio. Anche agli schiavi a contratto era opportuno distribuire una razione minima di felicità: avevano troppe possibilità di compiere sabotaggi perché li si dovesse spingere al limite della sopportazione.

— Siamo a posto — annunciò Miles. — Ho appena preso contatto con Elena. — E si gettò pesantemente a sedere sul lettuccio. D'un tratto si sentiva sfinito, lì dove poteva liberarsi della tensione come di un paio di scarpe strette portate tutto il giorno.

— Elena è qui? — Gregor si passò una mano fra i capelli. — Pensavo che tu volessi cercare quel tuo capitano Ungari.

— Elena è il primo passo per arrivare a lui. O per andarcene da qui con altri mezzi. Se Ungari non fosse il tipo che tiene la destra in tasca per non farle sapere quello che fa la sinistra, ora sarebbe molto più facile. Ma dobbiamo prendere le cose come vengono. — Scrutò il volto di Gregor, preoccupato. — Ti senti bene?

— Cinque ore a montare infissi leggeri non spezzano la spina dorsale di un uomo, posso assicurartelo — disse seccamente lui.

— È questo il lavoro che ti hanno dato? Be', temevo di peggio…

L'Imperatore sembrava un po' stanco ma in buona salute. Forse riusciva perfino a godersi certi aspetti della sua condizione di schiavo, con la tortuosa disposizione mentale che aveva assunto verso la vita. Magari dovremmo mandarlo un paio di settimane all'anno nelle miniere di sale, per tenerlo in pace con se stesso e contento del suo lavoro normale. Miles si rilassò un poco.

— È difficile immaginare Elena Bothari nei panni di una truce mercenaria — osservò Gregor, pensosamente.

— Non sottovalutarla. — Miles evitò di lasciar trapelare i suoi dubbi. Quasi quattro anni. Cosa ne era stato della Elena che aveva conosciuto? Gli anni potevano plasmare, modificare, distruggere. E gli esseri umani cambiano.… No. Gli era più facile dubitare di se stesso che di Elena.

La mezz'ora d'orologio che mancava ancora all'appuntamento fu una pausa poco riposante per Miles; abbastanza da rilassare il corpo, ma non il suo stato di tensione emotiva. Era miseramente conscio che la chiarezza e la capacità di concentrazione gli sfuggivano come sabbia fra le dita. Guardò di nuovo l'orologio. Un'ora era un termine troppo vago. Avrebbe dovuto precisare il minuto. Ma chi sapeva quali ritardi e difficoltà Elena poteva trovarsi a dover superare?

Miles si sfregò gli occhi con le dita accorgendosi, dalla confusione dei suoi pensieri, che si stava addormentando lì seduto. La porta si aprì con un sibilo senza che Gregor avesse abbassato la levetta dell'aria compressa.

— Eccolo! È qui dentro, uomini!

Una mezza squadra di mercenari in uniforme bianca e grigia riempì il corridoio, e due di essi attraversarono la porta del cubicolo. La loro aggressività, più che le pistole a raggi e gli storditori, disse subito a Miles che non potevano esser stati mandati da Elena. Balzò in piedi, sotto la spinta del flusso di adrenalina che scacciò la stanchezza dal suo corpo. E ora che faccio? Mi offro loro come bersaglio mobile? Indietreggiò lungo la cuccetta, senza poter far altro che imprecare, mentre Gregor si esibiva invece in un ringhioso tentativo di resistenza con un calcio che fece volar via di mano lo storditore al mercenario più vicino. Due uomini lo inchiodarono a viva forza contro una parete, strappandogli un grugnito di dolore. Miles dovette rassegnarsi.

Incuranti della sua sottomissione i mercenari lo immobilizzarono nella morsa di un raggio trattore. Il campo lo strinse come una rete ardente. Stavano usando abbastanza energia da domare un cavallo imbizzarrito. Chi diavolo pensate che io sia, ragazzi?

L'eccitato caposquadra gridò nel suo comunicatore da polso: — L'ho preso, signore!

Miles inarcò ironicamente un sopracciglio. Il caposquadra lo notò e perse un po' della sua spavalderia; d'un tratto parve consapevole dell'identità della persona che aveva davanti e gli rivolse una smorfia, quasi che fosse sul punto di scusarsi. Miles fece un sorrisetto. Ti sei ricordato che un tempo mi salutavi sull'attenti, eh? Il caposquadra strinse le labbra.

— Portateli via — ordinò agli altri.

Miles oltrepassò la porta sostenuto da due uomini, coi piedi che oscillavano ridicolmente a un palmo dal suolo. Mugolando irosamente nella presa di altri due, Gregor fu trascinato dietro di lui. Mentre giravano in un altro corridoio Miles vide la faccia di Chodak, che si ritraeva nell'ombra poco più in là.

C'era di che maledire la propria imbecillità. Pensavi d'essere un buon giudice delle persone, eh? Il tuo infallibile intuito, sicuro, davvero bravo. La indovini sempre, oh, la indovini sempre… lo tormentò la sua mente, come il becco di un mangiatore di carogne che rovistasse impietosamente in una carcassa.

Quando furono trasportati in un largo molo della stazione e da lì nel tubolare collegato a un portello di servizio, Miles seppe subito dov'era. La Triumph, la corazzata tascabile che ogni tanto aveva svolto il ruolo di nave ammiraglia della flotta, era di nuovo adibita a quelle funzioni. Tung, al momento relegato in un ruolo imprecisabile, un tempo era stato il comandante della Triumph, prima di Tau Verde. Oser aveva invece preferito come ammiraglia la sua Peregrine… c'era qualche significato politico in quel cambiamento? I corridoi interni erano impregnati di una forte, strana, dolorosa familiarità. Gli odori del metallo, degli esseri umani, del macchinario. Quell'arcata contorta, eredità dello speronamento durante il quale la nave e Miles avevano avuto il loro primo incontro, non era stata ancora raddrizzata bene… Credevo di aver dimenticato di più.

Furono portati avanti alla svelta e in segreto, con un paio di uomini che li precedevano per sgombrare i corridoi da eventuali testimoni. Quello sarebbe stato un colloquio privato, dunque. Meglio così, rifletté Miles. Avrebbe preferito fare del tutto a meno di rivedere Oser ma, se proprio doveva, tanto valeva cercare subito i vantaggi o gli svantaggi della situazione. Ordinò alla sua mente di scivolare nei panni tenuti da parte per quella circostanza: Miles Naismith, mercenario spaziale e misterioso faccendiere di dubbie origini, venuto nel Mozzo Hegen per… quali motivi? Ed il suo fedele assistente Greg Bleakman, naturalmente. Doveva pensare a una copertura plausibile per Gregor.

Furono trasportati oltre l'ingresso della sala tattica, il centro nervoso della Triumph durante le manovre belliche, e introdotti nella più piccola delle due stanze per le riunioni sull'altro lato del corridoio. La piastra olovisiva al centro del lungo tavolo ben lucidato era scura e silenziosa. Anche l'ammiraglio Oser, seduto all'estremità opposta alla porta, era scuro e silenzioso. Accanto a lui c'era un giovane tenente dai capelli biondi che Miles suppose essere la sua ombra fedele, una faccia che non ricordava di avere mai visto. Sia lui che Gregor furono spinti a sedere su due sedie, tirate alquanto indietro rispetto al tavolo in modo da lasciare la loro persona in vista da capo a piedi, quindi l'ammiraglio fece tornare in corridoio i suoi uomini, salvo uno che restò di guardia all'interno della porta.

L'aspetto di Oser non era cambiato molto in quei quattro anni, notò Miles. Ancora magro e severo, con fattezze aquiline, e forse qualche filo grigio in più alle tempie. Lui lo ricordava più alto, ma in realtà non superava la statura di Metzov… sì, in qualche modo ora Oser gli rammentava il comandante della Base Lazkowski. Che fosse l'età, la durezza da vecchio militare di carriera? O era lo sguardo ostile, quel bagliore omicida che sembrava stagnare rossastro in fondo agli occhi?

— Miles — borbottò Gregor a mezza bocca, — cos'hai fatto per irritare tanto questa gente?

— Io niente! — si difese lui, sottovoce. — Niente di proposito, almeno.

Gregor non ne parve affatto rassicurato.

Oser poggiò i palmi delle mani sul tavolo e si protese in avanti, fissando Miles con l'intensità di un predatore in caccia. Se avesse avuto una coda, immaginò lui, l'avrebbe sollevata rigidamente come un'antenna. — Cos'è venuto a fare lei, qui? — esordì l'uomo in tono ostile e senza preamboli.

Avevo la strana impressione che qualcuno mi avesse trascinato qui con la forza. Buffo, vero? No, non era il momento di fare lo spiritoso. Miles si accorse che l'eleganza dell'altro lo faceva sentire ancor più trasandato e malconcio. Ma all'ammiraglio Naismith questo non doveva importare; era uno che badava al sodo. Naismith avrebbe indossato la sua sporca tuta da operaio con indifferenza. Con voce altrettanto secca replicò: — Ho avuto l'incarico di valutare la situazione militare del Mozzo Hegen, per conto di un governo non direttamente impegnato le cui navi tuttavia transitano in questa zona. — Era una dichiarazione abbastanza allarmante perché Oser la ritenesse almeno una mezza verità. — Questo governo non intende alimentare malintesi con un intervento di soccorso a favore dei suoi cittadini che restassero bloccati nella zona dall'esplodere delle ostilità. Inoltre sto facendo un piccolo commercio d'armi, in via personale, più che altro come identità di copertura.

Oser strinse le palpebre. — È stato assoldato da Barrayar?

— Barrayar ha già i suoi agenti.

— Anche Cetaganda… Aslund ha motivo di temere le ambizioni dei cetagandani.

— Sarebbe strano se così non fosse.

— Ma Barrayar è più interessato.

— Questa è anche la mia opinione professionale. — Pur immobilizzato dalla rete d'energia Miles gli rivolse un breve inchino col capo. Oser sembrò sul punto di annuire in risposta, ma si trattenne. — Tuttavia Barrayar non è, oggi come oggi, in grado di minacciare Aslund. Per controllare il Mozzo Hegen, Barrayar dovrebbe prima prendere il controllo di Pol. E con un continente ancora da terraformare, più l'apertura alla colonizzazione del pianeta Sergyar, per il momento i barrayarani hanno già molte frontiere che assorbono i loro soldi. Inoltre devono ancora rinsaldare la presa su Komarr. Un'avventura militare ai danni di Pol sarebbe troppo per l'economia di Barrayar.

— Aslund deve guardarsi anche da Pol.

— È improbabile che i polani entrino in un conflitto, salvo che vengano aggrediti. Mantenere la pace con Pol è facile; basta restare inattivi.

— E Vervain?

— Non ho ancora valutato la posizione di Vervain. È il prossimo nome sulla mia lista.

— Ah, sì? — Oser si appoggiò all'indietro e incrociò le braccia. Non era un gesto rilassato in lui. — Potrei farla giustiziare come spia.

— Ma non sono una spia nemica. - Miles simulò un'indifferente ragionevolezza. — Tutt'al più si può dire che lavoro per un governo neutrale, oppure… chissà, un potenziale alleato.

— E quali sono i suoi interessi verso la mia flotta?

— Il mio interesse per i Denda… per i mercenari è puramente accademico, glielo assicuro. Siete semplicemente parte del quadro. Mi dica, che genere di contratto ha firmato con Aslund? — Miles inclinò la testa, parlando di bottega.

Oser fu lì per rispondere, poi strinse le labbra, irritato. Se lui fosse stato una bomba a orologeria ticchettante, il mercenario non avrebbe potuto studiarlo con più attenzione.

— Oh, andiamo — sospirò Miles, prima che il silenzio si prolungasse troppo. — Cosa pensa che potrei fare, con un solo attendente e senza altri appoggi?

— So cos'ha fatto l'altra volta. Lei arrivò nello spazio di Tau Verde con quattro persone, e quattro mesi dopo dettava già le sue condizioni a tutti. Cosa sta complottando, adesso?

— Lei sopravvaluta la mia attività. Io non ho fatto che aiutare la gente ad andare nella direzione in cui sarebbe comunque andata. Ho accelerato lo svolgimento dei loro affari, per così dire.

— Non dei miei. Io ho sudato tre anni per riguadagnare il terreno che lei mi aveva fatto perdere. Nella mia stessa flotta!

— È sempre difficile accontentare tutti. — Miles si accorse che Gregor lo guardava con orrore, e cercò di moderare il tono. In effetti, Gregor non aveva mai conosciuto l'ammiraglio Naismith. — Le confesso che ero convinto di non averla lasciata in una posizione svantaggiosa. Mi spiace che lei sembri pensare il contrario.

Le labbra di Oser si strinsero ancor di più. Accennò con un pollice a Gregor. — E questo chi è?

— Greg? È solo il mio attendente — s'affrettò a dire Miles, prima che lui aprisse bocca.

— Non sembra un attendente. Ha più l'aspetto di un ufficiale.

Gregor non si mostrò molto lusingato da quel giudizio.

— Se lei valuta la gente dall'aspetto fisico, può scambiare il commodoro Tung per uno scaricatore di porto.

Lo sguardo di Oser si raggelò all'istante. — Infatti. E da quanto lei è in corrispondenza con il capitano Tung?

Dal vuoto che sentì allo stomaco Miles comprese che menzionare Tung era stato uno sbaglio. Cercò di mimetizzare il disagio dietro un sorriso freddo e ironico. — Se fossi in contatto con Tung, non mi sarei preso il disturbo di venire personalmente a valutare le attività della Stazione Aslund.

Coi gomiti sul tavolo e le dita intrecciate Oser scrutò Miles in silenzio per un lunghissimo minuto. Infine puntò un dito verso l'uomo di guardia che fece un passo avanti. — Gettateli nello spazio — disse.

— Cosa? — ansimò Miles.

— Tu. — Il dito si volse al silenzioso tenente biondo. — Vai con loro. Accertati che siano eliminati senza troppi testimoni. Usate il portello esterno di poppa, è il più vicino. E se questo individuo — puntò il dito su Miles, — fa tanto di aprir bocca, mozzagli la lingua. È il suo muscolo più pericoloso.

La guardia spense il campo-rete intorno alle gambe di Miles e lo tirò in piedi.

— Non vuole neppure farmi interrogare chimicamente? — chiese lui, stordito da quell'improvvisa svolta degli eventi.

— E lasciarle contaminare la mente dei miei uomini? L'ultima cosa che voglio è lasciarle la possibilità di spargere nella flotta i germi del tradimento. Tantomeno fra quelli della mia sezione di controspionaggio. Qualunque veleno lei si sia preparato, il vuoto lo neutralizzerà. — Oser ebbe una smorfia acre. — Era quasi riuscito a convincere perfino me.

— Che diavolo… — Sì, stavamo recitando veramente bene. La guardia costrinse Gregor ad alzarsi, anche lui con le mani immobilizzate dietro la schiena. — Mi stia a sentire… — I due rnercenari in attesa all'esterno entrarono, li trascinarono alla porta e li misero in marcia nel corridoio. — Lei sta facendo un grosso errore… — La porta della sala riunioni si chiuse con un tonfo secco.

— La cosa si mette male, Miles — disse Gregor, in un difficile tentativo di autocontrollo. Era pallido. — Altre idee brillanti? Guarda però che siano migliori dell'ultima.

— L'uccello che ha voluto gettarsi fuori dal nido per volare con le sue ali sei tu. Se cercavi delle esperienze, stai per imparare che spesso è molto meglio farne a meno.

— So camminare da solo — ringhiò Gregor, divincolandosi, mentre li facevano voltare a destra. In fondo al corridoio era già in vista il primo portello di poppa. — Non ho bisogno di essere trascinato da una torma di… — Ci volevano tutte e tre le guardie per tenerlo fermo, adesso — maledetti plebei!

Miles non riusciva a pensare a niente. Con voce acuta tentò un bluff infantile: — Voi non sapete che occasione state perdendo, ragazzi! — esclamò. — Voi non immaginate che state per buttare fuori da quel portello la più grossa fortuna della vostra vita!

Due guardie continuarono a lottare con Gregor; la terza si voltò a guardare lui. — Grossa quanto?

— Casse di denaro, ecco cosa c'è in ballo — promise Miles. — Tanto da comprare due flotte come la vostra!

Il tenente biondo girò intorno agli altri e lo afferrò per una spalla, estraendo un coltello a vibrolama. Intendeva interpretare gli ordini di Oser orribilmente alla lettera, comprese Miles quando una mano cercò di fargli aprire la bocca. Per poco l'uomo non riuscì davvero ad afferrargli la lingua, agitando il coltello così vicino ai suoi occhi da farli lacrimare con le vibrazioni della lama. Ringhiando ferocemente Miles gli morse un dito, e uno spintone lo mandò a sbattere di traverso contro la parete. Il campo energetico che gli imprigionava le braccia ammortizzò il colpo e lo fece rimbalzare addosso agli uomini dietro di lui, uno dei quali cercò di bloccarlo infilando le mani nella rete d'energia e subito le ritrasse con un grido di dolore. Il mercenario lo respinse e Miles cadde, rotolando di peso contro le ginocchia del tenente. Non era esattamente una mossa di judo, ma l'uomo ne fu colto sbilanciato e si abbatté sopra di lui.

I due avversari di Gregor furono distratti sia dalle disperate contorsioni di Miles che dalla sanguinosa promessa della vibrolama che l'altro agitava nel tentativo di colpirlo. Non videro l'uomo di pelle olivastra che sbucò dall'incrocio del corridoio alle loro spalle, con lo storditore puntato. S'inarcarono convulsamente quando le scariche elettrostatiche li colpirono alla schiena mandando in corto circuito il loro midollo spinale, e caddero sul ponte. Il mercenario che s'era lasciato sfuggire Miles, e che stava cercando di bloccarlo contro la parete con un piede, si volse appena in tempo per essere investito da un'altra scarica in piena faccia.

Miles riuscì a gettarsi di spalla sul tenente biondo e lo bloccò — ahimè per pochi brevi istanti — col suo peso. Si girò, schiacciando il campo-rete d'energia sul volto dell'uomo; poi fu gettato da parte con una selvaggia imprecazione. La vibrolama gli sfiorò un orecchio. Il tenente s'era già alzato in ginocchio, torcendosi di lato in cerca del bersaglio, allorché Gregor lo centrò con un calcio sotto la mandibola. Un colpo di storditore che gli arrivò alla nuca lo scagliò al suolo esanime.

— Imboscata tecnicamente perfetta — ansimò Miles al sergente Chodak, nel silenzio che seguì. — Non credo che abbiano potuto vedere chi li ha colpiti. — Così avevo visto giusto in lui. Non ho perso il mio tocco, dopotutto. Che Dio ti benedica, sergente.

— Neppure voi ve la siete cavata male, per due uomini con le mani legate dietro la schiena. — Chodak scosse il capo con un sorrisetto teso, e corse subito avanti per liberarli dal campo-rete.

— Siamo una buona squadra — disse Miles.

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