Il mattino dopo, e con sua sorpresa, quando Miles arrivò in ufficio all'ora che supponeva fosse l'inizio del normale orario di lavoro, trovò il luogotenente Ahn sveglio, sobrio e in uniforme. Non che sembrasse esattamente in forma: seduto a spalle curve davanti a una consolle, faccia gonfia, respiro sibilante, l'uomo fissava con occhi stretti come fessure i colori di una carta meteorologica su uno schermo. Le linee delle isobare e delle perturbazioni si contorcevano confusamente sull'ologramma, in risposta ai segnali del telecomando che stringeva in una mano umida e tremante.
— Buongiorno, signore — disse Miles moderando rispettosamente il tono della voce, e chiuse la porta senza far rumore.
— Eh? — Ahn si volse, restituì automaticamente il saluto e sbatté le palpebre. — Cosa… chi diavolo è lei, uh, alfiere?
— Sono il suo sostituto, signore. Non le hanno detto che avrei preso servizio questa mattina?
— Ah, sì! — Ahn lo guardò meglio. — Certo, molto bene. Entri pure, alfiere. — Essendo già entrato, Miles si limitò ad annuire con un sorrisetto. — Avevo idea di venire a riceverla all'aeroporto — continuò l'uomo gettando un'occhiata all'orologio. — Vedo che è in anticipo. Ma sembra che abbia trovato la strada senza difficoltà.
— Sono arrivato ieri, signore.
— Oh. Avrebbe dovuto presentarsi qui a rapporto.
— L'ho fatto, signore.
— Ah! — L'ufficiale lo scrutò, preoccupato. — È venuto qui?
— Sì, signore. Come ricorderà, lei ha promesso che questa mattina mi avrebbe dato un completo orientamento tecnico sulle procedure di lavoro, signore — mentì Miles, visto che ne aveva l'opportunità.
— Oh. — Ahn esitò, perplesso. — Bene. — La sua espressione si distese un poco. — Già, naturalmente… — Si passò una mano sulla faccia e lo osservò senza parere. La sua reazione all'aspetto fisico di Miles si mantenne nei limiti di quel breve sguardo; dopo di che, forse decidendo che i preliminari sociali s'erano già svolti il giorno prima, cominciò subito a presentargli le apparecchiature allineate alla parete, da sinistra a destra.
Presentare era la parola esatta, visto che tutti i computer e le periferiche avevano nomi femminili. A parte la strana tendenza a parlare delle sue attrezzature come se fossero creature umane, ciascuna con pregi e difetti personali, Ahn sembrava abbastanza coerente quando entrava nei particolari delle procedure. Ogni tanto un'osservazione casuale lo portava a divagare su altri aspetti della sorveglianza meteorologica, finché poi s'interrompeva, con l'aria di non ricordare più cosa stava dicendo. Miles lo riportava allora sull'argomento con qualche domanda pertinente, e prendeva appunti. Dopo aver fatto due o tre giri della stanza grattandosi la testa Ahn riscoprì finalmente i dischi che contenevano i manuali d'istruzioni, ciascuno sotto il rispettivo equipaggiamento tecnico. Fece del caffè fresco con una caffettiera non automatica — Georgette, questo il suo nome — parcheggiata discretamente nell'angolo di uno scaffale, e quindi condusse Miles sul tetto dell'edificio per mostrargli le antenne delle stazioni periferiche e le attrezzature di rilevamento-dati.
Per una mezz'oretta Ahn gli descrisse barometri, collettori, sensori termici e impianti automatici per l'analisi delle precipitazioni atmosferiche e del loro contenuto. Poi il suo mal di capo sembrò peggiorare, malgrado le pillole che aveva buttato giù prima di uscire; tacque, e si appoggiò pesantemente alla ringhiera che circondava le apparecchiature, lasciando vagare lo sguardo sull'orizzonte lontano. Miles gli tenne dietro in doveroso silenzio mentre l'uomo indugiava per qualche minuto su ogni lato della sua stazione meteorologica, come se meditasse profondamente su ciascuno dei quattro punti cardinali. Se con quella pausa introspettiva si stava preparando a lasciare tutto dietro di sé, rifletté Miles, lui poteva invidiare il suo stato d'animo, mal di capo compreso.
Era un mattino pallido e chiaro, e il sole — Miles sapeva che era sorto alle due dopo mezzanotte — si stava alzando di traverso nel cielo. Poche settimane addietro c'era stata la più breve notte dell'anno a quella latitudine. Dal tetto dell'amministrazione, il punto più alto nel raggio di qualche chilometro, si poteva vedere l'intero panorama della Base Lazkowski e del piatto territorio che la circondava.
L'isola Kyril era una piattaforma di roccia lavica larga una settantina di chilometri e lunga circa 160, di forma vagamente ovale, e distava oltre cinquecento chilometri dalla più vicina costa degna di questo nome. «Spoglia e marroncina» erano i termini che avrebbero potuto descrivere tanto l'isola che la Base. La maggior parte degli edifici, inclusi gli alloggi ufficiali dove abitava Miles, erano semisepolti e avevano il tetto coperto da uno spesso strato di terreno locale. Nessuno aveva mai sprecato fondi per terraformare la zona circostante a scopi agricoli. L'isola manteneva la sua originale ecologia barrayarana, malridotta da decenni di uso e di abuso. Strati di spazzatura riciclata e pressata proteggevano anche i tetti delle baracche destinate alle reclute della fanteria, in quel periodo vuote e silenziose. Distese di pozzanghere e di fanghiglia costeggiavano le strade sterrate, i percorsi ad ostacoli e i larghi rettangoli dei campi da gioco e da addestramento.
A sud si scorgeva il mare, non molto mosso ma perennemente grigio sotto i raggi obliqui del sole. A nord, oltre la linea scura della tundra artica, si levava una catena di antichi vulcani spenti.
Miles aveva fatto il suo breve corso di addestramento sulle Scarpate Nere, una zona montagnosa al centro del secondo continente di Barrayar, nevosa e aspra, piena di pericoli, ma dove l'aria era sempre fresca e stimolante. Sull'isola Kyril invece, anche a fine estate, l'umidità salmastra dell'atmosfera si infiltrava sotto il parka e gli penetrava nella carne e nelle ossa, risvegliando nelle sue articolazioni vecchi dolori. Miles si massaggiò le braccia per scaldarsi, senza alcun effetto.
Appoggiato alla ringhiera, Ahn colse il suo movimento con la coda dell'occhio e si voltò a mezzo. — Allora, mi dica, uh, alfiere… lei ha qualche rapporto con il Vorkosigan? Me lo stavo chiedendo ieri mattina, quando ho letto che lei era destinato qui.
— È mio padre — disse Miles, senza guardarlo.
— Buon Dio. — Ahn sbatté le palpebre e fece per raddrizzarsi, poi ci ripensò e poggiò di nuovo studiatamente i gomiti sulla ringhiera. — Buon Dio — ripeté. Si mordicchiò un labbro, mentre nei suoi occhi brillava una luce di comprensibile curiosità. — E… che tipo è?
Che domanda è! pensò Miles, esasperato. Il Conte Aral Vorkosigan, l'ammiraglio. Il colosso della storia barrayarana di quell'ultimo mezzo secolo. Il conquistatore di Komarr, l'eroe della terribile ritirata da Escobar. Per sedici anni Reggente di Barrayar durante la travagliata infanzia dell'Imperatore Gregor, e quindi potentissimo e fidato Primo Ministro nei quattro anni trascorsi dall'incoronazione di Gregor. Il distruttore del Pretendente Vordarian, l'artefice della vittoria nella Terza Guerra Cetagandana, l'irriducibile tigre della pericolosa e aggressiva politica estera condotta da Barrayar negli ultimi due decenni. Il Vorkosigan.
Io l'ho visto ridere di pura gioia, in piedi sul ponte della barca, a Vorkosigan Surleau, gridando istruzioni eccitate mentre imparavo a tirare su la vela e a manovrare il boma e il timone tutto da solo. E l'ho visto piangere fino all'esaurimento e più ubriaco di quanto tu non fossi ieri, Ahn, la notte in cui giunse notizia che il maggiore Duvallier era stato giustiziato per spionaggio. L'ho visto esplodere di rabbia, così rosso in faccia che temevamo per il suo cuore, quando arrivavano i rapporti dettagliati sugli errori che avevano condotto all'ultima rivolta in Solstizio. L'ho visto aggirarsi per Casa Vorkosigan la mattina all'alba, in maglia e mutande, fra uno sbadiglio e l'altro, incitando mia madre insonnolita quanto lui ad aiutarlo a trovare un paio di calzini. Di lui non si può dire che «tipo» è. Lui è se stesso, originale, e come nessun altro.
— Si preoccupa per Barrayar — disse infine Miles, visto che il silenzio diventava imbarazzante. — È un… un esempio difficile da seguire. — E inoltre il suo unico figlio è un mutante deforme. Oh, sì, c'è anche questo da dire.
— Sì, questo lo immagino — borbottò Ahn sottovoce. Compassione. O forse era nausea, invece.
Miles decise che poteva sopportare la compassione di Ahn. Non sembravano esserci cenni della solita dannata paternalistica pietà, e neppure — singolare, questo — dell'ancor più solita malcelata ripugnanza. È perché sono qui come suo sostituto, decise. Potrei avere due teste e scaglie da rettile, e sarebbe ugualmente felice di vedermi.
— E questo che lei sta facendo? Segue le orme del grande uomo? — chiese Ahn pacatamente. Poi, con una sfumatura di dubbio: — Qui?
— Io sono un Vor — disse in fretta Miles. — Servo l'Imperatore. O almeno ci provo. Dovunque mi mandino. Questo è il patto.
Ahn scrollò le spalle con aria perplessa; Miles non avrebbe saputo dire se per la sua affermazione o per i capricci di un Servizio che l'aveva mandato sull'isola Kyril. — Be'… — Con un grugnito l'uomo si spinse in posizione eretta. — Niente allarmi wha-wha, oggi.
— Niente allarmi cosa?
Ahn sbadigliò. Poi batté una fila di cifre — dopo aver annusato l'aria e nient'altro, a quel che Miles poteva dire — sul computer tascabile dove aggiornava le previsioni giornaliere ora per ora. — Wha-wha. Nessuno le ha ancora parlato del wha-wha?
— Non credo…
— Be', avrebbero dovuto farlo, come prima cosa. Dannatamente pericoloso, il wha-wha.
Miles si chiese se Ahn si stesse divertendo a prenderlo per il bavero. Battute e atteggiamenti di quel genere, come aveva scoperto, potevano essere un sottile metodo per vittimizzare qualcuno, per arrivare a colpirlo aggirando la barriera del rango. L'odio che si sfogava in un pestaggio infliggeva soltanto dolore fisico.
Ahn si protese sulla ringhiera per indicare il terreno. — Ha notato tutte quelle corde distese fra un edificio e l'altro? Si trovano lì per quando arriva il wha-wha. E dovrà aggrappatisi saldamente, se non vuol essere soffiato via. Nel caso che perda la presa, comunque, ricordi di non allargare le braccia per cercare di fermarsi. Ho visto gente spaccarsi un polso in questo modo. Si chiuda a palla e rotoli.
— Cosa diavolo è il wha-wha, Signore?
— Un vento d'inferno. Improvviso. Ho cronometrato sette minuti, a volte, fra uno stato di calma totale dell'aria e raffiche di 160 chilometri orari, con una temperatura che da dieci gradi sopra zero scendeva a venti sotto. E può durare da un quarto d'ora a due giorni filati di seguito. Solitamente soffia da nord-ovest, qui, quando si verificano le condizioni adatte. La stazione automatica sull'altra costa ci dà un preavviso di una ventina di minuti. Qui abbiamo una sirena. Quando suona, significa che uno non deve farsi sorprendere all'aperto senza equipaggiamento invernale pesante, oppure a più di quindici minuti di distanza da un bunker. Ci sono bunker sparsi un po' dappertutto intorno al terreno d'addestramento, laggiù. — Ahn alzò un braccio per mostrargli la direzione. Sembrava molto serio, perfino ansioso. — Appena lei sente la sirena, corra al coperto il più presto possibile. Un uomo leggero come lei può essere trascinato da qui fino in mare, e una volta che sia finito in acqua nessuno lo ritrova più.
— Va bene — disse Miles, ripromettendosi di controllare quelle notizie sulle registrazioni meteorologiche della base alla prima occasione. Si protese per dare un'occhiata allo schermo del computer di Ahn. — Dove ha letto quelle cifre, signore? Quelle che ha appena battute.
L'uomo fissò il display, accigliato. — Be'… questi sono i dati precisi.
— Non mi riferivo alla loro precisione, signore — disse pazientemente Miles. — Quello che vorrei sapere è come le ha ottenute. Così domani potrò cercare di farlo io, mentre lei è ancora disponibile per correggere i miei errori.
Ahn agitò una mano con un gesto fra seccato e incerto. — Be'…
— Non è che lei se le sia immaginate, no? — disse Miles, che quel sospetto l'aveva.
— No! — esclamò Ahn. — Sono calcoli che faccio senza pensarci. È… l'odore dell'aria, direi, diverso da un giorno all'altro. — E inalò un lungo respiro, come per dimostrarlo.
Miles alzò la testa e annusò, in via sperimentale. Aria salmastra, fredda, odore di fango, umidità e muffa. E circuiti surriscaldati in qualcuna delle apparecchiature accanto a loro. Ma la temperatura, la pressione e l'umidità che c'erano in quel momento, e tantomeno quelle che ci sarebbero state nelle diciotto ore successive, non si trasformarono in cifre di alcun genere nelle sue narici. Accennò con un pollice verso i sensori termici e i barometri. — Per caso ha da darmi un odorimetro o qualcosa del genere, in modo che io possa ripetere quello che lei ha appena fatto?
Ahn sembrava sinceramente sorpreso, come se non avesse mai pensato che un ufficiale meteorologico potesse non disporre di un sistema di sensori interni simile al suo. — Mi spiace, alfiere Vorkosigan. Ci sono i normali programmi per ottenere le proiezioni computerizzate, naturalmente, ma a dire la verità io non li uso da anni. Non sono abbastanza precisi.
Miles lo fissò, e solo in quel momento comprese l'orrìbile verità. Ahn non stava scherzando, né lo prendeva in giro. Erano i suoi quindici anni di esperienza, funzionanti a livello inconscio, a svolgere il lavoro previsionale per cui era pagato. Anni di esperienza, e un risultato pratico che lui non avrebbe saputo come imitare. E neppure sarei così idiota da provarci, si disse.
Più tardi, nel pomeriggio, adducendo la ragione che gli occorreva subito un po' di pratica coi sistemi computerizzati, Miles ne approfittò per controllare negli archivi della Base le inattese dichiarazioni di Ahn. L'ufficiale non aveva affatto esagerato circa il wha-wha. Peggio ancora, gli aveva detto la pura verità anche sui programmi per le proiezioni meteorologiche: il sistema automatico computerizzato forniva previsioni climatiche locali precise solo all'86%, mentre per le previsioni a medio termine (settimanali) la percentuale si abbassava al 73%. Ahn e il suo naso magico riuscivano invece ad avere una percentuale di previsioni esatte del 96%, mentre per quelle a medio termine scendevano al 94%. Quando Ahn se ne andrà, l'esattezza delle previsioni dell'ufficio meteorologico di quest'isola avrà un calo dall'11 al 21%. È un fatto che sarà senza dubbio notato.
Occuparsi delle previsioni del tempo a Campo Cessofreddo era, chiaramente, una responsabilità maggiore di quanto Miles avesse creduto all'inizio. Sembrava anzi che da quelle parti il tempo sapesse rivelarsi molto sgradevole, o addirittura mortale.
E tutto ciò che questo tipo mi dice, prima di tagliare la corda e lasciarmi solo sull'isola con seicento uomini armati, è di annusare l'aria e stare attento ai wha-wha?
Il mattino del quinto giorno, quando Miles era quasi disposto ad ammettere che la sua prima impressione era stata troppo pessimista, Ahn non si fece vedere. Per oltre un'ora aspettò che il luogotenente e il suo naso venissero in ufficio a svolgere il loro compito quotidiano. Poi trasferì le letture degli strumenti nel computer, le affidò al programma per le previsioni standard e intanto che questo le elaborava uscì alla ricerca del collega.
Non lo trovò né alla mensa né al circolo ufficiali: Ahn era ancora nel suo alloggio, nel suo letto, e russava ubriaco fradicio, col riscaldamento al massimo e l'aria che puzzava di… brandy alla frutta? Miles avanzò nella stanza con una smorfia. Lo scosse per una spalla, gli diede alcuni schiaffetti e gli gridò in un orecchio, ma non servì a niente. Il solo risultato dei suoi tentativi fu un mugolio irritato, emesso il quale Ahn sprofondò di nuovo fra le sue coperte e i suoi miasmi. Con un certo rimpianto Miles scartò l'idea di trascinarlo sotto la doccia e prenderlo a calci finché avesse aperto gli occhi, e si rassegnò a fare il lavoro da solo. Quella sarebbe stata ben presto la sua sola scelta, in ogni modo.
A passi claudicanti uscì e andò nel reparto veicoli. Il mattino prima Ahn lo aveva portato con sé in un normale giro di manutenzione delle cinque stazioni climatiche per il rilevamento dati più vicine alla Base. La sesta e altre tre, più lontane, erano in programma per quel giorno. Nei viaggi di routine sull'isola Kyril si usava un fuoristrada da superficie chiamato motopulce, inizialmente progettato per i deserti dov'erano frequenti le tempeste di sabbia ma che la gente trovava molto più divertente da guidare delle slitte-antigrav. Le motopulci della Base erano piuttosto basse sul terreno, con una carrozzeria iridescente a forma di goccia, e benché inadatte alla tundra avevano il vantaggio di non lasciarsi spazzare via dalle raffiche del wha-wha. Il personale della Base, come Miles aveva capito da alcuni accenni, detestava abbreviare i percorsi o aggirare l'isola via mare con le slitte-antigrav, che non erano impermeabili al salmastro gelido e avevano lo spiacevole difetto di ballare all'unisono col moto ondoso.
Il reparto veicoli era uno dei tanti bunker semisepolti della Base Lazkowski, ma più grande degli altri. Miles andò a mettere una firma sul registro del caporale Olney, che Ahn gli aveva presentato il giorno prima, e si fece assegnare una motopulce. Anche il tecnico che tirò fuori il veicolo dal suo loculo sotterraneo e lo guidò fino alla rampa d'uscita non gli parve del tutto sconosciuto. Era alto, con una tuta da fatica nera e capelli neri — caratteristiche comuni all'80% degli uomini della base — ma solo quando aprì bocca lui riuscì a identificarlo: era uno dei due addetti ai carrelli i cui commenti lo avevano accolto dopo l'atterraggio. Miles stabilì che si sarebbe sforzato di ignorare altre provocazioni.
Su tutte le motopulci, per regolamento, doveva esserci un completo equipaggiamento di sopravvivenza per i climi freddi. Miles non trascurò di controllare con attenzione che i rifornimenti del veicolo fossero quelli elencati sulla lista prima di firmarla, come Ahn gli aveva insegnato. Il caporale Olney restò a guardarlo con aria sprezzante mentre lui frugava goffamente in ogni scomparto per accertarsi che ci fosse tutto. E va bene, sono lento, pensò Miles, irritato. Un novellino inesperto. E questo è il solo modo in cui so diventare meno novellino e meno inesperto. Un passo alla volta. Ma tenne la sua rabbia sotto controllo. Diverse tristi esperienze gli avevano già insegnato che quello era un pericoloso stato mentale. Concentrati su quello che stai facendo, non su chi ti guarda. Un pubblico di curiosi l'hai sempre avuto. E sempre lo avrai, puoi scommetterci.
Miles applicò la mappa trasparente sul display del quadro di comando, vi proiettò il suo itinerario e lo mostrò al caporale. Anche quella misura precauzionale era richiesta dal regolamento, come gli aveva detto Ahn. Olney ne prese visione con un grugnito e uno sguardo di noia duramente sopportata, comunicandogli così che se fosse rimasto in panne da qualche parte non doveva aspettarsi di vedere l'intera Base precipitarsi a soccorrerlo all'istante.
Il tecnico in tuta da fatica, Pattas, sporgendosi a guardare la mappa da sopra una delle diseguali spalle di Miles disse: — Oh, signor alfiere — con un tono così rispettoso che si poteva dubitare della sua ironia. — Vedo che si fermerà anche alla Stazione Nove.
— Sì?
— Per precauzione le converrebbe parcheggiare allora la motopulce, uh, per via del vento, sa, in una depressione che c'è giusto sotto la stazione. — Un dito sporco di grasso toccò la mappa, su una zona segnata in azzurro. — Qui. Vedrà il posto. Così sarà sicuro che il veicolo potrà ripartire.
— La batteria di questo motore può fargli attraversare un intero continente — disse Miles. — Perché non dovrebbe ripartire?
Olney ebbe un lampo negli occhi, ma subito tornò impassibile. — Certo, ma nel caso che arrivi improvvisamente il wha-wha lei non vorrà farsi spazzare via, no?
— Credevo che una motopulce potesse resistere anche a una tempesta di sabbia. È abbastanza pesante.
— Be', non dico che sarebbe spazzata via, però potrebbe rovesciarsi — borbottò Pattas.
— Capisco. Be', grazie.
Il caporale Olney tossicchiò. Pattas agitò allegramente una mano mentre Miles guidava su per la rampa.
Quando fu all'aperto un vecchio tic nervoso gli fece storcere il mento di lato. Trasse un lungo respiro, impose ai suoi nervi di rilassarsi e uscì dalla Base, sul territorio ondulato e fangoso. Qua e là crescevano dei grossi cespugli marroncini, ma erano così radi che poté dare potenza al motore e manovrare in modo divertente per evitarli. La velocità gli piaceva. Quant'era trascorso dall'ultima volta, un anno e mezzo? Due anni? All'Accademia Imperiale, per mettersi alla prova e dimostrare la sua competenza a ogni dannato istruttore aveva fatto molto motocross e guidato veicoli su ogni genere di terreno. Il terzo anno era stato l'opposto, mesi e mesi in aula davanti a un computer, e aveva quasi perso la mano alla guida. Un novellino! sbuffò fra sé. Sarebbe stato così ogni volta che lo avessero trasferito a un'altra destinazione? Probabile, ammise seccamente fra sé, e accelerò ancora su una lunga spianata.
Quel giorno faceva quasi caldo, il pallido sole sembrava più vivace lì fuori, e quando Miles giunse in vista della Stazione Sei, sulla riva orientale dell'isola, era di ottimo umore. Era un piacere esser solo, tanto per cambiare. Soltanto lui e il suo lavoro, e nessun pubblico. Poteva prendersi il tempo per ogni cosa e farla come andava fatta. Eseguì scrupolosamente la manutenzione di routine, sostituì le batterie, prelevò i contenitori di campioni, e collegò il minicomputer al registratore per assorbirne i dati; poi controllò che non ci fossero danni o Iracce di corrosione sui collegamenti elettrici. E se gli cadeva un utensile, lì non c'era nessuno a fare commenti sui mutanti spastici. In quella pace, il tic nervoso alla muscolatura della mandibola era de! tutto scomparso. Richiuse i pannelli, inspirò benevolmente una lunga boccata d'aria umida e apprezzò il lusso inconsueto della solitudine. Si prese perfino qualche minuto per passeggiare sulla scogliera, e osservò i resti delle piccole forme di vita marina che le onde avevano gettato a riva.
Uno dei raccoglitori di pulviscolo atmosferico della Stazione Sette era danneggiato, e il barometro aveva il vetro rotto. Per riparare i guasti gli occorse un'ora, e appena ebbe finito si accorse che il suo programma di marcia era stato ottimistico. Allorché si lasciò alle spalle la Stazione Otto il soie stava scendendo in una foschia crepuscolare, verdastra. E quando arrivò alla Stazione Nove, in una zona di tundra da cui emergevano alti spunzoni di roccia, presso la costa settentrionale, era quasi buio.
Scese lungo un declivio e parcheggiò la motopulce a circa duecento metri dagli impianti meteorologici, nella depressione che gli era stata raccomandata; accese la torcia elettrica e controllò di nuovo la carta dell'isola. La Stazione Dieci si trovava a una quota non indifferente fra le montagne vulcaniche e i ghiacciai. Meglio non provarci neppure, con l'oscurità. Comunicò il suo cambiamento di programma facendo rapporto via radio alla Base, 160 chilometri più a sud. L'operatore che ne prese nota non gli sembrò particolarmente interessato. Buon segno.
Dato che nessuno lo guardava, Miles ne approfittò per tirare fuori tutte le affascinanti attrezzature di sopravvivenza stivate nel retro della motopulce. Era più prudente impratichirsi del loro uso li, in condizioni climatiche favorevoli, che aspettare l'arrivo di una tempesta di neve. La piccola tenda-bolla a due posti — due posti per individui di corporatura normale, tutti per lui — quando fu aperta gli sembrò un palazzo. La posizionò sottovento rispetto alla motopulce, dopo aver calcolato che la depressione era a suo avviso un po' troppo ampia per offrire un vero riparo dal wha-wha.
Alla luce della torcia Miles rifletté sullo scarso peso della bolla di plastica. D'inverno, dicevano le istruzioni, andava appesantita ammucchiando la neve all'esterno, ma lì c'era solo una quantità di terreno umido e freddo. E sulla violenza del wha-wha gli era rimasta in mente una scena di un video mostratogli da Ahn: una latrina da campo, strappata via dal suolo, che rimbalzava via a una velocità di 150 chilometri all'ora. Abbastanza impressionante. Ahn non aveva saputo dirgli se nella latrina c'era qualcuno al momento di quella ripresa. Miles decise di attaccare la tenda-bolla all'assale della motopulce con una catena. Poi, soddisfatto, penetrò carponi nell'interno.
L'equipaggiamento era di prim'ordine. Fissò la torcia alla parete, appese al soffitto un calorifero tubolare e lo regolò sul minimo, sedendosi sotto di esso a gambe incrociate. Le razioni erano quelle dell'aeronautica, notò con un sorrisetto. Accese la stufetta a piastra e scaldò un vassoio sigillato contenente stufato di carne, riso in salsa piccante e insalata mista. Il succo di frutta, che preferì all'acqua minerale, era più che passabile. Dopo aver mangiato e messo via gli avanzi, srotolò una comoda stuoia imbottita, infilò il dischetto di un libro nel minicomputer e si preparò a lasciar trascorrere la breve notte artica.
Miles aveva conosciuto periodi di tensione nelle ultime settimane, prima degli esami. Gli ultimi tre anni erano stati duri. Il libro-disco, un romanzo betano a sfondo sociale che la Contessa gli aveva appioppato con altro materiale istruttivo, non aveva niente a che fare con Barrayar, il servizio militare, i mutanti, la politica o la meteorologia. Prima che se ne accorgesse stava già cominciando ad appisolarsi.
Si svegliò con un ansito, strizzando gli occhi nella debole luce arancione che usciva dal calorifero tubolare. Sapeva di aver dormito a lungo, ma oltre il settore trasparente della tenda-bolla c'era una profonda oscurità. Un panico irragionevole lo attanagliò alla gola. Dannazione, cercò di dirsi, cosa importa, qui, se ho dormito troppo? Non sono certo in ritardo per un esame. Ma perché era buio? Guardò il display dell'orologio da polso.
Avrebbe dovuto essere giorno da un pezzo.
Le pareti flessibili della tenda-bolla erano piegate all'interno. Non restava neppure un terzo dello spazio originale, e il pavimento s'era deformato. Miles premette le mani sulla fredda plastica. Il materiale cedette lentamente, come burro tenero, e mantenne la cavità che lui aveva prodotto. Cosa diavolo…?
Il sangue gli pulsava nelle tempie e lui aveva la gola secca; l'aria era umida e maleodorante. Puzzava di… mancanza di ossigeno ed eccesso di anidride carbonica, come in una capsula spaziale d'emergenza. Lì dentro? Il senso di disorientamento gli diede le vertigini, come se il pavimento sussultasse.
Il pavimento stava sussultando, s'accorse, indignato, quando una spinta dal basso lo fece rovesciare su un fianco. Dalla gamba destra gli salì una fitta di dolore. Riuscì a distenderla e giacque sulla schiena, lottando contro il panico indotto dall'anidride carbonica. Doveva respirare lentamente, e pensare in fretta.
Sono finito sottoterra. Assorbito nelle sabbie mobili o qualcosa del genere. Magari fango congelato, che il calore della tenda e della motopulce aveva fatto sciogliere. Possibile che i due bastardi del reparto veicoli gli avessero fatto uno scherzo così carogna? E lui c'era cascato, anzi c'era completamente sprofondato.
Fango semisolido, forse. La motopulce non era affondata in modo visibile nel tempo che lui aveva impiegato a montare la tenda. In caso contrario avrebbe capito che quella zona era una trappola. Ma era arrivato lì col buio, naturalmente. Certo che, se non avesse fatto lo sbaglio di mettersi a dormire…
Rilassati! si impose, freneticamente. La superficie della tundra e l'aria fresca dovevano essere solo una decina di centimetri più in alto. O dieci metri… Rilassati! Frugò attorno alla ricerca di qualcosa da usare come sonda. Fra gli attrezzi c'era un sottile tubo telescopico con l'estremità cava, affilata, per estrarre campioni di ghiaccio dal terreno. No, era rimasto insieme alla radio da campo sul sedile posteriore della motopulce. La quale si trovava, cercò di calcolare Miles dall'angolazione del pavimento, circa due metri e mezzo più ad ovest e più in basso della sua posizione attuale. Era il peso della motopulce che lo stava trascinando giù. La tenda-bolla, da sola, avrebbe dovuto galleggiare su quella maledetta fanghiglia congelata. Se fosse riuscito a staccare la catena sarebbe tornato a galla? Non abbastanza in fretta. Gli sembrava già di avere i polmoni pieni di cotone. Doveva uscire da lì al più presto o sarebbe morto asfissiato. Morto e sepolto. Sarebbero stati presenti anche i suoi genitori quando alla fine l'avessero trovato? Quando una scavatrice avesse tirato fuori il veicolo grondante di fango, e poi la tenda schiacciata e deforme… e dentro di essa il suo corpo congelato, come in un'orrida placenta partorita dalla palude… Rilassati!
Si alzò e premette le mani contro il soffitto: solido e pesante. I suoi piedi affondavano nel pavimento, ma in qualche modo riuscì a staccare dalla parete una delle costole d'alluminio, contorta come una serpe. Lo sforzo lo fece quasi svenire. Trovò la parte più alta della tenda e spinse la costola contro la plastica molle finché non la sentì cedere. Non voleva squarciarla troppo, per timore che la melma schizzasse giù nell'interno e lo facesse annegare in pochi secondi; ma quella che gli colò lungo le braccia fu una melassa semisolida, che pioveva attorno con lenti plop. L'odore e il colore erano repellenti quanto la sua consistenza. Dio, e pensare che credevo d'essere stato altre volte nella merda fino al collo.
Spinse la costola verso l'alto e la sentì affondare, ma con più resistenza del previsto. Spinse ancora, mentre l'alluminio scivolava fra le sue mani sudate. Non erano pochi centimetri. Neppure mezzo metro. Un metro, un metro e trenta, e la costola finì. Fece una pausa e cercò di agitare e ruotare la sua sonda improvvisata. C'era meno resistenza all'altra estremità? Era sbucata alla superficie? La tirò indietro e la spinse di nuovo all'insù, ma ottenne solo di farsi grondare altra fanghiglia sulla testa e non riuscì a capire in cosa stava frugando.
Forse, forse, fra la cima della tenda-bolla e l'aria libera c'era qualcosa di meno della sua altezza. Abbastanza spazio da restarci per sempre. A che velocità si chiudeva un buco in quella melma? I suoi occhi cominciavano a non vedere più niente, e non perché la luce rossa del calorifero stesse diminuendo. Staccò il tubolare e se lo ficcò in una tasca della giacca. Il buio in cui rimase immerso lo riempì d'orrore, ed esitò. O forse era il senso di soffocamento, l'anidride carbonica. Ma doveva essere ora o mai più.
D'impulso si chinò davanti all'apertura della tenda-bolla, cercò a tentoni la cerniera e la spalancò. Subito fu costretto a gettarsi a testa in avanti nella melma che fiottava nell'interno, scavandosi la strada come una talpa nel gelido marasma semiliquido. Uscì dal suo rifugio con una contorsione disperata e si spinse verso l'alto.
I polmoni gli stavano scoppiando e nelle pupille aveva soltanto una nebbia rossa quando la sua testa emerse finalmente in superficie. Aria! Annaspò nella fanghiglia, sputacchiando e sbattendo le palpebre nel vano tentativo di togliersela dal naso e dagli occhi. Tirò fuori una mano e poi l'altra, conscio che doveva trascinare su anche i piedi per galleggiare in posizione orizzontale. Ma il freddo intorpidiva perfino la sua capacità di pensare. La melma cercava di risucchiarlo in basso, stringendogli le gambe come l'abbraccio di una strega. Poi s'accorse che aveva le scarpe a contatto della tenda-bolla. Spinse verso il basso, le scarpe affondarono e la sua testa risalì di un centimetro. Questo fu il massimo che ottenne dal solo punto d'appoggio che aveva. Ora avrebbe dovuto nuotare. Sentì una radice sottile fra le dita e tirò; la radice cedette mollemente ma infine si tese e fece resistenza. Miles vi si aggrappò e continuò a tirare, con cautela per non spezzarla. Questo era già un progresso, e la sua gola si stava saziando d'aria respirabile. Appena ritrovò le forze cominciò ad agitare i piedi per strapparli alle braccia della strega.
Le sue gambe scivolarono fuori dai pantaloni, lasciandosi dietro anche le scarpe, e pian piano le sollevò in superficie. Per un poco fece il morto, con gli arti spalancati in croce per avere il massimo appoggio su quel fango traditore, gli occhi fissi in un cielo pieno di nuvole grigie. Indossava ancora, pesanti e inzuppate, la giacca dell'uniforme e la biancheria. Uno dei suoi calzini termici era andato, insieme alle scarpe e ai pantaloni.
Stava cominciando a grandinare.
Lo trovarono dodici ore più tardi, rannicchiato sopra il piccolo calorifero tubolare ormai quasi spento, in mezzo ai pannelli aperti della stazione meteorologica automatica. Aveva gli occhi cerchiati di nero, gli orecchi e i piedi bianchi come il gesso. Intorno al pollice e all'indice della sua mano destra erano attorcigliati due fili elettrici, messi a nudo, e le dita si aprivano e si chiudevano battendo con ipnotica regolarità il codice d'emergenza del Servizio. I fili erano quelli del barometro, il cui segnale poteva essere letto solo su un quadrante nell'ufficio meteorologico della base. Se e quando qualcuno avesse notato i difetti di lettura degli strumenti di quella particolare stazione. Se e quando qualcuno avesse capito che fra le scariche statiche c'era un segnale.
Le sue dita continuarono a battere quel ritmo anche dopo che l'ebbero tolto da lì, e crepitanti strati di ghiaccio si staccarono dalla giacca dell'uniforme quando raddrizzarono il suo corpo rigido e lo stesero su una barella. Gli chiesero spiegazioni, ma era troppo debole e non riuscirono a fargli uscire nulla di bocca, a parte il respiro rauco e sibilante. La risposta brillava soltanto nei suoi occhi.