Era da lunedì mattina che non riuscivo a contattare Deborah. La chiamavo di continuo, tanto che avevo persino imparato a memoria la voce nella segreteria, lei però non rispondeva. Era sempre più frustrante. Mi si prospettava una via d’uscita dall’asfissiante controllo di Doakes e non riuscivo a fare un passo più in là del telefono. È terribile dover dipendere dagli altri.
Ma le mie virtù da boyscout contemplano anche la pazienza e la perseveranza. Lasciai dozzine di messaggi, tutti allegri e brillanti. E il mio ottimismo deve aver funzionato, perché alla fine ricevetti una risposta.
Ero seduto alla scrivania, stavo terminando una relazione su un caso di duplice omicidio, piuttosto banale. Un’unica arma, forse un machete, e pochi istanti di follia. Le prime ferite erano state inferte sul letto, dove apparentemente le vittime erano state colte in flagrante. L’uomo era riuscito a sollevare un braccio, anche se un po’ troppo tardi per proteggersi la gola. La donna stava correndo verso la porta quando era stata colpita alla parte superiore della spina dorsale, spruzzando fiotti di sangue sulla parete vicino allo stipite. La solita routine che caratterizzava gran parte del mio lavoro e lo rendeva estremamente spiacevole. Due esseri umani contengono così tanto sangue che, quando qualcuno decide di farglielo schizzare fuori tutto in una botta, crea un caos inimmaginabile, che offende il gusto. Classificarlo e analizzarlo mi fa sentire molto meglio e trovo che in quei momenti il mio lavoro possa riservare delle soddisfazioni.
Ma stavolta avevano davvero esagerato. Avevo trovato uno schizzo sul ventilatore da soffitto, forse proveniente dalla lama del machete mentre l’assassino alzava il braccio tra un colpo e l’altro. E siccome le pale giravano, c’erano macchie di sangue anche negli angoli più lontani della stanza.
Era stata una giornata dura per Dexter. Proprio mentre stavo componendo un paragrafo del rapporto teso a spiegare che si trattava del cosiddetto «delitto passionale», squillò il telefono.
«Ehi, Dex», disse la voce. Era così tranquilla, quasi addormentata, che mi ci volle un attimo prima di capire che si trattava di Deborah.
«Dunque», osservai, «le dicerie sulla tua morte erano ingiustificate.»
La sua risata suonava distesa, non nevrotica come al solito. «Sì», rispose, «sono ancora viva. Ma Kyle mi ha tenuto molto impegnata.»
«Rammentagli i diritti dei lavoratori, sorellina. Anche i sergenti hanno bisogno di riposo.»
«Mmm, non so», replicò. «Anche senza sto davvero bene.» E scoppiò in una risatina roca che non era da lei; ci mancava solo che mi chiedesse qual era il modo migliore per fare a pezzi un essere umano.
Tentai di ricordare in quale altra occasione Deborah avesse dichiarato di stare «davvero bene» senza mentire. Non mi venne in mente nulla. «Sembri molto strana, Deb», notai. «Che cosa diavolo ti è successo?»
Stavolta la sua risata fu un po’ più lunga, ma sempre allegra. «Il solito», rispose. Scoppiò di nuovo a ridere. «Comunque, cosa c’è?»
«Oh, nulla», risposi innocentemente. «La mia unica sorella scompare per giorni e notti senza dirmi una parola e finalmente ricompare come se fosse uscita da La sergente perfetta. Ammetterai che possa essere curioso di sapere che cosa diavolo sta succedendo, no?»
«Diamine», ribatté lei. «Sono commossa. Mi sembra quasi di avere per fratello un essere umano.»
«Spero che continui a restare un quasi.»
«Che ne dici se pranziamo insieme?»
«Ho già appetito», dissi. «Relampago?»
«Mmm, no. Perché non andiamo all’Azul?»
Immaginai che la scelta del ristorante desse un senso ulteriore al suo comportamento precedente, che di senso non ne aveva. A Deborah piaceva mangiare alla buona e l’Azul era il classico posto dove pranzava la famiglia reale saudita quando veniva in città. A prima vista, la sua trasformazione in aliena sembrava ormai completata.
«All’Azul, di sicuro. Vado a vendere la macchina per pagare il pranzo e ti raggiungo là.»
«All’una», aggiunse. «E non preoccuparti per i soldi. Paga Kyle.» Riattaccò. In verità non saltai su con un «Aha!» ma mi si accese una lucina.
Avrebbe pagato Kyle, eh? Bene, bene. E pure all’Azul.
Se la scintillante e pacchiana South Beach era la zona di Miami riservata alle aspiranti celebrità, l’Azul era il luogo adatto per gli amanti del glamour. I piccoli caffè che affollavano South Beach facevano a gara per attirare l’attenzione, strombazzando con insistenza felicità a buon mercato. L’Azul al paragone era così discreto che ti veniva da chiederti se i proprietari avessero mai visto anche solo una puntata di Miami Vice.
Affidai l’auto all’addetto al parcheggio in una piccola area lastricata di fronte al locale. Ci tengo alla mia macchina, ma ammetto che non faceva una gran figura davanti alla fila di Ferrari e Rolls-Royce. Comunque l’addetto non si rifiutò di parcheggiarla, anche se deve aver indovinato che non avrebbe ricevuto la mancia a cui era abituato. Suppongo che la mia camicia da bowling e i miei pantaloni color kaki testimoniassero senza ombra di dubbio che non avevo titoli al portatore o monete d’oro da rifilargli.
Il ristorante era così scuro e silenzioso che avresti potuto sentir cadere un’American Express Oro. Sulla parete opposta, in vetro fumé, una porta conduceva fuori in terrazza. E Deborah era lì, seduta a un tavolino d’angolo, che guardava il mare. Di fronte a lei, rivolto verso l’interno del locale, c’era Kyle Chutsky, l’uomo che avrebbe pagato il pranzo. Portava un paio di occhiali da sole molto costosi e quindi, forse, l’avrebbe fatto davvero. Mi avvicinai al tavolo e si materializzò un cameriere che mi tirò indietro una sedia, di certo troppo pesante per tutti quelli che potevano permettersi di mangiare lì. Di fatto il cameriere non fece un inchino, ma si vedeva che gli costava sforzo.
«Ehi, amico», esordì Kyle mentre mi sedevo. Mi porse la mano attraverso la tavola. Dato che sembravo essere diventato il suo nuovo amico, mi protesi verso di lui e gliela strinsi. «Come va la storia delle macchie?»
«Ho sempre un sacco di lavoro», risposi. «E come va la storia del misterioso visitatore da Washington?»
«Meglio di così», replicò. Mi tenne la mano nella sua per un po’. Abbassai lo sguardo; aveva le nocche appiattite, come se avesse passato troppo tempo ad allenarsi contro un muro di cemento. Batté la mano sinistra sul tavolo e io lanciai un’occhiata al suo anello da mignolo. Era stranamente effeminato, sembrava quasi un anello da fidanzamento. Quando finalmente mi lasciò andare, sorrise e si girò verso Deborah, anche se con quegli occhiali era impossibile dire se la stesse guardando.
Lei ricambiò il sorriso. «Dexter era in pena per me.»
«Naturale», fece Chutsky, «altrimenti a cosa servono i fratelli?»
Deborah mi guardò. «È quello che mi chiedo, a volte.»
«Be’… lo sai che ti faccio da guardaspalle, Deborah», replicai.
Kyle sghignazzò. «Ottimo. E io ti guardo il resto», aggiunse, ed entrambi risero. Lei si allungò in avanti e gli prese la mano.
«Tutta questa gioia e questi ormoni mi fanno saltare i nervi», dissi. «Raccontatemi un po’… qualcuno ha intenzione di catturare quel mostro disumano oppure dobbiamo continuare a starcene qui a fare battutine?»
Kyle si voltò verso di me e alzò un sopracciglio. «Amico, perché ti interessa questa storia?»
«Dexter ha una passione per i mostri disumani», intervenne Deborah. «Una specie di hobby.»
«Un hobby», ripeté Kyle, senza staccarmi gli occhiali di dosso. Immagino intendesse spaventarmi, ma per quello che ne so poteva anche avere gli occhi chiusi. In ogni caso, riuscii a non tremare.
«È un profiler dilettante», aggiunse Deborah.
Per un po’ Kyle rimase immobile e mi domandai se si fosse addormentato dietro le lenti scure. «Uh», borbottò infine, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Allora, che cosa ne pensi di quel tipo, Dexter?»
«Per ora ho solo gli elementi base», affermai. «Si tratta di qualcuno con una grande esperienza in campo medico e coinvolto in operazioni segrete. Ne esce schizzato e con il bisogno di dimostrare qualcosa, forse ha a che fare con l’America Centrale. Probabilmente programmerà la volta successiva non tanto perché non può farne a meno, ma in modo da avere la massima risonanza. Dunque non abbiamo a che fare con il classico serial… Come?»
Kyle aveva smesso di sorridere e si era drizzato sulla sedia, stringendo i pugni. «Che cosa intendi per America Centrale?»
Ero piuttosto sicuro che entrambi sapessimo che cosa intendevo, ma pensai che dire «Salvador» sarebbe stato davvero troppo; non volevo perdere le mie credenziali di profiler dilettante. Tuttavia l’unico scopo della mia venuta era scoprire qualcosa su Doakes e quando ti accorgi di avere una possibilità… Be’, ammetto che sarebbe stato un po’ scontato, ma a prima vista funzionava. «Oh», risposi. «Non ho detto bene?» Tutti gli anni di pratica nell’imitare gli esseri umani mi permisero di sfoggiare la mia migliore espressione di innocenza mista a curiosità.
Apparentemente Kyle non riusciva a stabilire se avessi detto bene oppure no. Strinse la mascella e aprì i pugni.
«Avrei dovuto avvisarti», osservò Deborah. «Lui è in gamba in queste cose.»
Chutsky fece un lungo respiro e scosse il capo. «Già», osservò. Con visibile sforzo tornò ad appoggiarsi allo schienale e riprese a sorridere. «Niente male, amico. Come ci sei arrivato?»
«Oh, non lo so», risposi umile. «Mi sembrava naturale. Il difficile è capire in che modo vi sia coinvolto il sergente Doakes.»
«Gesù Cristo», esclamò, e strinse i pugni ancora una volta.
Deborah mi guardò e si mise a ridere. Non era la stessa risata che aveva rivolto a Kyle, ma era comunque bello sapere che si ricordava che facevamo parte della stessa squadra. «Te l’avevo detto che era in gamba», ribadì.
«Gesù Cristo», ripeté Kyle. Mosse inconsciamente l’indice, come se premesse un grilletto invisibile, poi si girò verso Deborah. «Hai detto bene», fece e tornò a guardare nella mia direzione. Restò a fissarmi per un po’, con durezza, forse voleva vedere se mi sarei precipitato alla porta o avrei cominciato a parlare arabo. Infine annuì. «Che cos’è questa storia del sergente Doakes?»
«Non è che vuoi solo sputtanarlo, vero?» mi domandò Deborah.
«Nella sala riunioni del capitano Matthews, quando Kyle ha visto Doakes per la prima volta, c’è stato un momento in cui ho pensato che si riconoscessero a vicenda.»
«Non me ne sono accorta», ammise Deborah accigliata.
«Eri impegnata ad arrossire», ribattei. Lei arrossì un’altra volta, il che mi fece pensare che fosse un po’ ripetitiva. «Per di più, Doakes è l’unico che, davanti alla scena del crimine, ha saputo chi chiamare.»
«Doakes è al corrente di alcune cose», ammise Chutsky. «Per via del suo servizio nell’esercito.»
«Che tipo di cose?» mi incuriosii. Chutsky mi studiò a lungo, o almeno così fecero i suoi occhiali. Tamburellò sul tavolo con quello stupido anello da mignolo e l’enorme diamante incastonato nel centro brillò al sole. Quando alla fine parlò, sembrava che al nostro tavolo la temperatura fosse scesa di almeno cinque gradi.
«Amico», esordì. «Non voglio metterti nei casini… lascia perdere questa storia. Fai marcia indietro. Cercati un altro hobby. Altrimenti finisci nella merda e qualcuno tirerà lo sciacquone.» Prima che potessi trovare qualcosa di memorabile con cui ribattere, il cameriere si rimaterializzò accanto a Kyle. Chutsky continuò a tenere gli occhiali rivolti nella mia direzione. Poi porse il menù al cameriere. «Qui fanno un’ottima bouillabaisse», dichiarò.
Deborah sparì per il resto della settimana, il che non contribuì molto alla mia autostima: infatti fu terribile per me ammettere che senza il suo aiuto ero bloccato. Non mi veniva in mente nessun piano alternativo per sbarazzarmi di Doakes. Era sempre lì, fermo sotto l’albero di fronte al mio appartamento, o dietro di me fino a casa di Rita. Non sapevo che fare. Il mio cervello un tempo intrepido si mordeva la coda e batteva l’aria.
Sentivo il Passeggero Oscuro gemere e lamentarsi. Tentava di balzare fuori e afferrare il volante, ma c’era Doakes in agguato al di là del parabrezza che mi obbligava a frenarmi e a prendere un’altra lattina di birra. Avevo lavorato sodo e a lungo per conquistarmi la mia piccola esistenza perfetta e non avevo intenzione di distruggerla ora. Il Passeggero e io potevamo attendere ancora un po’. Harry mi aveva dato una disciplina e ciò significava aspettare giorni migliori.
«La pazienza», iniziò Harry. Si interruppe per tossire in un Kleenex. «La pazienza conta più dell’intelligenza, Dex. Tu intelligente lo sei già.»
«Grazie», risposi. E lo dissi per educazione, sul serio, perché sedere nella stanza d’ospedale di Harry non mi faceva sentire per niente a mio agio. L’odore di medicinali, disinfettante e urina uniti all’atmosfera di sofferenza e morte mi faceva desiderare di essere in qualunque altro posto. Naturalmente, da giovane mostro inesperto quale ero, non mi ero mai chiesto se Harry non desiderasse la stessa cosa.
«Nel tuo caso, devi essere ancora più paziente, perché a un certo punto ti crederai così intelligente da poter farla franca», continuò. «Ma tu non lo sei. Nessuno lo è.» Si interruppe e tossì un’altra volta, ora più a lungo e più forte. Era davvero troppo vedere Harry ridotto in quello stato, Harry l’indistruttibile, il superpoliziotto, il mio patrigno Harry che tremava, arrossiva e quasi piangeva per la fatica. Dovevo girarmi da un’altra parte. Quando poco dopo tornai a guardarlo, lui era di nuovo lì che mi osservava.
«Io ti conosco, Dexter. Meglio di quanto tu conosca te stesso.» E questo non era così incredibile rispetto a ciò che aggiunse dopo: «In fondo sei un bravo ragazzo».
«Non è vero», dissi, e mi vennero in mente le cose sublimi che allora non ero autorizzato a fare; anche solo pensarle non aveva molto a che vedere con la bontà. Senza contare che gli altri bravi ragazzi miei coetanei, pieni di brufoli e di ormoni, mi assomigliavano quanto io assomigliavo a uno scimpanzé. Harry però non voleva darmi retta.
«Certo che lo sei», insisté. «E devi crederci. Hai il cuore al posto giusto, Dex.» E scoppiò in un memorabile attacco di tosse, che durò parecchi minuti. Poi Harry tornò ad appoggiarsi, sfinito, sul cuscino. Chiuse gli occhi per un istante, ma quando li riaprì erano sempre i suoi, azzurro acciaio, più luminosi che mai sul suo volto pallido e morente. «Pazienza», ripeté. E la parola risuonò con forza, nonostante lui si sentisse debole e dolorante. «Il tuo cammino è ancora lungo, Dexter, e io non ho più molto tempo.»
«Sì, lo so», mormorai.
Lui chiuse gli occhi. «È questo che intendo», fece. «Di solito si dice ’No, non temere… hai ancora tempo’.»
«Tu non ne hai», affermai, senza sapere dove volevo arrivare.
«No, non ne ho», ammise, «ma gli altri fingono. Per farmi sentire meglio.»
«E ti senti meglio?»
«No», mormorò e riaprì gli occhi. «Però non puoi usare la logica per capire gli uomini. Devi avere pazienza, osservare, imparare. Altrimenti, mandi tutto all’aria. Ti fai catturare e… Questo è metà del mio testamento.» Richiuse gli occhi e sentii la sua voce tremare. «Tua sorella diventerà un bravo poliziotto. Tu…» sorrise lento e con un’ombra di tristezza, «tu sarai qualcos’altro. Pura giustizia. Ma solo se sarai paziente. Se non puoi fare qualcosa subito, Dexter, aspetta finché non verrà il momento.»
Sembrava tutto così complicato per un aspirante mostro diciottenne. Volevo soltanto fare Quella Cosa, niente di più, danzare alla luce della luna agitando la lama luccicante — un gesto molto semplice, dolce e naturale — per dare un taglio a tutte le idiozie e penetrare nel cuore delle cose. Ma non potevo. Harry la faceva difficile.
«Non so che cosa farò dopo la tua morte», confessai.
«Farai le cose per bene», rispose lui.
«C’è così tanto da ricordare.»
Harry allungò la mano e premette il pulsante attaccato a un filo, accanto al letto. «Te ne ricorderai», disse. Lasciò andare l’interruttore, che ricadde pesantemente lungo la sponda del letto, come se gli rubasse le ultime forze. «Te ne ricorderai.» Chiuse gli occhi e per un po’ rimasi come solo nella stanza. Poi arrivò l’infermiera con una siringa e Harry aprì un occhio. «Non sempre è possibile fare ciò che dobbiamo. Quindi, quando non puoi fare altro, aspetta», affermò, distendendo il braccio per la puntura. «Non avere timore… della pressione… a cui potrebbero sottoporti.»
Lo osservai giacere, e ricevere l’ago senza battere ciglio; sapeva che il sollievo sarebbe stato temporaneo, che la sua fine si avvicinava e non poteva farci nulla… E sapeva anche che non aveva paura, che si sarebbe comportato nel modo giusto, come aveva sempre fatto durante la sua vita. E anch’io lo sapevo: Harry mi aveva capito. Nessuno ci era mai riuscito e nessuno ci riuscirà mai, ora e sempre. A parte Harry.
L’unico motivo per cui ho pensato di trasformarmi in essere umano era per diventare un po’ più simile a lui.