21

Forse il sergente Doakes non si ricordava più che era lui a dovermi stare dietro, perché nella corsa al furgone mi distaccò di una ventina di metri. Naturalmente aveva il vantaggio per niente trascurabile di possedere entrambe le scarpe; comunque era stato bravo.

Il furgone era arenato su un marciapiede, davanti a una casa arancione pallido circondata da un muro di pietra color corallo. Il paraurti anteriore aveva sbattuto contro uno spigolo sgretolando il muro, mentre la parte posteriore era di sbieco in mezzo alla strada, il che ci permetteva di ammirare la targa giallo vivo con scritto SCEGLI LA VITA.

Quando lo raggiunsi, notai che la portiera sul retro era già aperta e udii il lamento proveniente dall’interno. Stavolta non sembrava un cane, o forse ero io che ci avevo fatto l’abitudine. Era più acuto e meno ripetitivo, più vicino a un gorgoglio stridulo piuttosto che a un urlo. Era comunque il verso inconfondibile di uno di quei morti viventi.

Era legato con delle cinghie a un sedile d’auto senza schienale che era stato messo di traverso, in modo da tenere tutta la lunghezza. In quelle cavità prive di palpebre, gli occhi si muovevano avanti e indietro e la bocca, senza labbra né denti, era congelata in una specie di O. La cosa si agitava come un bambino, ma non avendo braccia né gambe non riusciva a fare granché.

Doakes si era accovacciato al suo fianco e guardava ciò che restava della sua faccia con una commovente mancanza di espressione. «Frank», disse, e la cosa roteò gli occhi nella sua direzione. Per un attimo l’ululato si interruppe, poi riprese più acuto, impegnato in un diverso tipo di agonia, simile a una supplica.

«Lo hai riconosciuto?» domandai.

Doakes annuì. «È Frank Aubrey», rispose.

«Come fai a dirlo?» chiesi. Sul serio, credo che avrei avuto un’enorme difficoltà a riconoscere una persona in quelle condizioni. L’unico segno visibile erano le rughe sulla fronte.

Doakes continuava a fissarlo, quindi grugnì e indicò la zona laterale del collo. «Quel tatuaggio. È di Frank.» Grugnì un’altra volta, si piegò in avanti e diede un colpetto a un piccolo pezzo di carta attaccato alla panca. Mi avvicinai a vedere: con la stessa grafia filiforme della volta scorsa il dottor Danco aveva scritto:


ONORE


«Chiama i paramedici», ordinò Doakes.

Corsi verso l’ambulanza: gli infermieri stavano già chiudendo i portelli. «Ve ne sta ancora un altro?» chiesi. «Non occupa tanto spazio, però ha urgente bisogno di sedativi.»

«In che condizioni è?» mi domandò il giovanotto con i capelli sparati.

Dal punto di vista professionale la sua richiesta era davvero sensata, ma tutte le risposte che mi vennero in mente mi parvero frivole, così mi limitai a dire: «Credo che anche tu potresti averne bisogno, di quei sedativi».

I due mi guardarono come se li stessi prendendo in giro e non afferrarono la gravità della situazione. Poi si lanciarono un’occhiata e alzarono le spalle. «D’accordo, amico», borbottò il più vecchio. «Gli diremo di stringersi un po’.» Il ragazzo con i capelli sparati scosse il capo, ma tornò indietro, aprì il portello posteriore e fece uscire la barella.

Mentre i due la spingevano lungo l’isolato diretti al furgone di Danco, salii sul retro dell’ambulanza per vedere che cosa faceva Deborah. Aveva gli occhi chiusi ed era molto pallida, ma sembrava respirare debolmente. Aprì un occhio e mi guardò. «Siamo fermi», disse.

«Il dottor Danco ha fracassato il furgone.»

Lei si irrigidì e spalancò gli occhi. «L’avete preso?»

«No, Debs. Abbiamo solo il suo passeggero. Credo che lo stesse per consegnare, visto che è già pronto.»

Se prima pensavo che fosse pallida, ora divenne quasi evanescente. «Kyle», fece.

«No», le spiegai. «Doakes dice che è un tipo di nome Frank.»

«Siete sicuri?»

«Direi proprio di sì. Ha un tatuaggio sul collo. Non è Kyle, sorellina.»

Deborah chiuse gli occhi e si accasciò nella barella come un pallone sgonfio. «Grazie a Dio», mormorò.

«Spero che tu non abbia nulla in contrario a condividere la vettura con Frank», aggiunsi.

Lei scosse il capo. «Niente in contrario», rispose e riaprì gli occhi. «Dexter, niente stronzate con Doakes. Aiutalo a trovare Kyle. D’accordo?»

Doveva essere l’effetto delle droghe, perché non l’avevo mai sentita fare una richiesta in modo così supplichevole. «Va bene, Debs. Farò del mio meglio», promisi e i suoi occhi si richiusero.

«Grazie», disse.

Tornai al furgone di Danco appena in tempo per vedere l’infermiere più vecchio tirarsi su, di sicuro perché aveva appena vomitato. Poi si rivolse al suo collega. Questi era seduto sul marciapiede con la testa fra le mani, mentre Frank dall’interno continuava a ululare. «Avanti, Michael», gli disse il tipo più anziano. «Forza, amico.»

Michael non sembrava molto propenso a muoversi, se non per dondolarsi avanti e indietro e ripetere: «Oddio. Cristo. Oddio». Decisi che forse non aveva bisogno di un incoraggiamento e mi diressi verso la portiera anteriore del furgone. Si era aperta di scatto e sbirciai all’interno.

Il dottor Danco doveva andare di fretta, perché aveva dimenticato un costosissimo scanner, di quelli che usano curiosi e cronisti per monitorare il traffico radio della polizia. Fu davvero rassicurante scoprire che Danco era riuscito a seguirci grazie a questo e non a chissà quali superpoteri.

A parte quello, il furgone era pulito. Non c’erano taccuini, né foglietti con sopra indirizzi o frasi in latino scarabocchiate dietro. Niente che ci potesse fornire qualche indizio. Avremmo potuto trovare delle impronte, ma dal momento che sapevamo già chi c’era al volante non ci sarebbero state di grande aiuto. Presi lo scanner e mi diressi verso il retro del furgone. L’infermiere più vecchio era finalmente riuscito a far alzare il collega, mentre Doakes era in piedi davanti al portello. Gli porsi lo scanner. «Era sul sedile davanti», dissi. «Ci stava ascoltando.»

Doakes gli diede appena un’occhiata e lo posò nel furgone. Dato che non mi sembrava così loquace, gli domandai: «Hai idea su cosa fare adesso?»

Mi fissò senza parlare e io ricambiai lo sguardo, in attesa; non fosse stato per gli infermieri credo che avremmo potuto continuare per ore, finché i piccioni non ci avessero fatto il nido sulla testa.

«Okay, gente», fece il più vecchio e noi ci spostammo perché i due potessero prendere Frank. L’infermiere tarchiato sembrava essere del tutto a suo agio ora, come se dovesse steccare un ragazzino con una distorsione alla caviglia. Il suo collega, invece, non era così contento: lo sentivo sospirare a metri di distanza.

Mi misi accanto a Doakes e li osservai mentre mettevano Frank sulla barella. Guardai il sergente e mi accorsi che anche lui mi stava fissando. Mi sorrise in quel suo modo tanto odioso. «Ora tocca a noi due», fece. «E io di te non so nulla.» Si appoggiò al furgone bianco mezzo distrutto e incrociò le braccia. Sentii gli infermieri sbattere il portello dell’ambulanza e accendere la sirena. «Solo io e te», ripeté il sergente, «e nessuno ad arbitrare.»

«È questa tutta la tua saggezza da campagnolo?» replicai, perché io ero lì dopo aver sacrificato una scarpa sinistra e una splendida camicia da bowling. Senza contare il mio hobby, la clavicola di Deborah e la macchina finita a fare il bagno in piscina. E lui se ne stava lì, con la camicia stirata a fare allusioni subdole e ostili. Quell’uomo aveva davvero oltrepassato la misura.

«Di te non mi fido», mi chiarì.

Sicuramente era buon segno che il sergente Doakes si aprisse nei miei confronti e mi confidasse i suoi dubbi e le sue paure. D’altro canto, però, mi resi conto che non dovevamo perdere di vista l’obiettivo. «Pazienza. Non abbiamo più molto tempo», ribattei. «Ora che ha impacchettato e consegnato Frank, Danco comincerà con Kyle.»

Il sergente piegò la testa da una parte e la scosse lentamente. «Kyle non mi interessa», dichiarò. «Lui sapeva a che cosa andava incontro. Quel che rischiava a mettersi contro il dottore.»

«Però interessa a mia sorella», osservai. «Ed è l’unico motivo per cui sono qui.»

Doakes annuì. «Niente male. Quasi ci credo.»

Non so perché, ma fu allora che mi venne un’idea. Ammetto che Doakes si stava comportando in modo altamente irritante… e non solo perché mi aveva impedito di portare avanti la mia battaglia personale, cosa già piuttosto grave. Adesso si era anche messo a criticare le mie azioni, atteggiamento, questo, davvero incivile. Forse l’irritazione è la madre dell’invenzione: non sembrerà così poetico, ma è così. In ogni caso, una porticina si spalancò nel cervello arrugginito di Dexter e si accese una piccola luce; un vero e proprio segno della mente all’opera. Ovviamente, Doakes vi avrebbe dato poco credito, a meno che non gli avessi mostrato quanto brillante fosse la mia idea; così feci un tentativo. Mi sentivo un po’ come Bugs Bunny che cerca di convincere Elmer Fudd a fare qualcosa di molto rischioso perché ne paghi le conseguenze.

«Sergente Doakes», dissi, «Deborah è l’unica persona rimasta della mia famiglia e non è giusto da parte tua dubitare del mio impegno. In particolare», continuai, lottando contro la tentazione di pulirmi le unghie in stile Bugs Bunny, «dal momento che finora non hai combinato un tubo.»

Di qualunque pasta egli fosse, dal killer spietato a tutto il resto, il sergente Doakes sembrava in grado di provare emozioni. Forse era questa la grande differenza tra noi, il motivo per cui teneva il suo cappellino bianco ben cementato sulla testa e combatteva contro quella che doveva essere una parte di se stesso. Comunque, scorsi un’ondata di rabbia attraversargli la faccia e udii la sua ombra interiore che ringhiava. «Non ho combinato un tubo», ripeté. «Buona questa.»

«Esatto», dissi fermamente. «Io e Deborah abbiamo fatto il lavoro sporco e ci siamo presi tutti i rischi, non puoi negarlo.»

Per un istante gli si gonfiarono i muscoli della mascella, quasi volessero saltare fuori dalla faccia e strangolarmi. Il suo ringhio interiore divenne un ruggito che risuonò nelle orecchie del mio Passeggero Oscuro; allora lui si alzò e gli rispose. Restammo così, con due ombre gigantesche e invisibili che mostravano i muscoli e si sfidavano in nostra presenza.

Probabilmente la strada si sarebbe riempita di membra squarciate e litri di sangue, se un’auto di pattuglia non avesse scelto proprio quel momento per inchiodare davanti a noi, interrompendoci. Ne scese un giovane poliziotto e Doakes, per abitudine, estrasse il distintivo e glielo mostrò senza smettere di fissarmi. Con l’altra mano gli fece cenno di andarsene; il poliziotto fece marcia indietro e infilò la testa in macchina per consultarsi col collega.

«D’accordo», mi disse il sergente Doakes, «hai qualche idea?»

Non era proprio la cosa ottimale. Bugs Bunny l’avrebbe fatta tirare fuori a lui l’idea, comunque andava bene lo stesso. «In effetti», risposi, «una l’avrei. Ma è un po’ rischiosa.»

«L’avevo immaginato.»

«Se per te è troppo, proponine un’altra», replicai. «Ma credo che non ci sia molta scelta.»

Notai che ci stava pensando su. Sapeva che lo volevo usare come esca, ma quello che avevo detto era troppo vero e lui era troppo arrabbiato e pieno di orgoglio per preoccuparsene.

«Sentiamo un po’», disse alla fine.

«Oscar è scappato», feci.

«Così sembra.»

«Dunque resta una sola persona che noi siamo sicuri possa interessare al dottor Danco», spiegai, e gli puntai contro un dito. «Tu.»

A prima vista lui sembrò non battere ciglio, però aggrottò la fronte e per qualche secondo si dimenticò di respirare. Quindi annuì adagio e fece un grosso sospiro. «Furbastro figlio di puttana», sibilò.

«Vero», ammisi. «Ma non dirmi che ho torto.»

Doakes prese lo scanner, si spostò di lato e si sedette sul retro del furgone. «Okay», fece. «Prova a parlarmene.»

«Primo, scommetto che se ne procurerà un altro», dissi, indicando il macchinario vicino a Doakes.

«Uh-huh.»

«Quindi, se sappiamo che ci sta ascoltando, possiamo dirgli quello che vuole sentirsi dire. E cioè», dichiarai col mio sorriso migliore, «chi sei e dove ti trovi.»

«E io chi sono?» chiese il sergente, come se il mio sorriso non avesse sortito alcun effetto.

«Tu sei l’uomo che l’ha consegnato ai cubani», risposi.

Mi studiò per un po’, poi scosse la testa. «Insomma, vuoi proprio che rischi di farmi affettare l’uccello, eh?»

«Sicuro. Ma non sarai preoccupato, vero?»

«Lui ha Kyle, non c’è problema.»

«Tu sarai avvisato del suo arrivo», dissi. «Kyle non lo era. Inoltre mi sembra che in queste situazioni tu te la sappia cavare un po’ meglio di lui, no?»

Doakes non aveva nessun pudore, era del tutto prevedibile, però ci provò lo stesso. «È vero», concordò. «E tu resti un gran leccaculo.»

«Ma che leccaculo», mi difesi. «È la verità, pura e semplice.»

Il sergente fissò lo scanner che giaceva accanto a lui. Poi il suo sguardo corse alla superstrada illuminata d’arancione. Le luci fecero brillare di arancione una goccia di sudore che gli scendeva dalla fronte per entrargli in un occhio. Lui se l’asciugò senza pensarci, sempre scrutando la I-95. Era rimasto a squadrarmi senza batter ciglio per così tanto tempo che mi diede un certo fastidio averlo lì vicino impegnato a guardare qualcos’altro. Mi sembrava quasi di essere invisibile.

«D’accordo», brontolò tornando a rivolgersi a me. La luce arancione ora gli brillava negli occhi. «Cominciamo.»

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